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CAPITOLO NONO

IS HOMINIS DE MEXINA
I GUARITORI

Presentazione

Sotto questo titolo ho raccolto alcune tra le più comuni e note attività medicali, terapeutiche, esorcizzanti presenti nelle nostre comunità, con il compito specifico di sovrintendere alla salute fisica e all’equilibrio psichico della gente.
La scienza medica moderna, (che pure ha fatto passi da gigante nello sviluppo della ricerca, nella diagnostica e nella terapia, specie chirurgica) “asservita al potere e snaturata da questo legame corruttore”, ha perso agli occhi della gente, in particolar modo sul piano dell’assistenza, molta parte della sua credibilità; e anche per questo, si verifica oggi un ritorno ad antiche formule magiche e insieme scientifiche, certamente più vicine alla natura umana e alle sue esigenze di equilibrio. Un ritorno e contemporaneamente, una ricerca di valori persi, della fede in primo luogo, che è principalmente fiducia in se stessi, nelle forze positive, benefiche del taumaturgo e della natura che ha in sé, quando sia autentica e non artefatta, ogni possibile rimedio per ogni “umano” malessere.
Is hominis de mexina, gli operatori della medicina, ancora presenti nei nostri villaggi, appartengono quasi sempre ai ceti contadini poveri e a quella età che si potrebbe definire del pensionato - con le debite eccezioni, soprattutto per coloro che appartengono al sesso femminile, dove si riscontrano guaritrici anche giovani.
In rapporto allo stato civile, nei maschi prevalgono nettamente i celibi, che mostrano spiccate vocazioni sacerdotali, con una visione mistica della realtà.
Nelle femmine, nubili e coniugate si equivalgono numericamente, predominano le vedove. A seconda dello stato civile di appartenenza si rivelano differenze nei diversi settori di intervento. In rapporto al sesso vi è una notevole prevalenza delle donne. Ciò credo che sia dovuto anche al ruolo sociale che esse hanno nella comunità, di minore responsabilità nella produzione, e di conservatrici e diffonditrici dei valori tradizionali.
I guaritori e le guaritrici non vengono mai nominati dalla loro gente con gli epiteti che abbondano nel linguaggio popolare, quali bruxu per indovino, stria per strega, mazina, per fattucchiera, spiridada, per invasata, oghiadori per iettatore; ma vengono chiamati con il loro nome e cognome, cui sempre si premette ziu o zia in segno di rispetto; talvolta viene usato anche l’appellativo di homini santu o femina santa.
Pur essendo tutti, ciascuno nel proprio settore, considerati guaritori (secondo il principio che le malattie sono originate da spiriti o essenze cattivi), colui o colei che ha la capacità (o, come si dice, sa forza) di guarire comandando agli spiriti maligni, così pure essi possono ammalare, comandando gli stessi spiriti a intervenire. In poche parole: chi ha il potere di sciogliere ha anche quello di legare; pertanto chi pratica la magia bianca può anche usare la magia nera.
Tali operatori, secondo la credenza popolare, sono dotati di poteri sovrannaturali, per concessione di Dio o del Diavolo, su intercessione di santi o di diavoli minori, pur essendo all’apparenza persone comuni. Una delle caratteristiche che viene loro attribuita è quella di possedere una particolare “energia fluidica”, positiva o negativa, che essi possono comunicare anche a distanza, ma che da essi si sprigiona con maggior efficacia attraverso i sensi della vista e del tatto. Da qui l’usanza di far toccare da chi ha fama di essere oghiadori, iettatore, la persona o l’animale che siano stati involontariamente guardati e ammaliati. Da qui anche deriva la tecnica terapeutica della imposizione delle mani, la pranoterapia, che è pratica assai diffusa riservata specialmente ai guaritori che possiedono un particolare fascino magnetico, chiamato umbra de caloru, che si potrebbe tradurre con “fascino di serpente”.
E’ propria del sacerdote l’imposizione della mano in segno di benedire, conferire un crisma, liberare o preservare dal male: un gesto rituale comune tra i “potenti”.


S’HOMINI SANTU
IL GUARITORE

Nelle comunità dei Campidani, per indicare un guaritore che cura con arti magico-religiose non si usano mai i termini bruxu o mazina, indovino o fattucchiera, che operano con le arti demoniache della magia nera, sia nel divinare che nel legare o nello sciogliere mediante fatture e controfatture (mazinas e contramazinas), ma viene generalmente chiamato con rispetto homini santu.
La medicina, che nasce come magia, rimane ancora oggi correlata alla religione. Il “sovrannaturale” regge e governa il “naturale”, mentre questo evidenzia e concretizza quello. Medicina e religione traggono la loro sostanza dalla magia. Cosicché il sacerdote e il medico sono praticamente due guaritori. Uno cura il corpo e l’altro l’anima; e così come i confini tra la sfera del fisico e dello psichico si confondono, così pure tendono a confondersi le competenze dei due guaritori, sacerdote e medico.
Gli strumenti dell’attività terapeutica da essi svolta sono principalmente l’acqua e i numerosi riti ad essa correlati (aqua licornia, aqua abrebada, aqua patena, aqua santa), quindi gli amuleti e i talismani (pinnadeddus, sabegias, pungas, scriptus, ecc.) e ancora s’affumentu, il suffumigio magico.
Nelle antiche credenze popolari si riteneva che le malattie, il malessere, provenissero da spiriti cattivi e la salute, il benessere, da spiriti buoni. Ne consegue che medici e guaritori avrebbero la capacità di comunicare con gli spiriti, conoscerebbero l’arte di dominarli o di convincerli con la forza o con l’intelligenza ad intervenire per raggiungere i loro scopi.
E’ da tenere presente che chi possiede l’arte di “guarire” possiede pure quella di “ammalare”; perciò medici e guaritori da un lato sono ricercati e apprezzati, ma da un altro lato sono temuti.


SA BRUXA
LA FATTUCCHIERA

Is bruxas, le fattucchiere, rientrano anch’esse nel novero delle attività magico-terapeutiche, poiché in definitiva si occupano di risolvere problemi inerenti la salute fisica o psichica che possono affliggere i componenti della comunità. Lo scopo ultimo di ogni attività è l’armonia generale, il benessere di tutti e di ciascuno. Pertanto vanno sanati tutti questi squilibri, anche del singolo, che si riflettono negativamente sulla comunità, con interventi che potrebbero persino sembrare punitivi e dannosi come le fatture.
Il termine bruxa (bruxu al maschile) può sostituirsi con quello di mazina (senza maschile); mentre i riti che esse compiono si chiamano bruxerias o mazinas, che sono appunto sinonimi di fatture (ligamentus) e di controfatture (sciollimentus).
Bruxas e mazinas sono quindi propriamente fattucchiere. La loro attività consiste nell’aiutare chi, nell’amore o nell’odio, ha un problema che non riesce a risolvere da solo e ha bisogno di ricorrere alle arti magiche. Per esempio un innamorato tradito che vuole vendicarsi. Ci sono numerosissime fatture (ligamentus): per dare o togliere vigore sessuale; per ammalare o guarire; po cugurrai, neologismo per iellare; e così via.


SA COGA
L’INDOVINA

Il termine coga (cogu al maschile) indica comunemente colei che indovina. Chiunque, in un dato momento può essere cogu o coga, può indovinare alcunché in virtù di un sogno o di una celeste rivelazione o semplicemente per una propria ignota virtù.
Ma coga è ritenuta veramente colei che mostri di possedere in modo cospicuo la virtù di indovinare; per cui a lei si rivolge chi nella comunità è assillato da un dubbio e vuole avere una certezza. Parenti e amici lontani dei quali non si ha notizia da tempo e si vuol sapere che fine hanno fatto. Innamorati che ardono dal desiderio di sapere se il loro sentimento è corrisposto. Spose che desiderano sapere se avranno dei figli e quanti, o se il parto sarà felice o se il nascituro sarà maschio. Animali pregiati o oggetti preziosi, smarriti o rubati, per i quali si vuole sciogliere il dubbio su quella che è la loro sorte. A tutti questi interrogativi e a ogni altro sa coga (o su cogu) sa dare una risposta restituendo pace e serenità a un’anima in pena.


SU SCONGIURADORI
L’ESORCISTA

La cronaca giornalistica registra negli Anni 70 le vicende boccaccesche di un sacerdote esorcista, il quale si spostava periodicamente nei paesi della sua zona per operare guarigioni. Si era specializzato in vergini isteriche - quei soggetti cui allo sfogo dei tradizionali brufoletti si aggiungeva irrequietezza psichica, sfociante in crisi mistiche. Ma dato che il nostro prete prediligeva compagnie particolari, egli curava soltanto le fanciulle invasate che avessero fratelli piacenti.
Nell’agiografia del sant’uomo, si narra che egli sia stato chiamato in un certo paese per un caso urgente. Una diciassettenne veniva perseguitata da un demonio concupiscente che non le dava requie. Durante la notte, il demone aveva la sfacciataggine di trasformarsi in un marcantonio e di infilarsi sotto le sue lenzuola. La poveretta doveva soggiacere contro voglia alle turpitudini del demone, e questo la prostrava tanto da toglierle ogni forza per accudire durante il giorno alle faccende domestiche. Un fenomeno che, oltre ad essere immorale, era negativo per l’economia familiare.
Il sacerdote - si narra ancora - giunse nel tardo pomeriggio, accolto con tutti gli onori dalla famiglia. Egli si accinse subito all’opera visitando uno per uno i componenti. A esame effettuato, disse: «Qui, miei cari, il demonio non ha invasato il corpo della ragazza, ma del suo fratello. E’ lui che bisogna esorcizzare. Sarà una faccenda difficile e lunga. Ma con l’aiuto del Signore e dei Santi Apostoli Pietro e Paolo ce la faremo. Intanto lasciatemi solo con il ragazzo, prevedo una storia lunga, in camera sua, non prima di averla fornita delle cibarie occorrenti, dato che il mio compito potrebbe prolungarsi per diversi giorni».
Così fu fatto. Per cinque lunghi giorni il guaritore lottò contro il demone lascivo che si era impadronito del contadinotto, e alla fine riuscì a sfiancarlo. Di quanto dura dovette essere la tenzone ne faceva testimonianza il volto sofferto del sacerdote, dagli occhi fondi cerchiati. Il ragazzo appariva completamente vuotato e ripulito da ogni demoniaca possessione. E per un mese buono la fanciulla dormì sogni tranquilli.
Il demone concupiscente - si narra infine - riprese a molestare la fanciulla allo scadere del mese. Nuova chiamata al celebre guaritore. Nuovo esorcismo e nuova severa punizione al demone del ragazzo.


S’HOMINI DE SU CONTRAVELENU
L’UOMO DELL’ANTIDOTO

Il contadino M. possiede alcuni ettari di terra da grano, cavallo e carretta. Abita una casupola di mattoni crudi in una stradetta buia e fangosa di periferia - appena prima di uno dei tanti letamai pubblici che circondano l’abitato di questo paese dell’Oristanese. L’uomo è piccolo, mingherlino, con occhi grigi a spillo in un viso furbo. Siede davanti al camino acceso, in compagnia delle due sue figliole, approssimativamente di sedici e vent’anni. E’ vedovo da alcuni anni e, avendo due figlie femmine che badano alla casa e a lui , non si è risposato.
M. cura con su contravelenu, l’antidoto, le punture o i morsi di animali velenosi o ritenuti tali dalla credenza popolare. Su contravelenu consiste in un sacchetto di pelle, simile a certi scapolari che contengono reliquie di santi o scritti magici di antico uso per preservare dai malanni o dalle palle dei carabinieri. Nel caso di su contravelenu, il sacchetto contiene resti di insetti e di rettili mummificati. Il guaritore lo tiene appeso al collo e non lo lascia mai: specialmente in campagna qualcuno può averne urgente bisogno.
Dice: «Io l’ho conosciuto da mio padre. Da quando lui è morto vengono da me a cercarlo. Chiunque può farlo e può usarlo, purché ne abbia sa voluntadi, la volontà. Si deve preparare in tempo di luna giusta, quando sta per finire. Si va in campagna e si cerca e si prende una testa di vipera, de rana pabeddosa, di rospo, una testa de pistilloni, di geco, e una pettapudiga, una blatta... Unu de cussus zerpius nieddus chi tenint fragu malu, uno di quegli animaletti neri che hanno brutto odore. Poi si lasciano seccare queste teste con la lingua fuori e si chiudono nel sacchetto. Qualunque animale velenoso che faccia male ad anima bia, (anima viva, nel linguaggio comune significa persona vivente e si contrappone a anima morta, l’anima del defunto - per lo più dannato - che vaga sulla terra - ndA), questa viene guarita mediante su contravelenu. Si impone strofinandolo per tre volte in segno di croce, prima sulla terra e poi nella mano o nella faccia o in qualunque altra parte del corpo dove abbia morso l’animale velenoso. Se ci viene molta gente? Altro che, se ne vengono! Io non lo nego a nessuno...»


S’OGHIADORI
LO IETTATORE

Il dare malocchio, su liai ogu, più che una attività potrebbe definirsi una attitudine: una capacità extrasensoriale come quella del telepate che comunica con la mente.
S’oghiadori, lo iettatore, è colui il quale, anche inconsapevolmente, produce danni alle persone, agli animali o alle cose che sono cadute sotto il suo sguardo.
Come in tutti i mestieri - ma qui in modo molto più marcato - le capacità professionali ci sono veramente se gli altri le riconoscono. Non si può essere un eccellente oghiadori se la gente della comunità non crede nelle sue capacità di “porta-sfiga” e non si premura, la stessa gente, di “passare parola”, riferendo sui molti e significativi casi in cui si è manifestata potente la malia.
“La Patente” del Pirandello è la storia di uno iettatore che si batte per ottenere, da parte delle autorità costituite, il riconoscimento ufficiale a esercitare la professione. Con tutti i benefici economici e sociali che da questa derivano. Un riconoscimento da riproporre in non pochi casi di oghiadoris, in alcun nostre comunità.


SA SPIRIDADA
L’INDEMONIATA

Is ispiridadas, le invasate da spiriti, costituivano una categoria influente nel campo della medicina popolare, dato anche il loro numero limitato. Esse avevano la funzione di svelare le cause di mali oscuri per lo più causati da fatture, mali che i comuni guaritori non erano riusciti a risolvere. Ma assai più spesso le consultazioni a is ispiridadas, che possiamo definire di tipo oracolare, avevano lo scopo di conoscere trame esistenziali segrete, amori corrisposti o non, esiti di viaggi o di investimenti patrimoniali, nonché notizie su oggetti di valore smarriti o rubati o su persone care lontane o scomparse. Specialmente predizioni sul futuro.
La funzione e l’attività delle spiridadas in Sardegna ricorda quelle delle famose sacerdotesse del dio Apollo, quali la Pitia di Delphi o la Sibilla di Cuma. Pur senza eguagliare la fama degli oracoli greci e romani dell’antichità, in tempi moderni, in Sardegna, operava sa spiridada de Masuddas, la divinatrice di Masullas. Ancora qualche decennio fa, i supplici, con i loro cestini colmi di regalie, facevano la fila per sentire l’oracolo.
Come è noto, nell’antichità, un sistema di consultazione oracolare era quello della incubazione (incubatio sacra), consistente nella pratica di stendersi a dormire e attendere la risposta della divinità mediante il sogno. Sa spiridada de Masuddas, dal canto suo, usava rispondere ai postulati mettendosi a letto a dormire, e nel sonno parlavano per bocca sua gli spiriti che aveva in corpo, rispondendo alle domande dei questuanti.
Sempre in tempi recenti, era nota anche una spiridada, una divinatrice, che operava nella città di Oristano.


S’IMBODDICCHERI
IL TRUFFATORE

«Un volantino - che circola insieme ad altri illustranti l’attuale difficile congiuntura economica, le benevolenze della Dante Alighieri, l’efficacia del vaccino Sabin - avverte che «Dopo un lungo giro in Italia, si è stabilito con successo a Marrubiu il “fenomeno”, il più grande sapiente Cavaliere dell’Accademia di San Giorgio di Antiochia, direttore generale dell’Accademia dell’Alta Cultura... studioso di Scienze Occulte e Psicologia Applicata; Apostolo dello spirito, premiato con Medaglia d’Oro per Alti Meriti Scientifici.»
Il “fenomeno” si è stabilito a Marrubiu per mettere a disposizione di tutti la sua “Scienza Occulta” e la sua “Psicologia Applicata”, in cambio di sole cinquecento lire a seduta.
Quali problemi e quali drammi sia in grado di risolvere e di appianare, si apprende leggendo il manifesto: «Spiega scientificamente qualsiasi notizia di parenti vicini e lontani, matrimoni, affari di commercio. Dà tutte le spiegazioni del vostro passato, presente e futuro, malattie, prigionieri, ecc.. Vi spiegherà quale dovrà essere il compagno della vostra vita per evitare vedovanze o separazioni, vi dirà quali sono i mesi propizi per non sbagliare i vostri affari; quale sia il vostro destino nella vita terrena, l’anno propizio per i vostri studi, se sarete promossi. Anche senza essere presente la persona, spiega il suo destino e i mali che lo affliggono.»
Non c’è poi troppo da meravigliarsi di tanta capacità divinatoria in un “Direttore” sia pure “Regionale” dell’Accademia dell’Alta Cultura, eccetera eccetera. La meraviglia è che costui, il “fenomeno”, sia regolarmente autorizzato dalla Questura. Questa “regolare” autorizzazione può significare soltanto due cose: o che alla Questura si autorizzano le truffe organizzate ai danni della gente sprovveduta; oppure che nello stesso luogo si crede, come può credere l’ultima delle pinzochere, alle fenomenali capacità del «Direttore Regionale dell’Accademia dell’Alta Cultura».159


S’ACCONCIAOSSUS
L’AGGIUSTAOSSA

S’acconciaossus, letteralmente l’aggiustaossa, era un’attività terapeutica specialistica, quasi esclusivamente praticata dalle donne, assai diffusa nelle nostre comunità, il cui scopo era quello di guarire lussazioni, distorsioni, slogature e anche fratture semplici. Attività medicale oggi di competenza dell’ortopedico.
Is accoanciaossus erano principalmente donne di mezza età, che mostravano una grande conoscenza del corpo umano, in quanto capaci di riportare allo stato normale ogni distorsione o slogatura. E ciò che più stupisce è che alla loro abilità terapeutica aggiungevano una sensibilità e levità nelle mani tali da non provocare quei dolori lancinanti che solitamente si provano quando si rimette in sesto un’articolazione.
S’acconciaossus in realtà era una antesignana dell’attuale fisioterapista, con le capacità del traumatologo e dell’ortopedico. Un sistema molto usato per ottenere una leggera ingessatura intorno all’articolazione di un malleolo, appena riassestato, era quello di spalmare abbondantemente la pelle con una emulsione di albume d’uovo ricoperto di stoppa di lino a sua volta fasciata stretta da una benda di cotone. Asciugandosi, l’albume diventava una crosta che immobilizzava piede e caviglia, una sorta di ingessatura.
Sempre, nell’acconciaossus, vi era la conoscenza della fitoterapia e veniva spesso richiesta dalla gente la sua opera medicale sui centomila malanni che affliggono l’umanità, che lei curava con decotti e impiastri di erbe. Trovavano così rimedio le orticarie e le stipsi, le anemie e le ipertensioni, le emorroidi e i raffreddori, le impotenze e le febbri.
Per quel che riguardava i disturbi provocati da malocchi o fatture, come gli spaventi, il mal di testa, l’anoressia e le artrosi, anche gravi, ci si rivolgeva a una categoria di guaritori del settore magico.


SU FRABOTU
IL FLEBOTOMO

“Fino all’inizio del secolo scorso, al tempo del re Carlo Felice, i malati venivano curati dal flebotomo, che era un praticone, senza studi, abilitato per far salassi, enteroclismi, cavare denti, preparare e frizionare unguenti, preparare decotti o suffumigi, applicare cataplasmi, sparadrappi e vescicanti, estirpare calli, eccetera. Era un’arte quasi sempre ereditaria, come dice il proverbio: «Figlio di gatto acchiappa topi». Era sempre accoppiato all’arte del barbiere e, all’occorrenza, alla funzione del paraninfo.
Quando poi venne fondata “l’Università degli Studi grandi” e vennero fuori i dottori in medicina, laureati, il flebotomo venne detronizzato, umiliato e ridotto a far da tirapiede (assistente, infermiere, esecutore di ordini) al “dottore” e non poteva fare quasi più nulla di testa propria.
Anche allora, il malato che non riusciva a campare... moriva!

Il flebotomo, a causa della sua arte, era di carattere gioviale, scherzoso, ma rispettoso e complimentoso, confidenziale, faceva coraggio al malato, narrando raccontini allegri, del tipo dei contus de forredda160 di buona memoria, e si portava bene con tutti, affabile, con abbondanti saluti, allegro, cordiale, sempre beneaugurando salute...
Per la sua opera, il flebotomo veniva compensato con un salario posticipato, all’epoca del raccolto, cun su nuzzu161 in natura, in grano o in vino, e con regalie occasionali, gli extra per prestazioni d’opera straordinarie, doni sempre graditi, desiderati, attesi...
Il flebotomo si portava bene con tutte le famiglie benestanti, che lo tenevano in grande considerazione e lo chiamavano con maggior frequenza, anche per cosette di poco conto e a volte soltanto per conoscere le novità. Egli si prestava, in caso di bisogna, ad andare fin nelle ore più tarde della notte, sempre pronto, volenteroso, per prestare la sua opera indispensabile, prodigiosa, umanitaria... Deus si ddu paghit! - Dio gliene renda merito!
Ci furono flebotomi rimasti famosi per la loro straordinaria abilità dimostrata, che il popolo ricorda ancora quasi con un senso di venerazione e rispetto.
Il flebotomo del paese - Signò Sperandiu Trattagasu - viene chiamato d’urgenza dalla testa più grossa - il sindaco, Bissenti Luisu Marrangoni - per una piccola indisposizione allo stomaco. Il flebotomo corre premuroso, con gli attrezzi del mestiere, per prestare la sua opera. Era un giorno di festa - il primo dell’anno - quindi un giorno di auguri di precetto e di... invito a bere.
Il flebotomo capisce subito qual è la causa del malessere e provvede di conseguenza. Prepara il clistere a pompa, da mezzo litro, con acqua tiepida e sapone ben sciolto, e quando il malato è messo nella giusta posizione, Signò Sperandiu Trattagasu, con le maniche della camicia rimboccate e con tutto rispetto, gli infila su stricaoru, la cannula, accompagnando l’operazione sanitaria con l’augurio di prammatica, solenne e fervido, in lingua forestiera: «E con questo, Signò Sindico, gli auguro Buon Capo d’Anno!»
Come si può facilmente comprendere, non si poteva trovare momento più indovinato per infilare l’augurio tradizionale; tanto più che si trattava di complimento ricambiato da pari a pari, vale a dire tra la prima Autorità del paese e il primo Guaritore, ossia, come si diceva a quei tempi: «Tra noi graduati...!!!»”.162


SA SRANGADORA
LA SALASSATRICE

Sa srangadora, alla lettera la salassatrice,163 è una meiga, una medichessa, che alla bisogna salassa un paziente per scopi terapeutici, secondo una moda assai diffusa nel passato anche recente.
Sa srangadora - versione femminile del flebotomo, il cerusico-barbiere-tuttofare - operava il salasso con l’applicazione di un certo numero di sanguineras, sanguisughe, in certe parti del corpo.
Is sanguineras, che vivono nell’acqua, si trovavano facilmente anche negli abbeveratoi all’uscita o all’ingresso del paese, dove si dissetavano gli animali da lavoro, o da allevamento, buoi, cavalli o pecore. Per prenderle era sufficiente immergere i piedi nei vasconi e attendere che vi si attaccassero.
Dopo adempiuto il loro compito sul paziente da salassare, is sanguineras, le sanguisughe, venivano staccate e messe nella cenere per essere vuotate dal sangue.
A causa della presenza di questi animali si raccomandava sempre di non bere acqua dai fossati “a boixeddu”, chinandosi a bere come gli animali, ma raccogliendo l’acqua in una pala concava di ficodindia debitamente ripulita dalle spine, oppure più semplicemente nel cavo della mano.


SU MEIGU E SU MEIGADORI
IL MEDICO E IL GUARITORE

Su meigu è il medico in senso generico, colui che cura le malattie, e indica non tanto su dottori, colui che ha il titolo e l’autorizzazione da parte delle autorità costituite a esercitare l’attività, ma specialmente il medico del popolo, colui che avendo la fiducia della gente cura diversi disturbi che, tra l’altro, non rientrano tra le malattie previste nella medicina ufficiale… Meigu e meiga sono pertanto i guaritori e le guaritrici, i cosiddetti hominis o feminas de mexina, hominis sanctus o feminas sanctas, esperti in arti magico-terapeutiche che operano al di fuori della ufficialità, ma che hanno un grande seguito nelle comunità in cui operano - a dimostrazione che assai spesso la terapia non strettamente legata alla fede (e fiducia) del malato nel terapeuta, nella terapia e nella guarigione non sortisce alcun effetto positivo, mentre sprigiona i suoi effetti negativi, i cosiddetti “effetti collaterali”, che sono molto spesso prodotti chimici venefici per l’organismo umano.


SU DOTTORI
IL MEDICO

Su dottori est su meigu de su Comunu, a disposizioni de totu sa Comunidadi, chi hiat a deppiri curai sa genti sene dinai, il dottore è il medico del Comune, a disposizione di tutta la Comunità, che dovrebbe curare la gente gratuitamente. Dipende dall’ufficio del medico provinciale che attribuisce nomine e incarichi nei diversi comuni, o consorzi di piccoli comuni, all’interno della propria giurisdizione. Viene detto medico condotto e ufficiale sanitario.


SU POTECARIU
IL FARMACISTA

Su potecariu, è il farmacista, l'esperto in farmacopea, colui che gestisce sa potecaria, la farmacia, ovvero il laboratorio dove si preparano (e si vendono) i farmaci su indicazione scritta de su dottori, del medico condotto o ufficiale sanitario, il quale ha il titolo ed è autorizzato a fare la diagnosi della malattia e a prescrivere la terapia che egli, in “scienza e coscienza”, ritiene valida - se la terapia non risultasse valida e il malato dovesse defungere, il medico non porta pena: ci mancherebbe altro!
In passato su potecariu, il farmacista, era anche detto speziale, poiché nella sua bottega si manipolavano e si vendevano anche le spezie, alle quali si attribuivano proprietà terapeutiche, in specie stimolanti o sedative.
Attualmente, su potecariu, il farmacista, ha quasi esclusivamente il ruolo di rivenditore specializzato di farmaci già confezionati, prodotti dalle industrie farmaceutiche, vere e proprie “multinazionali”, che hanno il monopolio del controllo (della gestione e dello sfruttamento) della salute o meglio delle malattie - che lo stesso sistema di potere contribuisce a produrre, alimentare e diffondere. Per poter curare, appunto. Il monopolio dei farmaci è un business di migliaia di miliardi basato sulla speculazione, sullo sfruttamento delle disgrazie e del dolore in seno all’umanità; bollando così di barbarie e di infamia questa civiltà del denaro, che non conosce valori di fratellanza, pietà, solidarietà, disinteresse: in definitiva incapace di amare.


SU VETERINARIU
IL VETERINARIO

Su veterinariu est su meigu o dottori de is animalis, il veterinario è il medico degli animali, e cura prevalentemente gli animali da lavoro, buoi, cavalli, asini; quelli da cortile, maiali, conigli, galline, tacchini, anatre; da allevamento, pecore, capre. Fino a qualche anno fa il veterinario aveva vita difficile, dato che il pastore o il contadino si rivolgevano a un guaritore per prevenire e curare le malattie degli animali da lavoro, da allevamento e da cortile.


S’ACABADORA
COLEI CHE PRATICA L’EUTANASIA

Il diritto al morir bene

Eutanasia (dal greco èu = bene + thànatos = morte) significa “morir bene”, e, per estensione, “morire dolcemente” o anche “morire a tempo debito”. Nell’antichità, quando la natura non provvedeva a dare al moribondo “una morte rapida e dolce”, oppure non provvedeva a eliminare il vecchio o il nascituro “gravemente impediti” e socialmente inutili con “una morte a tempo debito”, interveniva la comunità, per mano di familiari o parenti o più frequentemente di addetti alla bisogna. Nel primo caso si configurava una “eutanasia agonica”, nel secondo una “eutanasia eugenica”.
Il Pettazzoni, in “Revue d’ethnographie et de sociologie”,164 scrive: «Sappiamo che presso i Sardi i vecchi che avevano oltrepassato i settanta erano sacrificati a Kronos dai loro stessi figli, i quali armati di verghe e di bastoni, a forza di percosse spingendoli sull’orlo di fosse profonde come baratri, barbaramente li uccidevano; e la crudele operazione accompagnavano con risa inumane».
Nel brano citato, il Pettazzoni dà così notizia dell’uso della “eutanasia eugenica” praticata in Sardegna in periodo precristiano. Il fenomeno non ha nulla di eccezionale. Ciò che appare frutto di fantasia, non disgiunto da “animus” razzistico, è la descrizione di come i vecchi improduttivi e “inutili” venivano soppressi - in modo barbaro e inumano.
E’ noto che l’“eutanasia eugenica” era diffusa nel mondo antico: costituiva una istituzione legale, moralmente lodevole, praticata non solo a Sparta e a Roma (città che avevano il culto della efficienza bellica), e apprezzata non soltanto da Platone: «Coloro che non sono sani di corpo li si lascerà morire». Anche in tempi recenti, tale pratica viene conservata presso popoli definiti “primitivi” - come tra gli Indiani d’America dove gli anziani (che pure avevano goduto di grande prestigio e di privilegi sociali nella loro tarda età), giunti all’estremo limite della loro vita, si lasciano morire d’inedia in solitudine.
Nel mondo definito “civile”, l’”eutanasia eugenica” è scomparsa come istituzione dopo l’avvento del Cristianesimo ed è moralmente riprovata e condannata dalle leggi. Tuttavia, in altre forme, più “scientificamente” barbare e incivili, è ancora diffusa in tutto il mondo. Basti pensare al genocidio degli Ebrei durante la seconda guerra mondiale, dei Palestinesi e altri popoli dell’America e dell’Africa, attualmente. Si vuol dire che contrariamente alle affermazioni di principio, cristiane e umanitarie, nelle società cosiddette “civili” i vecchi vengono spesso abbandonati a se stessi, lasciati a morire d’inedia e in solitudine. Frequenti i casi, riportati nelle cronache dei giornali, di “pensionati” trovati morti nelle loro squallide e deserte abitazioni, senza che nessuno abbia assistito alla loro impietosa morte - neppure per aiutarli pietosamente a “morir bene”.

Ancora sul tema della “eutanasia eugenica” in Sardegna, nell’opinione della gente, la grande differenza quantitativa di bambini handicappati tra il passato e il presente ( e ancora oggi tra la città e i paesi dell’interno) sarebbe dovuta anche al fatto di essersi in parte conservata la pratica della “eutanasia eugenica”. Alcune donne riferiscono, come propria esperienza o per sentito dire, che is levadoras (o maistas de partu), come venivano chiamate le anziane dei nostri villaggi che aiutavano le donne a partorire, quando la creatura che veniva alla luce presentava gravi malformazioni, “la aiutavano a morire” - senza che alcuno, tanto meno la madre, ne venisse informato. In tali pietosi casi, sa maista de partu, l’ostetrica, annunciava che la creatura era nascia morta, nata morta, e rientrava nella casistica de is istrumingius, degli aborti.
Pare che tra i Sardi fosse anche praticata, fino a tempi relativamente recenti, l’“eutanasia agonica”, per evitare al moribondo le sofferenze di una lunga agonia. Il mistero che circonda tale pratica, e quindi la mancanza di notizie precise, è comprensibile: sia perché la pratica era condannata dalle leggi, sia per la discrezione dovuta in un compito di tanta gravosa “pietas”.
Alla questione accennano molti storici. Tra questi padre Vittorio Angius165 nel “Dizionario” del Casalis166: «In qualche luogo della Diocesi cagliaritana - egli scrive - non sono talmente perdute certe superstizioni - che una inumana pietà non sa stimare empie - volte ad abbreviare le agonie di un infelice. Levansi via via dalla stanza croci e simulacri e immagini e viene egli spogliato, quando abbiano, degli scapolari sacri di qualche ordine religioso e delle scatolette che abbiano qualche reliquia. Tanto perché? Perché si crede che esse valgano ad impedire l’anima nella partenza e prolungare le sue sofferenze. Ove poi in breve tempo non estinguasi il loro carissimo, si giunge al rimedio che stimano, per efficacia, supremo: sottopongono e adattano alla di lui cervice il giogo di un aratro o di un carro».
Esauriti i tentativi di ordine magico-religioso (privando il moribondo di ogni sostegno vitale di natura trascendentale), per facilitarne il trapasso entra in scena s’acabadori o s’acabadora: colui o colei che nella comunità aveva il compito di praticare l’“eutanasia agonica”.
Più esplicito è il Domenech167: «Dopo aver curato i malati con tutta la devozione possibile, i Sardi non potevano vedere rassegnati il prolungarsi delle torture dell’agonia e, per farla cessare prima, ricorrevano all’ausilio delle acabadoras (ucciditrici), che finivano gli agonizzanti soffocandoli».
Per indicare le persone addette a facilitare il trapasso ai moribondi si conoscono in lingua sarda due termini: il logudorese accabbadoras168 esclusivamente al femminile plurale, e il campidanese acabadori/a, chiaramente ripreso dallo spagnolo “acabar” = finire, estinguersi, morire.

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