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CAPITOLO SETTIMO
SA TUVA - LA QUERCIA CAVA


LA QUERCIA SACRA

"La sacra scrittura e la storia antica profana ci dicono che i patriarchi israeliti, cananei, e della maggior parte dei popoli orientali dell'antichità, professavano una grande venerazione per le querce. Rachele fu sotterrata ai piedi d'una quercia chiamata dalla sua nutrice la quercia dei pianti… L'angelo che apparve a Gedeone si sedette su d'una quercia… Del pari su una quercia Giosuè piantò la testimonianza, cioè il suo altare…
Nel citare questi passi di differenti epoche, rilevo che la quercia era venerata fin dall'epoca più remota, come lo fu tra i Druidi e presso le antiche popolazioni scandinave e celtiche della Germania, della Bretagna, dei Galli e degli Erinni. Il rispetto superstizioso dato a quest'albero, considerato giustamente, come il più venerando e il più bello del regno vegetale si è perpetuato in Sardegna fino ai giorni nostri. La quercia non è venerata dai Sardi come una specie di divinità occulta, ma è istintivamente considerata come un essere benefico, un testimone augusto delle più importanti azioni della loro vita, che esercita una influenza misteriosa su tutto ciò che avviene alla sua ombra. Sarei anzi maggiormente nel vero, dicendo che i Sardi si rendono conto del sentimento che provano per la quercia, e in questo, come in tutte le loro usanze nazionali, subiscono unicamente l'influenza delle tradizioni."
(Tratto da Emanuele Domenech - Pastori e Banditi - 1867)


LA GIUSTIZIA ALL'OMBRA DELLA QUERCIA

"Sotto la quercia piantata di faccia alla chiesa o in una piazza del villaggio, i Sardi stipulano i loro contratti, progettano i loro matrimoni, stabiliscono i prezzi della loro mercanzia, discutono i loro interessi e rendono la giustizia alla quale la magistratura non assiste. Una quercia, l'aria aperta, la vista dei campi, delle montagne, e il cielo turchino, valgono pur la sala lugubre d'un tribunale, ornata di figure ridicole o malvagie, degli abiti neri dei giudici, degli stivaloni dei gendarmi, dei banchi sudici, e piena d'una atmosfera nauseante.
Quando si tratta di un delitto capitale, la procedura diventa palpitante d'interesse, per il carattere patriarcale che prende. Nella Gallura, quando un uomo muore di morte improvvisa o violenta, i suoi parenti si riuniscono dopo i funerali per cercare il presunto autore dell'assassinio. Una volta accordatisi per designare il colpevole, scelgono due anziani per giudicarlo. I parenti dell'accusato scelgono anch'essi due anziani, i quali si riuniscono agli altri due per istruire il processo.
Dopo essersi accordati, i quattro giudici eletti stabiliscono un giorno per discutere il processo; intimano quindi alle parti interessate di comparire davanti al tribunale, che si tiene sotto una quercia, al levar del sole. I giudici sono digiuni, e non bevono né mangiano finché la sentenza non sia stata pronunciata.
Aperta l'udienza, i due giudici scelti dal parente del defunto dichiarano all'accusato che egli è sospettato d'essere l'autore dell'assassinio. Il più prossimo parente del morto, si leva quindi e formula la sua dichiarazione con queste parole rivolte all'incolpato:
"Sei tu che l'hai ucciso"
"No" risponde il preteso colpevole.
Dopo questa risposta, le due parti sono allontanate dal tribunale e le sole famiglie discutono davanti ai giudici. Ciascuno parla a sua volta e dà, pro o contro la colpabilità, tutte le ragioni, siano pure le più lontane dall'argomento, che possono favorire il successo della causa. Qualunque sia il sesso o l'età dell'avvocato improvvisato, egli non viene mai interrotto dalla parte avversaria.
Questo patrocinio primitivo e naturale ci mostra che tali liti formerebbero in Francia pessimi deputati; giacché da noi, allorché un oratore dice qualche cosa che non piace ai suoi avversari, tutti l'interrompono e parlano contemporaneamente, da gente che conosce poco i modi civili e onesti. Ma i modi patriarcali non sono ancora penetrati nel Corpo legislativo; non c'è dunque da meravigliarsi se i dibattiti della Camera sono più tumultuosi, e se hanno minor dignità di quelli di cui sono testimoni le querce.
Finita l'istruzione e la discussione del processo, i quattro anziani si consultano, richiamano con un fischio l'accusatore e l'accusato, e pronunziano la sentenza pro o contro la colpabilità.
Nel primo caso, la sentenza dichiara che l'accusato è sospettato di aver commesso l'assassinio o per i suoi malefici causato la morte del defunto, e ch'egli ha venti giorni di libertà durante i quali gli si deve l'acqua e il fuoco.
Durante questi venti giorni, nessuno può fargli male. Egli ha diritto al nutrimento e all'ospitalità anche da parte dei nemici, che non gliela rifiutano mai. Finito questo periodo di tempo, se non ha lasciato il villaggio, può essere sicuro di venir ucciso dal primo parente del morto che lo troverà; perciò approfitta di quello spazio di tempo concessogli per salvarsi nelle montagne e mettersi al riparo dai colpi di quelli che su di lui hanno diritto di vita e di morte per la sentenza del tribunale popolare.
Se la sentenza è favorevole all'accusato, l'accusatore gli stringe subito la mano, e le due parti avverse bevono alla salute dell'uno e dell'altro, e si separano più amiche di prima.
La decisione dei quattro anziani è senza appello; essa è accettata da tutti gli aventi causa con un rispetto religioso, e nessuno cerca di sottrarvisi portando il processo dinanzi ai tribunali regolari."
(Tratto da Emanuele Domenech - Pastori e Banditi - 1867)


IL CULTO DEL FUOCO

Sant'Antoni s'eremitanu, l'eremita, viene più comunemente detto Sant'Antoni de su fogu, del fuoco. Nelle descrizioni e raffigurazioni agiografiche e del culto appare come un vegliardo situato sullo sfondo di un deserto, con accanto un porcellino (per alcuni simboleggiante il diavolo). In altre raffigurazioni vi si aggiungono altri animali indigeni, quali il bue, il cavallo, l'asino, la capra e la pecora. Ai suoi piedi vi è un focherello ardente. Tiene in una mano un bastone di ferula.
Nella credenza religiosa, Antonio l'eremita è insieme il protettore degli animali domestici e il mitico personaggio, che come il Prometeo, carpì il fuoco agli dei per farne dono agli uomini.
Nella mitologia cristiana si racconta di un Antonio abate, detto il Grande, nato in Egitto intorno al 250, il quale all'età di vent'anni se ne andò a vivere nel deserto della Tebàide, dove più tardi lo seguirono diversi altri giovani, desiderosi di far vita romita e ascetica. Per ciò gli si attribuisce il merito di essere il padre fondatore del monachesimo, che contribuì non poco a dar prestigio alla Chiesa usandolo come contraltare alla corruzione dell'alto clero.
Si dice che il santo eremita pagasse a caro prezzo la scelta di un'esistenza solitaria e contemplativa: il Demonio lo perseguitò senza soste, ossessionandolo con terribili tentazioni, per lo più di carattere erotico, con apparizioni di fanciulle tentatrici che mettevano - è il caso di dire - a dura prova la sua virilità repressa.
Nelle leggende cristiane relative a questo santo, non c'è uno specifico legame tra lui e il fuoco, se non nella denominazione di "fuoco di Sant'Antonio" o "fuoco sacro", data all'ergotismo cancrenoso, assai diffuso in Europa tra i contadini. La denominazione "fuoco di sant'Antonio" viene anche usata per indicare diverse malattie infettive della pelle.
In Sardegna, singolarmente, il santo è legato al culto del fuoco, a riti e credenze che si perdono nella notte dei tempi. E' evidente che Antonio l'eremita si sovrappone ad altra ben radicata figura mitica, un Prometeo autoctono: colui che rubò il fuoco agli dei avari e malevoli nei confronti dell'uomo.
Una leggenda di cui si conoscono diverse varianti, tutte assai simili nel contenuto, narra che Sant'Antonio venne in Sardegna in tempi remoti e vide la triste condizione in cui versavano i suoi abitanti: intristiti e decimati dal gelo; costretti a cibarsi di cibi crudi per la mancanza di fuoco. Mosso a compassione, il Santo scese nell'inferno, dove c'era abbondanza di fiamme. Con il pretesto di essere intirizzito dal freddo, riuscì a commuovere i diavoli di guardia che lo lasciarono entrare con il porcellino, affinché si sedesse e si scaldasse accanto al fuoco.
A questo punto, con abile sotterfugio, Antonio riuscì a impossessarsi del fuoco: facendo finta di attizzarlo con la punta del suo bastone di ferula, che, come è noto, contiene un midollo infiammabilissimo.
Ritornato sulla terra il Santo agitò il bastone da cui si levò la fiamma, e con esso accese il focolare dell'uomo. La stessa leggenda afferma che egli, nell'agitare la ferula esclamasse: "Fogu fogu po dogna logu! Linna linna po sa Sardinna!" (Fuoco fuoco in ogni luogo! Legna legna per la Sardegna!) Quindi, chiamati a raccolta contadini e pastori, insegnò loro l'uso del midollo della ferula (sa feurra) come esca per accendere il fuoco in campagna. Il che ancora oggi essi fanno: battendo tra loro due pietre focaie (perda sitzia) mandano le scintille sul midollo di ferula che si incendia.
Nella leggenda originaria, il Prometeo autoctono, sostituito dal cristianesimo con il sant'Antonio, dovette rubare il fuoco agli dei, che nella versione cristiana diventano diavoli. Ciò perché Dio, definito padre buono e misericordioso, non avrebbe negato ai suoi figli un così importante elemento di benessere.
Assai diffuso nell'Isola il culto popolare del Santo donatore del fuoco. Il 17 gennaio si registrano quasi dappertutto cerimonie legate all'antico culto del fuoco. Nel mondo pastorale della montagna ha luogo sa tuva, un rito pagano propiziatorio in cui si brucia una quercia cava, detta appunto sa tuva. Nel mondo contadino della pianura, si accende su fogadoni, il falò, in cui si brucia una ingente quantità di legna.


SA TUVA
LA QUERCIA CAVA

Tuvu è ciò che è cavo. Tuvudu si dice di albero o di radice o di frutto che all'interno siano cavi o spugnosi. Sa tuva sta a indicare la quercia cava, che è tale perché è secolare: sacra regina del bosco sardo, protagonista della cerimonia propiziatrice in uso il 17 gennaio, festa di Sant'Antoni de su fogu. Is tuvas indicano anche le cataste di legna che si ammucchia intorno alla quercia cava, a cui verrà dato fuoco.
Il 16 gennaio, giorno della vigilia, il comitato della festa e quanti altri della comunità vogliono concorrere, si recano con i carri in zona boscosa e tagliano a colpi di scure una quercia secolare, che abbia la particolarità di essere cava ma viva, e viene caricata sul primo carro. Sa tuva non può essere abbattuta con altro strumento che la scure. Dietro il primo carro seguono tutti gli altri carichi di legna: ceppi, frascame, cespugli.
Giunti in paese, sa tuva viene scaricata e posta in piedi al centro del piazzale di chiesa, ornata di fiori ed erbe aromatiche, quali rosmarino, lavanda e timo, e frutti di stagione, specialmente arance. Nella sua cavità è stata sistemata l'esca, cui il prete, dopo averla benedetta darà fuoco. Altrove, ad appiccare il fuoco è il presidente del comitato.
In alcuni paesi, dove evidentemente c'è più abbondanza di bosco, is tuvas, le querce cave, possono essere anche più di una, o tre o cinque. In tali casi, si collocano con la più grande al centro, e tutt'intorno a sa tuva o a is tuvas si raccoglie la legna del falò.
Le fiamme di sa tuva ardono per tutta la notte, e durante tutto questo tempo si svolgono alcune cerimonie rituali collettive: la cena, la sfilata del bestiame, i balli e l'accensione dei focolari domestici.
In casa o nel cortile del priore della festa (o presidente del comitato), tradizionalmente un capo-pastore, viene imbandita già dal tramonto una tavolata stracarica di cibarie, carni arrostiste, verdure crude e frutta, salsicce e prosciutto, con abbondanza di vino. E' un continuo via vai dal luogo della festa a questa imponente tavolata, dove ci si ferma giusto il tempo per rifocillarsi e riprendere posto intorno al falò.
Altro momento di rilievo è la sfilata degli animali da lavoro e da cortile, rappresentati da esemplari di pregio, perché il Santo (o sa tuva?) li preservi dal freddo e dalle pestilenze.
I balli, che si aprono appena dopo il tramonto, durano finché arde il falò: in pratica tutta la notte. In alcuni paesi si fa un ballo particolare, detto su bicchiri, simile alla danza che i sacerdoti fenici facevano davanti al dio Baal.
La mattina del giorno dopo si usa accendere il fuoco di casa utilizzando le braci del falò di Sant'Antonio. Alcuni studiosi di folclore hanno voluto trovare in questo gesto non pochi fantasiosi significati. In verità è verosimile che le donne di casa, almeno per quel giorno, trovino comodo utilizzare per il proprio focolare un fuoco già acceso e di cui c'è abbondanza. Tanto è vero che non poca gente della comunità, come io stesso ho potuto constatare, per maggiore comodità si portava in piazza la carne o il pesce e se li arrostivano alle braci residue dell'imponente falò.
Vorrei aggiungere che è proprio degli intellettuali alienati, avulsi dal concreto, trovare significati reconditi, profondi e ancestrali, nelle consuetudini del popolo, che sono invece semplicemente espressioni di una logica pratica, di esigenze materiali.
La cerimonia di sa tuva, nelle prime sue fasi, del taglio della legna e di preparazione del falò e della accensione, è strettamente riservata ai maschi; mentre successivamente vede la partecipazione anche delle femmine e dei piccoli e diventa sempre più chiaramente una manifestazione orgiastica, una occasione di festa in una giornata del mese più rigido dell'inverno: stare attorno al fuoco per scaldarsi, mangiare, danzare e divertirsi insieme.


SU FOGADONI
IL FALÒ

Riprendendosi l'un l'altro, gli studiosi di folclore sardo associano l'accensione di falò ai
festeggiamenti per Sant'Antonio l'eremita. In verità, il fuoco è strettamente legato a ogni manifestazione di festa collettiva che si tenga all'aperto, specialmente, ma non soltanto, d'inverno. Nelle feste il fuoco è sempre presente nelle sue molteplici utilizzazioni, pratiche e simboliche: sia come residuo di antichi riti del culto del fuoco, simbolo di vita e di metamorfosi; sia pure per scaldare, rallegrare e stimolare gli animi all'intimità, ai balli; sia infine più prosaicamente per cuocere i cibi tradizionali, immancabili in tali occasioni: il porchetto, il capretto o l'agnello, i muggini e le anguille.
Praticamente in tutti i paesi a economica agricola - esclusi alcuni tanto poveri di legna da ardere da non potersi permettere il "lusso" di accendere un falò - il Sant'Antonio e altri santi con il San Sebastiano di Tuìli vengono commemorati con su fogadoni - dove è assente sa tuva, la quercia cava.
Imponente il falò che veniva allestito a Santa Giusta di Oristano, che ci viene descritto da una vecchia testimone.

"In paese su fogadoni si accendeva la sera della vigilia nella piazza della chiesa. Dalla mattina presto partivano tutti quanti a fare legna, chi con un carro, chi con molti carri e chi a piedi, secondo i mezzi che ciascuno possedeva. Era già una grande festa vedere rientrare tutti gli uomini carichi di legna di ogni specie. Maggiormente si usava l'alloro, che serviva anche per abbellire le vie del paese, con i rami a festoni. Ma c'era anche grande quantità di lentischio, leccio, corbezzolo, fronde di ginepro, ceppi di vecchi alberi che venivano lasciati in campagna per l'occasione.
All'imbrunire si dava fuoco alla catasta in un coro di grida di augurio, con la folla messa in cerchio. Quasi subito i giovani formavano dei gruppi che aprivano i balli al suono de is launeddas e de is pipaious. La gente portava carradeddas de binu, carni macellate e pesci e anguille dello stagno, specialmente bidimbua e fillatrota e si mettevano lì ai margini di su fogadoni ad arrostire sulle braci, e tutti mangiavano, cantavano, bevevano e ballavano per tutta la notte…
Il falò era così grande che il suo fuoco durava anche sette otto giorni, e tutto il paese in quei giorni lo usava, sia portandone a casa a bracieri e sia usandolo direttamente sul posto, fin quando ce n'era."

(Testimonianza di Anna C. D. di 85 anni. Santa Giusta 1983)

"Il giorno di Sant'Antonio de su fogu tutto il vicinato era in subbuglio. Si cominciava dalla mattina presto, i ragazzi più grandi andavano al monte a portare fascine di legna e noi più piccoli passavamo di casa in casa a raccogliere legna, noci castagne, fave e ceci da arrostire sulle braci. Tutti contribuivano generosamente.
La legna raccolta veniva ammucchiata al centro dell'incrocio tra due strade: prima la legna grossa, i ceppi e le radici; poi tutto attorno le fascine di lentischio, di corbezzolo e per ultime quelle di cisto. A un lato della strada, sopra un tavolo venivano disposte le corbule di giunco con le noci, le castagne e i legumi da arrostire.
Subito dopo pranzo ci si riuniva tutti in cerchio intorno al mucchio di legna; i grandi venivano e si complimentavano con noi per la quantità di legna raccolta, pronosticando il tempo della sua durata.
Devo dire che nel mio paese, che è grande, si faceva un falò per ogni rione. L'usanza era stata però abbandonata dai grandi e la mantenevamo viva noi giovani e ragazzi. Questo fino agli anni Cinquanta.
Nel pomeriggio davamo fuoco alla legna, appiccando le fiamme in vari punti in modo da avere di colpo una grande vampata. Il cerchio dei presenti si allargava contemporaneamente al diffondersi del calore del rogo, tra le grida festose dei piccoli e l'approvazione dei grandi.
Finita la fiammata delle fascine, lentamente bruciavano i ceppi, e noi iniziavamo a raccogliere le braci ai margini per arrostire le castagne, le fave, i ceci. La gente, portati gli scanni e gli sgabelli da casa, si sedevano al caldo tutto attorno. Alcuni gruppi di giovani attaccavano a cantare; altri restavano a chiacchierare fino a notte tarda. Vi erano anche donne che, sul tardi, venivano con i bracieri e se li riportavano a casa pieni di fuoco.
Ricordo che era considerato sacrilegio spegnere quel fuoco: doveva essere lasciato a consumarsi da solo. A pensarci bene, non solo questo fuoco era considerato sacro, ma ogni fuoco in genere, che non veniva mai spento nelle nostre case. Mia nonna prima ancora di insegnarci ad accendere il fuoco, ci insegnò a ricoprire con cura i resti del fuoco della sera, affinché li ritrovassimo vivi l'indomani mattina, e rinnovare la fiamma aggiungendo nuova legna."
(Testimonianza di L. M. di 35 anni - Guspini 1980)

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