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Fatti & Persone
Annuario della Sardegna 1996 - direttore Gianfranco - Lai Edizioni C.P.E. aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa

NB: In questo sito è disponibile di Ugo Dessy il saggio "Gli intrepidi ascari"


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GLI INTREPIDI ASCARI

Note di storia sarda
di Ugo Dessy

L'anno 1847 segna la fine del Regno di Sardegna. Il 29 novembre, una rappresentanza dei tre bracci del parlamento sardo si reca a Torino da Carlo Alberto per chiedergli umilmente la formale fusione dell'Isola agli altri stati sabaudi di terraferma.
Nell'annuale discorso della corona, il re dirà che «la Sardegna, gettato il funesto retaggio di antichi privilegi, volle essere unita con più stretti vincoli alla terraferma, e fu accolta dalle altre provincie come diletta sorella».
Intanto a Cagliari e in altre città dell'Isola si registrano manifestazioni popolari di giubilo unificatorio, animate dagli studenti e orchestrate dalla borghesia indigena compradora e dall'alto clero, che speravano con la fusione di modernizzare le strutture economiche in funzione di uno sfruttamento più razionale e intensivo delle masse lavoratrici.
Gli storiografi addetti ai lavori - che non citerò nominalmente, come usano fare essi richiamandosi e rimasticandosi l'un l'altro - sostengono che la fusione fu «un moto plebiscitario», «uno dei momenti più importanti della vita politico-sociale sarda» e che «al riformismo sabaudo... non può disconoscersi una certa validità storica, in quanto soltanto dopo il passaggio della Sardegna ai Savoia si notò nell'Isola un nuovo impegno politico da parte dei governanti, fino ad allora pressoché sconosciuto».
Non risulta che le plebi sarde siano mai state interpellate sulla loro volontà fusionista; d'altro canto, è probabile che almeno l'80% della popolazione sarda non sapesse neppure della esistenza del Piemonte. Non si conoscono i dati ufficiali sull'analfabetismo nell'Isola in quel 1847; certamente sono più alti di quelli relativi al 1901, che - a trent'anni dall'unità nazionale - vanno per i diversi circondari, dal 66,2 al 72,2 per cento.
Bisogna intendersi sul significato di "nuovo impegno politico". In un certo senso c'è stato - e c'è tuttora - da parte dei governanti, esecutori della volontà del capitalismo, un disegno politico "progressista" nel senso di un continuo adeguamento, nelle forme e negli strumenti, per la conservazione del potere e la repressione dei moti rivoluzionari - ferme restando le strutture portanti del sistema. Esaminando i fatti e non gli assunti, il "nuovo impegno" dei governanti, per la Sardegna, si riduce all'ammodernamento delle imprese capitalistiche coloniali, ad una maggiore funzionalità dell'apparato fiscale, al rafforzamento degli apparati di polizia, alla creazione di nuove leggi e all'ampliamento degli organici dei magistrati in funzione di una più efficace giustizia di classe.
Di servizi civili, di scuole, di assistenza, di posti di lavoro neppure si parla - si parla invece di riassetto fondiario per mettere "ordine" nella proprietà privata delle terre di recente introdotta, a dispetto del contadino e del pastore, con il famigerato Editto delle Chiudende del 6 ottobre 1820; e si parla di banditismo sardo, un fenomeno che rende insicuro il piano di asservimento e sfruttamento delle risorse economiche delle zone interne portato avanti dal colonialismo sabaudo.
Dai fatti registrati alla fine del 1847 emergono alcune considerazioni.
La delegazione che si reca dal re piemontese a perorare la fusione e l'estensione delle riforme già previste per le provincie di terraferma, non rappresenta la volontà popolare e non rappresenta neppure i tre bracci di quel rudere di parlamento sardo istituito dai re aragonesi, ma viene tout court designata dal consiglio municipale di Cagliari in combutta col viceré. La delegazione rappresentativa della volontà popolare fusionista è composta: per il braccio ecclesiastico dall'arcivescovo di Cagliari e da altri due prelati; per il braccio militare dal marchese di Laconi, dal marchese di Arcais e dal barone di Teulada; per il braccio reale da un nobile, il conte Ciarella e da alcuni borghesi compradoris: gli avvocati Cossu, Baylle, Mameli, Roberti e Marini.
I componenti di altre delegazioni di rincalzo, raffazzonate in altre città, non sapevano neppure per che cosa erano stati convogliati a Torino. I delegati di Oristano, infatti, si erano portati dietro, con un dovizioso presente di vernaccia e di muggini, una "supplica" per ottenere dal re un intervento per la bonifica della valle del Tirso funestata dalla malaria. Carlo Alberto dovette gradire certamente i doni degli oristanesi che non potevano non ricordargli il suo fortunato viaggio in quelle terre cinque anni prima, nel 1842. In quella circostanza, il re piemontese diresse di persona il saccheggio nella necropoli di Tharros, rapinando numerose tombe romane e puniche, per abbellire le collezioni del palazzo reale ed ornare le mantenute di Casa Savoia. Sta di fatto che, nonostante le suppliche e i relativi presenti della gente oristanese ai vari governanti, la zona è ancora oggi disseminata di paludi e acquitrini, infestata da una miriade di insetti ematofagi, funestata da epidemie - nel 1967 si è avuta una esplosione di colera infantile con 10 morti ed oltre 50 ricoverati gravi.

La fusione non getterà "il funesto retaggio di antichi privilegi" ma li perpetuerà e ne aggiungerà di nuovi.
Nella stessa Cagliari - considerata l'anima dell'operazione fusionista - il popolo fiuta il mercimonio. Una ignota mano affigge al muro della Torre dell'Elefante un manifesto: «Viva la lega italiana e le nuove riforme. Morte ai gesuiti e ai piemontesi. Cittadini, ecco il momento disiato della sarda rigenerazione».
La borghesia indigena compradora ed il clero vedranno sfumare le loro mire egemoniche nel momento stesso in cui ha inizio il processo di piemontizzazione delle vecchie strutture economiche, amministrative e politiche dell'Isola. Essi contavano di vedersi ammodernare il logoro sistema feudale in cui radicavano i loro privilegi, per trarre quindi maggiori profitti dallo sfruttamento razionalizzato delle masse lavoratrici. Troppo tardi si accorsero di non poter competere con le mascelle e con l'appetito della giovane intraprendente borghesia piemontese - e chi si adattò al ruolo subalterno di lacchè del colonialista e chi sdegnosamente si paludò dei valori irredentisti della nazione sarda. Un gioco sporco che la borghesia indigena - imprenditori, politici, intellettuali, clero - continua a fare ancora oggi, attratta o respinta dagli interessi del capitale straniero, ma sempre in funzione di esso.
«In realtà è avvertibile che... le misure di ammodernamento hanno soltanto un duplice scopo: di creare in Sardegna una condizione che renda impossibile lo sviluppo di una vita economica, sociale e politica che consenta una originale evoluzione delle tradizionali forme di autonomia, per giungere ad una progressiva assimilazioni delle istituzioni sarde con quelle degli altri stati di terraferma; e di rafforzare l'Isola nelle sue strutture difensive in rispondenza delle caratteristiche dello stato piemontese e della sua politica» - scrive in un saggio uno storiografo revisionista, cogliendo nelle mire del capitalismo del secolo scorso l'elemento della utilizzazione militare dell'Isola: un elemento che dagli stessi revisionisti è ignorato in riferimento alla realtà presente con un preciso calcolo politico.
In effetti, la Sardegna appare già destinata a diventare un'area di servizi del capitalismo - area di servizi economici e di servizi militari.
Pasquale Tola, rappresentante della borghesia compradora nel parlamento piemontese, nel maggio del 1848, si duole che «la Sardegna, accolta dalle altre provincie come diletta sorella» non figurasse con il suo stemma fra gli altri affrescati nella sala del parlamento a Torino. Ben concretamente, e nei minimi dettagli, l'Isola figurava nei programmi di sfruttamento intensivo che gli economisti sabaudi avrebbero portato avanti per circa un secolo, riducendo la diletta sorella, provincia d'oltre mare, in una terra bruciata, sede di colonie penali e di basi militari, luogo di confino per funzionari negligenti o indisciplinati, vivaio di manovali di basso costo da utilizzare nelle nascenti industrie del Nord e di ascari da adoperare come carne da cannone e come strumento repressivo nelle lotte operaie.
A prova di quanto poco importasse al Piemonte - in termini di "unità nazionale" - quella lontana pietrosa appendice, gli storiografi ricordano «con profonda amarezza» la ricorrente idea dei Savoia di barattare la Sardegna con qualcos'altro di più fruttuoso, ogni volta che se ne presentava l'occasione. E ciò perché lo sfruttamento programmato e il saccheggio sistematico si dimostravano meno redditizi di quanto i programmatori economici di allora non avessero previsto. Ci sono inoltre alcune difese anticoloniali, diciamo "naturali", quali la malaria, il colera, il tracoma, la lebbra nelle zone rivierasche e l'irriducibile "cattivo carattere" delle popolazioni barbaricine nell'interno.
A proposito di baratti, nel 1860, un giornale inglese, il Morning Post, svela l'intenzione del Piemonte di essere disposto a cedere alla Francia la Sardegna in cambio di Venezia e del riconoscimento dell'unità d'Italia.
Tra parentesi. La simpatica abitudine dei giornali inglesi di svergognare i nostri sommi reggitori della patria si è conservata fino ai nostri giorni: nell'autunno caldo 1969, l'Observer denuncia un nuovo baratto, quello di liquidare l'intero popolo italiano in cambio di una équipe di colonnelli.

La fusione del '47 non porta ai Sardi neppure il beneficio "civile" che avrebbe potuto almeno in parte compensare la perdita dell'autonomia: l'estensione cioè al territorio isolano di quelle riforme liberaleggianti strappate a Carlo Alberto (e ad altri regnanti europei) dai settori più avanzati della borghesia e dal nascente proletariato.
La negligenza del monarca si dimostrò, per lo stesso, un'arma a doppio taglio, nel momento in cui il Piemonte si ingolfava nell'avventurosa guerra risorgimentale del '48-'49, col proposito di sottrarre all'Austria la Lombardia, una regione agricola in via di industrializzazione. In quel momento, e ancor più dopo i primi rovesci militari, Carlo Alberto aveva bisogno di masse umane da gettare sul fronte di guerra.
I Sardi si venivano a trovare in una situazione privilegiata rispetto ai sudditi degli Stati di terraferma, poiché non erano ancora soggetti all'obbligo del servizio militare. Il regio editto del 16 dicembre 1837, che istituiva il servizio di leva per i piemontesi, (un servizio considerato allora "progressista" perché lo Stato sosteneva le spese inerenti alla istruzione e all'equipaggiamento), non fu esteso alla Sardegna - come avvenne per altre leggi ritenute privilegio dei continentali.
Con un decreto di emergenza del 7 maggio 1848 Carlo Alberto tenta di imporre la coscrizione obbligatoria, per il reclutamento di effettivi in Sardegna, pari alla metà di quelli forniti dagli altri Stati di terraferma. Il provvedimento non poté essere applicato - dicono le cronache - per la situazione di grave tensione esistente nell'Isola, dove le masse popolari cominciano a prendere conoscenza della fusione, giudicandola, come in effetti era, una solenne fregatura; e partendo dalle zone interne danno il via a varie forme di ostilità, principalmente col banditismo, contro i colonizzatori che insediatisi nei posti di comando si apparecchiavano alla mungitura.
Dunque, ai Sardi pesava soltanto un ipotetico onere morale di contribuire alla "Santa Causa" con l'arruolamento di volontari.

La notizia dell'imminente conflitto giunge a Cagliari il 23 marzo, con due giorni di anticipo sulla data di inizio delle ostilità. Gli studenti inscenano una manifestazione patriottica - tirandosi dietro quella parte della cittadinanza facile agli entusiasmi di ogni genere, sempre disposta a manifestare, anche se non sa quale "santo" si sta festeggiando. Ma quando si tratta di partire a far la guerra, rinsavisce, scomparendo dalla circolazione.
Qualche adesione alla causa dell'indipendenza si ha nella classe militare e negli studenti universitari: i primi pensano alla possibilità di accelerare la carriera e magari di finirla in continente; i secondi, rampolli della borghesia compradora, alla crosta spagnolesca hanno dato una verniciata di piemontesismo e seguono la moda del nuovo padrone.
Il colonnello comandante il reggimento Cacciatori Brigata Guardie è tra i primi a chiedere di partire. Così pure gli ufficiali dei Cacciatori Franchi. E per dovere d'ufficio, anche il viceré dell'Isola, De Lunay, offre il petto al re. Al ministro della guerra Franzini, il sedentario cortigiano scrive in un impeto eroico:
«...l'E.V. abbia la bontà di essere l'interprete presso l'adorato nostro Sovrano dei miei sentimenti, e d'interporsi perché voglia permettermi di raggiungerlo sul Campo dell'onore... Dopo tanti anni di servizio io sarei oltre modo felice di chiudere la mia carriera sul campo di battaglia...»
Il De Lunay visse e prosperò a lungo, giacché la sua offerta generosa era puramente formale, ad uso edificante dei buoni villici.

Sbollita la fregola bellica nei cittadini di Cagliari (la città vede in quel marzo partire soltanto sparuti drappelli di militari e di studenti), la campagna per il reclutamento dei volontari assume un aspetto tragicomico. Il viceré, che è rimasto, manda a Torino, l'uno dietro l'altro, accorati dispacci:
«...in questa Capitale almeno, il numero dei volontari che si presentarono per l'arruolamento è molto ristretto…» (24 aprile); «…nulla lasciavasi per me d'intentato per destare nei giovani, in Sardegna, il desiderio di accorrere in Lombardia presso l'Armata di S.M. che combatte per la Santa Causa, ma il numero dei volontari fu scarso.» (30 aprile).
In quel mese, il 19 e il 24, partono rispettivamente 5 e 14 volontari. Da Oristano, il 20, ne partono 3.
Considerata l'indifferenza dei Sardi verso quella guerra, l'intendente generale Derossi di Santarosa prepara un progetto per «l'arruolamento dei banditi, reclusi e contumaci, di cui l'Isola ha sovrabbondanza». Il progetto viene accolto dalla Grande Cancelleria di S.M. che nomina una commissione di intendenti provinciali con l'incarico di formulare un progetto di legge sulla questione. Il progetto di legge fu partorito con gestazione accelerata, e constava di sette articoli. Dopo vari rifacimenti, mentre sembrava che sarebbe passato in parlamento, venne lentamente insabbiato. Alla Grande Cancelleria, qualcuno si era reso conto che «far militare sotto la stessa onorata bandiera onesti cittadini e galeotti, poteva riuscire scapito al lustro e al decoro della milizia…»; inoltre emerse un'altra preoccupazione che la Grande Cancelleria prospettò al sovrano, e cioè che l'operazione «arruolamento banditi sardi» sarebbe stato «anche all'estero pretesto di censura».
Non è dato sapere se l'approvazione del progetto di legge, e la immissione nei campi di battaglia di migliaia di banditi sardi, reclusi e contumaci, avrebbe potuto capovolgere l'esito della prima guerra d'indipendenza. Di questa ipotesi così ricca di sviluppi cerebrali - che a me non fa né caldo né freddo - dovrebbero occuparsi gli storiografi che da qualche tempo rimestano il calderone, incentivati dal denaro della Regione.

Venuta a cadere - provvisoriamente - l'idea di trasformare i banditi in "salvatori della patria" e di adescare la gioventù sarda sventolando la bandiera dell'unità, dopo aver steso e affisso inutilmente un programma esaltante "la gloria di chi verserà il proprio sangue", il viceré De Lunay, sollecitato dal ministro della guerra, invia circolari urgenti e riservate ai Governatori, agli Intendenti Provinciali, ai Vescovi, ai Sindaci. Per inciso: quegli stessi banditi, ferocemente massacrati dalla repressione in tempo di pace, vengono allettati per la loro "carica aggressiva" in tempo di guerra. Attualmente, Graziano Mesina, che conosce la storia a fiuto, propone, in cambio dell'impunità, di organizzare l'antiguerriglia nell'Alto Adige.
Con i funzionari statali si usa il ricatto: «...si terrà conto nella carriera di ciascuno dell'attività positiva o negativa svolta in quest'opera». I Vescovi vengono toccati sul tasto dei privilegi feudali, decime comprese, di cui essi continuano a godere anche dopo le riforme liberali grazie alla devozione di S.M. per Santa Madre Chiesa.
Per setacciare ogni possibile adesione, viene creata una capillare organizzazione: in ogni più sperduto villaggio si insedia un comitato di reclutamento. Sono i notabili della comunità, possidenti e preti, a dare la caccia al volontario. I sindaci affiggono manifesti che nessuno sa leggere. Le paghe militari d'uso vengono raddoppiate e in più si offrono premi d'ingaggio. Si abbassa l'età minima prevista dalla legge fino ai 17 anni, chiudendo gli occhi sui certificati anagrafici. I sardi risultano di "piccola taglia", ed allora si abbassa la statura d'ordinanza fino a metri 1,57 arrotondati. «Purtroppo - scrivono gli storiografi - i risultati deludono le aspettative».
Le risposte del viceré da parte degli addetti al reclutamento sono di rammarico: nessuno vuole arruolarsi, né per amor patrio, né per denaro.
L'Intendente di Gallura dice, in sostanza, che la gente si squaglia al solo sentir parlare di guerra. Il comandante di Piazza di Iglesias fa rilevare che neppure uno dei numerosi vagabondi che circolano in città si è presentato, e suggerisce di vuotare le galere per rimpolpare le fila dei combattenti. Il governatore Cugia Manca di Alghero propone il reclutamento forzato di tutti i disoccupati ed i turbolenti che infestano la comunità. L'Intendente di Isili, avv. Gessa, ripete la proposta di vuotare le carceri, che rigurgitano, e di spedire i detenuti «a riscattarsi sul campo dell'onore». Il comandante della Piazza di Nuoro, l'Intendente di Iglesias, il Comandante di Sant'Antioco, il Governatore di Sassari lamentano lo stesso assenteismo.
A tutto il mese di settembre si presentano: 1 ad Alghero, 1 a Mandas, 1 ad Iglesias e 1 a Sant'Antioco. Fa eccezione Bosa, dove si riesce a rastrellarne ben 20. In questa cittadina, dimostra uno zelo eccezionale un certo G.L. Chelo, il quale anticipa paghe e spese di viaggio - a questo proposito, il viceré suggerisce di essere prudenti nel concedere acconti: alcuni, dopo averli intascati, si sono resi irreperibili. Le cronache registrano diversi casi di volontari che miravano a raggiungere gratuitamente il Continente per sbrigarvi affari loro: tra questi suscitò scalpore il caso di Pietro Colla da Sinnai.
Tornando ai buoni risultati di Bosa, il successo dell'operazione va attribuito, più che al dinamismo del Chelo, ai frati cappuccini che in quella cittadina avevano la sede centrale. Anima del reclutamento fu il padre guardiano fra Francesco Maria da Bosa. I cappuccini - l'organizzazione religiosa più potente dell'Isola - furono i più accesi interventisti, ed ebbero il particolare sostegno dell'Intendente di Cuglieri.
Nei documenti dell'archivio di Stato di Cagliari si raccolgono notizie illuminanti sulle tecniche di persuasione di cui si serve la classe al potere per mobilitare le masse popolari alla guerra. Fra queste tecniche, quella clericale è di primario uso. Nei fatti in esame, le autorità politiche e militari sollecitano i vescovi, i padri guardiani dei conventi, i direttori degli istituti e tutti i parroci (sono assenti i gesuiti, che nello stesso anno vengono cacciati dalla loro roccaforte di Sassari per i loro intrighi). I vescovi rispondono acconsentendo diplomaticamente; la situazione politica è fluida, mostrano un prudente entusiasmo - qualcuno, fiutando gli umori di Pio IX, si mantiene sul vago.
Vale la pena, a questo punto, riportare qualche documento.

Risposta del vescovo di Ozieri alla Circolare del 16 agosto 1848, seconda divisione, del viceré di Cagliari:

Ozieri, 29 agosto 1848
Eccellenza,
contemporaneamente alla Circolare di V.E. ne riceveva altra dalla Grande Cancelleria diretta all'oggetto d'insinuare ai popoli i presenti bisogni dello Stato, e manifestandomi di più la convenienza di fare solenne triduo di preghiere in tutte le Chiese di questa Diocesi: immediatamente perciò ne ho comunicato i commendevoli sentimenti, e le savie insinuazioni contenute in ambe veneratissime Circolari, e spedendo ad ogni Parroco un esemplare di quella di V.E., a tutta questa Diocesi Bisarchese con apposita mia lettera circolare, esprimendovi tutte quelle migliori massime, ed opportune dottrine, che alla mia pochezza lo è stato più possibile, onde persuadere e Clero e Popolo dei gravissimi presenti bisogni dello Stato, e del più preciso dovere che in ogni senso, e per ogni principio abbiamo per sollevarlo, e difenderlo; insinuando particolarmente la più cordiale stima, e sincera gratitudine verso il più savio, il più adorabile dei Monarchi l'Eroe nostro Carlo Alberto, ed i prodi di lui Principi. Ordinavo indi in tutte le Parrocchie di questa Diocesi il triduo delle pubbliche preghiere con la maggiore possibile solennità, con processioni generali e con sermoni adatti alla circostanza, al quale si è dato principio in questa sede nei 27 scadente Agosto.
Nell'adempiere il dovere di ragguagliare l'E.V. le riferite cose godo poterLe rinnovare il tributo del mio profondo ossequio, mentre ho l'onore di costituirmi di V.E.
Ubbidientissimo, Divotissimo, Obbligatissimo Serv.
Gavino Pischedda


Più sentita è la risposta del padre guardiano dei Cappuccini:

Bosa, 26 agosto 1848

Illustrissimo Signor Intendente Padrone Colendissimo,
i miei correligiosi offersero, ed ottennero dal Ministero di recarsi nelle provincie dello Stato per risvegliare l'entusiasmo dei popoli, ed eccitarli a prestare il loro soccorso per la guerra della nostra indipendenza, per cui furono spedite lettere circolari alli Intendenti dal Ministero dell'Interno onde agevolarne l'esecuzione. Siccome però mi è ignoto se anche la nostra Sardegna sia contemplata nelle dette disposizioni; perciò mi rivolgo a V.S. Illustrissima pregandola, volersi degnare, darmi quelli schiarimenti che crederà sul proposito, intendendo fin da questo momento di consacrarmi ad un'opera tanto santa.
In attenzione dei Suoi veneratissimi comandi, ho l'onore di rassegnarmi di V.S. Illustrissima
Divotissimo ed Obbligatissimo Servitore
Fra Francesco Maria da Bosa


Lo stesso viceré si affretta a rispondere:

D. 2
Al P. Guardiano de' Cappuccini di Bosa

Cagliari, 5 settembre 1848
Dall'Intendente della Provincia mi si dà comunicazione della lettera che V.S. nel 26 percorso agosto gli indirizzava. Faccio plauso ai religiosi e patriottici suoi sentimenti: Ella non solo può liberamente pregare venia dall'ordinario, imitare i suoi correligiosi del continente nell'incitare i popoli colla potenza della religione a correre in soccorso della Patria pericolante: ma deve ancora rimanere persuasa del gradimento del Governo, il quale se avrà in tutto il clero cooperatori che le somigliano, può confidarsi di veder sostenuta la causa italiana con quel coraggio che l'onore della monarchia richiede, e la religione sa infondere. Ella provveda non solo per la Provincia, ma scriva, inviti i suoi correligiosi ad imitarne l'esempio, sicura d'aver ben meritato dell'ottimo nostro Sovrano e della Patria.

Nello stesso documento appare uno scritto del viceré, rivolto all'Intendente provinciale di Cuglieri:

Le invio una lettera di ringraziamento e di conforto a codesto Padre Guardiano dei Cappuccini che si dispone ad invitare con la predicazione i popoli alla guerra. Unisca S.V. Illustrissima alle mie le sue parole, ed inviti pure agli altri Ordini, specialmente mendicanti che riescono nel popolo più accetti, ad imitarne l'esempio.

E' ipocrita e disonesto sostenere - come fanno gli addetti ai lavori - la possibilità di un esame obiettivo dei fatti storici: una obiettività che deriverebbe dalla autenticità (che significa poi ufficialità) della documentazione. Un documento può essere autentico ma non per questo è obiettivo. La versione ufficiale del ministro dell'interno su incidenti tra polizia e dimostranti è certamente un documento autentico - ma mente spudoratamente chi afferma che è obiettivo. Io personalmente lo giudico sempre falso, perché sto dalla parte opposta a quella del ministro, quando sto con i dimostranti. Con tutto ciò mi guardo bene dal dire che la versione dei dimostranti è quella vera, obiettiva. Gli interessi in gioco sono sempre molti e contrastanti tra loro - così pure, dunque, le versioni dei fatti. Basta usare il buon senso, e direi meglio la buona fede, per sentirsi in obbligo di sostenere che è possibile soltanto una conoscenza relativamente obiettiva di un fatto, a patto che si abbiano le versioni di tutte le componenti presenti e comunque interessate a quello stesso fatto.
Purtroppo, qui, non esiste la versione del popolo. Nelle vicende storiche, il popolo è ridotto a strumento della volontà delle élites al potere, ed è in funzione degli interessi di queste élites; seppure nel popolo sia sempre presente un atteggiamento ed una presa di posizione "condizionante". Si può dire cioè che esistono due "storie": la storia fatta dalle élites, per la conservazione o per lo sviluppo del potere e dei privilegi connessi; e la storia del popolo, che consiste nella opposizione o nel rifiuto al o del disegno delle élites.
Quando non parlano di battaglie vittoriose, dove «rifulge sempre l'eroismo popolano», scappa detto agli storiografi che la storia d'Italia, è «storia risorgimentale concepita, partorita e gestita da pochi». Sembrerebbe quindi che l'Italia, divisa in tanti staterelli, si sia trovata ad un certo punto ricucita intera senza che la gente che vi stava dentro ci abbia fatto caso. Io ritengo che, come sempre, sia stato il popolo a "far tutto", a sgobbare - anche se non gliene fregava niente di quel che l'élite faceva bollire in pentola. Il popolo pagava la pentola, forniva la carne da metterci dentro e portava a spalle la legna dal monte per cucinarla - ad attizzare il fuoco per mantenere l'ebollizione ed a mangiarsi la carne ci pensava l'élite, naturalmente. A me pare che ci sia anche una storia del popolo - ben diversa da quella delle élites e di ben più valido carattere "risorgimentale" - nel senso di lotta di liberazione dall'obbligo di dover "cucinare" per gli stomachi al potere; lotta che si articola in una serie di rifiuti dell'ordine "costituito", che vanno dal "prendere da chi ne ha" fino all'eliminazione fisica del gabelliere, che culmina nei tumulti sistematicamente soffocati nel sangue e con le galere.

Sulla "obiettività" degli addetti ai lavori c'è da restare sbalorditi, leggendoli. Cito qualche perla da qualcuno dei loro testi ufficiali.
«Pur rimanendo sempre una terra di deportazione e d'esilio, per la sua natura aspra e per il suo clima malsano, la Sardegna non fu mai abbandonata dai romani e godette veramente di un alto grado di civiltà. Inoltre, il suo aspetto negativo di provincia penale, le diede molto presto il privilegio di conoscere il Cristianesimo».

Non dubito che per un cristiano, conoscere il Cristianesimo in anteprima sia un "privilegio" (almeno in teoria, in quanto è un "privilegio" a posteriori). Dubito che lo fosse per i Sardi, che erano pagani; e dubito molto che abbiano preso come un "privilegio", tra le altre imposizioni, l'Editto di Costanzo II, esteso anche alla Sardegna, dove si comminava la pena di morte e la confisca dei beni ai pagani che avessero osato praticare nei loro templi i loro riti religiosi. Ecco alcune delle disposizioni di Costanzo, relative alle persone:
1° - proibizione di avvicinarsi ai templi;
2° - pena di morte per coloro che avessero visitato i templi, acceso il fuoco nell'altare, bruciato l'incenso, fatto libagioni, ornato di fiori i cardini delle porte;
3° - morte civile per coloro che fossero tornati all'antica religione: i loro beni trasmessi senza testamento ai parenti cristiani.
E ancora, queste le disposizioni relative alle cose:
1° - ordine di chiudere, distruggere, radere al suolo i templi;
2° - ordine di abbattere, in tutti i luoghi, i simulacri, le statue, le immagini, di demolire ed estirpare gli altari;
3° - distruzione delle scuole pagane;
4° - trasformazione degli edifici religiosi che non si distruggevano e loro destinazione ad usi civili e pubblici.

Scrive il Quinet, commentando i decreti di Costanzo:
«Immaginate che la religione cattolica, che pure ha stabilito questo diritto, vi sia assoggettata a sua volta per due generazioni, e ditemi che cosa ne sarebbe di lei dopo una simile prova».
Quale privilegio possa essere stato la diffusione del cristianesimo, non dico per i Sardi ma per l'umanità in generale, è difficile dire obiettivamente.

Non certo per un caso, la storiografia ufficiale riflette sempre il punto di vista di chi è al potere. Quando i Vandali occuparono l'Isola fecero due cose che reputo eccellenti: confiscarono i beni della Chiesa e abolirono la proprietà privata della terra. Ma i Vandali oltre ad essere "barbari" erano anche seguaci di Ario e perciò eretici. Quindi lo storiografo contemporaneo scrive che negli ottant'anni che durò la loro presenza in Sardegna
«politicamente i Vandali non apportarono radicali mutamenti e si limitarono solo a togliere le terre ai privati ed a confiscare i beni della Chiesa»; mentre i Bizantini, soppiantati i Vandali, si diedero «di buon grado a ristabilire la legalità e l'ordine, restituendo le terre ai legittimi proprietari e rimettendo le chiese e i monasteri in possesso dei loro beni».

Con la fusione del 1847, nel disegno egemonico dei Sabaudi (la conquista della Penisola italica) la Sardegna è destinata ai servizi di "bassa forza". Fornirà alla "causa comune" truppe "ascare" e vettovaglie per le fanterie, alle quali vanno bene carne di pecora e ricotta salata. Verrà utilizzata, per la sua natura di isola e per l'ambiente malsano, come un grande campo di concentramento dove ridurre a miti consigli gli oppositori e ogni genere di indesiderati. Avrà anche il ruolo di roccaforte, ultimo baluardo in cui dinastia e corte possono rifugiarsi nei tempi difficili (come fece Vittorio Emanuele I incalzato dalle truppe francesi); da cui ripartire per riconquistare il potere (manovra esemplare quella eseguita dal generalissimo Franco, muovendo dal Marocco con i suoi ascari).
Già in quel periodo esistevano nell'Isola numerose fortificazioni. Alcune risalgono al periodo della dominazione romana, costruite per lo più in difesa delle basi portuali, dei depositi commerciali frequentemente attaccati con veloci scorrerie dai Sardi dell'interno. Altre fortificazioni sono di più recente data, come lo sbarramento edificato dai genovesi sul golfo di Terranova (oggi Olbia) durante le guerre coi Pisani - la presenza di tali opere militari per lungo tempo condannò questa regione al decadimento ed allo spopolamento, avendole sbarrato l'accesso al mare.
L'isola di La Maddalena è già una nota base navale. La storia di questa roccaforte militare ha paradossalmente una origine antimilitarista. Alcuni pescatori corsi vi fondarono una colonia, consistente in qualche baracca lungo il litorale. La popolazione aumentò quando i corsi rifiutarono la coscrizione militare imposta durante le guerre napoleoniche. La colonia di obiettori di coscienza - o renitenti, che dir si voglia - contava nel 1837 circa 1.500 abitanti - una comunità di hippyes ante litteram.
Il "merito" di aver mlitarizzato l'isola di La Maddalena viene attribuito al barone di Geneys, il comandante sabaudo creatore della marina sardo-piemontese. Da allora la storia dell'Isola diventa storia della marina militare: base navale, deposito di munizioni, sede di addestramento, roccaforte munita di artiglierie.

In Sardegna, nel 1847, le spese militari raggiungono i 200 milioni di lire sarde, contro i 100 milioni scarsi spesi per l'amministrazione civile. Questi dati - riportati in La finanza sabauda in Sardegna, Ed. Bocca, 1924 - sono da considerarsi parziali, in quanto esistevano casse separate e gestioni "fuori bilancio" (come d'altro canto avviene ancora oggi nel settore). Le spese militari in questione sono ripartite in tre sole voci: militari, artiglieria, fabbriche e fortificazioni. Ne erano escluse, ad esempio, le opere concernenti la "difesa del Regno", cioè: milizia e cavalleria, e "Torri del Regno", che avevano casse separate. Ed escluse erano anche le spese per organizzare la sbirraglia incaricata di proteggere "dall'interno" la sacralità delle strutture militari.

«L'enormità dell'onere della spesa militare, che ha gravato costantemente sul bilancio dell'Isola, con conseguenze finanziarie gravissime, che hanno notevolmente contribuito a impedire un miglioramento delle strutture civili (strade, porti, scuole, ospedali, sicurezza pubblica, ecc.) non può essere sottovalutata nel giudizio complessivo che viene dato sulla politica sabauda in Sardegna nel corso del 1700. Si trattava, è superfluo dirlo, di uno sforzo giustificato nelle esigenze di una politica dinastica che nella forza militare aveva il suo centro».

Questa osservazione di uno storiografo comunista, relativa al prezzo pagato dal popolo sardo in "strutture civili" per la creazione di "strutture militari", è interessante, considerato che anche per i partiti comunisti al potere la «politica ha il suo centro nella forza militare».
Dando a Cesare quel che è di Cesare, va detto che le poche strade, i pochi ponti, i pochi porti funzionanti in quel periodo erano stati costruiti da militari per uso militare o in funzione bellica - in particolare i ponti sono quasi tutti edificati in periodo romano.
D'altro canto, le riforme vagheggiate con la fusione del '47 rientrano nel disegno di penetrazione e utilizzazione da parte di un colonialismo "attivo" - che si trova cioè nella necessità di operare "bonifiche", di costruire "strutture civili" (strade, ponti, trasformazioni fondiarie, e specialmente «ordine e pubblica sicurezza») per due ragioni: una militare, per conservare il dominio salvandolo da minacce interne ed esterne; una civile, per consentire lo sfruttamento intensivo delle risorse. Delle "strutture civili" i colonizzatori godono soltanto dell'uso in funzione di maggior rendimento produttivo - quando non vi siano i cartelli "vietato il transito" o i cavalli di Frisia, come accade oggi per molte ottime strade costruite dalla NATO per gli affari della NATO e per le migliaia di ettari trasformati in basi missilistiche.

Da Carlo Alberto in poi le esigenze della "politica dinastica" aumentano: i Sabaudi sono perennemente "sul piede di guerra". Il disegno egemonico dell'ambizioso capitalismo piemontese si svolge dapprima dietro il paravento patriottico dell'unità nazionale e, successivamente, culmina nell'imperialismo fascista.
Dal canto loro, i Sardi, presi da ben altri problemi esistenziali, non sentono affatto lo spirito unitario risorgimentale - neppure quando la loro Isola entra a far parte degli stati di terraferma, dopo la fusione, in qualità di "diletta sorella". Per indurli a collaborare, si mobilita il clero, chiedendo di «invitare con la predicazione i popoli alla guerra» - come scrive tout court il viceré di Cagliari, De Launay.
Prima dei frati cappuccini, i gesuiti furono gli alleati nel disegno sabaudo di colonizzazione dell'Isola. Alleati malfidi, in verità. Della loro comoda posizione di missionari del colonialismo, i gesuiti approfittarono per estendere il loro potere economico e rafforzare i loro intrallazzi politici, finendo per alienarsi la borghesia compradora toccata nei suoi interessi. Nel 1847 e '48 il malumore popolare si traduce in tumulti e sollevazioni contro i Piemontesi. Pertanto i gesuiti vengono cacciati dall'Isola col favore dell'autorità costituita, evitando così che il popolo cacci anche i Piemontesi.
Uno storico, contemporaneo a quegli avvenimenti, rileva che i motivi della cacciata dei gesuiti dalla Sardegna erano da un lato di natura economica e dall'altro di natura politica; in quanto i membri della compagnia di Gesù costituivano un potere proprio, concorrente del potere statale.
Nei moti anticlericali, si inserisce una singolare figura di tribuno, Antonico Satta, geometra. Il Satta, che ha vissuto a Londra e a Parigi ed è permeato di ideali illuministici, appena ha sentore di ciò che accade nell'Isola, corre a Sassari. Prende ad arringare le folle, nelle piazze e nelle campagne, perché si sollevino in armi e si liberino dai preti e dai nobili. Accusato di "repubblicanesimo" viene arrestato e imprigionato. Godrà più tardi di un indulto albertino.
Ancora a Sassari, nel febbraio del 1852, esplode un violento tumulto contro le truppe piemontesi di stanza nella città. I moti, anche stavolta, si diffondono nelle campagne. La causa apparente è futile: un'infrazione all'etichetta durante un ballo di ufficiali di corpi diversi. Lo storiografo Bellieni sostiene che «l'origine dei fatti era da ricercarsi nella spavalderia dei soldati continentali di guarnigione a Sassari e nella suscettibilità della guardia nazionale (indigena) e del popolo». I primi scontri si verificarono tra guardie nazionali e bersaglieri. A dar manforte ai primi ci pensa il popolo, sceso per le strade. Si ebbero sanguinosi conflitti e venne proclamato lo stato d'assedio in tutta la provincia.

Si afferma che uno degli aspetti positivi della fusione sia stato quello della riforma del sistema tributario e finanziario. Il nuovo sistema era certamente positivo per gli esattori piemontesi, che avevano modernizzato e snellito le tecniche per gabellare il popolo. Già con l'Editto delle Chiudende si legalizza nell'Isola la proprietà privata; ora, con la fusione, si ordina un catasto agricolo. "Il martirologio del popolo sardo", come il Siotto-Pintor definì il sistema tributario imposto ai Sardi dai Savoia, continua fino ai nostri giorni.
Questi alcuni dei tributi:
- contributo per servizio di posta (un servizio di cui le popolazioni dell'interno non devono aver fatto molto uso);
- ronda campestre (barraccellato);
- contributi prefetture (una specie di fondo soccorso da restituire ai contribuenti in occasione di cataclismi: è da figurarsi in quali tasche andavano a finire);
- pagamento di interessi di censo comunali (leggi: appannaggi vari alle autorità costituite);
- spese per le scuole, per i medici e gli ambulatori, per le controversie e per i conciliatori, per le chiese e la manutenzione delle stesse, le decime, manutenzione e restauro delle strade, dei ponti, delle fontane (i cosiddetti servizi civili che i Sardi hanno sempre pagato e di cui ancora non godono l'uso);
- viatico per i vescovi; trasferte dei prelati; prediche dei quaresimalisti;
- servizio di polizia; pagamento delle relative multe; risarcimento danni qualora il colpevole non fosse saltato fuori - cioè l'istigazione alla delazione (un metodo repressivo che ricorda quello adottato da certi insegnanti, i quali mettono un "sette in condotta" a tutta la classe perché non sono riusciti a scoprire chi ha fatto la pernacchia);
- roadie, dette anche in sardo is cumandatas, ossia, prestazioni di lavoro non remunerato: nelle milizie, nelle ronde marittime, nei trasporti di cereali agli ammassi, nelle saline, ecc..
- diritti di porto, ancoraggio, introduzione di bestiame in città, diritti di registro, diritti sui frantoi, tasse di patenti, peso reale; tabacchi, sali, miniere, polveri, tanca regia; donativi ordinari e straordinari ai reali (consistenti in 80.000 scudi il primo e in 204.000 lire sarde il secondo, durante l'esilio dei Savoia in Sardegna, nel periodo napoleonico); contributo guerre (quello detto Brunengo, per la guerra contro i francesi, era di 80.000 lire sarde e l'onere rimase anche dopo pagato il debito); sussidio ecclesiastico, in vigore da Sisto IV (3.529 lire sarde); alloggi militari; contribuzioni per incoronazioni, nozze, ecc., di re e di principi; soccorsi e aiuti straordinari (altro fondo di previdenza sociale); spillatico per le "spesucce" personali della regina Maria Teresa (nel periodo del suo esilio nell'Isola); e così via...
Dopo la fusione, non poche strutture del vecchio sistema feudale, coi relativi privilegi, vengono mantenute perché il Piemonte non vuole inimicarsi il clero e la nobiltà, dei quali ha bisogno per portare avanti il suo disegno di neocolonizzazione. Le decime, abolite negli stati di terraferma, vengono conservate in Sardegna; e così i diritti feudali di pesca, che nell'Oristanese esistono ancora oggi dai tempi di Filippo IV, re cattolico di Spagna. Per inciso, qui, i feudatari si avvalevano pure dello jus primae noctis fino a pochi anni fa.
Giova ripetere che le riforme vengono fatte in funzione di uno sfruttamento più razionale del lavoro delle popolazioni e del loro patrimonio naturale, sostituendo alla vecchia classe dirigente, di stampo clerico-spagnolesco, la giovane borghesia capitalistica piemontese.

La reazione popolare al feudalesimo prima e alla colonizzazione sabauda dopo, si articola in due distinte forme. Nelle aree urbane, costiere e agricole (dove la borghesia indigena compradora si allea con i colonizzatori per acquistare i privilegi riservati ai lacchè) gli abitanti subiscono il dominio pur senza accettarlo: le istanze di libertà qui si esprimono in forme "di resistenza passiva", di assenteismo alla peone; le masse si rifugiano nel fatalismo, nella droga, nell'alcool e nel culto di un cattolicesimo pagano - i lunghi periodi di letargo civile sono rotti da improvvisi violenti tumulti, che esplodono senza una causa apparente ma che sempre si rivolgono contro il potere costituito: amministratori, preti, gabellieri, possidenti, poliziotti. Tra un tumulto e l'altro, il popolo matura la coscienza della propria forza. Modificandosi le strutture economiche con l'avvento delle industrie nascono idee politiche socialiste; troviamo la punta avanzata di queste nuove idee nei minatori dell'Iglesiente, che vivono in modo disumano e tragico lo sfruttamento del capitalismo borghese.
Da un'altra parte ci sono gli abitanti delle zone interne, delle Barbagie montuose e impervie. Essi conservano una loro struttura economica, una loro cultura, proprie leggi: la civiltà pastorale. Questa civiltà essi non intendono barattarla con quella imposta dai colonizzatori. E qui è il caso di dire che tale rifiuto non nasce tanto da motivi di attaccamento sentimentale alla propria cultura ma, a ragion veduta, da una maggiore funzionalità della propria rispetto alla cultura d'innesto. Semplificando la questione, credo addirittura ovvio che una comunità accetti di modificare le strutture su cui si regge, nella misura in cui quelle nuove che le vengono proposte valgano e reggano più delle prime. (Questo è un discorso astratto, considerata la natura oppressiva e sfruttatrice del colonialismo, che alle civiltà degli indigeni non può certo sostituire la propria, senza contraddire la sua fondamentale logica del profitto).
Le popolazioni dell'interno formano una comunità pastorale che ha una lunga storia di resistenza alla penetrazione colonialista. Isolati da duemila anni, sono in perpetua guerriglia contro l'invasore. In tale situazione storica, la società barbaricina non poteva non diventare una società statica, economicamente autarchica.
E' davvero sorprendente come i Barbaricini abbiano potuto resistere e sopravvivere ai violenti e sanguinosi tentativi di colonizzazione, dopo essere stati militarmente battuti e assoggettati. E' certo che essi hanno sempre mantenuto il conquistatore in uno stato di insicurezza, di tensione, di paura. Qui, tutti i colonizzatori (ed oggi il neocolonialismo capitalistico) trovano il maggiore ostacolo al disegno di totale asservimento dell'Isola; qui, è il focolaio di ogni possibile e temibile rivolta popolare. Per questo, contro i Barbaricini, contro i pastori sardi, si dispiega la più accanita repressione, fino alla vagheggiata "soluzione finale".
Le prime basi militari straniere costruite in Sardegna sono opera dei Romani, in funzione anti-barbaricina. Per mantenere imbrigliate le popolazioni dell'interno, i Romani costruirono, utilizzando gli schiavi raccolti lungo le coste, tutta una serie di fortificazioni, unite da vie di comunicazione e da ponti. Di queste opere troviamo ancora oggi numerosi resti - per quel che riguarda i ponti romani, bisogna dire che reggono il peso del traffico meglio dei moderni, in cemento armato. Tali fortificazioni non avevano soltanto lo scopo di mantenere sotto controllo i turbolenti Barbaricini, ma di difendere le colonie situate nelle zone rivierasche dalle bardane: razzie che i pastori, di quando in quando, organizzavano con rapide puntate.
Duemila anni più tardi, col pretesto di addestrare le reclute dell'esercito repubblicano nell'uso delle armi, il ministro della difesa (ipocritamente, non si dice più "della guerra") onorevole Gui, decide di installare, in quegli stessi monti, una base militare. Lo scopo reale è quello di mantenere sotto il ricatto delle armi le popolazioni della Barbagia di Ollolai e, in particolare, di Orgosolo. Ciò che è accaduto a Pratobello è noto: la rivolta popolare antimilitaristica è stata immediata e totale. Dai fatti di Pratobello se ne deduce che la storia non la fanno solo le élites ma anche il popolo.

In lingua sarda "Bogino" o "Buginu" significa "diavolo scatenato", 'boia". La gente mossa da grande risentimento contro qualcuno, gli dà come terribile malaugurio: "An ki ti currat su Boginu!". (Ti possa perseguire il Bogino).
Bogino Gian Battista Lorenzo è ministro sabaudo per la Sardegna dal 1750 al 1773. Uomo di punta della borghesia piemontese, statista liberale a casa sua, in colonia diventa un arrogante boia. (Di lui l'Enciclopedia Nuovissima, comunista, attingendo ad enciclopedie borghesi, scrive:
«Giureconsulto ed uomo politico del Regno di Sardegna; coprì alte cariche e compì opere benemerite».

Scrive il Cabitza in Sardegna, rivolta contro la colonizzazione:
«Su tutta la Sardegna e particolarmente in Barbagia si abbatté una furiosa ondata di violenza a danno dei contadini e pastori. Atroci campagne contro il brigantaggio vennero condotte nel 1735-37 dal viceré marchese di Rivarolo, nel 1747-51 dal viceré marchese di Valguarnera, nel 1770 dal viceré marchese di Hayes, queste ultime e maggiori concertate tutte e guidate dal ministro Bogino... In tutti i paesi le truppe regolari con le armi e con la violenza contennero i pastori, tennero a bada i briganti. Su tutti i paesi si eressero in permanenza le forche, i cadaveri dei giustiziati vennero strappati a pezzi, bruciati e le ceneri disperse al vento... Sulla stessa linea della lotta contro il brigantaggio - briganti e oppositori politici del resto, per la corte di Torino, erano sullo stesso piano - fu anche perseguita la repressione dei moti logudoresi e galluresi. Per tutto l'ultimo decennio del 1700 e oltre, i seguaci di Gio Maria Angioy - costretto all'esilio - furono perseguitati; tutti i giacobini sardi, ammiratori della rivoluzione francese o semplicemente nemici del feudalesimo, popolani, contadini, pastori, preti riformatori furono braccati, arrestati, orrendamente torturati, trucidati sulle strade o nelle prigioni per opera di Carlo Felice o di Placido Benedetto suo fratello. I villaggi del Logudoro vennero assaliti dalle truppe regie, cannoneggiati, incendiati e molti dei loro abitanti uccisi o arrestati in massa».

In quel periodo di sprazzi illuministici, si verificò un fenomeno di rilievo nella storia dell'Isola: in alcuni strati della borghesia cittadina - in particolare a Sassari - si formò un'attiva corrente giacobina che seppe legarsi agli interessi delle masse contadine e condurre con queste una battaglia antifeudale e anticlericale.
Anche i moti illuministici vengono repressi dall'assolutismo sabaudo con inaudita ferocia. A Sassari, tra il '96 ed il '97, i capi del movimento antifeudale che non riuscirono ad espatriare furono massacrati dalla sbirraglia piemontese diretta dal delegato Valentino. Ancora a Sassari, nel 1802, vengono arrestati, processati e barbaramente torturati, coram populo, il Martinetti, il Battino e il Frau - gli ultimi due, pastori, dopo il "trattamento" sassarese, saranno impiccati ad Aggius, paese della Gallura dove più viva era stata la rivolta antifeudale.

Così Sebastiano Pola (1923) descrive il supplizio riservato ai due pastori galluresi:
«Si procedette dal Battino: spogliatolo delle vesti ad eccezione della camicia, strettegli le mani e le braccia nude dietro la schiena ebbe la prima ammonizione: denunciasse i complici, eviterebbe la tortura se non la morte. Rispose fermo: "Non so niente". Il delegato Cicu ordinò agli alguacil di stringergli con violenza le corde attorno ai polsi e di far agire le carrucole del soffitto. Il giovane gallurese (aveva 23 anni) fu così sollevato in alto fino a che gli si slogarono le braccia, ma ciò nonostante continuava a protestare di non conoscere altri che il Sanna, il Corda e il Cilloco. Il Cicu ordinò uno strappo violento, ma dal petto dell'infelice non poté uscire che un urlo straziante di dolore: "Non so niente, misericordia, ho da ricevere la comunione, quel che sapevo l'ho detto". Ed altrettanto avvenne del Frau. Pochi giorni dopo i due infelici furono ricondotti nella loro terra selvaggia, ad Aggius, per ornarne le forche».

Numerose sommosse popolari si susseguono in quegli anni. L'ultimo bagno di sangue giacobino viene sparso nel 1812, a seguito dei moti guidati da avvocati, professori e magistrati. La paura di un contagio di rivoluzione liberale dalla Francia terrorizza Vittorio Emanuele I. Il monarca, con la sua corte, ha dovuto abbandonare il Piemonte, invaso dalle truppe francesi; ora deve adattarsi a vivere nel suo feudo sardo. A Cagliari, viceré, clero e nobili si prodigano per rendergli l'esilio il più possibile confortevole: il re - si disse al popolo - era arrivato con la sola camicia, per non cadere nelle mani demoniache dei giacobini.
Contadini e pastori devono provvedere con il loro lavoro a mantenere dignitosamente il re in esilio. Vengono stabiliti oneri fiscali supplementari ad una popolazione già ridotta in estrema miseria. Gli obblighi fiscali verso la corona si aggiravano sulle 218.000 lire sarde; a queste se ne aggiunsero come straordinario 109.360 per il sostentamento della famiglia reale e della corte in Cagliari. Poco dopo, lo straordinario salì a 240.000. Intanto la regina Maria Teresa si fa cesellare dagli orafi un orinale d'argento sul cui fondo, a sbalzo, sta effigiato il Bonaparte: su questo speciale cacatoio, il real culo irride al grande inimico.

Caduto Napoleone, in Sardegna non occorre la restaurazione. Ma durante il loro forzato soggiorno nell'Isola, i Sabaudi si sono resi conto che la Sardegna può rendere molto più alla Corona se sfruttata meglio. Saranno varate "riforme" che comprenderanno, tra l'altro, «il riassetto della proprietà fondiaria, la burocratizzazione degli apparati fiscali e amministrativi, la creazione di fortificazioni militari».
Nel 1821 Carlo Felice inizia il suo regno sconfessando i velleitarismi costituzionali di Carlo Alberto, condannando a morte 97 oppositori sardi. Segue una feroce capillare epurazione nei quadri dell'esercito, della burocrazia e dell'università. Il monarca ha un odio sviscerale per gli intellettuali; egli afferma che «solo chi non sa leggere e scrivere può essere fedele al re». Dal che si potrebbe dedurne che a epurazione conclusa, esercito, burocrazia e docenti universitari del regno fossero tutti analfabeti.

E' dell'anno precedente (6 ottobre 1820) il primo di una serie di editti detti delle Chiudende (gli altri sono del 1824-30-31). A questi impopolari editti seguono per lunghi anni tumulti, rivoluzioni ed esplosioni di violenza nei contadini e nei pastori. La borghesia piemontese impone ai Sardi la proprietà privata con la truffa e con la forza delle armi.
In concreto, la terra era un bene di uso comune. La proprietà privata era limitata a piccole superfici in prossimità degli abitati, riservate alla coltura dei cereali, di vigneti, di oliveti, di frutta e ortaggi. Il restante patrimonio terriero - la maggior parte - era "proprietà comunale", diviso in due settori, secondo l'uso cui veniva destinato: il paberile e il vidazzone. Il paberile veniva dato in sorteggio anno per anno ai contadini. Il vidazzone era riservato al pascolo, per i pastori. Su tale patrimonio comunale (detto salto) pesavano degli ademprivi, cioè dei diritti di pascolo, di legnatico, di semina: tutta la popolazione poteva usufruire gratuitamente del patrimonio naturale.
Sulla questione scrive Cabitza in Sardegna, rivolta contro la colonizzazione - 1969.

«...La Sardegna fu saccheggiata in lungo e il largo; le popolazioni spogliate di ogni avere, ridotte alla fame, alla miseria più selvaggia, flagellate da carestie e da malattie. Non a caso la dominazione spagnola, che pure non era stata rose e fiori, appariva ai più come un dolce sogno».
«Ma solo a conclusione di quei lunghi primi cent'anni di dominazione la Corte torinese mise in atto l'operazione, a lungo covata, più sfacciatamente e vergognosamente colonialistica. A partire dal 1820, infatti, furono emanati i famigerati editti chiamati delle Chiudende. Come è noto, essi autorizzavano i proprietari a chiudere, a certe condizioni, i loro terreni e i comuni a compiere operazioni analoghe sui terreni di proprietà comunale, con l'obbligo di dividerli tra i capi famiglia; in caso di inadempienza dei comuni veniva concesso a tre capi famiglia di provvedere essi stessi alla spartizione e recinzione.
«Si voleva, in tal modo, dare alla proprietà privata garanzie giuridicamente definite e tali da consentire al titolare del diritto l'uso pieno ed esclusivo dei terreni e, soprattutto, incoraggiare e legalizzare l'esproprio delle terre comunali, demaniali e di tutte quelle in cui, sulla base di regolamenti comunitari consolidati da una lunga consuetudine, contadini e pastori esercitavano la loro attività...
«La prospettiva generale delle Chiudende era, quindi, riformistica e, per quanto niente affatto audace, corrispondente alle linee progressive del tempo. Nelle condizioni concrete della Sardegna, però, questa prospettiva assumeva un carattere immediatamente e radicalmente reazionario».

Contadini e pastori si rendono conto della truffa: si vogliono ammodernare le vecchie strutture agricole, facendone pesare ogni onere sui lavoratori ed escludendoli per sempre da ogni beneficio. Un anonimo poeta scrisse:
«Tancas serradas a muru / fattas a s'afferra afferra / si su chelu fit in terra / bo chi lu serraizis puru». (Tanche chiuse a muro / fatte all'arraffa arraffa / se il cielo fosse in terra / vi sareste chiuso anche quello).

La risposta popolare non si fa attendere. Nelle zone dell'interno, i pastori reagiscono violentemente. In numerosi paesi delle Barbagie ci furono scontri e conflitti a fuoco. Di giorno, i neo possidenti, protetti dagli sbirri, delimitavano i terreni con le recinzioni. Per far rispettare la legge intervenne allora l'esercito. La guerriglia si protrasse per circa dieci anni.
«I pastori furono massacrati, le carceri riempite, le popolazioni deportate. E naturalmente furono allestite nuove campagne contro il brigantaggio. Torme di criminali ed evasi dal Piemonte, costituite in Corpo Franco di polizia, furono sguinzagliate ovunque a seminare terrore e desolazione con lo scudiscio e la tortura, il moschetto, le forche, le infissioni di teste nei pali lungo le strade». Scrive Cabitza.

Non è la prima volta che le consorterie al potere utilizzano galeotti in operazioni repressive anti-popolari in cambio dell'impunità. Sotto l'impero romano, una banda di 4.000 ebrei dei ghetti fu spedita da Roma in Sardegna contro le popolazioni barbaricine. Roma coglieva due piccioni con una fava: si liberava di elementi turbolenti come gli ebrei e manteneva a freno i briganti sardi. Per la cronaca: la spedizione di ebrei si guardò bene dall'affrontare i pericoli di una guerriglia in un clima malsano e in un ambiente impervio: i sopravvissuti alla malaria crearono diverse colonie lungo le coste e prosperarono in pace coi loro traffici, fin quando non furono espulsi dall'Isola il 31 marzo 1492 con il decreto di Isabella la Cattolica. Ma la storia si ripete fino ai nostri giorni: negli anni 1960-61, durante le lotte antifeudali dei pescatori di Cabras per la socializzazione degli stagni, oltre alle centinaia di carabinieri e baschi blù, vengono utilizzate bande di delinquenti comuni per provocare risse e vanificare il sacrificio dei lavoratori.
La repressione dei moti popolari in opposizione alle Chiudende fu certamente un'azione infame, che - sostiene Cabitza - «suscitò l'indignazione di quanti ne vennero a conoscenza. Lo stesso governo cercò in qualche modo di attenuare le sue colpe decidendo, nel 1833, di non autorizzare la ricostruzione delle recinzioni abbattute e concedendo, due anni dopo, un indulto a quanti avessero compiuto reati in opposizione alle Chiudende».

Emerge una considerazione che va tenuta presente per comprendere la realtà attuale della Sardegna. I fatti di cui si sta parlando risalgono a poco più di cento anni fa: sono contemporanei al periodo santificato come "risorgimento nazionale". Mentre il Piemonte si batte contro la barbarie austro-ungarica, in Sardegna vi pratica ufficialmente la tortura: ci sono gli alguacil che stirano, slogano, squartano e arrotano le membra dei condannati, secondo le migliori tecniche della Santa Inquisizione; si impiccano nelle piazze oppositori politici e le loro teste vengono mozzate e infilzate in cima alle pertiche ed esposte al pubblico. Non risulta che l'Austria abbia riservato lo stesso trattamento ai patrioti piemontesi: in quegli stessi anni (1820 - 21) Silvio Pellico viene arrestato, processato e condannato a morte; la pena capitale gli viene commutata prima in ergastolo e poi in quindici anni di fortezza; egli non fu mai trattato in modo inumano; durante la prigionia poté scrivere un romanzo (anti-austriaco) e diverse tragedie. Dubito che se oggi, non dico allora, dovessi finire nelle carceri italiane, mi verrebbe data la possibilità di svolgere il mio lavoro di scrittore. D'altro canto, non risulta che lo stesso Piemonte abbia usato tali barbari metodi di repressione e di pena nei confronti dei suoi oppositori politici negli Stati di terraferma. Evidentemente ci sono diversi metodi di amministrare la giustizia e di applicare le leggi. Un trattamento differenziato è tutt'oggi rilevabile nell'amministrazione dell'Isola, dove gli stessi diritti sanciti dalla Costituzione e dalle leggi sono un fenomeno aleatorio o, come dice Mauro Mellini, «sono considerati ancora una stravagante utopia».

Non era nelle intenzioni del mio lavoro un esame cronologico degli avvenimenti che hanno visto, di volta in volta, la gente sarda resistere alla penetrazione colonialistica, reagire allo sfruttamento bestiale del capitalismo piemontese, subire la violenza repressiva dello Stato italiano. Un fatto appare comunque evidente: la nostra società è passata, attraverso i secoli, da forme di governo assolutistiche e dittatoriali a forme di governo liberali e democratiche (quando non anche di ispirazione socialista, come l'attuale), ma sono sempre rimaste immutate le fondamenta del vecchio potere. Cioè cambiano nella loro forma i regimi politici, ma la sostanza autoritaristica e repressiva del potere resta. Però, bisogna anche dire che matura, si rafforza e si organizza progressivamente la volontà popolare di resistere e di lottare per un mondo nuovo.

Alla vigilia della prima carneficina mondiale, la situazione economica e civile della Sardegna è tragica. Le antiche piaghe si sono incancrenite. Le Barbagie pullulano di banditi. I pastori hanno fame di pascoli e i contadini hanno fame di terra. I pescatori lavorano con strumenti rudimentali: nelle acque interne e lagunari dettano legge i feudatari e i concessionari, i quali godono dei diritti esclusivi di pesca; nel mare aperto i sardi non si arrischiano, privi come sono di imbarcazioni idonee: nell'Oristanese si usano ancora i barchini di falasco (del tipo usati nel Nilo tremila anni fa) e gli ami vegetali. Gli operai della Sardegna non conoscono fabbriche: lavorano come forzati nelle miniere che lo Stato italiano ha dato in concessione a società capitalistiche belghe e francesi - a scavare con piccone e a trasportare con corbule carbone e galena, lavorano come schiavi non soltanto uomini ma anche donne, bambine e bambini.
La situazione è insostenibile. A Buggerru, nel 1904, i lavoratori delle miniere proclamano lo sciopero generale.
Dapprima gli imprenditori toscani avevano disboscato quei monti, abbattendo le secolari querce il cui legname veniva usato nell'industria dei mobili e per farne carbone; poi era venuta la società francese Malfidano e aveva cominciato a scavare gli stessi monti ormai spogli. Navi inglesi, tedesche, francesi mettevano l'ancora al largo, per mancanza dei porti, e caricavano il minerale di piombo. Una società di battellieri faceva la spola dai pontili alle navi alla fonda.
I minatori di Buggerru chiedono che non venga spostato l’orario di lavoro e, in particolare, di avere gratuitamente l'olio delle lampade che illuminano le gallerie - olio cui essi sono tenuti a provvedere. I padroni delle miniere non vogliono perdere neppure una briciola dei loro profitti e chiamano l'esercito per reprimere lo sciopero. I soldati arrivano e sparano sugli scioperanti. 3 morti e 11 feriti. E' il 4 settembre 1904.

Questo il commento dell'eccidio di Buggerru fatto dal quotidiano padronale L'Unione Sarda in quei giorni:
«La Direzione della miniera aveva deliberato una modificazione d'orario: questa non piacque agli operai e... imposero dispoticamente guerra... al famoso capitalismo, alla borghesia depauperatrice... La Direzione chiese alle autorità di governo la loro assistenza. Si mandarono truppe... dopo sette ore di marcia eccole nell'abitato... i crumiri approntano un rifugio per i poveri soldati: gli scioperanti sono sulla via principale agitatissimi... I soldati sono là distesi, abbattuti... la folla si accalca loro intorno, le pietre piovono fitte... la pazienza dei soldati già da tempo messa a dura prova non resiste più, si afferrano le armi e si spara... Nel disgraziatissimo eccidio, che hanno avuto a che fare con la borghesia capitalista, il governo reazionario, il militarismo assetato di sangue? Non v'ha dubbio che se la truppa non fosse andata a Buggerru, i morti non vi sarebbero stati... Se fa comodo ai nostri anarcoidi e rivoluzionari, a lume del semplice buon senso, doveva tranquillamente la Direzione delle miniere lasciarsi condurre dalla volontà dei suoi operai, mettersi a sua discrezione, esporsi a qualunque pericolo? La vita degli impiegati non valeva dunque niente? L'autorità del padrone doveva essere dunque zero?... Sia pure vero che le leggi oggi si fanno nei congressi, prima che negli stati, e che nel congresso di Amsterdam è prevalsa la teoria rivoluzionaria, ossia la guerra contro tutto e contro tutti; gli operai di Buggerru prima di venire allo sciopero, non potevano mettere di mezzo le autorità, se credevano lesi i loro diritti, e, se non avevano fede in esse... non potevano ricorrere ai loro volontari protettori? Dopo tutto questo, non è operosa pietà star zitti? Imitare gli operai di Buggerru, ritornati al lavoro, forse meditabondi sulla forza della fatalità che macchiò, contro ogni volere, di sangue la rivolta delle leggi sociali? Nossignore... Cominciarono a Monza ad agitarsi: e si ebbe il coraggio di votare il seguente ordine del giorno: - Un comizio di cittadini monzesi per protestare contro il nuovo eccidio sui lavoratori che chiedevano il riconoscimento dei loro diritti, ritiene ormai inutile di rinnovare le solite proteste verbali e delibera: 1) di intensificare la propaganda antimilitaristica specialmente tra i giovani; 2) di invitare i lavoratori organizzati d'Italia a smettere senz'altro il lavoro al primo annuncio di un nuovo delitto commesso sulla vita dei lavoratori, così come si propongono di fare essi stessi. - Bestialità e infamia queste, nel travisare i fatti, in quanto si ammette che l'eccidio commesso sui lavoratori che chiedevano il riconoscimento dei loro diritti sia avvenuto per ordine delle autorità come mezzo di reazione... A Monza seguì Milano, e si proclamò senz'altro lo sciopero generale. Questo è scoppiato e finirà nel nulla... è un bau bau per bambini; noi possiamo ridercene: se i rivoluzionari non hanno altro mezzo per commettere l'infamia di protestare contro la società borghese per un eccidio che essa non volle, che avvenne perché il proletariato stesso lo provocò volente o no, possono agitare le acque livide di tutti i pantani in cui vivono...».

La prosa del quotidiano di Cagliari diventa ancor più comprensibile nel livore di cui gronda, quando si sappia che aveva le mani in pasta, anche nel settore minerario, con i Sorcinelli: l'avv. Ferruccio è infatti membro dell'Associazione Mineraria sarda, e sarà un fascista della prima e della seconda ora.
Nel 1915 si chiamano i Sardi a raccolta. Non è che "la patria sia in pericolo": si tratta di "ricondurre alla madre patria figli che gemono sotto il servaggio straniero", gli alto-atesini di lingua tedesca e i triestini, possibilmente con tutta l'Istria. Sono però giuste cause che la gente non comprende - molti non sanno neppure che esistono popoli diversi dal proprio. Si fa quindi leva sul naturale spirito aggressivo degli sfruttati - una carica aggressiva che essi hanno confusamente diretto contro l'autorità costituita, la giustizia, il fisco, la polizia, il possidente. Si fa leva soprattutto sul bisogno materiale, sulla fame che essi patiscono. Si promettono paghe alte, sussidi e buoni alimentari ai familiari; si promette lavoro stabile agli operai, terre ai contadini e pascoli ai pastori - a guerra finita, a vittoria conquistata. Promettere non costa nulla.
Nella povera gente nasce l'illusione che questa guerra sia un male necessario da patire in cambio di un domani migliore.
La Brigata Sassari si formò nel gennaio del 1915 col 151° reggimento di Cagliari e col 152° reggimento di Sassari. I militari di truppa erano tutti sardi, non così gli ufficiali. Comandava la Brigata il maggior generale Luigi Calderani; Achille Ledda, tenente colonnello, comandava il 151° e Carlo Torti, pure lui tenente colonnello, comandava il 152°.
Leonardo Motzo, allora capitano, ne Gli intrepidi sardi della Brigata Sassari, ha scritto:

«Fra i richiamati vi erano i veterani della guerra libica; alcuni anche decorati. Portarono essi nei reparti uno spirito militare veramente encomiabile per disciplina e fierezza e i loro racconti di atti di valore accendevano di nobile entusiasmo le anime di coloro che non avevano ancora avuto l'onore di trovarsi sul campo di battaglia. Nei primi mesi di vita della Brigata... le istruzioni furono intense e impartite con grande entusiasmo dagli ufficiali che coltivavano nell'animo dei soldati i nobili sentimenti della vita militare e specialmente tenevano altissimo lo spirito offensivo insito nella natura dei sardi, sicché, per quanto lunghe e faticose fossero le esercitazioni tattiche, quando si arrivava all'atto finale di esse cioè all'assalto, i soldati, innestata la baionetta, correvano furiosamente avanti gridando a squarcia gola Savoia, Savoia e si esaltavano tanto che sembrava che ognuno di essi avesse effettivamente un nemico da abbattere... La partenza avvenne da Cagliari il 13 maggio... A Cagliari tutto il popolo si era riversato nelle vie con le autorità civili, militari, religiose e i parenti che dai lontani paesi sperduti fra i monti e nelle valli dell'isola erano venuti a dare l'estremo saluto ai soldati... Il giorno seguente 14 maggio il reggimento sbarcò a Napoli, donde, dopo una permanenza di 24 ore, partì per Roma... A Roma in quei giorni ferveva la lotta politica tra i fautori della guerra immediata e quelli del parecchio, ed il 151° fu impiegato in servizi di ordine pubblico (leggi; per rompere la testa ai pacifisti, additati quali criminali anarco-socialisti - n.d.a.), fino a quando il nostro Sovrano non credette di rompere gli indugi e indicare al popolo la via difficile ma gloriosa da seguire... Tutti della Brigata erano impazienti di partire per il teatro della guerra... Finalmente l'ordine tanto sospirato arrivò la mattina del 20 luglio mentre tutte le truppe si trovavano all'istruzione... I reparti rientrarono quasi di corsa: sembrava che una forza sovrumana li spingesse... Rito commovente la benedizione della bandiera... Venne eretto l'altare e attorno ad esso si disposero i battaglioni. Tutti i reparti immobili sull'attenti. Ad un cenno del colonnello la bandiera appare tutta sfavillante nel sole radioso. Un fremito intenso, una commozione indicibile pervade ogni cuore... Poi l'alfiere la consegna al colonnello e viene benedetta dal sacerdote... La banda finisce di suonare; il comandante del reggimento impugna la bandiera e dice rivolto alle truppe ad altissima voce: "Ufficiali, sottufficiali, caporali, soldati! La religione ha ora benedetto la bandiera che il Re ha concesso al Reggimento. Noi dobbiamo conservarla in ogni occasione, con qualunque sacrificio nostro e morire piuttosto che abbandonarla. Giuriamo tutti di difenderla fino alle ultime stille del nostro sangue, per il servizio del Re e della Patria". Indi alzando la destra per primo grida: "Lo giuro!" Al suo grido un formidabile urlo risponde che s'innalza potente nel cielo azzurro e si espande per tutta la contrada: lo giuro dice il fante, ed in quel grido è tutta la sua anima di cittadino e di soldato fedele. I battaglioni si ammassano per lo sfilamento in parata. La Brigata è pronta al grande sacrificio».

Sul tema delle tecniche con le quali il militarismo opera il lavaggio del cervello, dopo l'enfasi patriottica del capitano Motzo ascoltiamo l'opinione di un fante, lo scrittore Erich Maria Remarque, in Niente di nuovo sul fronte occidentale:

«In dieci settimane ci formano alla vita militare e in questo periodo ci trasformano più profondamente che non in dieci anni di scuola. Imparammo che un bottone lucido è più importante che non quattro volumi di Schopenhauer. Stupefatti dapprima, esasperati poi e infine indifferenti, dovemmo riconoscere che ciò che conta non è tanto lo spirito quanto la spazzola del lucido, non il pensiero ma il sistema, non la libertà ma lo scattare... A noi fu data così la più raffinata educazione di caserma, e spesso abbiamo urlato di rabbia. Alcuni di noi se ne ammalarono, Wolf ne è anzi morto, di polmonite. Divenimmo duri, diffidenti, spietati, vendicativi, rozzi; e fu un bene: erano proprio quelle qualità che ci mancavano. Se ci avessero mandato in trincea senza quella preparazione, i più sarebbero impazziti. Così invece eravamo preparati a ciò che ci attendeva... Se tu tiri su un cane a patate, e poi un giorno gli dai un bel pezzo di carne, quello slunga il muso ugualmente, perché è nella sua natura. Così quando dai ad un uomo un pezzetto di potere è la stessa cosa: anche lui si slunga il muso. E' una faccenda che va da sé, perché l'uomo è prima di tutto un animale e poi magari ci hanno spalmato sopra un po’ di educazione, come il burro su una fetta di pane. La vita militare consiste in questo, che uno ha sempre potere su un altro; e il male è che tutti ne hanno troppo, di potere; il sottufficiale può sfottere il soldato semplice, il tenente il sottufficiale, il capitano il tenente, fino a farlo diventare matto. E tutti lo sanno, e quindi ci fanno il callo. Prendi la cosa più semplice: si torna dalla piazza d'armi stanchi morti. Viene il comando: "Cantare". Naturalmente esce fuori un canto strascicato, è già molto che qualcuno regga ancora il fucile. E allora, dietrofront, e la compagnia deve per punizione fare esercizi per un'altra ora. Al ritorno si ordina di nuovo: "Cantare", e ti garantisco che questa volta si canta sul serio. Ma che scopo ha tutto questo? Il comandante è riuscito ad imporre la sua idea, perché ne ha il potere. Nessuno lo biasimerà: al contrario, si dirà che è energico. Questo, beninteso, non è che una piccolezza; vi sono ben altri modi per torturare la gente. Ora io domando: da borghese uno può essere ciò che vuole, ma in quale professione uno potrebbe permettersi una cosa simile senza che gli rompano il muso? Ciò non è possibile che nella vita militare. E allora, vedete, questo potere dà alla testa; tanto più dà alla testa, quanto meno uno contava da borghese».

Dopo la disfatta di Caporetto e la resistenza sul Piave le sorti della guerra pendono ormai a favore degli Alleati. E' imminente l'ultimo decisivo atto della spaventosa carneficina: la battaglia di Vittorio Veneto. Gli esperti dell'ufficio propaganda del ministero della guerra compilano e diffondono alle truppe questo volantino, oggi poco noto, che ho trovato incorniciato ed esposto al pubblico nella bottega del barbiere Antonio Curreli di Oristano - un reduce della Brigata Sassari, che le promesse non mantenute se l'è legate al dito:
«Fante, soldato mirabile che riassumi tutte le virtù, la resistenza e la fede della nostra gente; portandola alla più sublime espressione dell'eroismo e del sacrificio, tu hai salvato ancora una volta l'Italia dalla invasione del Barbaro. Non il fiume, né il monte, non la trincea né il reticolato: fu il tuo petto il più forte baluardo sul quale si infransero l'impeto e la rabbia nemica. Tre anni di rinunzie, di paziente attesa, di abnegazione, tre anni di gloria per te bravo fante! Tu hai saputo premere nel cuore gli affetti e uno solo vinse gli altri: quello della Patria! Il tuo sacrificio culmina ora nella riconoscenza dell'Italia che non dimentica la tua opera, ma la benedice e si prepara a premiarla. Forza per i nuovi cimenti! I tuoi fratelli vincono sui campi di Francia l'impeto tedesco come tu hai vinto mirabilmente quello dell'austriaco. Il fante italiano non conosce che la paura degli altri! E' ora di vittoria, questa, e tu ne avrai premio, provvidenza ed aiuto quando tornerai alla famiglia e alla feconda vita delle industrie e dei campi, con la coscienza che l'Italia fatta dai tuoi padri, sei stato tu a salvarla e a portarla a nuova forza e dignità nel mondo!»

Il ritorno del reduce vittorioso non fu salutato da alcuna marcia trionfale - neppure una bandierina di carta sventolata sul naso. Quelli che non restarono con le loro carni sbrindellate tra i reticolati delle trincee, quelli che tornarono si resero conto di essere stati truffati una volta di più: la realtà che avevano davanti era ancora più misera di quella che avevano lasciato partendo a fare la guerra.
In Sardegna scoppiarono violenti tumulti popolari. I reduci ne furono gli animatori.

«...Io ero ancora giovincello, ma ricordo bene tutto... I militari della guerra 15-18 erano stati congedati ed erano arrivati in paese. Le donne avevano raccontato loro tutto ciò che avevano dovuto subire quando erano sole. Non venivano dati i sussidi, se li tenevano quelli del comune... Avevano calpestato tutti quelli che erano rimasti, avevano fatto soldi alle spalle dei poveri... Quella mattina, i congedati e le donne erano andati in piazza; gridavano, volevano entrare nell'ufficio comunale per buttare via il sindaco. In paese non c'era roba da mangiare, ma i magazzini dei ricchi e i negozi erano pieni di ogni grazia di Dio. Il signor Cubeddu aveva il negozio vicino al comune. Uno ha lanciato un sasso; allora la gente gridando si è precipitata dentro. Tiravano fuori la merce, l'ammucchiavano in mezzo alla piazza, la bruciavano. Nessuno rubava... Avevano arrestato molta gente... Tutt'intorno c'era la fanteria di Oristano che presidiava il paese...».

«L'olio correva per strada fino allo stagno, dai magazzini della signora Pisabella... Fu un bel massacro! C'erano si i carabinieri, ma non si erano mossi per paura. Stavano in mezzo alla gente e guardavano. Tutte creature battezzate erano; morti di fame e stracciati e senza grazia di Dio erano; pieni di molte promesse e di veleno erano... E' cominciato così: dovevano mettere il calmiere alle merci e non si decidevano mai nel comune, sempre facendo riunioni, sempre facendo chiacchiere. E la gente aspettava nella piazza da molti giorni. Bisognava il calmiere. La povera gente non ce la faceva più a vivere con quei prezzi; i pochi soldi che c'erano non bastavano e a credito non davano più nulla. E i magazzini e le botteghe erano pieni di roba. Fu nell'ora in cui il sole entrava e non entrava. Io potevo avere un diciassette anni, allora... A noi giovani ci consigliavano di lanciare sassi contro la bottega del signor Attilio. C'era un mucchio di ghiaia grossa, lì vicino... Noi ci siamo messi e in un momento abbiamo tirato tutto il mucchio. Poi, i grandi, comandati dai soldati reduci, sono entrati dentro tutti insieme. Il signor Attilio ha sparato due colpi di fuoco... poi è scappato nell'orto dietro casa... Hanno preso tutta la roba, l'hanno gettata fuori in piazza e l'hanno bruciata. Neanche uno straccio sano hanno lasciato... Perché bruciavano la roba? Eh, sì: a pensarci adesso avrebbero potuto prendere e dare ai poveri o vendere a basso costo; tanto non era rubare per male. Ma erano inferociti, non ci pensavano dal veleno che avevano in corpo... Un po' dopo mezzanotte erano arrivati i carabinieri e i soldati armati sui camion. Parte avevano circondato il paese e parte erano entrati dentro... La notte stessa avevano cominciato ad arrestare. Chi era scappato a casa e chi in campagna. Arrestavano, legavano e portavano via con i camion. Più di venti giorni arrestando e legando. I camion andavano e venivano ad ogni ora. Trecento ne avevano preso!... I reduci avevano fatto in tempo a scappare in campagna ed erano rimasti latitanti. Il 20 agosto avevano dato fuoco alle aie... Certo che di ragione ne avevano da buttare via. Nel comune di allora... quando qualche padre o madre di famiglia andavano in ufficio per un bisogno, se era donna le chiedevano di andare a letto e se era uomo gli chiedevano di portare la moglie o la figlia...».

«Carta Luigi, detto Spizzettu, di anni 74, reduce della guerra di Libia e della Grande Guerra, ardito della Brigata Sassari, 151° reggimento fanteria, 11° battaglione, 6ª compagnia... Dicono che io sono il capo dello sciopero del '19. Capi non ce ne sono stati. Mi ero congedato nel luglio a Torino, poi da Livorno mi ero imbarcato per la Sardegna. Quando sono arrivato a Cabras ho visto un mare di gente, un grande bordello. Io non sapevo niente di quanto stava accadendo. Avevo ancora lo zaino a tracolla, avevo il vestito militare e non ero nemmeno arrivato a casa a salutare la famiglia. Mi sono trovato in mezzo alla gente che passava come un uragano, sfasciando, ammucchiando, rompendo e bruciando nelle case dei ricchi e nei negozi. Poi è arrivato il picchetto... e hanno cominciato ad arrestare e portar via... Mi hanno incolpato di essere il capo sciopero. Ma i capi erano quei mascalzoni che affamavano i poveri, loro erano che avevano costretto la gente a diventare come cani rabbiosi... Il sindaco, con la giustizia e il picchetto, diceva: "Mettete i ferri a questo e a quest'altro". E legavano quelli che capitavano sotto. A me è successo vicino alla bottega di Peppi Sanna, dove avevano bruciato anche la casa... E mi hanno tenuto un mese in cella di rigore, segregato... E sì, era tempo brutto di fame. I ricchi, che avevano le botteghe, quando ci andava un povero a comprare e soldi non ne aveva, gli ridevano in faccia: "Se vuoi olio, ti compri oliveti; se vuoi formaggio, ti compri pecore; se vuoi farina, ti compri terre". E sono risposte brutte, molto brutte per la povera gente!... Ce l'avevano promessa la pensione, quando ci siamo congedati nel '19. Eh, tutte le promesse, per mandarci a morire, quando eravamo sul Piave! Anche il generale Sanna, di Senorbì, ce lo aveva detto: "Coraggio, coraggio! La Patria ricompensa i suoi figli!" Altro che ricompensa! Prigione e fame. Possibile che io debba vivere in una baracca così, fuori del paese, come una bestia selvatica?...»
(Testimonianze raccolte da Ugo Dessy in Cronache di lotte popolari - su Tempo presente n. 2, febbraio 1963).

Furono sparsi torrenti di sangue nelle trincee. I sopravvissuti che sapevano tenere in mano una penna sparsero torrenti di inchiostro sfruttando il dramma. I generali, per dimostrare come con la strategia appropriata si vincono le guerre. Gli ufficiali subalterni, per tessere gli elogi dei capi e pisciare sui morti la loro retorica della patria; gli intellettuali e i buoni borghesi (quelli che avevano frequentato qualche anno di ginnasio lo erano tutti), per trarre principi sociali e morali dalla grande esperienza combattentistica.
Tra le "virtù" che l'umanità avrebbe acquistato nel macello della guerra, si fa risaltare il "cameratismo". «C'è un dato di fatto - dicono tutti, perfino i socialisti - ed è che tra coloro che hanno diviso la vita del fronte è nata una profonda fratellanza che si mantiene viva ora in pace». In buona o in malafede, è un tentativo di sublimare in forme mistiche un fenomeno barbarico, crudele e abietto come lo è la guerra.
Non mi pare - a ragion veduta - che la guerra (le stragi, i sacrifici, i pidocchi, la violenza, la fame, il dolore, la paura) come dramma di massa abbia migliorato l'uomo, che il trauma di esperienze orrorose, abbia mai gettato le basi per una convivenza pacifica tra tutti gli uomini e tra i popoli. Semmai, è vero il contrario. La guerra esercita ed abitua alla violenza e all'assassinio, scatena istinti belluini - e certi meccanismi, una volta messi in moto, non è che si fermino contemporaneamente ai trattati di pace imposti al nemico dai generali vittoriosi.
Non è neppure vero che la vita di trincea accomunasse tutti, indipendentemente dal ceto sociale di estrazione e dal grado ricoperto nella gerarchia militare. Le differenze di ceto c'erano e si approfondivano proprio nella divisa e nel grado. Tant'è vero che gli alti ufficiali mandavano gli ufficiali subalterni e i fanti a farsi ammazzare nelle trincee nemiche; e i fanti, quando se ne presentava l'occasione, sparavano sugli ufficiali. I rapporti tra ufficiali e truppa erano, nel migliore dei casi, di tipo paternalistico - lo stesso che nella vita civile può intercorrere tra padrone e servo.
Intanto, bisogna distinguere sul termine "combattente". C'è chi ha fatto la guerra per mestiere o per vocazione (l'occasione legale per soddisfare istinti sadico-criminali); e c'è chi l'ha fatta obbligato dalla legge o truffato dalla retorica patriottarda. Da una parte, quindi, stanno i militari di professione, tutti graduati, dal caporale al generale. Da un'altra parte stanno i richiamati "in difesa dei sacri confini". Orbene: in guerra come in pace, sul campo di battaglia come su quello del lavoro, borghesi e intellettuali, parroci e prelati, magistrati e avvocati, agrari e industriali, quando per eccezione vestono la divisa del richiamato alle armi, portano i gradi del comando e si imboscano nei posti meno pericolosi; la povera gente, i lavoratori, gli analfabeti, contadini, pastori, pescatori, artigiani vestono la divisa umile del fantaccino, devono «credere, obbedire e combattere».
La guerra scava ancor più l'abisso che separa le classi egemoni da quelle subalterne nella vita civile.
E. M. Remarque, che pure ha dimostrato in modo sublime l'imbecillità della guerra, sostiene:
«Ma il più importante è che fra noi venne in tal modo sviluppandosi un forte sentimento di solidarietà, il quale poi al fronte s'innalzò a ciò che di più bello abbia prodotto la guerra: il cameratismo».
A me pare assurdo e ripugnante un valore civile e morale acquisito mediante l'assassinio e la strage. Mi chiedo se non vi siano altri modi, oltre la guerra, per generare o stimolare tra gli uomini il cameratismo. Il binomio esercito-cameratismo è un assunto tipico della propaganda militaristica borghese, fatto proprio dal fascismo e ripreso dal comunismo. In effetti, il Remarque è un intellettuale borghese incapace di portare avanti, fino in fondo, il proprio discorso antimilitarista. Ignora, per esempio, che da una parte del proletariato esiste già un cameratismo che è la coscienza dell'essere oppressi, che nasce negli sfruttati dal comune destino, dal sacrificio della lotta quotidiana per la sopravvivenza.
Un fatto è certo: dal cameratismo di guerra nasce il fascismo.
In Sardegna, i combattenti vengono organizzati in associazioni politiche, con sfumature ideologiche che vanno dal populismo socialistoide al nazionalismo dannunziano. Chi tira le fila della manovra è la borghesia imprenditoriale che, sulle rovine dell'Italia vittoriosa, vuole ristrutturare le sue imprese con i suoi profitti. Gli ufficiali che hanno fatto la guerra (o che affermano di averla fatta) si improvvisano nuova classe dirigente: alcuni indossano ancora la divisa gloriosa, altri fanno mostra dei lustrini al merito sull'abito borghese. C'è posto per tutti: socialisti, nazionalisti, liberali, radicali, cattolici; il cameratismo coagula apparentemente interessi contrastanti, tiene formalmente aggregata la Babilonia dei salvatori della patria, prima in guerra e ora in pace. Ed è sulla base del cameratismo che ciascuna delle varie componenti del "combattentismo" spera di poter strumentalizzare i fedeli fantaccini come massa per il raggiungimento o il consolidamento del potere politico e amministrativo. (Abbiamo visto però che cosa abbiano ritrovato i fantaccini rientrando dal fronte, come abbiano reagito e come poco abbiano creduto alle promesse della giustizia).

«Nell'aprile del 1921 la maggioranza della Federazione Sarda dell'Associazione Nazionale dei Combattenti decideva di dar vita al Partito Sardo d'Azione, aperto anche ai non combattenti che ne accettassero il programma... Quel programma aveva però, a suo tempo e per tutto il periodo che durò il dibattito sul nuovo partito, sollevato molte critiche negli ambienti conservatori e nella stampa locale, nonché fra gli stessi combattenti, alcuni dei quali si erano allontanati o stavano per allontanarsi dalla Federazione. Sicché, quando si riunì ad Oristano, nell'aprile del 1921 l'organizzazione combattentistica era notevolmente minata nella sua unità. Mentre la stragrande maggioranza degli organizzati si adoperava per trasformare le sezioni dei combattenti in sezioni del Partito Sardo d'Azione, gruppi dissidenti costituivano i Fasci di Combattimento, già affermatisi nell'Italia continentale...».(L. Nieddu - Origini del fascismo in Sardegna).

Sardismo e fascismo nascono dunque in Sardegna nello stesso periodo e dalla stessa matrice: dall'Associazione Nazionale dei Combattenti. E la prosa degli uni non si differenzia molto da quella degli altri: basti leggere questo brano dell'avv. L. B. Puggioni padre ideologo del sardismo:
«L'Europa da un anno grondava lacrime e sangue... Anche l'Italia voleva, doveva dare il suo tributo insanguinato, anelando a maggior gloria e potenza per la difesa del diritto e la liberazione dei figli. E l'Italia si ricordò allora della Sardegna, sua figlia fedele. E la Sardegna fu veramente figlia fedele senza restrizioni, la gioventù di Sardegna obbedì pronta dai campi, dalle officine, dalle tanche e dalle scuole; abbandonò le case e le persone care con forte dolore e con virile serenità... Passando dalla casa alla caserma o direttamente alla trincea conoscemmo un fattore a noi ignoto: il senso della responsabilità... comprendemmo e imparammo per forza della nostra passione: imparammo a capire gli uomini e a guidarli... La concezione retorico-sentimentale della vita fu in breve distrutta. Dimenticammo i verginali amori provinciali; i solleticamenti celebrali, le pose accademiche, gli esotismi sentimentali e infantili; anzi, avvenne di più e di meglio: perdemmo la capacità di una simile sensualità. Fu un bagno di vita reale. Fummo sorpresi femminucce, ci ritrovammo maschi. Ci fu meno luce nella vita e più amaro in bocca, ma quanta maggior chiarezza nel cervello!... Con mai provato amore amammo nel pastore e nel contadino di Sardegna il fratello nel sangue e nello spirito. Nel loro dolore e nel nostro, conoscemmo il dolore dell'Isola che imparammo ad amare. Oggi ringraziamo il Comando Supremo dell'Esercito che con le sue crude circolari impose la formazione del nostro leggendario reparto regionale, affrettando la nostra fusione spirituale, maturando nelle più dure prove il nostro sentimento regionale... La vita della Sardegna e dell'Italia è sempre quella che l'intelletto e il cuore dei combattenti hanno segnato... E vinceremo...».

La retorica dannunziana - ripresa da mezze calzette - alimenta insieme il sardismo populista e socialistoide e il fascismo nazionalista e avventuristico. Nei carnai del Carso - sostiene il Puggioni - sarebbero maturati i problemi della Sardegna e sarebbe nata l'idea dell'unità dei Sardi. Sono concetti idioti o perversi, di cui si ha un sintomo illuminante nella frase: «Fummo sorpresi femminucce, ci ritrovammo maschi». Puggioni, che è sardo, dimentica che le rivolte popolari che caratterizzarono il periodo post-bellico nell'Isola videro come protagonisti le "femminucce", molte delle quali pagarono con la galera quando non anche con la vita.
I frutti che ogni generazione ha raccolto dalle stragi di una guerra sono sempre stati frutti velenosi: anche se apparentemente democratici, in essi scorre pur sempre la linfa della violenza.
Il fascismo trova nell'Isola i suoi quadri dirigenti nei padroni delle miniere, nella borghesia indigena compradora, negli intellettuali tirapiedi e nel minutame prezzolato. Nel fenomeno del combattentismo, la classe dirigente pesca nel torbido ricavandone nuove strategie di potere, per quella che oggi viene comunemente detta "svolta autoritaristica a destra". In parole povere si tratta di aggiornare - con le dovute mistificazioni - il sempre vivo disegno di trapiantare le strutture e l'organizzazione del militarismo nella società civile, così come lo si è sperimentato nella guerra vittoriosa: il comando supremo (capitalismo); l'ufficialeria come potere esecutivo (la borghesia-funzionari di Stato); i fantaccini pronti, forti, leali e muti (il popolo dei lavoratori).
Fascisti e sardisti succhiano lo stesso latte: non vanno d'accordo su dettagli dietro cui si nascondono le ambizioni personali. Alla fine prevalgono i fascisti - meglio capitalizzati. E i sardisti, fatte poche eccezioni, per non restare inattivi, vestono la camicia nera. Si rifaranno vivi - come tutti gli esponenti degli altri partiti democratici - dopo la caduta del fascismo.

Fino al 1926 il fascismo vede la Sardegna esclusivamente in funzione di serbatoio di ascari, ingigantendo il mito della fierezza della gente sarda e l'eroismo della Brigata Sassari (fierezza ed eroismo che, di volta in volta, vengono attribuite a qualunque altra regione, suscitando perfino una gerarchia di fierezza e di eroismo tra le diverse comunità - e c'è sempre un mucchio di fessi che finisce per crederci, come alle maggiori doti taumaturgiche del proprio santo). Il ruolo dell'Isola cambia, quando viene varata la campagna delle grandi bonifiche del regime e occorrono territori malsani e spopolati da "redimere" per trapiantarci prolifiche colonie umane, bovine e suine.
La Sardegna è fra le regioni più povere e più spopolate d'Italia, ma è ricca di zone acquitrinose e malariche e di tante qualità da farne una colonia ideale. Qui, Mussolini farà le prove di quella che sarà la grande avventura in Africa Orientale: dal Veneto verranno trapiantate nella pianura di Arborea alcune migliaia di famiglie di coloni - "sardignoli" e "abissini", più avanti finiranno per confondersi nel pregiudizio razzistico diffuso nel Continente, e molti coloni sbarcati in Sardegna sono convinti di trovarsi in Africa.

Mussolini aveva detto testualmente:
«Hanno diritto all'impero i popoli fecondi, quelli che hanno l'orgoglio (intendeva l'uccello, ovvero l'aquila, emblema del potere fascista - nda) e la volontà di propagare la loro razza sulla faccia della terra».

Doveva essere diventato un chiodo fisso, questo dell'orgoglio di moltiplicare, se nei libri di scuola si erudivano all'uopo anche i pupi di terza elementare:
«La potenza non si ottiene con le sole armi; la ricchezza non si può raggiungere con la sola ricchezza dei beni. Che vale avere fucili, cannoni, navi, aeroplani, se non vi sono uomini sufficienti ed atti a farne uso?... Perciò Mussolini VUOLE che la popolazione aumenti sempre, e la VUOLE sana, robusta, temprata alle fatiche. Non c'è nulla che Lo allieti quanto la vista di una famiglia numerosa... di uno stuolo di bambini paffutelli che si baloccano al sole, di una squadra di Balilla intenti ad esercitarsi militarmente... Non c'è bambino, si può dire, col musetto ancora imbrodolato di latte materno che non aspiri ad indossare la camicia nera, ad imbracciare ed adoperare un moschetto. Solo per questa felicità, i bimbi d'Italia vorrebbero poter crescere più presto». (Testo Unico 1940-XVIII° E. F., a cura di A. Petrucci).
Non vi è dubbio che le teorie politiche ispirate al "cameratismo" combattentistico, elaborate dal fascismo ed applicate alla cultura, giocano scherzi come questo anche a quello che dovrebbe essere il più elementare buonsenso. Ed altri, ancora più spassosi.

Sfruttando un progetto di bonifica di cui era stato ideatore il terralbese Felice Porcella, deputato socialista riformista, Mussolini si getta a capofitto nell'opera di redenzione delle fasce paludose che costeggiano il golfo di Oristano. Il mandato pionieristico viene affidato agli stessi capitalisti che hanno le mani in pasta nelle miniere, nelle banche, nella Società Elettrica Sarda, nelle Ferrovie Complementari, nelle industrie alimentari che rapinano i prodotti del lavoro del contadino e del pastore. Lo stato fascista incentiva il capitale con contributi straordinari a fondo perduto (col sistema dei progetti gonfiati, superano il 100% dei costi reali); dal canto loro, i capitalisti fanno fare la bonifica ai braccianti, attingendo a basso costo nel serbatoio dei morti di fame nei villaggi della zona.
Un'impresa faraonica: aprire canali a mare, spianare, livellare - senza mezzi meccanici, con pala e piccone - una superficie vasta venti chilometri per dieci, infestata da ogni specie di insetto ematofago, funestata dalla malaria.
Alla massa dei braccianti sardi viene assicurato che, a bonifica ultimata, saranno essi e le loro famiglie a goderne i benefici; quelle terre redente verranno lottizzate ed assegnate ad essi che le coltiveranno in qualità di mezzadri. Intanto bisogna rimboccarsi le maniche. L'organizzazione del lavoro - come vuole lo spirito della nuova Italia - è di tipo squisitamente militare: le legioni del lavoro, dopo aver sfacchinato per tutta la settimana dall'alba al tramonto, il sabato sera devono diventare quadrate compiendo le prescritte esercitazioni belliche nell'apposito campo della G.I.L., davanti alla tribuna dove siedono i dirigenti in camicia nera e le loro signore in camicia bianca.
A bonifica ultimata, i braccianti sardi vengono licenziati - rimandati a morire di fame nei loro poveri villaggi. A Mussolinia (così viene battezzato il nuovo comune rurale, nel 1929), vengono trapiantate tante famiglie venete, con aggiunta di romagnole, quante ne bastano per creare un allevamento razionale - gente laboriosa sobria religiosa che faccia figli, sì, ma copulando senza compiacimenti plutocratico-borghesi, soprattutto alla svelta, per non distogliere tempo alla terra ed alle bestie, nell'interesse supremo dello stato fascista e dei padroni della bonifica.
Sotto sotto, in Mussolini riaffiorano certi umori del campagnolo anarco-socialista. Non si fida del tutto dei capitalisti della Società Bonifiche Sarde, che gli fanno vedere tutto rosa e gli leccano il culo per ottenere sempre nuovi contributi. Così, oltre alle sue periodiche visite-scampagnata, di cui profitta per portarsi a letto qualche contadinotta nella villa del presidente, pensa di affidare un reportage a un giornalista di provata fede fascista, un certo Stanis Ruinas.
Il Ruinas fa un Viaggio per le città di Mussolini (edito da Bompiani nel 1939), annotando diligentemente tutto ciò che può far felice il Duce. Eccone alcuni stralci:

Siamo nell'Oristanese, tra Capo San Marco e Capo Frasca, già da allora zona militare:
«...Quattro cannoni puntano le bocche verso il mare per la difesa antiaerea. Li vigila un guardiano che alloggia tutto l'anno in una capanna tra queste due solitudini di terra e d'acqua... Ogni tanto il guardiano unge la bocca ai cannoni e la DICAT spara contro aeroplani che volteggiano per le esercitazioni... E' un veneto e il figlio ha sposato una sarda, che si presenta scalza e sorridente. Ecco il primo incontro con un incrocio indigeno-continentale. Pare che questi incroci riescano assai bene...». (pag. 85). Contemporaneamente, il fascismo rurale ha promosso anche l'incrocio di maiali sardi con maiali veneti, per migliorarne il rendimento complessivo: i sardi avevano troppa carne e i veneti troppo lardo.

«Ecco una famiglia di romagnoli di Cesena. Li sorprendiamo, due fratelli con le mogli e sei bambini... Chi fa gli onori della stalla è il più piccolo, un ragazzino di cinque anni con un viso di mela ingambalato fino al ginocchio... Lavorano tutti.... Il più piccolo accompagna fuori le bestie e le guarda, assieme a due altri bimbetti poco più grandi... "Son come tanti figli" - dice una delle due spose accennando alla stalla - "danno dolori e noie come loro (bambini - nda) e anche soddisfazioni...». (pag.67).
«La famiglia dei G» - l'autore sta parlando ancora di famiglie di mezzadri, soppesandone il valore demografico - è relativamente piccola data l'età dei figli...». (Pag.67). Poco prima, l'autore ha precisato, a discapito dell'inquisito, che il mezzadro G. è ultra sessantenne, con sette figli, tutti "piccoli d'anni e di statura".

«Vi sono famiglie che formano colonie da sole. Una veneta, conta 33 membri, 21 bambini sotto i 12 anni... - l'autore si sbrodola, pensando alla gioia di Mussolini! - Una vera nidiata occhicerula e bionda che ci sciama attorno... Col numero dei bimbi è cresciuto in proporzione quello delle bestie. La stalla ne allinea su due fronti una quarantina». (pag.65).

Altra visita ad altra prolifica famiglia:
«Giovani e bimbi, mucche e vitelli formano una famiglia sola legata da vivi interessi ed affetti. Incontro in questa casa il primo vecchio, sopra la settantina. Secco come querciolo, lavora come gli altri...». (pag. 67). E c'è da scommettere che copula pure, come gli altri, per contribuire come meglio può ad ingravidare le femmine dell'allevamento.

Al di sopra dei comuni problemi di allevamento, stanno i condottieri - la schiera degli eletti, gli eroi che compiono gesta prodigiose, che incarnano le virtù più eccelse della razza latina e portano i gradi del comando. Ma gli eroi nonostante tutto sono creature mortali, soggetti alle infezioni microbiche. Si ha il caso di fierissimi condottieri di eserciti che, usciti indenni dal grandinare della mitraglia nemica, arrivati un questa "redenta" zona della Sardegna si beccano il Plasmodium soccombendo alla malaria. Disgraziatamente, gli eroi di Mussolini, che alternano, nella colonizzazione, il comando delle legioni col comando delle masse bracciantili, non conoscevano il DDT. La malaria restava un grosso handicap, peggio dei banditi orgolesi, specialmente lungo la fascia costiera dell'Oristanese: luogo ideale per costruirvi basi militari, poligoni di tiro, batterie costiere.
Durante la seconda guerra mondiale, in Sardegna ne uccise più l'Anopheles che il piombo. «271 tedeschi morirono in Sardegna, sebbene su quest'isola non si sia svolta alcuna battaglia. Essi morirono per la malaria o precipitando dagli aerei in fiamme...», scrive nel 1964 il giornale di Berlino Der Tagespiegel.
Che i tedeschi, e in generale i popoli anglossassoni, fossero particolarmente sensibili agli attacchi degli insetti ematofagi è confermato da molti episodi di cronaca. Ma gli americani conoscono il DDT. Coi sottoprodotti dell'industria petrolchimica possono produrne tanto da sterminare tutte le Anopheles dell'universo. Nel giro di poche settimane, la Fondazione Rockfeller, con vero spirito umanitario, senza chiedere neppure una lira ai popoli sottosviluppati e infestati dall'Anopheles, promuove e realizza nell'area del Mediterraneo la radicale bonifica delle zone colpite dalla malaria - poco conta se il DDT è un tossico tale da distruggere insieme all'Anopheles la fauna microbica necessaria all'equilibrio biologico dell'ambiente. Queste zone sono di rilevante importanza strategica, nel disegno egemonico dell'imperialismo yankee, e sono pertanto destinate a diventare formidabili basi NATO. La Sardegna è la privilegiata tra queste zone.
Nella vasta fascia paludosa, dove Mussolini, portatore di valori combattentistici aveva iniziato la bonifica integrale, insediandovi prolifiche colonie umane, bovine e suine, al fine di produrre carne da cannone e carne da scatolette, la Fondazione Rockefeller debella il millenario morbo della malaria, rendendo asetico l'ambiente, per insediarvi colonie di operatori e tecnici della guerra nucleare. A Capo Frasca, di fronte a Mussolinia, sorge così una delle più efficienti basi militari della NATO.

Cagliari, maggio 1970
Ugo Dessy

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