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L'INVASIONE DELLA SARDEGNA


Racconti

FELTRINELLI

I Narratori di Feltrinelli 176

Collana di grandi autori moderni di tutto il mondo / Prima edizione luglio 1970 / Giangiacomo Feltrinelli Editore Milano

 

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Presentazione


Millenni di solitudine e di silenzio hanno pesato sulla Sardegna.
Né la violenza delle armi e dei patiboli dei vari colonizzatori che l’hanno invasa e oppressa nel corso della sua storia hanno rotto questo silenzio e addolcito questa solitudine.
Oggi, la moderna civiltà dei consumi, coi suoi strumenti di comunicazione e di diffusione delle idee, ha spezzato l’antico equilibrio, ha costretto la gente sarda ad uscire dal suo isolamento, a rompere il suo silenzio e a porsi in termini nuovi e drammatici il problema della sopravvivenza: o accettare un ruolo subalterno nel contesto della civiltà capitalistica, quello di area di servizio; oppure il suo inserimento in una realtà storica nuova lottando a fianco di tutti i popoli che si battono per il riscatto civile, per la liberazione dallo sfruttamento del capitalismo.
Testimone e protagonista di questo impegno di riscatto civile, l’autore guarda con ironia feroce al mondo della civiltà dei consumi e ai suoi condizionamenti disumanizzanti - come in Heinz il Metzger o in Il diario di un congressista, o anche in La mia gente dove pure la stessa ironia è rivolta a demistificare certi aspetti del costume isolano, propri di un cattolicesimo coloniale ed estranei alla cultura sarda.
Nel racconto lungo I quattro viandanti, l’autore con estrema semplicità di linguaggio e di concetti, aderendo alla vita dei suoi personaggi, che sono gli umili protagonisti della storia dell’isola, svolge la tesi della necessità per gli oppressi di trovare in se stessi, nella coscienza della loro identità esistenziale di “sub-umani”, e al di fuori di schemi rivoluzionari d’importazione, la via della fratellanza, del riscatto, della libertà.

 



I quattro viandanti


Il minatore si levò per primo, stordito. Volle resistere, aggrappandosi al pulviscolo misto al fumo denso che saliva dalla carcassa; ma una nuova ondata lo investì trascinandolo nel turbinio sempre più in alto.
Uscito dal vortice si fermò, per snebbiarsi. Volse lo sguardo in basso e vide il rogo lontano, piccolo come focherello di sterpi. Ebbe curiosità di sapere che cosa fosse accaduto agli altri.
Il contadino uscì obliquo dalla nuvola di fumo, con il suo cesto sottobraccio. Trasse un fazzoletto e si asciugò gli occhi. Guardò intorno, vide il minatore, e si diresse verso di lui, con una vaga espressione di gioia sul volto.
«Aspettiamo?» chiese.
«E' meglio,» rispose l'altro, «forse facciamo la stessa strada.»
Il pastore e il pescatore arrivarono uno dietro l'altro. Avevano udito la frase, ma i loro occhi erano ancora opachi. Per ciò chiesero:
«E chi dice che facciamo la stessa strada?»
«Guardate,» rispose il minatore, «ce n'è una sola, questa dove ci troviamo.»
Il contadino guardò e vide. «Strano,» mormorò deluso, «credevo ci fossero tre strade…»
Il minatore sorrise. «Ed io invece ero convinto che non ce ne fosse alcuna, dopo…» disse.
«Non bisogna mai credere a ciò che non si vede.» Sentenziò il pastore.
Anche il pescatore pensò di dover dire la sua: «Forse è ancora troppo presto, per sapere…»
Il contadino capì, bilanciò il manico del cestino sul braccio e fece per muoversi. Pensò: E voi, non avete bagaglio?» Guardò e vide che la domanda era inutile. Disse: «Avviamoci. Ho idea che il viaggio sarà lungo.»
«Sapete, è da tanto tempo che desideravo fare un viaggio in compagnia. Ci sembrerà più breve, chiacchierando,» disse il pastore, incamminandosi.
Gli altri lo seguirono sulla strada che si snodava come un serpente grigio sospeso nell'azzurro.

Camminarono senza tempo, fino a sentirsi stanchi. Poi sedettero sull'orlo della strada, con le gambe penzoloni nel vuoto.
«Se c'è una sola strada, vuol dire che siamo tutti uguali.» Pensò e disse uno.
«Non mi pare,» protestò subito il contadino, indicando i compagni, «io sono contadino, ma tu sei pastore... e tu pescatore, si vede… e tu minatore, anche tu, si vede… Non mi pare che siamo uguali.»
Il minatore ripeté: «Se facciamo la stessa strada, vuol dire che siamo uguali. Di fuori sembriamo diversi; di dentro siamo uguali.»
«Dentro, io porto la mia vita. Come è possibile che la mia vita sia uguale alla tua?» Insisté il contadino.
«Non lo so bene; lo credo. Racconta la tua vita, così sapremo.»
«Abbiamo tutto il tempo per sentire e per parlare… Anche io vorrei dire la mia vita.» Intervenne il pastore.
Il pescatore assentì. Fece un cenno di incoraggiamento al contadino. Disse: «Forza, racconta… Peccato, che non abbiamo vino!»
Gli altri sorrisero.

Alle sei del mattino la corriera era partita da Sassari, vuota come al solito, perché i viaggiatori se li trovava strada facendo, nei paesi non attraversati dalla ferrovia.
Ai primi tornanti erano apparsi boschi densi di querce tralucenti nel vermiglio dell'alba. A lato della strada un lieve riflesso rosa sfiorava i cespugli di oleandro già gonfi di foglie e di fiori.
Si era fermata al primo villaggio - casupole di schisto e viottoli acciottolati - per un contadino, un uomo come tutti gli uomini che zappano terra dura.
Il contadino era salito scrutando l'interno. S'era seduto accanto al finestrino, verso l'alba. Aveva sistemato il cestino tra i piedi; aveva appoggiato le mani sulle ginocchia e volto la faccia al paesaggio - lasciandosi cullare dal molle sussultare del sedile, assopendosi al rotolio monotono.
Le montagne aspre si allontanavano sfumando all'orizzonte tra nubi turchine dai riflessi di madreperla. La strada degradava su colline coltivate a vigna. Nelle brevi vallate nereggiavano ulivi, e schiere di tordi vi sfilavano da ponente a levante.
Nei sentieri incassati tra muretti di pietra, lungo i binari di antichi solchi, scorrevano i carri a buoi, traballando ad ogni roccia affiorante, con gli uomini a lato a pungolare o raffrenare il passo delle bestie.
Sopra ogni carro, l'aratro e la bisaccia; nella bisaccia, il pane e la zucca; nella zucca, il vinello aspro di ogni giorno.
Nei viottoli - strisce battute ai margini dei campi - andavano i braccianti con la zappa a spalla. Già popolavano la campagna, diretti in ogni dove, incrociandosi, salutandosi mutamente con un cenno di mano o con un breve levar la faccia da terra - creature aggiogate ad un invisibile giogo.
Poi i colli si erano fatti più distesi, ed erano apparsi i grani, recinti dalle siepi del fico d’india. All'orizzonte si era levato rosso il disco del sole.
Il contadino si era scosso. Era la sua vigna, quasi in cima al colle, con l'ulivo piantato nel mezzo… La sua casa; il tepore della stuoia davanti al camino; il greve respiro dei piccoli addormentati sul letto grande; l'ombra della sua donna accoccolata intenta a scaldare sulle braci il caffè d'orzo. La sua era una delle case intorno alla piazza - muri di fango imbiancati di calce.
Aveva atteso la corriera nella piazza deserta, davanti alla porta della bettola. Si popolava ogni sera di voci, di scalpiccio di scarpe chiodate. Nell'angolo buio della stanza, la botte riempiva di rosso i boccali. Spruzzati di rosso erano il pavimento di cemento e le camicie di cotone. Scioglieva i grumi degli assilli, placava le ansie, addolciva i tumulti. I cieli diventavano azzurri e si popolavano di angeli rosa. I colli si riempivano di messi prodigiose, più alte della spalla dell'uomo, e gli ulivi piegavano i rami, sotto il peso di frutti innumerevoli. Sole e pioggia, brezza e bonaccia si alternavano come strofa e ritornello di un mottetto d'amore. Le aie non bastavano a contenere le montagne di spighe; né cavalli, né buoi, né braccia di fanciulle e di ragazzi bastavano a trebbiare tutto quel grano che scorreva come un fiume giallo; né sacchi, né teli, né coperte bastavano a raccogliere la pioggia di semi; né magazzini, né tettoie, né cortili bastavano al sogno di ogni sera, fra le quattro mura della bettola, in piazza…
Il contadino aveva visto i colli rifarsi aspri e rocciosi. Erano riapparse vigne, col fico accanto alla baracca del guardiano. Gli ulivi diradavano; nelle vallate scorrevano torrenti colmi di ciottoli, di arene, di serpi, di cespi di euforbia.

«Mi chiamo Orrù Gavino, di quarantacinque anni, con moglie e sei figli. Mio padre contadino nullatenente, con sacrificio di molti anni, facendo il salariato fisso, riuscì a farsi la casa. Venuta la Grande Guerra lasciò moglie e un bambino. Fu ardito della Brigata Sassari, con pugnale e bombe a mano, benvoluto dai capi. Visse lungo tempo attendente di ufficiali, tra i quali un cappellano, uno di quei preti un poco onesti che gli incominciò a illuminare il mondo di una luce che lui non conosceva. Allora capì che la guerra era una truffa, e quando ritornò in paese scese in piazza in divisa di ardito per fare giustizia, con pugnale e bombe a mano. In molti lo seguirono, per fare giustizia; e in molti lo seguirono in prigione, perché il picchetto armato aveva circondato e arrestato metà della gente. Dopo un anno ritornò a fare il salariato fisso, fino a quando si procurò l'indipendenza. Il 14 aprile mia madre mi partorì e mi chiamarono Gavino in onore del santo patrono. Venuto all'età di sei anni cominciai ad andare a scuola. Di carattere espansivo e sorridente, mio padre mi amava sempre di più per simpatia che gli rassomigliavo in tutto. Quando non si faceva scuola, il giovedì e la domenica, andavo in campagna a pascolare le due capre. Completate le scuole, le capre divennero quattro. Nel 1933 col solo latte si guadagnava lire quindici al giorno. La serietà in famiglia era di lavorare tutti per una sola cassa. Quando mancavano i soldi in tasca portavo fasci di legna. Scherzando mi chiamavano "fascista", ma pagavano tre soldi il fascio e mi ricordo che il defunto padre diceva: "se lavoriamo tutti insieme ingrandiremo la casa." Il 1937 venne il riselciamento di alcune strade del paese e non volli più pascolare le capre. Ancora non avevo compiuto il sedicesimo anno quando andai a domandare all'impresa se mi occupava a disselciare. Difatti mi fecero il libretto di lavoro che conservo col numero tre. Altro che andare in campagna a pascolare, con una paga sicura… La sera mi dilettavo leggendo romanzi, Tristano e Isotta e i Cavalieri della Tavola Rotonda… A diciassette anni domandai a mia madre se potevo andare a scuola di musica. Lei mi rispose: "Perché non vai da don Luca che suona l'armonium in chiesa?" Era la musica che desideravo imparare, in quel momento… Dopo quindici giorni sapevo tutta la teoria, e in sei mesi ero secondo clarino. Una vita piena di sacrificio ma bella. Si camminava ogni domenica a piedi con la banda, da un paese all'altro, e tutta la settimana a lavorare. Un giorno che non dimenticherò mai fu quel 7 di dicembre del 1939. L'acqua si portò via il grano e insieme la terra. Tutta la gente correva, con le case allagate… Poi, il 1940, avevamo trebbiato paglia, nelle aie. Lo stesso anno mio fratello partì richiamato alle armi, e dovetti abbracciare la croce di tutto il lavoro dei campi. In novembre chiamarono anche me a fare la guerra… Una cosa mi ha sempre salvato: l'ordine della famiglia, come il padre ci educò. Tutto il guadagno, di qualsiasi natura, doveva essere corrisposto alla madre, quale ottima amministratrice, che fino a ottantasei anni usciva ogni sera a raccogliere una fascina per la cena. Alle sei di tutte le stagioni, che corrisponde all'imbrunire, il campanone suonava. Avevamo dieci minuti di tempo per rincasare, il tempo di riscaldare la minestra e mettere i piatti sul tavolo. Dopo si mangiava. Chi di noi figli non era rincasato non mangiava. Di mattina presto lei sempre alzata, con il caffè d'orzo pronto per chi doveva uscire a dar la paglia ai buoi. Un'ora prima di far luce riscaldava la minestra e preparava la bisaccia col pane e la zucca del vinello. Mia madre era donna di poche parole, e quando parlava non le piaceva ripetere. Ricordo la sera di Sant'Isidoro, il 17 settembre del1936. Eravamo andati tutti a sentire la gara poetica in piazza, e qualcuno che ci voleva male aveva appiccato il fuoco alla legnaia. Il pericolo era grande, ma lei ci spingeva avanti gridando: "Forza, vigliacchi! non vedete che brucia la casa? Forza coi secchi!" Nel 1945, tornato dalla guerra, presi moglie in casa, e la madre allora mi diede il pezzo di terra che mi spettava… Non so, forse stavo meglio salariato fisso - anche se il lavoro nostro è di cento giorni soli per un anno. La terra è una catena che non si può rompere, se non si vuol perdere quel poco pane che dà. Finito di zappare il mio poco, andavo bracciante con l'uno e con l'altro. Il mio lavoro si sa: arare, zappare, sarchiare, diserbare grano… Tutti i giorni così, da quando fa luce a quando fa buio. A casa, nemmeno la forza di spogliarsi per mettersi a letto. Uno si butta sopra la stuoia e si addormenta come una pietra, senza neanche sentire le parole di tribolazione della sua donna che ha addosso la fame di tutti i figli… Tante volte ho pensato: "Eh, se avessi qualche anno di meno! già non me ne resterei qui, a puzzare…" Ma dove potevo andare io a sbattere la testa, io che altro non sapevo fare se non tenere la zappa in mano? Ma quando la fame è da tagliare a fette, quando l'acqua ti arriva alle costole, allora ti muovi, sì… Andavo a Cagliari, per espatriare. Mi avevano detto che in terra straniera prendono anche contadini, se hanno braccia buone…»

Stettero assorti a lungo.
Il contadino li guardò uno ad uno, in ansia di sentire una parola, magari di commiserazione. Si stancò di attendere e disse: «Lo so, la mia vita non vale un soldo bucato. Neanche il tempo che ci vuole ad ascoltarla, vale.»
Gli altri tacevano a testa china.
Rompendo il silenzio, il minatore disse: «E' la vita di un uomo. La vita di tutti gli uomini che cercano pane con le mani.»
«No. Non posso credere che sia così per tutti. Io conosco il pastore. Non è così. E' libero, lui… e fa più danni delle cavallette e della brina. Ho assaporato il gusto di spararne qualcuno, trovando il grano devastato dalle pecore…»
«L'ho pensato anch'io, Orrù Gavino, quando tu e la tua razza avete invaso le terre incolte affamando le greggi.» Lo interruppe aspro il pastore.
Il pescatore interloquì: «Io non c'entro con le vostre terre pietre di pietre e di merda! Non sono come voi, io. Eh, se non avessi avuto sulle spalle i padroni delle paludi…»
«Lasciamo andare.» Tagliò corto il minatore. «Sembriamo un branco di cani litigiosi. Ci siamo fermati abbastanza. E' tempo di riprendere il cammino. Sono curioso anch'io di sapere dove andiamo, di sapere se siamo diversi.»
Si levarono, scuotendosi con la mani la polvere grigia dal fondo dei pantaloni.
Sulla linea dell'orizzonte intravvidero il ricordo della terra, lieve come una nuvola bianca d'estate. Il nastro grigio non saliva più; si snodava in dolci tornanti perdendosi dietro una parvenza di colle verde. Il contadino ebbe nostalgia di quel colle, ma non lo disse. Si avviò per primo. Gli altri gli tennero dietro.

Camminarono con lena fino a sentirsi le ginocchia molli. Il pastore si asciugò il collo e la fronte con un gesto abituale. «Non c'è sole, né stelle, in questo cielo…» mormorò turbato.
I compagni levarono gli occhi in alto, ed ebbero un brivido di sgomento.
«Perché ho preso questa strada, con voi?» Esclamò il contadino, impaurito e diffidente, fermandosi. «Non vi conosco neppure, io…»
«E che altra strada vuoi fare, Orrù Gavino?» Gli rispose il pastore risentito. «Puoi sempre tornare indietro, se vuoi.»
«Tornare indietro…» mormorò l'altro, soprappensiero. «Certo, torno indietro… subito, me ne torno indietro! Cercherò un'altra strada, io… dove ci sia gente della mia razza. Tre, ce ne devono essere di strade!» Si voltò agitato, fece per muovere un passo, ma si arrestò, agghiacciato dall'orrore: il nastro grigio finiva alle loro spalle; nell'immenso baratro azzurro. Crollò a terra. Si accovacciò con la faccia sulle mani, piangendo senza ritegno. Poi levò il capo, vide i compagni e corse da loro.
Uno gli pose una mano sulla spalla. «Che cosa vuoi tu, Orrù Gavino? Che paura hai tu dell'inferno, se ne sei uscito appena adesso?»
«Non so, non so…» gemette il contadino. Si sentiva più misero, più incerto, più infelice degli altri. «Io sono diverso. Tutta la mia vita ho trascinato, io… Che giustizia è questa, se c'è una strada sola per tutti gli uomini, per i buoni e per i cattivi, per chi ha sofferto e per chi ha rubato?»
Il minatore attese a lungo che qualcuno rispondesse. Dopo, parlò: «Orrù Gavino, la giustizia, gli uomini se la devono fare loro. E' cosa da uomini, la giustizia. Tutti ce l'abbiamo nell'idea, la giustizia. Solo che bisogna patire per farla.»
Il contadino non capì. Neppure gli altri capirono.
Il pastore disse: «Per me, la giustizia è un pretesto dei ricchi per mantenere gli sfruttati al loro posto. Sempre, l'ho sperimentato.»
«Non è giustizia, quella…» mormorò il minatore, «la giustizia è di tutti e per tutti.»
Il contadino rifletté e disse con umiltà: «Ho vissuto una vita e non ho imparato a vivere.»
«Non ti crucciare, Orrù Gavino,» si affrettò a confortarlo il minatore. «Credi tu che ci sia uomo, anche di cent'anni, che sappia perché ride e perché piange? Se lo sapesse… potrebbe dirlo a tutti. Lo direbbe alla gente appena nata. Così la vita sarebbe come una bella favola. Tutti vivrebbero felici e contenti. Ma è una bella favola la vita?»
«Come?!» Intervenne il pastore perplesso, «sono davvero tutti uguali, gli uomini?»
«Credi tu, forse, che la tua vita sia diversa dalla mia?» rispose l'altro con amara ironia.
«E' ciò che vorrei sapere,» disse il pastore. «Potete ascoltare, se avete lo stomaco forte.»
Sedettero di nuovo, rasserenati - contenti di non essere soli.

La corriera aveva rallentato la corsa, cominciando ad arrampicarsi sopra un monte di pietra. Nella poca terra imprigionata nelle conche fiorivano asfodeli. Qualche rara elce scarmigliata dal vento, curva al sole del mattino, piangeva su tombe di granito. E pecore in processione andavano col muso per terra, fiutando nella brezza la speranza di un mentastro. E cani ossuti, attorno. E pastori col mantello nero sul capo fino ai gambali, fucile a spalla, immobili sopra speroni di roccia, sull'uscio degli anfratti, davanti alle braci dei fuochi notturni.
S'era fermata in un paese coi muri di pietra squadrata. La strada lastricata saliva tortuosa, terminando sopra un terrapieno. Oltre la ringhiera nereggiava l'abisso.
Seduto sopra un masso conficcato sull'orlo del terrapieno attendeva un uomo vestito di velluto. La corriera gli si era fermata davanti con uno stridore di freni. Il motore aveva preso a ronfare e l'uomo ne aveva ricevuto sul volto l'alito caldo. Era salito dicendo: «Salute!» e si era diretto verso il fondo. Si era seduto come siedono tutti i pastori nomadi sul sasso incontrato lungo il cammino: curvo e teso, baculo fra mani e ginocchia, guatando con occhi socchiusi l'immobilità e il silenzio del deserto, lo scorrere lento del tempo e delle nuvole.
La strada risaliva in un aspro serpeggiare di tornanti - da un lato sovrastavano guglie di granito simili a filari di cipressi pietrificati… Un sapore di eterno, la vita; un senso assurdo, la vita. Soltanto uomini e pietre che si calcificano nel tempo e si sgretolano nel tempo, per dare un velo di terra alle piane e alle conche a valle - perché la roccia diventi terra e germogli l'esile verde per le greggi affamate.
Il pastore aveva rivisto i fanciulli tornare a sera con trofei di lucertole e di passeri implumi… il giorno che aveva calzato i primi gambali, vinta la paura del sasso scagliato e del sangue, e la fierezza del moschetto imbracciato… il sussurro delle donne che in crocchio filano e tessono la lana bianca e nera, come il destino tesse il bene e il male delle creature nate sulla pietra… La sua donna non aveva più lana da tessere, ed egli sapeva di essere un uomo senza destino.

«Io sono Coccoi Sebastiano, classe 1917, figlio della Grande Guerra. Per dire tutta la vita basterebbe dire un giorno. Ogni giorno è uguale preciso agli altri. Ma forse è sbagliato parlare di giorni. Il pastore non conosce giorno, né notte. Dorme quando può, con un occhio sempre aperto, perché il mestiere suo è di stare attento. A destra e a manca con le pecore. Le terre in affitto, una a ponente e una a levante. Pensavo, che per pensare tempo ne ho sempre avuto - così avessi avuto pascoli! Però stanca e rattrista il pensare, pensare da solo - anche se non è fatica come zappare… La famiglia che mi ha cresciuto era di pastori, ed io ho fatto il pastore da piccolo. Ero figlio di nessuno e di tutti. Chi mi voleva mi prendeva - a pascolare pecore, capre e maiali. Chi non mi voleva mi lasciava. Appena mi è spuntata la barba ho calzato i gambali e ho imparato a saltare muri e crepacci, a correre e a strisciare silenzioso nei macchioni, con le mani legate… So leggere e scrivere non perché sono andato a scuola, ma perché ho fatto il militare. Certo non è una cosa buona fare il militare come l'ho fatto io: sette anni e otto mesi. Non mi hanno dato sussidio, né pensione. Avevo vent'anni, quando fui richiamato. Giorno di festa mi pareva quel giorno! in giro per il paese a bere e a fare baldoria. Fui tradito dopo il periodo di ferma, quando c'era la guerra. In caserma fu esposto un manifesto: "Chi voleva andare nell'Autocentro del 4° Reggimento Fanteria per imparare il meccanico." Io feci domanda e mi presero. Mi caricarono con altri su una nave e ci sbarcarono sopra un monte. Mi trovai sbandato, per l'ambiente e per il freddo. A chi portava baffi gli gelava l'acqua sopra, quando andava a lavarsi di mattina. Dopo qualche giorno ci inquadrarono con altri nuovi e ci mandarono al fronte. Il18 febbraio del 1941 arrivai al fronte di Calivaci - in Grecia, mi dissero. Ma il nemico, che non conoscevo, nessuno mi disse dov'era. Appena fattosi giorno, tutti andavano in giro come pecore matte, quand'ecco la mitraglia ci sfiorò un paio di raffiche che troncarono le gambe ad uno. Così capii dov'era il nemico. Il mio caporale, di nome Piras Giuseppe, era un bravo compagno. Non dormiva per niente, fino a quando non riusciva a portarci il rancio; e noi in comune stavamo al reticolato. Il 16 maggio compiva l'anno che era morto un mio amico gavoese ucciso a tradimento da una pattuglia di carabinieri. La notte lo ebbi in visione. Mi saltò il dubbio di non dormire, perché il giorno dopo sarebbe stata una triste giornata. Di fatti, dopo mezzogiorno, le nostre artiglierie accorciarono il tiro e ci presero in pieno nelle tende. Fu un macello, ma io nessuna ferita. Venne l'ordine di disfare la posizione e incominciò l'avanzata. Poi l'armistizio. Allora si tornò indietro per molti giorni e rimanemmo accampati ad una decina di chilometri da Coriz, dove mi ammalai di tifo. Fui ricoverato nel 78° ospedale da campo. Il medico che mi visitò non si persuadeva della mia malattia. Ma con l'intervento di un altro medico fui salvo. Rimasi aggregato alla 7ª Compagnia del 38° Reggimento, presso il prelevamento viveri e trasferito alle Termopoli, precisamente al ponte Brallus. Ci rimasi circa sei mesi, pescando carpe e facendo conoscenza coi partigiani. Appena spostati noi del 38°, i partigiani fecero saltare il ponte. Allora ebbi modo di conoscere la fine di Mussolini, che io non avrei mai creduto, e seppi che c'era una società che lavorava per il futuro. Il 13 settembre 1943 fui disarmato a Lamia; da lì portato in Germania, al campo 12D e con il lavoro obbligatorio capii che l'uomo è al di sotto della formica. Pensavo ai malvagi della terra, al perché di tanto egoismo nell'umanità… Sono tornato nel mio monte, nudo e pieno di ferite. Con la guerra ho visto che ci sono tanti uomini… ma dove ci sono pietre, restano solo pietre e pastori come me e pecore come le mie. Ho visto piazze grandi piene di gente e di luci; ho visto palazzi di marmi e ferrovie e ponti… ma dove ci sono pietre restano solo pietre e pastori come me e pecore come le mie. Spietrando campi a valle mi sono rifatto un gregge di quaranta capi. Se ne è andato presto il fumo, ché mi è nata una figlia malata. Cinque anni all'ospedale… Coi soldi prestati dai mercanti mi sono rifatto due dozzine di pecore. Ma costano cari i pascoli! Con due ettari, l'incasso non paga il fitto. Se uno è onesto, o muore o crepa. Se no,va con quelli di Sedilo a fare bardana. L'egoismo è ciò che guasta tutto. Quando vedono che cerchi di mangiare la pagnotta… zac! te la levano di bocca. A questo ho pensato ogni giorno. E mi sono stancato di pensare sempre la stessa cosa. La storia del pastore è come la storia degli antichi ebrei: sempre girando nel deserto, morti di fame, cercando la terra promessa in mezzo ai nemici, cercando la pace… Ma ai pastori come me, nessuno ha promesso terra, nessuno ha mai fatto piovere manna sulle pietre… Avevo un pacco da portare a mia figlia, all'ospedale, quando la corriera…»

«Ma allora… è così,» mormorò il contadino quando Coccoi Sebastiano finì di parlare.
«Così come?» chiese ansiosamente il pastore.
«Niente,» rispose l'altro, e riabbassò il capo come gli altri, per riflettere, ciondolando gli scarponi nel vuoto.
«Così come, Orrù Gavino?» ripeté il pastore dopo lungo silenzio.
«Credo di aver capito perché tu ed io facciamo la stessa strada. Se è come penso…»
«Pensi che siamo due miserabili, io e tu. E' così?»
Il contadino non rispose. Fissò lo sguardo lontano dove si profilava l'arco verde che pareva un colle. «Sapete,» mormorò «L'ulivo della vigna quest'anno darà i primi frutti.»
Il minatore si scosse. Disse: «Siamo troppo attaccati alla terra. Se continuiamo così non arriveremo mai.»
Il pescatore lo guardò con sospetto: «Perché tutta questa fretta di arrivare?»
«Prima arriviamo, prima riposiamo,» rispose l'altro.
«Riposare? E che ne sai tu? Non vorrai farci credere che tu hai già fatto questa strada…» replicò ironico il pescatore.
Gli altri acuirono l'attenzione.
«E come potrei averla già fatta? L'ho immaginata, però. Si può capire, no?»
«No, non lo capisco,» disse il pescatore smettendo il sorriso ironico, «spiegati meglio.»
«Siamo ancora attaccati alla terra con le radici del nostro cuore. Questo volevo dire. La strada sarà tanto lunga quanto tenaci saranno queste radici… Forse non arriveremo mai, se non ci dimenticheremo.»
Il volto di ognuno ripeté lo sforzo di penetrare il concetto. Il pastore ruppe il silenzio per primo: «Forse è così. Ma tu, dimmi, vuoi tu arrivare e dimenticare la vita?»
«Non lo so bene, ora. Forse non dovremmo parlare più di ciò che siamo stati. E' come gettare un'altra radice verde in questo cielo di azzurro.»
«Sì,» disse il pescatore, «forse è meglio riprendere il viaggio senza voltarci indietro, senza pensare, senza parlare più.» Si levò in piedi ed esclamò: «Forza, si parte! Minatore, tu che sei così saputo, facci strada.»
Si guardarono e sorrisero. Il minatore si avviò per primo, segnando il passo. Gli altri gli tennero dietro.
Camminarono a lungo, senza parole, con gli occhi pieni di azzurro, assopendo il tumulto dei ricordi nell'infinita quiete dello spazio.
Il nastro grigio riprendeva a salire. L'arco verde diventava sempre più breve e sfumato nell'orizzonte. Il contadino - che non aveva occhi se non per quella parvenza di colle - se ne stupì e se ne addolorò. Stupore e dolore gli si trasformarono in rabbia. Gettò per terra il cesto e corse avanti ai compagni, si voltò poi contro di loro agitando le braccia, gridando: «Basta. Non ne posso più, non ne posso. Io non mi muovo, da qui! Non mi muovo neppure con tutta la giustizia! Non m'importa nulla di questa strada, di dove va o di dove non va… Io da qui non mi muovo! Voi andate dove vi pare…» si lasciò cadere per terra accoccolandosi con le braccia sulle ginocchia.
Gli altri gli si fecero attorno, turbati.
«Guarda, Orrù Gavino, guarda…» sussurrò il minatore, indicando un punto all'orizzonte.
Il contadino non si mosse.
«Guarda, Orrù Gavino, guarda il tuo colle…» ripeté il minatore, chinandosi su di lui, parlando con voce dolce.
Il contadino levò la faccia lacrimosa e guardò. L'arco verde si era fatto più largo e più nitido. La strada grigia scendeva in un dolce ondare di tornanti.
«Hai gettato una nuova radice, Orrù Gavino. Se è questo che tu vuoi, continuiamo a parlare…»
«Io… una cosa sola, vorrei…» singhiozzò il contadino, «vorrei vedere il mio ulivo. Deve essere in fiore, adesso…»
Sedettero ancora, per la terza volta, lasciando tumultuare il mare dei loro ricordi.
Il contadino mormorò: «Glielo avranno già detto, in casa?»
Il pescatore si irritò. Disse: «Orrù Gavino, tu sei il peggiore mangiavermi che ho mai conosciuto. Sei una lagna… neppure gli sparlotti del golfo sono come te!»
«Proprio così!» Rincalzò il pastore, iroso, «sei uno sporco maurredino, che pensa solo a se stesso… E noi! siamo bestie, noi?»
«E' più sincero…» intervenne il minatore, «anche noi, certamente, abbiamo pensato come lui, ma noi ci siamo vergognati di essere sinceri, per apparire forti.»
«Io, anche se non ho famiglia, ho compagni…» brontolò il pescatore.
«Come, non hai famiglia? E perché non hai famiglia? Tutti hanno famiglia. E tu, perché no?» Gli chiesero.
Il pescatore si rattristò. Disse: «Un uomo può essere povero, tanto povero che non può neppure guardarla una donna. E allora guarda gli altri poveri come lui, e diventano la sua famiglia.»
Lo guardarono commossi. Il minatore gli si fece più vicino; pronunciando le parole con lentezza, disse: «E' arrivato il momento di dire chi sei.»
Accanto all'arco verde del colle si andavano formando macchie di nubi biancastre, simili ad un gregge di pecore meriggianti.

Superato l'ultimo dosso, la corriera si era affacciata sulla pianura. Una tavolozza giallo-stoppa macchiata dal rosso sbiadito dei tetti dei villaggi, dal verde intenso degli ulivi, dal grigio plumbeo delle paludi disseminate a lato del golfo ancora avvolto nella foschia del mattino.
Aveva accelerato la marcia, rombando a velocità costante sul rettifilo gettato come diga sugli acquitrini densi di falasco.
Era entrata in un paese dalle case basse di fango distese al sole, popolato di gente scalza e sonnolenta. Aveva attraversato un piazzale vasto erboso tra stagno e chiesa - c'erano vecchi rattrappiti dai reumi, seduti per terra nel lato riparato dal maestrale, curvi a ruminare antichi assilli, in attesa del primo sole. Frotte di donne dalle gonne ampie lunghe andavano e venivano, trascinando polvere e stanchezza. Innumerevoli bambini laceri, gonfi, vociavano giochi violenti - rotolandosi per terra, lanciandosi canne appuntite e sassi, rincorrendosi, assalendosi l'un l'altro come nemici.
Le case intorno al piazzale erano bettole - già affollate di uomini senza berretto e senza scarpe. La corriera si era fermata davanti ad una delle bettole. Sulla soglia sedeva un pescatore. L'uomo aveva sorriso senza un perché; si era levato stancamente, era salito esclamando ilare: «Bella giornata, oggi!» e aveva preso posto davanti, per vedere la strada.

Era ripartita con una turba di ragazzini urlanti dietro. Aveva lasciato le ultime case cinte di letamai, dove altri ragazzi e cani vagavano rovistando. Aveva costeggiato per lungo tratto una distesa acquitrinosa, lussureggiante di inutile vegetazione, solcata da viottoli sabbiosi, serpeggianti tra falaschi e giunchi. Aveva incontrato uomini con la sporta dei pesci a spalla o appesa al capo, e uomini con la fiocina e il corbello della palamite.
Il pescatore si era portato con lo sguardo oltre il mare d'erba, dove lucevano le chiazze irregolari delle paludi… Il tepore dell'acqua densa e l'umidore pesante avvolge il corpo come una carezza… il silenzio rotto a tratti dal gracidare vicino e lontano e dal cauto sciaguattare dei piedi… il picchetto di canna sormontato dallo straccio nero legato a un capo della palamite e l'impercettibile filare degli ami… ai margini della palude, la sagoma triangolare della baracca delle guardie… trecento metri di ansia - tanto quanto lunga la funicella - e l'attesa - l'accoccolarsi sulle calcagna infisse nella melma, con le reni arcuate nell'acqua… Al largo, sui fondali aperti e fondi, i barchini padronali, in agguato… i fruscii dei canneti - forse soltanto un improvviso soffio di vento venuto dall'infido mare - e la paura… una creatura buona, la palude, che dà ogni suo frutto dolcemente a chiunque glielo chieda… basta tendere la mano, per avere… ma popolato di nemici, guardie armate di cani e di leggi impietose… galera e reumi da far marcire le ossa…
Il pescatore si era scosso ad un sussulto della corriera, che uscita dalla piana saliva verso una barriera montuosa. Egli aveva fermato l'attenzione sull'insolito paesaggio. Creste rocciose color d'indaco si stagliavano nel cielo sbiadito. Aveva osservato le frastagliature che si dilatavano e si contraevano assumendo forme diverse, nelle quali scopriva, di volta in volta, figure umane e animali del suo mondo palustre.

«Io sono Atzori Giosué, di 46 anni, senza famiglia, pescatore abusivo. Senza barca, senza reti e senza acqua - perché paludi pesci attrezzi sono del padrone che ha guardie armate e la legge. C'è però il succo dell'euforbia, che non costa nulla. Se ne raccolgono le radici, si pestano con un sasso e si gettano dove l'acqua è ferma. I pesci ubriachi si lasciano prendere con le mani. Ci sono bombe anche, che non costano nulla - dopo la guerra ne sono rimaste tante che bastano a far crepare tutti i pesci del mare. Un affare rischioso però, disinnescare bombe ed aprire bossoli. Mio padre anche lui c'è rimasto, sbrindellato come uno straccio tra i denti di un mastino. Picchiava con un sasso. Una disgrazia - hanno detto. Cose che possono succedere nel mestiere… Oppure, con poche lire, uno si può fare una palamite, spago e ami. I vermi anche, non costano nulla. Basta frugare la terra con una zappa, e in mezza giornata se ne trovano da riempire un barattolo. Ci ho perso la vista, ad escare ami di palamite seduto in riva alla palude, col sole del tramonto. Ci ho perso le ossa, dentro l'acqua fino alle reni salpando palamite. Ci ho perso la testa, per paura delle guardie del padrone - se ti scoprono ti prendono pesci e attrezzi e in cambio ti danno qualche anno di galera. Quando va bene, il pranzo si fa. E' stato nel 1946, quando sono ritornato dalla guerra, che ho cominciato a pensare con la mia testa. Ormai i fascisti non comandavano più… così credevo! Sono andato in Municipio, per vedere come stavano le cose, per chiedere un lavoro. Non mi hanno neppure ascoltato. Hanno detto di levarmi dai piedi. Il sangue mi è salito alla testa. Ho detto che avevo fatto la guerra, io, sacrificato la mia vita, io, mentre loro erano rimasti al caldo, succhiando il sangue della povera gente. Sono arrivati i carabinieri, e come succede sempre si sono messi contro il povero. Mi hanno afferrato per portarmi via come un delinquente. Glielo ho detto che ero un reduce, che volevo solo lavorare per mangiare. Ma loro niente. Allora mi sono liberato con uno strattone. Li ho stesi per terra tutti e due, e sono fuggito. Fuggito per niente, però. Due anni giusti di galera, uno per ogni spinta. Così è nata l'idea di liberare le acque delle paludi. L'idea che da quei giorni di galera ho portato dentro di me ogni ora e ogni minuto della mia vita… Quand'ero ragazzo, no, non ci pensavo. Ero più stupido di una bestia. A scuola no mi mandavano, perché non sta bene ai poveri studiare. I poveri devono lavorare. Lo diceva sempre mio padre: "Non ti sta a te andare a scuola." Però in chiesa sì, mi ci mandava! Non mi faceva perdere una messa. Anche a pugni e a calci, se la voglia mia non c'era. Dopo è uscita una legge che dice ai padroni di lasciare libere le acque che Dio ha fatto piovere su tutti gli uomini. Allora sono andato in giro per il paese e per le campagne, a dire che era arrivato finalmente il nostro giorno. Molti ridevano e mi prendevano per matto: i padroni restano sempre padroni, perché le leggi se le fanno e se le disfano loro come vogliono. Il giorno più bello della mia vita è stato il giorno in cui ci siamo riuniti e abbiamo pescato tutti insieme, proprio in mezzo alla palude, alla luce del sole, davanti a tutto il popolo accorso sulla riva. C'erano più carabinieri che pesci, quel giorno. Ci hanno arrestato tutti quanti. E noi, appena fuori di prigione, di nuovo a pescare. Il padrone e i carabinieri ci dicevano: "Voi entrate a pescare e noi vi rimettiamo in galera. "Un giorno di pesca, tre mesi di galera. Così è andata avanti la mia vita… Perché andavo a Cagliari? Per dire alla giustizia di preparare una prigione fissa…»

«Ma che razza di giustizia!» Sbottò il pastore appena il pescatore finì di parlare. «E palle di fucile non ne avevate? E che razza di gente è quella delle parti tue, se…»
Il pescatore chinò il capo.
Il contadino intervenne: «Dici bene, tu, Coccoi Sebastiano, che non avevi il piede sul collo…»
«Un uomo non si lascia mai mettere il piede sul collo, se è un uomo,» replicò il pastore, aspro.
Gli altri due rivolsero lo sguardo al minatore. Ma questi non parlò, assorto nei propri pensieri.
«Pensi sempre, tu?» Lo scosse uno, ponendogli una mano sulla spalla.
«Scusatemi. Ascolto,» rispose.
«E allora, che ne dici, tu, di gente come Atzori Giosué, che si lascia portare innocente in galera, senza neanche dire bah…»
Il minatore non rispose.
«Credi anche tu?…» gli si volse il pescatore, angosciato, «anche tu, di', credi che sia una festa, la galera?»
«E perché ti ci lasci chiudere allora, Atzori Giosué?» rincalzò il pastore - il suo volto pareva assaporare il vento aspro delle gole e gli aromi vischiosi ed acri del suo monte.
«Tu avevi monti e boschi, Coccoi Sebastiano,» mormorò triste il pescatore, «tu avevi ali e cielo per volare. L'uomo delle paludi è nudo come un verme sulla terra piatta.»
Il minatore parlò, allora. Disse: «Atzori Giosué, io credo e so che il coraggio di patire la galera è grande quanto il coraggio di chi si chiude da se stesso nella solitudine di un monte.»
I compagni rimasero a guardarlo, in attesa di altre parole.
«Parla ancora,» lo pregò uno, «tu dici parole che da sempre desideravo sentire.»
Il minatore sorrise senza compiacimento. Disse: «Se tu desideri ascoltarle, sono parole anche tue. Ogni uomo può dire parole per tutti. Io so che abbiamo tutti parole così, parole per tutti. E anche una strada, grande per tutti deve esserci. Come questa, uguale per tutti…»
Riandando con lo sguardo sul nastro grigio che si snodava nell'azzurro, in lieve pendio. Fermarono l'attenzione sul colle, nitido di macchie verde chiaro come i pampini nuovi della vite. Più in là si intravvedeva una massa scura avvolta da nubi sfilacciate.
«Dietro quelle nubi - ma sono nubi? - c'è qualcosa che rassomiglia a un piano…» mormorò il pescatore.
«E nel piano, le tue paludi,» aggiunse il minatore, «te le sogni, Atozri Giosué, le tue paludi…»
Disse il pastore: «Che domanda! Anche la galera ha patito, per le sue paludi. Non l'abbiamo capito, forse?»
L'altro ebbe una luce di gioia negli occhi. Disse: «Certo, Coccoi Sebastiano. Ora l'abbiamo capito. Ora possiamo riprendere il nostro cammino con cuore più leggero.»

Si levarono in piedi e si sgranchirono, respirando profondamente, socchiudendo gli occhi con voluttà.
«Sapete,» confessò il contadino, «che non ho più paura? Insieme a voi, neppure del diavolo ho paura… E dire che volevo cercare un'altra strada, da solo…»
«Questa è la nostra forza, Orrù Gavino: fare insieme la stessa strada,» disse il minatore.
«Perché non capirlo prima? Capirlo tutti insieme?» Mormorò il pescatore, pensando alla gente delle sue paludi.
«Non ti crucciare, adesso, Atzori Giosué: cantiamo,» propose il pastore, avviandosi, «mi è venuta voglia di cantare. E se non mi burlate vi dico una cosa… Sento odore di frattaglie arrosto e di rosmarino venire dal mio monte. Se aguzzo le orecchie odo il belare del gregge e il tintinnio dei campanacci…»
Si presero a braccetto e intonarono un canto, avanzando quasi a passo di danza.

Orrù Gavino fu il primo a fermarsi. Disse: «Ho il presentimento che il mio viaggio stia per concludersi.» E il suo viso divenne più intenso, più umano. «Ma prima vorrei almeno sapere il tuo nome,» aggiunse, rivolgendosi al minatore.
«Io sono come te, Orrù Gavino, come voi,» disse il minatore.
«Lo so. Credo di averlo capito, adesso. Ma tu, sembri più infelice, più buono…»
Il minatore tacque per un po', confuso. Sedette sull'orlo della strada. Gli altri gli si accostarono, restando accoccolati.
«Non dire così,» si schermì il minatore, «non giudicare mai l'uomo, Orrù Gavino. Non c'è buono o cattivo Dove c'è l'uomo c'è soltanto l'uomo.»
Il pescatore annuì. Disse: «Se gli uomini fossero chi buono e chi cattivo, allora sarebbe giusto condannare e uccidere, segregare e umiliare. Anche la guerra, anche la fame sarebbero giuste.»
Il contadino disse: «Ma tu, minatore, perché hai capito prima degli altri? Hai fatto molta scuola, tu?»
«Scuola? Non c'erano banchi, né maestro nella mia scuola.»
I compagni si stupirono. «Una scuola senza banchi e senza maestro?»
«E' così. Vi dirò anch'io la mia vita.»
«Alla buon'ora!» Esclamò il pescatore, «già me l'avevano detto che sono chiusi quelli della tua razza…»
«L'uomo non può parlare con la bocca piena di terra,» mormorò l'altro.
«Sì, ma adesso esci dal buco e parla,» lo esortò scherzoso il pastore.

Erano monti recenti su monti antichi - i più nudi, i più desolati. Cumuli di ghiaie squamose ostruivano le vallate. Radi lentischi sopravvivevano su brevi terrapieni, al riparo di casupole di schisto, isolate senza sentieri.
La corriera aveva attraversato cantieri, baraccamenti, laverie, sottopassaggi - agglomerati deserti, senza campagne e senza frutti. Un mondo dove la gente vive sottoterra.
Un uomo sul ciglio della strada aveva fatto un cenno con la mano. Il mezzo si era fermato ed egli era salito, sedendosi senza badare dove. Un uomo amaro e schivo - come tutti gli uomini che scavano pietre nere, come chi deve guardare dentro di sé per trovare sole e prati, stelle e boschi.
La corriera aveva costeggiato una laveria abbandonata. I carrelli pendevano immobili imprigionati dalla ruggine nel cavo della teleferica. Travi rotte scheggiate infisse nei detriti squamosi; enormi braccia di macchine semisepolte sul costone della discarica; frantoi e vasche di cemento senza pietre da frantumare, senza turbini d'acqua da sceverare: un corpo di gigante smembrato, sparso in un deserto senza sole e senza vermi.
Partiva un viottolo dalla laveria abbandonata fino al mare. Serpeggiava in fondo a una gola, fra montagne di pietrisco - le interiora velenose che appestavano e corrompevano ogni forma di vita. Parallelo al viottolo, di poco più basso, come un serpente grigio dalle reni spezzate, giaceva un fiume di limo denso immoto Una polvere assurda che nessuna corrente d'acqua riusciva a trascinare, che usciva dall'alveo come nebbia - col vento - ricoprendo di una morte lenta inesorabile alberi e cervelli ed erbe. Alla fine del loro corso le acque grevi stagnavano formando una macchia larga cupa - una ferita mostruosa - nel verde limpido del mare.
Non volavano uccelli su quel mondo. Non stormivano fronde, né belavano pecore, né voci sussurravano… Il minatore aveva rivisto i sedici anni biondi, perduti lungo il viottolo dalla laveria al mare… Portava la giacca della domenica ed un fagotto sulla spalla - portava fame e speranza, nostalgia di mandorli in fiore e di verdi siepi. Era il più giovane della squadra. I compagni lo tenevano indietro, nei cunicoli senza armatura - così nessuno aveva mai veduto le sue lacrime. Il primo maggio era festa grande. Le mimose gialle fiorivano a grappoli sulle acacie - e le speranze verdi, nei cuori. Si festeggiava in cima al colle. Comizio e gente, torroni e bandiere, sorbetti e fisarmonica. L'imbrunire era il momento più umano di un giorno di magia. Dai pali pendevano le lampade ad acetilene. La penombra addolciva ogni angoscia. La ricordava tra la folla. Un sorriso e un gesto d'intesa. Egli aveva un grappolo di mimosa all'occhiello della giacca, e lei un mazzetto fra i capelli e tracce di polline sulle guance. Gli aveva preso la mano scuotendo indietro i capelli lunghi lisci, avviandosi per il sentiero aperto tra gli ulivi… L'aveva rivista con altro volto, con la polvere bianca del tempo sui capelli lunghi lisci, con lo scialle nero del lutto… Non c'era più sentiero aperto tra gli ulivi… Tra cumuli di ghiaie sterili, come un serpente bruno dalle reni spezzate, giaceva il fiume dalla laveria al mare.

La corriera non aveva altre fermate fino alla città. Aveva imboccato la strada nuova listata di bianco. Aveva accelerato al massimo attraverso la pianura.
C'era il sole già alto - le prime ciminiere col pennacchio fuligginoso e i tralicci argentei sul dorso del colle di San Michele e l'arco del golfo degli Angeli. E c'era sulla strada una scheggia di ferro che trinciò il copertone di una ruota. Il mezzo aveva sbandato, si era impennato, si era capovolto mordendo strappando l'asfalto. S'era schiantato nella cunetta, incendiandosi.

«Sono Floris Efisio, di 36 anni, minatore da venti anni. Mio padre era accacigadori. Lavorava più spesso in casa dei clienti - la gente non si fida se non vede con i propri occhi. Alle due del mattino andava al lavoro con la vasca di legno a spalle. Qualche volta - bambino - lo seguivo; attizzavo il fuoco sotto il calderone dell'acqua e guadagnavo il cibo per tutta la giornata. Badavo che l'acqua non fosse troppo calda, né troppo fredda. Mio padre stendeva sul fondo della vasca il telo di orbace tessuto di recente e lo ricopriva di acqua tiepida. Allora si levava le scarpe, vi riponeva le pezze da piedi, ed entrava nella vasca, cominciando a pestare e a stropicciare la stoffa. L'orbace è ruvido, ed erano necessarie molte ore di ininterrotto calpestio prima di renderlo morbido e fitto. Di tanto in tanto sprimacciava il tessuto con le mani e lo tendeva. Lo schiocco faceva contenta la padrona, che gironzolava intorno ficcando le dita nell'acqua ad ogni minuto per controllare la temperatura. Mio padre si interrompeva soltanto una volta per mangiare una fetta di pane e il comparatico, poi ricominciava da capo il suo trapestio ritmico che pareva una danza - le mani appoggiate ai bordi della vasca - fino al tramonto e spesso oltre, a lume di acetilene. Era la padrona che giudicava finito il lavoro - palpando quanto morbido e fitto fosse il tessuto. Riceveva la mercede in grano, si rimetteva la vasca sulle spalle e rincasava… Io ero il settimo di dieci figli. A cinque anni andavo a portare la minestra a mio padre, quando non c'era orbace tessuto di fresco e il grano della campagna aveva bisogno di zappa. Egli mi dava mazzi di asparagi e cappellate di lumache da portare a casa… La campagna del mio paese è meravigliosa. I mandorli e il biancospino e il pruno fioriscono a febbraio, appena il cielo si fa azzurro tiepido. E a scuola non ci andavo volentieri, pensando ai nidi sugli alberi, alle lucertole tra i sassi, alle more delle siepi. Non mi piaceva e il maestro, con una scusa o con un'altra, mi dava ogni giorno una lezione di bacchetta. Forse aveva ragione lui, allora. Io non stavo mai attento. Così non ho mai imparato a leggere e a scrivere. Mi facevo picchiare subito appena arrivato, per essere lasciato tranquillo dopo. Appena entrato andavo difilato in cattedra. "Mi picchi - dicevo - anche oggi non ho fatto i compiti. "E niente compiti facevo in classe. Solo pensare che le uova nel nido della tortora forse si erano schiuse. Mi piaceva, qualche volta, ascoltare la storia, perché parlava di guerra. La guerra mi piaceva. Pensavo: "Da grande faccio la guerra." E non sapevo che già la stavo facendo tutti i giorni, la guerra contro la fame… Ma questo l'ho capito anni dopo, una sera che mia madre piangeva e mio padre mi chiamò e mi disse: "Efisio, tu lo vedi, ché sei già cresciuto. I figli sono molti e il pane è poco. Ti sei fatto grande, figlio mio, e devi badare a te stesso, ché io sangue da darti non ce n'ho più. Se resti qui, la croce già la conosci: zappare grano o pascolare pecore per tutta la vita. Se parti c'è la miniera. In dieci anni di sacrificio puoi mettere soldi da parte, come altri hanno fatto, e aprire una bottega o comprarti un mezzo…" A sedici anni sono entrato in miniera… un mondo dove l'uomo non ha occhi per vedere, né orecchie per sentire, né bocca per parlare. Non c'è sole, né stelle, né vento, né pioggia in quel mondo. Non c'è verde di prati, né olezzo di fiori, né siepi di biancospino… L'uomo non è più uomo se non è nel suo mondo. Il minatore è un verme che scava buchi sottoterra… Quando suona la campana sulla torre del pozzo, la gabbia scende e la terra si richiude sulla tua testa come una tomba. Hai paura di aprire la bocca perché non si riempia di terra. Tu sai che sei vivo. La senti che pulsa, la vita. Ma sai anche che non sei più un uomo. Sono otto ore giuste, sotto terra, ogni giorno. Quando la gabbia ti riporta su, le prime volte provi il gusto della vita che ritrovi, che riprende… il gusto di rivedere, di risentire, di riparlare. Poi, ogni giorno che passa, è sempre più difficile riprovare quel gusto. Quando non senti più il gusto della vita, né il desiderio di provare quel gusto, allora sei diventato minatore… Dopo venti anni c'è stata un'inchiesta sanitaria, nella mia miniera. Avevo i polmoni bruciati, e non lo sapevo. Ricovero d'urgenza. Tutto finito. Ogni sei mesi, una settimana di visita in famiglia. Stavo rientrando in sanatorio. Così ci siamo incontrati, voi ed io…»

I compagni finirono di ascoltare con animo turbato. Non trovavano alcun modo di dare conforto, se non tacendo.
Il pescatore fu il primo a parlare. Disse: «Ma soldi, Floris Efisio, soldi ne hai fatto con quel lavoro?»
«Certo, soldi,» intervenne il pastore, «uno mica fa un lavoro come quello, se non è per i soldi.»
Il contadino aggiunse: «E perché non te ne sei uscito subito da quel posto, appena hai fatto soldi? Ho sentito dire che si guadagna molto, più di cinquantamila, con quel lavoro…»
Il minatore scosse il capo. «I soldi… lo so. Anch'io, come tutti gli altri, sono entrato con la speranza di scavare soldi, non solo pietre nere. Ma i soldi li ha e restano al padrone della miniera. Con una mano te li dà e con l'altra te li riprende. Ti dà tutto ciò che ti serve per mantenerti in vita, la baracca, la branda, la legna per cuocere il rancio e per la stufa, il pane e l'acqua. Ti fa stare vivo per farti lavorare. Ti paga per farti lavorare e si fa pagare per tenerti in vita. I conti devono tornargli giusti.»
«Possibile?!» Esclamò il contadino, «ma allora è peggio della terra. Io respiravo almeno aria pulita.»
«In venti anni, qualcosa sì… mi sono fatto la casa. Ero fidanzato tanti anni…»
«E poi?» chiese uno.
«E poi, la malattia… che cosa volete… mettere al mondo dei disgraziati… Le ho detto: "Senti, mi sei uscita di testa. Io non sono il tipo tuo. Levati l'idea anche tu, e vai per la tua strada." - Lei si è fatta dura come pietra. Mi guardava con occhi senza lacrime. Ha detto: "Ma lo sai quanti anni ci vogliamo bene, lo sai da quanti anni aspetto." Ho risposto: "Lo so. Io non credo al destino. Però ci sono cose che l'uomo non può cambiare, quando sono già successe. Tu mi devi perdonare; questo sì vorrei da te. Tu sei ancora giovane, e uomini che ti vorranno bene non ti mancheranno…" L'ho rivista una volta, nell'ultima settimana di visita. Ci siamo solo guardati…»
Il pescatore si levò in piedi, allargò il petto, aprì le braccia, arcuò la schiena, si riaccoccolò poggiandosi sulle calcagna. Disse: «Bando alla malinconia, compagni! Parliamo di cose allegre… La sapete la storia di Saruis Antonio l'emigrato?»
«Racconta,» propose il pastore, «qualche volta il riso fa buon sangue.»
«L'ho sentita all'osteria da un amico appena tornato dal continente. Ma non so se sia tutto da ridere. Parla di Saruis Antonio, un ragazzo del mio paese, uno di quelli cresciuti dietro un branco di maiali, in giro per i letamai sparsi intorno alle ultime case, piccoletto, ispido e di poche parole. La gente diceva che Saruis Antonio era povero di spirito. Non si fidava neppure a dargli una zappa, per paura che rovinasse il grano. Le ragazze lo beffeggiavano. In piazza se ne stava ai margini dei crocchi, ad ascoltare le chiacchiere. Sentì così di gente che partiva in continente, a cercare lavoro buono e sicuro. Una sera, ritornando a casa, andò dalla madre e le disse: "Sono deciso, madre. Parto anch'io, come fanno gli altri. "La madre, che conosceva Saruis Antonio meglio di tutti, gli rispose piangendo: "Antonio, figlio mio caro, quel mondo non è fatto per te. Il tuo destino è qui, nel paese tuo, con la gente tua. "Saruis Antonio fu irremovibile. Pianse anche lui con la madre, ma partì. Coi soldi che aveva raggranellato con tutte le paghe del suo lavoro di porcaro, arrivò giusto a Milano. Girò per giorni e giorni, bussando ad ogni porta, mangiando le verdure e la frutta rovistate di sera nei bidoni fuori dai mercati. Niente lavoro. Sentì dire che c'era congiuntura sfavorevole. Neppure una scopa per pulire cessi. Una sera che vagava affamato alla periferia, tra case di bandone e campi colmi di immondezze, incontrò un altro come lui, che gli disse: "Vai più in basso, Saruis Antonio, vai a Roma, che lì troverai. Mi hanno detto che trovano tutti, in quel luogo. Forse troverai anche tu, Saruis Antonio. "E Saruis Antonio prese il treno per Roma, senza soldi. Per ciò si rinchiuse nel gabinetto, fino a quando non lo scoprì il controllore, che, alla prima stazione, lo gettò dal treno nelle mani di due poliziotti. I poliziotti non sapevano che cosa farsene di un uomo come Saruis Antonio, che aveva solo peli, stracci e puzza di pecora, addosso. E lo lasciarono andare. Così arrivò a piedi a Roma. Ma anche lì posto non ce n'era, per Saruis Antonio. Egli portava pazienza, e continuò a cercare e a sperare. Un giorno si ritrovò davanti al cancello aperto di un grande giardino. Il posto era strano, ma bello. C'erano gabbie, grotte e recinti con animali di ogni razza. Vide l'asino, il cinghiale e il cavallino della sua terra. Li riconobbe subito. Se ne rallegrò molto e pensò: "Qui, forse, c'è un posto anche per me. "E bussò alla prima porta che trovò. Due signori sedevano dietro un grande tavolo. Lo fecero entrare e sentirono ciò che voleva. Lo esaminarono con interesse, si guardarono, ammiccarono e dissero: "Sì, un posto ci sarebbe. Trentamila e un pasto al giorno. "Saruis Antonio toccò il cielo con un dito e disse: "Pronto!" E si gettò avanti per baciare la mano ai due signori. Ma i due signori si schermirono, benevoli, dicendo: "Non è il caso." E storsero anche la bocca, perché Saruis Antonio puzzava. Tempo dopo capitò in quel giardino una banda di emigrati che cercava lavoro e se ne andava a zonzo per passare il resto della sera. Si fermarono a guardare l'asino. Uno gli fece il verso, un altro un gesto sconcio. Videro il cinghiale e lo stuzzicarono con pietruzze, per farlo andare in bestia. "Si è riminchionito!" Osservarono delusi. E tirarono avanti. Da un lato, in un pertugio metà grotta e metà gabbia notarono una scimmia che faceva strani gesti per richiamare la loro attenzione. "Ce l'ha con noi, quella scimmia," disse uno, sghignazzando. Aveva ancora qualche nocciolina in tasca e gliela gettò, avvicinandosi. La scimmia gli fece un cenno di richiamo, saltellando, agitando le zampe pelose, strizzando gli occhietti neri. "Ce l'ha davvero con noi," ripeté lo stesso. Anche gli altri si avvicinarono alle sbarre. "Ssss…" fece la scimmia, "che sono Saruis Antonio. Se passate dalle parti mie, diteglielo a mamma che ho trovato posto e che sto bene, qui…"»

Il finale della storia li fece ridere, ma presto si rabbuiarono. Il pastore disse: «Poveraccio, quel Saruis Antonio.»
«E' una storia… Non crederai mica alle storie, tu,» lo canzonò il pescatore. Ma il tono della sua voce suonava falso.
«La vita nostra, anche se la giriamo in burla, non fa ridere lo stesso,» mormorò il contadino.
«Meglio ridere a denti stretti, per nascondere la rabbia,» concluse il pastore, cupo.
Si volsero al minatore, che non aveva detto una parola.
Egli capì e disse: «Saruis Antonio ha trovato una strada, almeno. Io so anche che ci sono uomini senza strada…»
«Cosa vuoi dire?» gli chiesero.
«Voglio dire che ho conosciuto uomini che sarebbero stati felici di poter essere come uno dei cani del padrone della miniera.»
«Uomini di merda!» Esclamò il pastore sputando per terra, «io mangerei le pietre del mio monte, piuttosto che raccattare un pezzo di pane da terra.»
Il contadino e il pescatore si sentirono frustrati da quelle parole dure.
Il minatore impallidì ed ebbe un moto d'ira. Trasse più volte il respiro, fino a che sentì dentro di sé solo tristezza. Allora parlò, e disse: «Coccoi Sebastiano, uomo di pietra, non giudicare l'uomo se non vuoi che l'uomo giudichi te. Sei nato libero, tu. Quanto è costata a te, la tua libertà? e quanto è costata ai padri che te l'hanno data? che ti hanno insegnato a difenderla? Tu sei orgoglioso perché sei nato libero, Coccoi Sebastiano… Ma ci sono uomini che non sanno - perché non hanno strade. E' colpa loro, Coccoi Sebastiano, se non hanno strade? Perché non li aiuti, tu, a farsi strada? L'hai mai fatto, tu, questo? L'hai almeno pensato, tu, questo?… Che ti serve sputare sull'uomo, se tu sputi sulla tua stessa faccia, Coccoi Sebastiano?»
Il pastore non reagì. Si volse agli altri due e disse: «Scusate. Non volevo offendere nessuno. Conosco solo le pecore e le pietre del mio monte, e il mio orgoglio…»
Rimasero assorti per lungo tempo, senza rivolgersi sguardo o parola.
Atzori Giosué, il pescatore, fu il primo a ritrovarsi l'animo sereno. In tono faceto, disse: «Compagni, vi racconto un'altra storia. Questa fa ridere davvero. Parla di frate…»
Risero tutti insieme, prima ancora di sentire. Risero, per non pensare più.

Camminarono fino a distinguere il colore di cui era vestito il colle.
Orrù Gavino si fermò a guardare il giallo dei grani maturi, il verde chiaro delle vigne recinte dal fico d’india, il bruno delle zolle smosse dall'aratro. Cercò fra le altre la sua vigna. La riconobbe, con l'ulivo piantato nel mezzo. La indicò ai compagni e disse: «Io sono arrivato.»
«Ne sei sicuro, Orrù Gavino?» chiese Floris Efisio, «è questo che tu vuoi, Orrù Gavino?»
«Sì,» rispose l'altro, senza esitare, «è questo che io voglio.»
Il pastore e il pescatore abbassarono il capo, commossi, stropicciandosi i piedi sulla strada.
«Ne sei davvero sicuro?» Ripeté il minatore, «rifletti ancora, Orrù Gavino. Forse più avanti troverai la strada di cui parlavi.»
«Voglio attendere il frutto del mio ulivo. Non lo vedete, voi, come è pieno di fiori?» Mormorò.
«Hai creduto nel buono e nel cattivo. Non vuoi più cercare la strada lastricata di fiori e bordata di canti?» Non c'era ironia, nell'insistenza del minatore; non c'era neppure ansia di sentire risposta. Egli sapeva già ciò che Orrù Gavino avrebbe risposto.
«C'è voluto questo viaggio insieme, per capire. Quando non si porta più il peso del bisogno, è più facile capire, trovare la strada… Abbiamo fatto insieme la strada giusta, se ci porta dove ognuno di noi desidera arrivare,» rispose il contadino.
Atzori Giosué pensò alle sue paludi, e si rattristò. Ebbe un dubbio. Domandò: «Anche dove voglio arrivare io? Sicuro sei?» E guardò angosciato i compagni, mantenendo più a lungo lo sguardo sul minatore. Questi, senza parlare, accennò alla strada che proseguiva piana, scomparendo in un ammasso di nebbie, quasi all'orizzonte.
Rispose Coccoi Sebastiano. Disse: «Io credo di sì. Fra quelle nuvole c'è il mio monte.»
«Devi aver fede,» disse il contadino rivolto al pescatore. «Io sono nato prima di te. Per questo, forse, sono arrivato prima di te. Arriverai anche tu, se avrai fede di arrivare.»
Il minatore si animò; ebbe una luce negli occhi. Come parlando a se stesso, sussurrò: «Comprendo meglio, ora, perché ami la poesia, Orrù Gavino. Come potevi non vedere, tu, lo spirito di un dio nel germogliare del tuo grano, nel fiorire della tua terra? Tu sei il fanciullo dell'uomo, tu sei la poesia e il canto dell'uomo. Tu puoi essere il più triste e il più felice.»
Il pescatore ascoltò teso, per capire. Poi disse: «Io so quello che voglio. Ma non comprendo che cosa sia la fede.»
«Capirai, quando saremo oltre…» rispose il minatore.
«Subito, vorrei capire,» insisté l'altro.
«Io posso dirti solo una cosa: faremo la strada insieme. Io sarò con te fino a quando non avrai capito e trovato ciò che vuoi.»
Il pescatore guardò il minatore con una tenerezza mai espressa prima, di cui si era sempre vergognato. Né si vergognò di desiderare di abbracciarlo. Lo fece, e pianse, con la faccia sulla sua spalla. Poi disse: «Ora, mi dirai che sono una donnicciola…»
«Solo gli uomini fanno così,» gli rispose l'altro, commosso.
Il pescatore si accoccolò, sedendosi sulle calcagna. Tracciò alcuni segni con le dita sulla polvere grigia della strada. Levò il capo, e disse: «Perché lo fai, Floris Efisio? Perché vuoi restare per ultimo e solo, tu?»
«Perché questa è la mia storia. Questo voglio, perché mi appartiene… Ma ora dobbiamo proseguire,» si rivolse al contadino, «Orrù Gavino! che tu possa vedere nel tuo colle ogni frutto desiderato dal tuo cuore.»

Il contadino sentì l'augurio giungergli da lontano, come eco. Si era già inoltrato nel viottolo fiancheggiato da siepi di fico d’india, a cui si intrecciavano rovi penduli di more. Si voltò. Vide i compagni scomparire con la strada grigia nella nebbia del ricordo. Ebbe paura di sentirsi solo. Desiderò di ritrovare se stesso senza paura. Allora non si volse più indietro. Si guardò attorno. Rivide forme, colori, tracce familiari e ne ebbe gioia. Prese a camminare spedito, con animo ilare.
«Ecco la mia vigna,» esclamò. E aprì il varco nella siepe, spostando il fascio di rovi secchi. Entrò, chiudendo accuratamente. Camminò lungo i filari, carezzando con mano leggera, con dita di sabbia, le foglie tenere dei pampini, fino all'ulivo.
«L'ulivo… è davvero in fiore. Quanti fiori, quanti! Bisognerà sostenere i rami con forconi,» mormorò.
Sedette ai piedi dell'albero. Si distese, socchiudendo gli occhi, sereno. Si era sempre sentito triste e solo, fra terra e cielo. Aveva sempre espresso i suoi pensieri al ritmo della zappa che rompe le zolle con tonfo sordo. I suoi pensieri erano le alluvioni e la siccità, la brina e la filossera, il freddo e la fame, l'incertezza e la speranza, il silenzio e la solitudine.
«Aspetterò qui,» si disse senza voce, «avevo compagni, e non lo sapevo. Avevo strade e non le conoscevo.»
Sentì un canto levarsi, e non se ne stupì. Il canto era nella sua vigna; era nelle verdi siepi del fico d’india - gialle di fiori e nere di more; era nei ceppi scuri delle viti e nei pampini ondeggianti alla brezza; era nelle foglie d'argento del suo ulivo e nel suo cuore.

«Non mi fermerò più finché non sarò ai piedi del monte,» si propose il pastore.
I compagni faticavano a tenergli dietro.
Tra le nebbie si intravvedevano creste color d'indaco.
«E chi ti dice che tra quelle nebbie ci sia proprio il tuo monte, Coccoi Sebastiano?» gli disse il pescatore, per invogliarlo a parlare e moderare il passo.
Il pastore strizzò un occhio, furbesco. Disse: «Tu non sei pastore, non puoi capire. Io sento e fiuto meglio di un cane. Sento ciò che tu non senti e fiuto ciò che tu non fiuti… Odo belare di greggi e stormire di fronde. Fiuto olezzo di mentastro e di giuncata. Se chiudessi gli occhi, non sbaglierei un passo.»
«Sfido io…» borbottò il pescatore, «a rimuginare silenzio e pietre da secoli… Molte cose ho capito, in questo viaggio.»
«Anch'io. Ma una cosa, ancora non riesco a capire. Perché ci siamo incontrati così?»
«Già. Perché ci siamo incontrati proprio così?»
Non sapevano rispondersi. Si voltarono e guardarono il minatore, che camminava dietro a loro meditabondo. «Hai sentito, Floris Efisio? Lo sai, tu, perché ci siamo incontrati così?»
«Non me lo sono chiesto, il perché. Speravo, perciò sapevo che ci saremmo incontrati un giorno.»
«Ma non ti chiedi perché? perché così?… Somigli a Orrù Gavino. Solo che lui piangeva e tu no,» disse il pastore, rude.
«Forse è così…»
«Va bene. Però questo non spiega perché ci siamo incontrati così. Tu stesso hai detto che ogni cosa ha almeno un perché. Perché ci siamo incontrati così, Floris Efisio?»
«Se tu domandi, tu stesso devi risponderti,» mormorò il minatore incupendosi, «Forse la mia risposta è soltanto per me…»
Il pastore si irritò. Disse: «Perché, soltanto per te? La tua risposta può essere anche la mia e di Atzori Giosué. Se è così, io e Atzori Giosué ti diciamo grazie perché ci hai messo un pezzo di pane in bocca Se invece quel pane non è per i nostri denti, ti diciamo grazie lo stesso.»
«Scusatemi. E' vero, sì. Ma io so che è meglio se ogni uomo ha pronta la risposta sua, insieme a quella degli altri.»
«Sei un po' complicato, per il mio carattere,» rispose il pastore con ironia, «allora di', perché credi che ci siamo incontrati?»
«Perché siamo uomini. Per questo, io credo. Gli uomini si incontrano, prima o poi.»
«Già,» lo interruppe con sarcasmo l'altro, «l'ho sentita altre volte questa litania. Gli uomini si incontrano sempre, un giorno o l'altro. Si incontrano sempre, è vero. Per sistemarsi i conti fra loro. Si incontrano per derubarsi, per violentarsi, per scannarsi… Anche Caino e Abele si sono incontrati.»
«Non volevo dire, incontrarsi a quel modo. Volevo dire, incontrarsi come ci siamo incontrati noi. Nudi e soli. Soli con noi stessi, con la nostra storia e la nostra esperienza di uomini nudi.»
«Bisogna arrivare a QUESTO, dunque - perché gli uomini si incontrino?» mormorò il pescatore atterrito.
«Sì. O QUESTO o la paura di QUESTO,» scandì il minatore.
Il pastore si fermò, piantandosi ritto in mezzo alla strada. Strinse i denti e batté con ira un pugno sul palmo della mano. Mosse le labbra come se sputasse veleno. Urlò: «Questo… cosa vuol dire QUESTO? Floris Efisio, parla chiaro. Questo vuol dire morte, no? Hai paura, tu, a dire pane al pane e vino al vino? Io non sono poeta e ci piscio sulle belle parole! Tu vuoi dire che gli uomini si incontrano solo nella morte o per paura della morte. E' questo che vuoi dire? E' questo?»
«Sì. Questo volevo dire. Questa è la mia risposta. Avevo paura della mia risposta,» tacque, poi soggiunse: «Coccoi Sebastiano, uomo di pietra che pisci sulle belle parole: ce l'hai, tu, adesso, pronta, la tua risposta?»
Il pastore sentì sbollire tutta la sua ira. Si lasciò andare disteso nel mare placato della sua coscienza. Trascorse il tempo di una vita. Allora parlò. Disse: «Ho capito. Ho trovato anch'io la mia risposta. Ogni uomo deve trovare dentro di sé la propria risposta.»
«E qual'è?» Chiese il pescatore con un mezzo sorriso.
L'altro non raccolse il tono ironico. Disse: «Ci sono risposte che sono uguali per tutti gli uomini. Come quella di Floris Efisio. Io so che è così anche per Orrù Gavino, che ora è nella sua vigna. E anche per te, Atzori Giosué, pescatore di paludi…»
«Orrù Gavino…» mormorò con dolcezza il minatore, ricordando.
«Orrù Gavino… già,» ripeté il pescatore, «ma se gli uomini si incontrano, perché dopo vogliono separarsi? Perché si separano, dopo che si sono incontrati?»
«Quando gli uomini si sono incontrati, non restano più soli - anche se si separano,» disse il pastore. E si sentì contento di aver dato la sua risposta per primo, una risposta che egli desiderò fosse di tutti.
«Sì,» si affrettò a dirgli il minatore, «sì Coccoi Sebastiano. Quando gli uomini si sono incontrati, non si separano più, anche quando si sono lasciati. Si ritrovano tutti in ognuno di loro. In ogni uomo ci sono tutti gli uomini del mondo e tutte le stelle del cielo.»
«E qui dentro ci sono anche tutte le pietre e le speranze del mio monte!» Esclamò il pastore, battendosi il pugno sul petto.
Non si era ancora spenta l'eco delle sue parole, quand'egli, sollevando lo sguardo, vide le prime propaggini della montagna, chiare e nitide nell'azzurro. Le nubi diradavano sbrindellate dalle guglie di granito.
«Tu pure sei arrivato, Coccoi Sebastiano?» chiese il pescatore con una punta d'invidia. E il suo pensiero corse lungo la strada grigia che proseguiva oltre le nebbie del monte, scomparendo nella linea dell'orizzonte.
Fecero insieme ancora un tratto di cammino. All'improvviso il pastore esclamò eccitato: «Ecco, lo riconosco… questo viottolo, la scorciatoia,» e vi pose il piede sopra.

Quando si voltò per salutare i compagni li vide già lontani, evanescenti, come nell'immagine sfocata di un sogno. Levò in alto la mano, pronunciò parole di affetto. E sentì un dolore nuovo acutissimo, vedendo i suoi due ultimi compagni allontanarsi, scomparire.
Volse le spalle per ritrovare se stesso. Desiderò piangere, per la prima volta. Ma sollevò in alto la faccia e riconobbe il suo monte. Lo riconobbe nelle pietre piovute dal cielo coi fulmini, negli anfratti profondi come gola di serpe, nelle macchie irte di cisto e di lentisco, nelle rade elci curve al vento, nei mentastri odorosi e nelle velenose euforbie. Ne sentì la solitudine e il silenzio - che fanno il cuore dell'uomo duro fragile tagliente come vetro.
Salì verso la radura dove il suo gregge meriggiava, nel recinto di pietre e di rami spinosi. A mezza salita sedette su uno sperone di roccia. Sotto di lui tumultuava l'immenso mare di pietra, ondeggiando immoto con aguzze creste, ricadendo in un silenzioso scroscio di taglienti lame di granito.
Desiderò - come altre volte - di diventare anch'egli una pietra fra le pietre infitte ai piedi del monte. «Il mio destino è nella pietra,» pensò con un gemito, «a che servono, qui, in questo monte, i sogni e le speranze dell'uomo?» Ma ricordò i suoi compagni e vinse il peso della solitudine. Pensò: «Verrà il giorno in cui le pietre diverranno terra. E la terra darà germogli.»
Si scosse e si levò. Si inerpicò verso la radura, che gli apparve vicina. Là, decise di attendere quel giorno.

Proseguirono di buona lena, camminando gomito a gomito, ognuno chiuso nei propri pensieri.
La strada penetrava nella foschia, come un fuso in un batuffolo di lana candida appena carminata. Qualche lieve frangia veleggiava sospesa incontro ai viandanti. Il pescatore, passando, ne disfece una con la mano. Disse: «Lo sai, Floris Efisio, che la nebbia è l'anima delle paludi?»
«Le tue paludi… Come sono le tue paludi, Atzori Giosué?» chiese l'altro.
«Sono come un mare buono. Anche un bambino ci può giocare, senza danno. Il mare, invece fa paura.»
«Perché fa paura il mare? E' per questo che tu non entri nel mare a pescare…»
«Ci ho provato qualche volta. Tu non sai come è infido il mare. Tutto ciò che è rovina e danno viene dal mare. Vento e pioggia vengono dal mare. Il sale che ti brucia gli occhi, che inaridisce erbe e piante. Truffatori e ladri vengono dal mare… Il suo fondo è scuro come l'anima del demonio.»
«Io l'ho visto solo da lontano, il mare. Però capisco perché lo temi. Ma tu non temi le tue paludi. Dimmi, come sono le tue paludi?»
L'altro lo guardò stupito. Disse: «Perché vuoi che te ne parli? Che gusto puoi provarci tu, minatore, a sentir parlare delle mie paludi?»
«Una cosa voglio capire meglio, Atzori Giosué: cos'hanno queste tue paludi, perché tu le ami tanto fino a patire la galera, per esse?»
Il pescatore rallentò il passo, per raccogliere meglio i pensieri. Disse: «Non me lo sono mai chiesto. Credevo che tutti gli uomini sapessero perché uno patisce la galera per amore delle sue paludi. Così non mi sono neppure preoccupato di rispondermi.» Si interruppe, guardò in faccia il compagno, gli chiese: «Tu, Floris Efisio, se ti chiedessero perché corri in mezzo al fuoco per salvare tuo figlio, tu, Floris Efisio, ti preoccuperesti di trovare una risposta?»
«No so… forse…»
«Forse… forse per lo stesso motivo ho patito la galera.»
«Ho capito, adesso, Atzori Giosué. Tutti gli uomini vogliono le stesse cose e soffrono per le stesse cose.»
«Sì, Floris Efisio, gli uomini vogliono giustizia, soffrono per la giustizia.»
Parlando si erano spinti fin dove la nebbia costeggiava la strada. Ai margini di essa il pescatore vide i primi ciuffi di falasco. Gli parve di intravvedere un lembo cinereo di laguna, appena increspata dalla maretta, e di udire lo sciabordare dei barchini. «Ho avuto paura di non arrivare,» mormorò, «come ho potuto?»
Il minatore andò con lo sguardo lungo la strada che piegava da un lato, costeggiando il cumulo di nebbie, filando poi diritta chiara fino all'orizzonte. «Sono stanco,» disse a se stesso triste, «ma so anche, ora, che la strada non sarà lunga.» E si rasserenò.
Il pescatore con un guizzo saltò nella melma. Stropicciò con gusto i piedi scalzi nella fanghiglia tiepida, grattandoli sui gusci delle arselle. «Guarda, Floris Efisio, guarda! E' proprio la palude,» disse, voltandosi indietro…
Vide la strada grigia lontana - esile cordicella di palamite - e su di essa scorrere - minuto nodo di lenza - il minatore. Allora si accoccolò sulla terra, com'era sua abitudine antica - con le natiche sopra le calcagna e metà dei piedi infissi nella melma. Nascose la faccia fra le mani appoggiate sulle ginocchia. Stette così immobile, lasciandosi avvolgere dalla carezza umida della nebbia.
Ripensò ai suoi - il giorno più bello della sua vita. Erano forse in duecento, quel giorno, in mezzo alla palude, davanti a tutta la gente accorsa sulla riva, per vedere. C'erano più carabinieri che pesci, quel giorno. I pesci li avevano gettati sulla riva, ai piedi del popolo. Poi avevano dato i polsi alle manette Le donne e i vecchi avevano pianto, quel giorno. E i bambini muti assorti guardavano senza poter capire…
Si scosse di dosso i ricordi agitati. Pensò: «L'uomo non è mai solo, se è in pace con sé,» e si levò sereno. Entrò in acqua, fra canneti e giunchi. Avanzò immergendosi fino alle reni. Vide un grosso cefalo - lo sorprese insonnolito nella melma. Lo agguantò rapido, stringendolo alle branchie. Lo levò in alto. Lo osservò divincolarsi, e sorrise ilare. Dopo, lo lasciò cadere, e lo seguì con lo sguardo allontanarsi guizzando nell'acqua torbida. Pensò: «Un giorno, tutte le acque e tutti gli uomini del mondo saranno liberi.»
Tornò a riva. Ritrovò la breve radura tra i giunchi, dove i barchini di falasco appoggiati ai pali asciugavano alla brezza. Si accoccolò. «L'uomo sarà felice, allora,» mormorò. E attese così quel giorno.

Il minatore si ritrovò solo sulla strada grigia. E ripensò a lei, nel sentiero aperto tra gli ulivi. Ripensò ai compagni, seduti sulle cataste di eucalipto - intorno al pozzo.
Mosse più rapido il passo. Un suono d'organo, venuto da lontano nel tempo, giunse alle sue orecchie. Non ricordava di aver mai udito quel motivo, eppure gli parve noto - gli parve di averlo già vissuto. Ogni nota prendeva forma, era un'immagine che egli ritrovava dentro di sé. Si sforzò di collocare ogni istante - ogni immagine - al proprio posto. Annaspava con dita febbrili nel cumulo dei frammenti che erano stati il mosaico della sua vita…
La prima immagine che si ricompose nitida davanti ai suoi occhi fu il volto dei sedici anni. «Perché? Perché?» Si chiese con angoscia, «perché devono incontrarsi solo così gli uomini?»
Accelerò ancora l'andatura. La strada era lieve scorrevole sotto i suoi piedi. Ritrovò il volto di sua madre. La vide - allora soltanto - come non aveva potuto vederla. Stava dentro la bara aperta, sull'uscio di casa spalancato in un lungo viale di cipressi. Non c'erano fiori, né ceri intorno alla bara - solo un gruppo di donne contadine. Una si era avvicinata. Toccandole i capelli aveva detto: «Peccato, non erano tutti bianchi i suoi capelli.» Le altre assentivano con un mesto dondolio del capo. Dicevano: «Come è bella. Non erano tutti bianchi i suoi capelli.» Lei sentiva e capiva, compiaciuta. «Come vorrei che fosse qui Efisio, adesso a vedermi, adesso che sono così bella,» pensava che se avesse gridato la sua voce sarebbe giunta fin nelle viscere di pietre entro cui suo figlio scavava. Si sforzava di sollevare la testa e di gridare. Rintocchi venivano dal cimitero. Si udivano appena. Le donne contadine presero la bara a spalle e si mossero. Lei vedeva i cipressi a lato sollevarsi giganteschi fino al cielo. «Perché non viene?» Si chiedeva con assillo senza volto, «Forse mi attende là.» Il viale nero pareva interminabile. «Sì,» cercava di placarsi, «deve essere proprio là, ad attendermi.» Tentò inutilmente di guardare avanti, attraverso il varco del cancello che si apriva senza cigolio. «Lo vedrò chino su di me, tra poco.» E con un prodigioso sforzo spalancò gli occhi e gettò un grido… Occhi e bocca si empirono di terra.
Floris Efisio lo sentì allora il grido. Il suo andare divenne corsa. La strada si era fatta più chiara. L'azzurro del cielo più cupo. Era la stessa strada che dalla laveria portava al pozzo. Capì che stava per compiersi il suo destino. «E' questo che tu volevi? E' questo?» Si chiese - ripetendo parole già pronunciate. Non attese risposta. Chiuse gli occhi - non per paura, ma per capire meglio, per vedere meglio.
La strada grigia era finita. Dopo un serpeggiare di tornanti scoscesi, tra cumuli di sterili ghiaie e di velenose euforbie, si spalancava un abisso tagliente, assurdo nell'azzurro senza confini.

Il minatore risentì l'urlo della frana, il ghiaccio del silenzio e l'angoscia del tempo scandito dal martellare del cuore nel buio della pietra. Si tenne immobile, con gli occhi serrati, accoccolato, rattrappito, chiuso, stretto in ogni molecola del suo essere, per ripararsi, per resistere al peso della montagna, per sopravvivere dentro se stesso. Vide allora, per la prima volta, con una chiarezza luminosa. Si percepiva distinto e nitido con ogni suo senso. Fuori si era fatto il nulla. Dentro scoprì un universo animato da immagini sensazioni pensieri, che egli possedeva e che egli aveva ignorato di possedere.
Con animo rinato si accinse a rivivere ogni momento già vissuto, purificato da ogni scoria. Ritrovò persone, oggetti, luoghi, parole in una dimensione nuova. Ritrovò i sedici anni biondi. Ne assaporò gli occhi limpidi e il sorriso dolce. Indugiò intenerito, perché lei lo aveva ripreso per mano, scuotendo indietro i capelli lunghi lisci, avviandosi per il sentiero aperto tra gli ulivi… Era il primo maggio. Il pomeriggio del primo maggio. Le mimose erano in fiore. Egli ne portava un mazzetto all'occhiello della giacca. Lei ne aveva sparse tra i capelli, e tracce di polline aveva nelle guance. La festa si era fatta in una radura sopra un colle. Una sera di danze, di vino, di speranze, di strette di mani, di canti, di liberazione. Una sera con un futuro umano. Un compagno aveva tenuto comizio. C'erano tutti. C'erano i ragazzi, le donne e le fanciulle. Si erano cercati con gli occhi, fra la gente. E si erano trovati, con un sorriso di gioia. Egli si era avvicinato. Erano rimasti ad ascoltare, ai margini della folla, sull'orlo del costone. Lei lo aveva preso per mano, scuotendo indietro i capelli lunghi lisci, avviandosi per il sentiero aperto tra gli ulivi…
Si ritrovò tra i compagni in tuta azzurra, col tascapane a spalla e la lanterna ciondoloni tra le mani. Sedeva sopra le traverse accatastate intorno al pozzo, aspettando in silenzio il turno.
La gabbia, dentro il castello di travi, riapparve gocciolando stille di buio. Scendendo, l'eco della campana vibrò lungo il cavo. «Suona a morto, oggi.» Aveva pensato e detto a uno. Nessuno gli aveva risposto. Aveva risposto poco dopo la frana, in un budello che si allargava formando una bolla. Bisognava armarla e superarla a tutti i costi, la bolla… o sperare che la volta reggesse da sola, per non perdere il filone. Sette erano rimasti insaccati dietro un diaframma di roccia spessa. Si erano stesi da sé soli nella tomba - uno a fianco dell'altro, tenendosi l'un l'altro la mano, con gli occhi aperti nel buio, senza parole da dire o da udire, frenando,soffocando l'inutile pulsare della vita.
Floris Efisio li ritrovò. Li riconobbe. Li contò. Li salutò uno ad uno. C'era posto anche per lui nella sacca. Si distese accanto al settimo. Pensò: «Attenderò con loro. E' qui che io desidero restare. La montagna si aprirà, un giorno. Tutte le montagne si apriranno… e gli uomini vedranno finalmente la luce del sole. Sarà un giorno meraviglioso, quel giorno. L'uomo sarà uomo.»





Heinz il Metzger


Heinz faceva il garzone di Metzger da venti anni. Affettava e gettava la carne bollita nell'imboccatura della macchina e girava la manovella senza strappi, a ritmo controllato. Lavorava dalle sette del mattino alle cinque del pomeriggio, esclusa la pausa di quarantacinque minuti per la colazione. I Würste uscivano dalla sua macchina regolari tesi compatti. Ogni mezzo metro chiudeva il budello di plastica con un giro di filo. Il tempo di produzione di Heinz - con macchina calibrata "f 5" raggiungeva la media di sette metri e cinquantotto centimetri orari. Una media che ben pochi garzoni riuscivano a mantenere. Per questo Heinz era ben voluto dal padrone, rispettato dai colleghi e pagato con cinquecento marchi al mese.
Heinz era un tipo industrioso. Sapeva fare di tutto: riparare un cordone di ferro da stiro, sturare un sifone di lavandino, riassestare una porta sgangherata. I vicini bussavano ai vetri della sua cucina ad ogni ora, per chiedere favori - ancor più il sabato e la domenica che Heinz trascorreva in casa. Ripuliva e riordinava l'appartamento, seguendo la radio, con la stufa a carbone accesa. Erano le sue ore migliori, e diventava quasi allegro - se la radio trasmetteva marce militari o valzer di Strauss, fischiava come un merlo dietro il motivo.
Heinz non si occupava di politica; ascoltava e taceva - ciò che gli entrava in un'orecchia gli usciva dall'altra. Ma quando la predica veniva da quelli della "zona orientale" si arrabbiava. Spernacchiava, sputava uno "Scheisse!" e girava la manopola della sintonia. Quelli della "zona orientale" erano astuti: cominciavano con la musica, melodie popolari e marcette alla Bismarck, poi, d'un tratto, ci infilavano la loro politica del "bla, bla, bla". Ma Heinz era pronto a cambiare stazione; al massimo quelli della "zona orientale" riuscivano a rifilargli un paio di slogan.
Heinz conosceva bene quelli della "zona orientale", dove un garzone di Metzger guadagnava appena trecento marchi. Li facevano lavorare in cooperativa statale, senza partecipazione agli utili. Quando capitava, si sfogava con lo spagnolo della casa a fianco. Si appoggiavano allo steccato comune, ognuno dalla propria parte, e discorrevano. Heinz parlava chiaro e lento, metteva i verbi all'infinito e gesticolava, per farsi capire meglio. Diceva: «Scheisse, quelli della zona orientale.»
E lo spagnolo: «Mierda? Porqué mierda?»
«Porqué mierda? Warum Scheisse?» Ripeteva Heinz - e si incupiva e si aggrottava in viso, concentrandosi per mettere ordine nei pensieri. Cominciava sempre dalla guerra, da quando aveva diciassette anni, ed era partito nella zona orientale con un reggimento di volontari della "Jugend" per tamponare la falla apertasi in seguito alla disfatta del generale Von Aschen. «Die Verräten! Noi perdere guerra a causa di traditori!»
«Quelli della zona orientale, cultura di merda!… Sapere tu cosa fare ai prigionieri? Spogliare e derubare di ogni oggetto di valore. Se avere un anello, sfilare dal dito. Se dal dito non sfilare, allora trac-trac-trac-trac! slogare articolazione sù-giù-destra-sinistra e zac! strappare il dito con anello. Anello in tasca e dito buttare via. I prigionieri restare a guardare loro dito per terra con mano tutta sangue… Scheisse, quelli della zona orientale!»
Ogni volta che raccontava l'operazione del dito, Heinz impallidiva e prendeva ad accarezzarsi angosciosamente l'anulare.
«Sai tu cosa fare alle donne? Violentare davanti marito e figli. In paese di frontiera, violentare donne appena partorito… Scheisse, quelli della zona orientale.»
Lo spagnolo, dal canto suo, simpatizzava per quelli della zona orientale. Era scappato per fame dal suo paese. Suo padre, minatore, era stato garrottato. Prima di farsi prendere dalle guardie civili ne aveva steso due con la testa fracassata da una spranga di ferro. Nel paese di Heinz lo spagnolo aveva trovato lavoro, una donna bionda e una vecchia auto - che in quei giorni stava riverniciando di rosso. Per queste cose non gli pareva garbato polemizzare. Diceva: «Sì», storceva la bocca, e imitando la spernacchiata di Heinz faceva eco: «Scheisse! Mierda! Todo el mundo mierda.»
Heinz era un tipo metodico. Nel cortile dietro casa, sotto la tettoia, accumulava ogni genere di residui metallici che ordinava e catalogava in uno scaffale a scomparti a seconda della pezzatura. I vicini attingevano di frequente al deposito di Heinz; ora una vite, ora un raccordo, ora un utensile. Heinz dava o prestava tutto con piacere, e si doleva se l'oggetto richiesto non si trovava.
Una volta - era un pomeriggio, di sabato - si ruppe il tubo di scappamento dell'auto di un italiano di passaggio. Un'auto di zingaro, con il sedile posteriore trasformato in giaciglio, piena di coperte disfatte e di biancheria sporca. Il tubo di scappamento, roso dalla ruggine, era caduto per strada. L'italiano scese a raccoglierlo e a verificare il danno. Il motore aperto rombava come un trattore.
Heinz, attratto da quel fracasso, uscì in giardino e appoggiatosi coi gomiti sullo steccato rimase a vedere come se la sarebbe cavata lo straniero.
L'italiano, raccolto il pezzo di tubo, si sforzava di infilarlo nella parte rimasta attaccata.
Solo per pochi minuti Heinz riuscì a seguire con distacco gli infruttuosi tentativi dello straniero - il senso del dovere mutualistico lo spinse ad intervenire. Aprì il cancelletto e uscì in strada. Toccò lo straniero su di una spalla, discretamente. L'italiano si voltò di scatto, corrucciato - mutò l'espressione quando vide la faccia aperta di Heinz.
«Non gut», disse Heinz scuotendo il capo, indicando il tubo di scappamento.
«Già, non guto.» Assentì con disappunto l'italiano.
«Komm!» Propose Heinz indicando la tettoia visibile oltre lo steccato.
L'italiano non capì. Era sospettoso per natura e per esperienza. Sapeva e pensava che in ogni uomo poteva nascondersi una fregatura.
Heinz ripeté l'invito: «Komm! Reparature…» e decisamente si tirò dietro lo straniero.
Sotto la tettoia mostrò il deposito e lo scomparto tubi. Sorrise e disse: «Roar… für deine Auto. Capire?»
L'italiano capì. Si sciolse abbozzando un mezzo sorriso - pensò di essersi imbattuto in uno un po' tocco. O forse in un trafficone, uno di quei tali che alla prima occasione ti rifilano la fregatura. Non era mica fesso, lui. I "napoletani" li riconosceva a naso. Sfregò tra loro indice e pollice, accennando ai tubi. «Quanto costare? Quanto gheldo?» chiese.
Heinz scrollò le spalle e spernacchiò. Fece "pfui" con le labbra e con un gesto della mano. Disse: «Ach! Kein Geld…» e si mise a rovistare tra i tubi, alla ricerca di quello giusto. Ne trovò uno. Stette ad osservarlo a lungo, incerto. Poi disse: «Ein Moment» e andò a controllarlo sotto l'auto.
L'italiano gli corse dietro, sospettoso- pensò che quello svitato poteva approfittarsene e fregarsi qualche pezzo del motore. Heinz fischiettava, immerso nel problema. Il tubo che aveva trovato era troppo grosso. La lunghezza poteva andare. Tornò sotto la tettoia portandosi il pezzo originale. Lo batté e lo scrollò per liberarlo dalla ruggine. Disse: «Kapput… ganz kapput.»
«Già, ganzo caputo…» assentì l'italiano, seccato.
I pezzi di tubo dello scomparto erano tutti troppo grossi o troppo fini. L'italiano prese a bestemmiare, perché il tempo passava inutilmente e perché non riusciva a capire le intenzioni di quel matto. Il quale, controllati e ricontrollati uno per uno i tubi, se ne restava pensieroso a scuotere il capo.
Heinz era un tipo testardo. Si era reso conto che nessun pezzo del suo deposito andava giusto. Tuttavia non avrebbe mollato lo straniero senza avergli prima riparato il guasto. Disse: «Nicht fahren… Verboten… Polizei.» E calcò l'accento sulla parola "Polizei", per convincere l'altro che bisognava assolutamente riparare il tubo prima di riprendere il viaggio.
L'italiano ricordò in quel momento di aver lasciato il motore acceso. Bestemmiò a voce alta e si precipitò a spegnerlo. Heinz gli andò dietro. L'italiano cercò di spiegargli: «Motore… roh, roh, roh… molta benzina, molto gheldo…» e riprese a bestemmiare per i soldi gettati al vento. Heinz, che non aveva capito, fece "pfui" e spernacchiò. Disse: «Nein, nein… das Motor Ist gut», e riprese a trafficare sotto la tettoia - stavolta nello scomparto lamiere. Ne trovò un pezzo che gli parve adatto. Picchiando con il martello attorno al tubo, prese ad arrotolare la lamiera.
Lavorò per alcune ore, fischiettando, e brontolando quando la lamiera chiusa ad una estremità si riapriva dall'altra. Ebbe un'idea geniale: fermò un'estremità della lamiera arrotolata con un morsetto, mentre picchiava dall'altra. Saldò l'opera compiuta con alcuni ribattini. Contemplò a lungo il tubo finito. Dopo lo mostrò allo straniero esclamando: «Fertig!»
L'italiano tese una mano. Voleva controllare anch'egli, rendersi conto se quell'accidenti fosse arrotolato saldamente. Ma Heinz non mollò il tubo. Disse: «Warte. Ein Moment!» e sparì. Tornò mezz'ora dopo con una torcia elettrica.
L'italiano, intanto, per strada, bestemmiava e sbatteva i piedi sull'asfalto per riscaldarsi.
Heinz piazzò la lampada sotto l'auto, ma aveva dimenticato qualcosa e sparì di nuovo. Ritornò con un telo cerato arrotolato sotto braccio, fischiettando. Si era trattenuto in casa appena un poco, giusto per ascoltare l'ultima parte di un valzer di Strauss.
Quand'ebbe finito il lavoro si stropicciò le mani soddisfatto. Disse: «Alles ist in Ordnung!» e diresse la luce della torcia sullo scappamento. Lo scosse per verificarne la solidità. Spernacchiò e disse: «Fest! Ganz fest!»
L'italiano ripeté l'operazione. Disse: «Già, ganzo festo…» e offrì una sigaretta, contento.
Heinz scorse il luccichio di un anello nella mano tesa. Si turbò. Sussurrò: «Du… Glücklich… Du…» E disse allo straniero che doveva considerarsi davvero fortunato di non essere caduto in mano a quelli della zona orientale. «Sapere tu cosa fare in guerra? Ja, krieg… guerra… Prigionieri con anello, grande dito e piccolo anello, dito trac, trac, trac… sù-giù-destra-sinistra… zac! weg! Strappare… anello in tasca e dito via… Ja, ring in Tasche und Finger weg… Scheisse, quelli della zona orientale… Keine Kultura, Scheisse Kultura.»
L'italiano assentiva, fingendo di capire per chiudere il discorso e andarsene via al più presto. Egli non sapeva che quella sera era un sabato sera.

Heinz era un tipo sereno, vispo come un fringuello durante tutto il gelido inverno. Rientrava dal lavoro all'imbrunire. Prima di entrare in casa sostava nel pianerottolo e strofinava i piedi sullo stuoino, sbuffando vapore. Entrava in cucina, toglieva dalla borsa i resti della colazione, li riponeva nel frigorifero; accendeva la radio e la stufa; su questa metteva due pentole d'acqua - poi se ne usciva a trafficare sotto la tettoia. Il suo deposito si arricchiva ogni giorno di nuovo materiale che raccoglieva per strada davanti alle officine e nei cortili delle fabbriche.
In quell'inverno gli accadde l'incidente. Accadde il dodici dicembre, di pomeriggio. Erano le quattordici e trentacinque, quando Heinz si apprestava a chiudere il suo novantacinquesimo Würst dal diametro di cinque centimetri. Gli era parso di vedere qualcosa di lucente nell'impasto di carne e grasso, qualcosa di simile ad un anello. Heinz immerse rapidamente la mano nella pasta per afferrare l'oggetto. Ma la macchina andava automatica, quel giorno, e fu più veloce di lui. La lama gli trinciò nette quattro dita, lasciandogli salvo il pollice.
Tornò a casa triste, quella sera. Sudava, nonostante l'aria gelasse. La mano amputata cominciava a dolergli, ma non tanto - forse perché il taglio era netto, forse perché aveva medicato la ferita. Il padrone Metzger non si era accorto di nulla, per fortuna. E altra fortuna, si trattava della sinistra. Poteva fare benissimo a meno della sinistra, per il suo lavoro. Ora le macchine dei Würste andavano anche automatiche… Aveva rimesso nell'armadietto a muro cotone garza boccette. Tutto a posto, senza che nessuno si fosse accorto di nulla. Il cotone sporco di sangue se l'era messo in tasca… Poco sangue, però… Se ne era stupito. Come mai, così poco sangue? Forse dipendeva dall'inverno. Col freddo, il sangue scorre più lento. Se il freddo è molto intenso, il sangue gela e si ferma. In guerra, gli era accaduto di vedere sulla neve resti umani intatti, senza aver perso il sangue. Ai primi tepori della primavera cominciavano a stillare… Appena veniva fuori tutto il sangue, quei resti si decomponevano…
Heinz aveva pensato di conservare le dita nel frigorifero; regolandolo al massimo, le dita si sarebbero conservate per l'eternità. Chissà? avrebbe anche potuto riattaccarle al loro posto. Se non hanno perso sangue, restano vive e l'operazione è possibile - pensò - anche le ossa si riattaccano. Lo sanno tutti.
Tolse il grappolo di Würste dalla borsa e li mise sopra il tavolo di cucina. Aveva chiesto al padrone Metzger di poterne prendere qualche chilo per casa - come usava. Li aveva pesati lui stesso, e i diciassette marchi li aveva registrati, con lo sconto del tredici e mezzo per cento, nella ricevuta lasciata al contabile della ditta.
Per strada i Würste si erano gelati. Heinz li scorticò e ne frugò la polpa attentamente. Nel primo non trovò nulla. Nel secondo trovò il medio. L'indice e l'anulare li trovò insieme nel terzo. Nei rimanenti non trovò nulla. Per quanto cercasse non gli riuscì di trovare il mignolo. Forse era rimasto nel tubo di scarico. Ne resta sempre una manciata abbondante, nel tubo di scarico - pensò - la macchina gira a vuoto, quando non ha più impasto da comprimere; ma nel tubo di scarico ne resta sempre una manciata buona. Era stato uno stupido, non averci pensato… Ormai non c'era speranza alcuna di ritrovare il mignolo. Nella Metzgerei, finito il primo turno, cominciava il secondo, e la macchina riprendeva a funzionare. All'alba i camions della ditta caricavano i Würste e facevano il giro di distribuzione ai Gasthof… «Il dito mignolo», si disse,«non è un dito importante.» Ne conosceva parecchi senza mignolo, e mai nessuno si era lamentato. Se la cavava benissimo. Altra faccenda, se avesse perso l'anulare… fa uno strano effetto, una mano senza l'anulare. Durante la guerra ne aveva viste tante di mani senza l'anulare. Era come vedere un pube d'uomo senza membro.
Lavò le dita recuperate nell'acqua corrente, e nel lavarle le controllò accuratamente. Tutte e tre erano in ottimo stato; si articolavano perfettamente, e avevano perso pochissimo sangue, quasi niente. Le pose, ben distese, sul fondo di un piatto e le conservò nel frigorifero, scomparto surgelati. Dopo accese la radio e la stufa.
La radio trasmetteva marcette e Heinz finì di rasserenarsi e attaccò a fischiettare. La stufa tirava a vuoto, e aggiunse due pani di carbone. Riempì le pentole d'acqua e le mise sopra la lastra. Fischiettava, cucinando… Chissà quante dita si erano perdute durante la guerra. Dita che restavano intatte per lungo tempo, nella neve. Perché, mai nessuno aveva pensato di raccoglierle e magari di riattaccarle? La scienza moderna riattacca ogni cosa, anche i cuori. Figuriamoci le dita… Ma in guerra non si pensa a riattaccare ciò che si rompe. Non se ne ha il tempo, forse. E anche ad averci pensato, quelli della zona orientale non lo avrebbero permesso. Sarebbero stati capaci di sparare addosso un caricatore di mitra a chi avesse osato raccogliere un solo dito dalla neve… Certo, che le dita si possono riattaccare. Si può riattaccare tutto, oggi giorno…
Ogni sera, rientrando dal lavoro, Heinz entrava nel Grossmarkt del suo rione. C'era un piacevole caldo e molto su cui curiosare. Più a lungo si tratteneva al secondo piano, al reparto utensili. Di recente aveva visto nuovi mastici, capaci di saldare il ferro. Alcuni li aveva già sperimentati e ne era rimasto soddisfatto. Il manico dell'ombrello, per esempio: una saldatura solida, resistente agli urti…
Seguendo il filo dei suoi pensieri uscì nel cortile e si diresse alla tettoia. Dall'altra parte dello steccato, sotto la luce di una lampadina, lo spagnolo ungeva di vaselina le cromature dell'auto riverniciata di rosso. Lo spagnolo vide Heinz e lo salutò cortesemente con un "Buenas tardas." Heinz non lo vide e non lo udì, fischiettando soprappensiero.
Rovistò nello scomparto vernici e mastici. Spernacchiò tre volte di seguito, ilare. Aveva trovato ciò che cercava, un tubetto seminuovo. Con quel mastice avrebbe potuto riattaccarne cento…
Quando Heinz ripassò nel cortile lo spagnolo ripeté il suo "Beunas tardas", a voce più alta stavolta, per farsi sentire. E Heinz stavolta lo udì. Sobbalzò e cacciò in fretta la mano ferita e il mastice in tasca.
Heinz era rispettoso della privacy. Tutto ciò che ti appartiene per diritto incontestato è privacy. La libertà di ubriacarti, i fondelli delle tue tasche, la capacità di erezione del tuo membro, l'accesso al cortile di casa tua… Egli, manovrando la sua auto, non si era mai permesso di infilarsi, neppure con il paraurti, nei vialetti di accesso ai cortili dei vicini - come al contrario era solito fare lo spagnolo, per il quale ogni spazio aperto, o mal richiuso, era valicabile. Gli stranieri non avevano rispetto alcuno della privacy, ed Heinz se ne doleva… Non molto tempo prima s'era preso una memorabile arrabbiatura a causa di uno straniero - piccolo bruno, capelli neri riccioluti - che si era fermato per strada a molestare un cittadino-ubriaco del sabato sera. Heinz aveva anche redarguito lo straniero, il quale, vociando nel suo scivoloso idioma, allungava le mani all'uomo seduto sul marciapiede. L'ubriaco dondolava la testa scuotendo una lunga capigliatura bionda, e mugolava come chi ha il mal di denti e sospirava agitando le braccia. Lo straniero, vedendolo, si era fermato impietosito. Aveva l'anima del buon samaritano. Voleva aiutarlo a sollevarsi e poi riaccompagnarlo fino a casa, se non fosse stata troppo lontana. Non aveva un accidente da fare; si era annoiato tutto il giorno, gironzolando senza costrutto. L'avrebbe sorretto su per le scale e accompagnato fin dentro casa. Sarebbe rimasto a chiacchierare con la famiglia. Lo avrebbero accolto riconoscenti. In ogni famiglia ci sono donne, spesso giovani e carine, e forse ben disposte verso gli stranieri. Per sdebitarsi gli avrebbero offerto una buona tazza di caffè caldo; forse anche uno Schnapps. Avrebbe fatto amicizia - un tipo bruno e simpatico. Sarebbe certamente finito a letto con qualcuna delle donne di casa, forse con tutte… Pensava così lo straniero, tendendo le mani all'ubriaco che dondolava la testa mugugnando, seduto sul marciapiede - quando passò di lì Heinz. Heinz udì l'ubriaco protestare: «Un onesto cittadino non può neppure ubriacarsi in santa pace senza che il prossimo straniero ti salti sopra i nervi.» Allora Heinz si era irritato e aveva redarguito lo straniero. «Straniero, prego, lei non deve dare molestia a questo signore, padrone della sua privacy…» E aveva spernacchiato con disgusto, pensando: «Scheisse, diese Ausländer… Scheisse Kultura!» Lo straniero si era allontanato disgustato e in cuor suo deluso di non aver potuto compiere una buona azione. «Ma guarda che razza di gente puttana! Vai ad aiutare il prossimo… Gente senza religione… tu gli fai una carezza e quelli ti cavano un occhio.»
Heinz era civiliziert, ovvero un tipo controllato cortese. Al saluto dello spagnolo si fermò per cortesia. Sorrise a denti stretti e rispose: «Guten Abend», dentro s'era chiuso come un istrice.
Lo spagnolo credette di vedere tracce di preoccupazione nella faccia di Heinz, e la sua sensibilità ne fu toccata. Si fece avanti fino allo steccato e chiese premuroso: «Qualcosa non anda, amigo? Sorgen?»
Heinz nascose la sua privacy dietro un sorriso. «Alles gut.» Rispose, e per tagliar corto, aggiunse: «Mucho Arbeit, heute… Ja, mucho trabajo…»
Ritrovò il suo buon umore non appena si richiuse alle spalle la porta di casa. Riaccesa la radio - la stufa tirava ancora - trovò musica allegra e attaccò a fischiettare. Decise di cenare prima di compiere l'operazione. Subito dopo sarebbe stato opportuno mettersi a letto, lasciare immobile la mano per tutta la notte. Per evitare eventuali tensioni nervose avrebbe preso due o tre pastiglie di tranquillanti. Le prescrizioni del tubetto indicavano in tre ore il tempo utile per un perfetto incollaggio; ma non sarebbe stato male abbondare, nel caso di un intervento delicato.
Cenò coi resti della colazione. Sparecchiò, pulì piatti e posate, rimise ordine in cucina; infine preparò il tavolo per l'operazione.
Trasse le dita dal frigorifero, le asciugò accuratamente con garza sterile. Le articolazioni erano un po' rattrappite. Ciò doveva dipendere dal freddo. Il taglio era ancora vivo, appena imperlato di umore rosa. Ricordò le istruzioni: Le "parti devono essere perfettamente asciutte, se si desidera ottenere un ottimo risultato." Eseguì con un batuffolo di cotone, e spalmò il mastice filamentoso - prima sul taglio delle dita mozzate e dopo sui moncherini della mano. Fece il lavoro sotto la lampadina, con estrema attenzione. "Il mastice non deve essere troppo , né poco", rilesse nel tubetto. "E prima di unire le parti, lasciare asciugare per tre minuti esatti." Heinz mise l'orologio sopra il tavolo. Allo scadere dei tre minuti riattaccò le dita, ognuna al suo posto, facendo combaciare esattamente le sezioni. Tutt'intorno alle riattaccature avvolse una buona dose di Skotsch. Infine fasciò strettamente con una benda tutta la mano. L'operazione era perfettamente compiuta.

Heinz era un tipo umanitario. Avrebbe divulgato la notizia attraverso la stampa e la radio. Molti reduci, se non direttamente tramite la Croce Rossa, avrebbero ricercato le loro dita amputate nella pianura gelata della zona orientale e avrebbero potuto riattaccarsele. Nel caso di una nuova guerra, il mastice avrebbe disarmato la brutalità dei cacciatori di anelli… La radio attaccò l'aria del Dottor Zivago - molto in voga in quei tempi in quei giorni perché si stava proiettando il film. Ad Heinz piaceva molto quel motivo, e si riprometteva di andare a vedere il film in seconda visione. Il film - aveva sentito dire - parlava di quelli della zona orientale, di quando fecero la rivoluzione… Heinz aveva paura della rivoluzione. Ne parlava qualche volta con lo spagnolo - al quale le rivoluzioni pareva non facessero né freddo né caldo. Heinz sosteneva l'utilità di restare magri: «Meglio essere magri che grassi. Ci guadagna la salute.» E il giorno che fossero arrivati quelli della zona orientale, i magri, più agili, avrebbero fatto in tempo a mettersi in salvo. I grassi, invece, li avrebbero presi subito. Anche per le dita, la stessa cosa. Se il dito è grasso, l'anello non si sfila. Quei farabutti lo strapperebbero. Trac, trac, trac, trac… sù-giù, destra-sinistra… «Scheisse, quelli della zona orientale!».
L'aria del Dottor Zivago era il solito trucco. Uno speaker si inserì d'improvviso nel motivo in dissolvenza e attaccò il sermone. «La rivoluzione è il cemento che lega le classi lavoratrici…» Heinz si precipitò a girare la manopola della sintonia, spernacchiando stizzito. Si ricompose subito, preoccupato d'aver compiuto movimenti bruschi che potevano nuocere al buon esito dell'incollatura. Disgustato, spense la radio e se ne andò a letto.
Dormì con la mano operata sopra il comodino e fece un lungo sogno.
Heinz credeva ai sogni. Aveva sentito dire che ci credono anche gli scienziati. Svegliandosi ricordò il sogno in tutte le sue sequenze, nitido come un film in tecnicolor. Ma il suo pensiero corse alla mano. Non gli doleva. Questo era un sintomo positivo. Solo, la sentiva un po' fredda. Avrebbe dovuto coprirla con un panno di lana, durante la notte. Cercò un vecchio guanto di lana e se lo infilò.
Anche nel sogno aveva la mano fredda. Aveva perduto un guanto - il sinistro - nella sterminata pianura gelata. La mano nuda bianca avrebbe certamente richiamato l'attenzione di quelli della zona orientale, che stavano sempre in agguato dietro ogni dosso. L'aveva nascosta infilandola sotto il risvolto del pastrano, marciando con noncuranza. Ed ecco, da dietro una montagna di neve, spuntare quelli della zona orientale, coi mitra spianati. Erano vestiti di bianco - simili a fantasmi. Urlando, l'avevano circondato, ma Heinz non si era impaurito. Immobile sulle gambe, li aveva squadrati uno ad uno, sorridendo spavaldo. Quelli della zona orientale, sconcertati, avevano attaccato a parlottare tra loro. Poi, uno di essi - un gigante bruno dal naso camuso - gli aveva agguantato il braccio sinistro, sfilando la mano nuda dal pastrano. Heinz aveva spernacchiato con disprezzo, a faccia alta, in atteggiamento eroico. Quelli della zona orientale avevano sghignazzato, scorgendo la mano nuda bianca e il luccichio di un anello. Ma il loro ghigno si era tramutato in terrore, non appena Heinz aveva tolto dalla tasca il tubetto di mastice, mostrandolo. Avevano gettato le armi ed erano scappati; come diavoli al cospetto dell'acqua santa…
Dopo quel sogno, Heinz non ne fece altri.

Heinz era un tipo che aveva fede nella scienza. Ci credette fermamente fino a tre giorni dopo l'operazione. Il quarto giorno morì di tetano. All'ultimo momento capì di aver dimenticato qualcosa…
Heinz era un uomo buono. Lo disse anche il pastore che lo accompagnò in cimitero e gli fece l'orazione funebre.

 



La mia gente


Ancora un bando, in paese; un altro processo, in piazza. L'imputazione è grave, stavolta. Adulterio. Anche se non c'è flagranza, il processo si celebra per direttissima. Se c'è stata la flagranza, il processo si fa ugualmente ma a ritroso, dato che la sentenza è già stata emanata e la condanna già eseguita. Sia che un uccello vagabondo venga sorpreso a becchettare nel fico del vicino o sia che un'anima negletta invischi nella trappola un usignolo di primo canto per colmare il vuoto della solitudine con la sinfonia dei suoi gorgheggi, l'adulterio si articola e si consuma secondo schemi e tecniche elementari, così antiche, ripetute e note che le indagini durano poche ore - al massimo un giorno. Il tempo per i banditori di diffondere gli estremi del caso e lasciarne parlare la gente. Il tempo per la guardia di ripulire la piazza dalle immondizie, collocare un tavolo e una sedia nel mezzo, convocare giudice e corte.
La legge della mia gente è elastica nel giudicare furti, ricatti, estorsioni e rapine a mano armata, commessi per lo più da chi non ha soldi per pagare l'avvocato o per farsi la casa. Alcuni di questi reati vengono tollerati purché si effettuino nel rispetto della tradizione e in ogni caso, tutti, usufruiscono delle attenuanti particolari per motivi d'onore. Escluso l'adulterio, per cui è prevista la pena capitale. L'unica scappatoia consentita al colpevole è una pubblica dichiarazione di impotenza. Ma la dichiarazione non basta. La mia gente - che pare assente, seduta sbracata sull'acciottolato - in simili circostanze scruta ed esamina con occhio rotondo. E non di rado vuole metterci mano. Esige almeno una delle due prove di prammatica: o l'assenza del corpo del reato o l'incapacità del corpo stesso a compiere il reato. La seconda prova, come la prima, si fa coram populo, in piazza, sopra un'apposita stuoia di lana di pecora nera.
Non è dato sapere se taluno abbia mai superato tale prova, perché nessuno degli imputati l'ha mai richiesta. I vecchi raccontano di un caso - per altro remoto - verificatosi pare nello stesso anno in cui a causa della siccità i topi sitibondi invasero l'acquedotto e scoppiò un'epidemia di colera. Una prova superata - sotto il punto di vista dell'innocenza congenita - tra fischi e urla. Ma i vecchi ricordano troppe cose e con troppi particolari per essere attendibili. Essi, ricordano il caso, riferiscono che l'imputato, un brigadiere di non si sa quale arma, da allora e per sempre fu evitato dai maschi del paese. A nulla valse che circolasse per le osterie, pagando da bere, spiegando di aver fallito non tanto, come temeva, per la presenza della folla, quanto perché la sgualdrinella teneva gli occhi chiusi. Una donna con gli occhi chiusi gli complessava il coso.
Svolgo la mansione di giudice da alcuni anni. Prima facevo il testimone, ed era meglio. D'altro canto non posso esimermi dall'incarico - come vuole la tradizione; e in fin dei conti la mia funzione è puramente ornamentale. La prima volta ho accettato con fede ed entusiasmo. Nella premessa ai codici si legge: «In ogni uomo ci sono tutti gli uomini del mondo e tutte le stelle del cielo.». E' vero che dai sedici anni in poi, preso gusto ai consumi terreni, le stelle non mi hanno più interessato se non di riflesso, dato che interessano la mia gente che dalla loro lucentezza trae auspici per il raccolto del grano e per la filiazione delle pecore. Quando gli auspici delle stelle sono incerti si organizzano danze propiziatrici e si appendono in giro corni di cervo maschio o anche si porta qualche santo in processione.
Dubito che la frase sopra citata sia una recente interpolazione nella premessa ai codici della mia gente - probabilmente effettuata da un esperto in public relation. E' chiaro che se «in ogni uomo ci sono tutti gli uomini del mondo» il dialogo può ridursi a monologo. Non c'è generale che non si proponga di tradurre in pratica la massima. Non sono pochi a sostenere che non solo la politica ci guadagnerebbe, ma anche il teatro. Ciò che un autore ha da dire lo farebbe dire ad un solo attore, senza scomodare una compagnia. Anzi potrebbe dirlo l'autore stesso, improvvisando sul palcoscenico, davanti alla platea vuota. Dicono che andrà di moda, prima o poi. Chi ha da dire si accomoda in un divano e parla. Non deve neppure badare ai mutamenti di tono, è sufficiente che ogni tanto si alzi e passeggi per sgranchirsi le gambe e la schiena.
Purtroppo, dice la mia gente, la vita non è arte ma è mestiere. Un mestiere da far vomitare l'anima. Qualcuno - confuso dai libri della giornalaia - sostiene che il dramma esistenziale nasce nel fondo della coscienza individuale, come un'erezione. Invece non è così. Il dramma di ognuno nasce fuori. Glielo partoriscono gli altri - su misura, come gli abiti che confeziona Angelino. E' il tuo dramma e te lo tieni, e peggio per te se hai la gobba. E' l'abito di prammatica per vivere in società. Spesso ci si soffoca dentro. A qualcuno è accaduto di creparci. In cambio si godono mille e una comodità: la luce elettrica, il vaso da notte, il reggiseno, il televisore, le supposte.
C'è dramma e dramma. La gente di città vive insieme per modo di dire. Il ragioniere del piano di sopra neppure conosce il professore del piano di sotto. Ma se l'uomo scambia l'appartamento dell'altro, siede a cena e si giace con la signora dell'altro, non si accorge di nulla: stessi muri, stessi cibi, stessi letti, stessi odori, stessi orgasmi. L'uomo di città indossa un dramma fasullo, di nylon. Ha perso irrimediabilmente il gusto del dramma genuino, senza cui la vita è noia - dicono: alienazione. Sbadigli a tavola e sbadigli a letto. Per inerzia si continuano a percepire antichi stimoli e si continuano a fare antichi gesti. Ma il palato è ottuso. Per inerzia qualcuno se ne preoccupa: fa la cura dei tonici e legge Lawrence, ovvero il mito del ritorno alla natura.
La mia gente è ruspante. Chi ruspa lotta per la quotidiana sopravvivenza. Ciò significa avere intorno concorrenti e l'assicurazione di un dramma. La mia gente lo chiede insieme al pane: «Dacci oggi, o Signore, il nostro dramma quotidiano…». E i Signori non gliene fanno mai mancare.
Nel dramma c'è il segreto delle ghiandole che tonificano l'organismo. Uno che porta sulle spalle il proprio dramma - di qualunque natura e livello sia, anche una semplice rottura di scatole - è in grado di gustare i tramonti rosa e i cieli stellati, può piangere e può ridere, crede nei miracoli e sa farne, può ingravidare una femmina quando gli pare.

Lo dico subito e senza aprire parentesi: mi piace divagare. Mi piace ancor più da quando mi sono convinto che divagare è il modo migliore di fare dell'arte. Kant non era poeta, né artista: era un teutone. Ziu Bissenti - il pastore che vive con una trentina di servi e di figli, molti dei quali sono stati partoriti dalle pecore tra i macchioni sul monte Arci - è un vero artista. Divaga sempre. Guarda le stoppie aride e dice: - Governo ladro! - Poi un nugolo di zanzare gli molesta le orecchie; fa per scacciarle e leva il capo, vede il cielo, e bestemmia. Allora parla di Dio e della sua infinita misericordia, e trinca metà zucca. Diventa euforico e canta in ottave l'ineffabile gaudio del paradiso, senza conoscere Dante.
Mi ha insegnato ziu Bissenti, a divagare. Ma ci sono portato per natura. Così mi sono dato all'arte. Molti dicono che ho talento; qualcuno lo ha anche scritto, ed io ho conservato i ritagli - caso mai possano servire. Per il momento non sono serviti.
Divagare è come autopsicoanalizzarsi. La mia gente non va mai dallo psicoanalista. I soldi preferisce spenderli nelle bettole. Il vino nero va meglio di quello bianco e dell'LSD. Si psicoanalizza e i risultati sono ottimi. Si riesce a confidare a se stessi i segreti più torbidi che brulicano nel sottofondo della coscienza, senza rischi. Un latitante non andrebbe mai a raccontare i fattacci suoi ad uno psicoanalista, anche se vestito in borghese. Il motto del ruspante è "meglio un lombrico oggi che il mangime integrale per tutti i domani". Il ruspante soffre di claustrofobia; ignora le buone maniere - dopo mangiato, solitamente rutta. Non si controlla; se ha voglia di orinare, orina; se vede per terra qualcosa che luccica, si precipita a raccoglierla. Il punto debole del ruspante è la paura; paura della schiavitù, paura di essere inscatolato, paura del buio artificiale. Delle trappole non ha paura; abbocca a tutte le esche, vegetali e carnali. Vi si getta con naturale schiettezza prorompendo in grida di giubilo. Prima agisce, poi riflette. Se cade nella morsa di una trappola gli si stringe il cuore - il che è compreso nel gioco della sua vita; e se deve riflettere è il momento migliore, quando gli si stringono il cuore e il cappio intorno al collo.
La paura della città. I monti e i boschi del mio paese, perfino i cespugli nani in riva al mare, sono popolati di diavoli. Diavoli di ogni categoria, e neppure un angelo. Con tutto ciò mi ci trovo a bell'agio, di giorno e di notte. La città mi fa paura. Il casino delle macchine comprime i testicoli e le luci al vapore del mercurio spengono il pensiero.
In città, ci sono stato una sola volta. Una città grande e lontana… Cinque anni fa approdò nel mio paese una comitiva di uomini bianchi coi polsini delle camicie ugualmente bianchi. La gente - e anch'io - corse a vederli, come fa sempre quando arrivano i rivenditori di stoffe "a barattu". Si autopresentano come "équipe di esperti in allevamenti razionali", in missione. La missione loro era di massificare quanti più ruspanti avessero potuto, con la percentuale sugli utili. Un'attività di alto livello civile e molto remunerativa. Mi trovarono un soggetto interessante, data l'età media e il titolo di studio (dal che ho appreso che età media e titolo di studio delimitano la struttura ruspante). Per assuefarmi - dopo numerosi corsi preliminari graduati - mi trasferirono a Trenken, metropoli industriale, lasciandomi solo con mille denari. A denari finiti - mi dissero - si sarebbero rifatti vivi.
Finsi di non accorgermi che mi pedinavano, mi controllavano, mi fotografavano. Analizzavano e registravano ogni mia reazione, in particolare quelle contestative. Il primo meccanismo contestativo - o di rigetto - lo mise in moto lo stomaco a contatto delle pappe insapori (o meglio, tutte con lo stesso sapore di cervello inerte) che le macchinette del self-service mi sbattevano in mano previa introduzione nelle medesime di denari 1+1 o 2+2. Nei bar più di un cliente-provocatore mi invitò ammiccando a tracannare spumeggianti boccali di birra. Rifiutai sempre la droga a base di estrogeni. Udivo borbottare epiteti razzisti, naturalmente estrogeni. Io abbozzavo, e sogghignando replicavo con parolacce androgene, irripetibili.
Vivevo isolato, cibandomi di scatolette - guardavo prima dell'acquisto la fascetta stampigliata, sceglievo i caratteri arabi.
Le donne mi guardavano dall'alto in basso; e la loro altezza invece mi favoriva, potevo guardarle nel punto giusto con naturalezza. La voglia divenne irrefrenabile allo scadere del quinto giorno. Cercai e trovai alloggio presso una famiglia con numerosa prole femminile. La maggiore aveva un'automobile e l'anima aperta, e la sera stessa mi portò a fare un giretto. Far quella faccenda, lei la chiamava "Spazierfahren" - ma il sugo era lo stesso, tranne che loro senza l'automobile non possono più farla. Pare che si tratti di una questione riguardante i riflessi condizionati. Comunque, rientrando a casa mi sentivo più leggero e attaccai a cantare motteti. Presi a girare in auto dalla mattina alla sera, a turni alternati alle ore lavorative, con tutte le sorelle - le quali erano provocatrici assoldate dalla équipe che mi sperimentava. Al ventesimo giorno dell'abbrivio non davo segno di rallentare; non volevo neppure scendere dall'auto per paura che chiudessero a chiave gli sportelli e ci mettessero di guardia l'arcangelo Gabriele con la sua spada di fuoco. Un'evidente mancanza di autocontrollo - annotarono i miei occulti sperimentatori - e con un banale pretesto mi cacciarono da quella pensione benedetta.
Prima dello scadere del mese avevo commesso altre gravissime dissennatezze. Una mattina, annoiato a morte, mi ero rifugiato in un cantuccio semibuio di una birreria. Bevevo acqua gassata per evitare di mummificarmi al calore secco dei termosifoni. Dovevo averne bevuta in eccesso, mi si ruppe il cosiddetto equilibrio idrico e mi venne voglia di orinare. In tali circostanze, io mi sento portato a seguire l'istinto - la mia gente per definire un uomo felice, dice: «Dove gli viene la voglia si accoccola». La mia gente è felice dovunque, senza distinzione di sesso e di età. In paese usa le cantonate dei muri - meglio se quella del vicino ricco, perché è pietra squadrata e non frana come i mattoni crudi; in casa i cortili, o anche dalle finestre sulla strada, se il davanzale non è eccessivamente alto; in campagna, se si lavora in gruppo misto, il più vicino cespuglio… Io mi alzai e seguii le frecce. L'ultima indicava una porta chiusa sbarrata. «Introdurre dieci centesimi». Trattenni il fiato e cercai la moneta d'ordinanza. Nessuna moneta da dieci centesimi. Tornai indietro con una moneta da venti in mano e i denti stretti. La mostrai al birraio, indicandogli due dita e la brachetta. Fece finta di non capire, il bastardo - anch'egli agente segreto al soldo dell'équipe. Mi parve di cogliere risolini maligni nelle facce degli avventori. Allora me ne tornai al mio tavolo d'angolo e cheto cheto orinai sul pavimento plastificato. Per poco non mi linciavano. Mi mise in salvo la polizia riaccompagnandomi in macchina fino all'albergo.
L'ultimo imperdonabile segno di follia lo diedi in un self-service. Dimenticai di mettere la tazza di carta sotto il beccuccio del caffè caldo. Una macchia orrorosa deturpò la marmorea lucentezza del pavimento. L'indignazione dei presenti proruppe in un sordo minaccioso mormorio. Per fortuna intervenne uno dei miei occulti sorveglianti. Mi prese per un braccio, mi caricò su un'autoambulanza e mi consegnò all'équipe. Quelli dell'équipe erano tutti seduti davanti ad un gran tavolo, e avevano una faccia triste delusa. Non pronunciarono verbo. Mi diedero il biglietto di viaggio e mi rispedirono in paese.

Quando uno rientra da fuori, la mia gente lo guarda con diffidenza. I vecchi dicono «la pecora che esce dal branco si appesta», e chi va fuori si monta la testa. Padri e fratelli ricacciano dentro casa le loro femmine, quando passa per strada una pecora nera. E' accaduto ad Antonio, il capobanda, 35 anni sposato con tre figli. Non sarebbe dovuto uscire dal paese e veder gente diversa dalla sua. Ha finito per confondere il bene con il male, ed ora dovrà rispondere al tribunale, in piazza, del più spregevole dei delitti. Antonio è andato a suonare con la sua banda ad un festival di un paese lontano e poco timorato di Dio. Il festival l'ha vinto Susanna, la figlia del daziere. Merito di Antonio, che l'ha scoperta tra cento concorrenti. Se l'era presa a cuore, l'aveva preparata facendole provare la canzone tutte le sere, nel teatrino del parroco. La ragazza aveva orecchio per la musica, questo bisogna dirlo, ma si stancava presto. E si stancava anche Antonio, che di giorno faceva l'ortolano. Durante le prove riposavano dietro le quinte, sdraiati sul tavolato del palco. Si tenevano per mano, riecheggiando il motivo della canzone, guardando il cielo di carta blu con le stelle di stagnola. Una volta lui udì il batticuore di lei, e le mise una mano sopra il seno per controllarle il battito con l'orologio. Coi battiti sentì che Susanna aveva le mammelle sode, e sospirò. Lei sentì che la mano di Antonio era piacevole, gliela lasciò infilare sotto il vestito, e sospirò. Il tavolato era duro - se ne resero conto dopo qualche giorno - perché ci stesero due cotte disusate e qualche altra sacra vestimenta racimolata nei dintorni. Susanna però prese a lamentarsi perché i merletti e i ricami sacri le turbavano lo spirito e in più si ritrovava sempre qualche costura sotto il nodo della schiena, il che la teneva bloccata sull'orlo dell'orgasmo. Antonio si era innamorato cotto ed era pronto a far tutto per lei; portò il materasso da casa. Il giaciglio era comodo, e vi riposarono piacevolmente, finché il sacrista li scovò e si precipitò a suonare le campane.
In caso di calamità naturali, di cataclismi, di trafugamenti di santi, ratti di fanciulle - per il ratto di possidenti, silenzio - pubblici scandali e altre simili sciagure, si suonano le campane. Al segnale di pericolo, la gente accorre, e decide i provvedimenti da adottare.

Un processo memorabile. La guardia aveva già indossato la divisa e collocato il tavolo in mezzo alla piazza e la folla attendeva accosciata per terra tutt'intorno, alle sette del mattino. Il processo aveva tre fascicoli distinti. Fascicolo pro Susanna: «Poverina, lei, una bambina, sedotta chissà con quali arti subdole da quel caprone. Si vedeva, e come! che lui era un gran porcaccione. Avete mai fatto caso a come guarda le donne? Se le mette sotto con gli occhi… Uomini come lui andrebbero castrati.». Fascicolo pro moglie di Antonio: «Spudorati, tutti e due. Gliela facevano in faccia, alla martire. Chissà quali pene, chissà quali pianti, la santa. Se non fosse stato per i suoi tre figli, di crepacuore sarebbe già morta. Troppo buona, lei, santa donna, che lo lasciava a fune lunga, il cavallo stallone.». Fascicolo pro Antonio: «In fondo fa pena, povero uomo, rincitrullito dalle moine di quella sgualdrinella. Lei ne faceva quello che voleva, sventolandogli sotto il naso l'orlo della sottana. Povero cornuto.»
Il dibattimento si imperniò subito sull'onore violato. Uno dell'accusa disse: «L’onore violato grida vendetta a Dio!». Susanna fu pregata di salire sopra il tavolo affinché tutti agevolmente potessero udire… Quand'ero giovane i processi - con relativa sentenza eseguita in piazza - mi turbavano fino a togliermi l'appetito. Reputavo uno spettacolo barbarico e incivile l'impiccare o il mozzare mani in pubblico; pensavo che certe cruente ma necessarie punizioni andassero eseguite al chiuso e nel più assoluto segreto. Più tardi, dopo la prima psicoanalisi, ho capito che l'umanitarismo è uno dei nobili travestimenti del super-io per apparire meno bestia. Se è barbaro impiccare e mozzare mani in pubblico il fatto resta barbaro anche se eseguito in privato e nel più assoluto segreto. I tecnici del sistema civile sostengono che la logica e l'ordine costituito vogliono che certe porcherie necessarie restino al coperto. La mia gente al contrario sostiene che la logica è una inutile complicazione, e i panni sporchi si lavano in piazza. Non tollera eccezioni; perdona al bracciante di sbronzarsi il sabato sera nelle pubbliche bettole alla luce del sole e delle lampadine elettriche appese ai pali delle cantonate, ma non perdona al farmacista di riempirsi il ventre di cognac disteso sul divano del salotto con le tapparelle abbassate e di andarsene a vomitare nel suo cesso privato. Qualcuno, credendosi furbo, tenta di amministrarsi le proprie faccende private cheto cheto di soppiatto; ma agli occhi della mia gente non sfugge nulla. Io, che ho capito l'antifona, faccio qualunque porcheria alla luce del sole e nessuno ci fa caso, ed ho la reputazione di un santo. L'importante è darsi un certo contegno.
Eravamo rimasti all'onore di Susanna. L'onore di Susanna, almeno nei suoi aspetti esteriori, era degno di ogni considerazione. Perciò Antonio mi riusciva simpatico, e per aiutarlo proposi l'esame di prova del reato. L'accusa si invelenì; non all'idea dell'esame, ma al fatto che si osasse dubitare della violenza effettuata. Antonio, d'altro canto, si levò anch'egli invelenito: l'esame di prova del reato offendeva la sua virilità. Non aveva rilevato che la prassi giudiziaria vuole che se il dubbio viene accolto l'imputato guadagna tempo - e vita - avendo diritto ad un altro processo in cui dimostrare la propria virilità. Anche l'onore maschile grida vendetta a Dio, quando viene messo in dubbio.
Accusa e difesa furono d'accordo, purtroppo: se un uomo e una donna vengono acchiappati insieme soli se ne deduce con matematica certezza che non stavano a recitare Ave Marie. Che cosa fanno un uomo e una donna soli insieme? Il direttore della scuola non ha forse sempre respinto le classi miste come un'occasione demoniaca di accoppiamento precoce? E il parroco non divide forse il gregge in chiesa su due stalli, da una parte i montoni e dall'altra le pecore? Figuriamoci un uomo e una donna insieme soli. Senza dubbio si violano. O lui viola l'onore di lei, o lei viola l'onore di lui, nel caso lei non ci stia. poiché questa seconda ipotesi non è contemplata nel codice, per via del peccato originale che ha fatto nascere le figlie di Eva con le ginocchia molli, a lei conviene sempre che ci stia. Il terzo caso, l'onore di lui violato da lui medesimo per impotenza è un caso contemplato sì, ma nel mio paese non si è verificato mai.
Il padre di Susanna, uomo prolifico di integerrimi costumi, pronunciò un discorso breve ma intenso. Tutto ciò che è bianco commuove il mito o la nostalgia della purezza, e dai capelli bianchi partì l'accusa. L'onore di una figlia, in questo caso biondo, è connesso all'onore canuto di un padre, come due anelli di una stessa catena. La gente guardava commiserando ora Susanna ora il genitore. La madre se ne stava in disparte: l'onore di una figlia non è connesso all'onore di una madre - seppure l'onore di una madre sia connesso all'onore di un marito-padre e l'onore di questo non sia connesso né a quello della moglie né a quello della figlia. Il vecchio genitore parlando dell'offesa patita tremava e lacrimava. Il sacrista, commosso, di soppiatto gli porse l'arma per farsi giustizia. Il vecchio l'afferrò con un lampo negli occhi, la controllò, la soppesò, la impugnò. A questo punto intervenni per richiamarlo al rispetto della prassi: prima andavano sentiti imputati vittime testimoni, diretti e indiretti: dopo sarebbe stata fatta giustizia. Giustizia lenta ma inesorabile - dissi - quanto più è lenta tanto più è inesorabile. Il che è vero, in fin dei conti, quando non si tratti di quella lentezza in uso nel sistema civile, che arriva di proposito quando l'uccello d'oro è già volato. La mia gente infatti la chiama "la giustizia dell'uccello".
Susanna raccontò i fatti. Si proclamò vittima innocente - dardeggiava su Antonio occhiate da basilico. Come può una fanciulla ignara difendersi dalle arti di un maschio esperto? Una imperdonabile infamia, l'aver utilizzato una nobile vocazione per fini turpi. La faceva gorgheggiare, per distrarla - mentre lui appagava le sue voglie. La prima volta che l'aveva trascinata - precisamente trascinata - dietro le quinte e l'aveva distesa sull'assito, lei aveva creduto trattarsi di una prova di canto orizzontale…
Alcuni giovinastri sghignazzarono e le donne, attente al discorso, impallidirono, scrutando Antonio con occhi rotondi.
Molto importante, a questo punto, appurare il grado del piacere provato, per equa attribuzione della responsabilità. Susanna aveva provato solamente: dolore-schifo-vergogna. La gente applaudì.
Fu la volta di Antonio. Disse che non ci pensava minimamente. L'espressione della sua faccia, atteggiata a quella di un idiota, si sforzava di dimostrarlo. Potevano dirlo tutti, amici e conoscenti, come lui non ci pensasse mai. Padre di tre figli, non aveva mai fatto mancare loro il necessario; e neppure a sua moglie, poteva confermarlo lei stessa - sempre si addormentava soddisfatta e si svegliava sempre di buon mattino, canterina. Mai si era occupato di politica; mai aveva criticato l'opera di chi comanda. Sempre aveva fatto le elemosine e rispettato i vecchi e i deficienti. Mai aveva attentato alle virtù delle fanciulle per bene - nei momenti di necessità o di sconforto si rifugiava da Rosina, la bagascia pubblica, poteva confermarlo lei stessa. (Rosina, dal fondo, si levò per confermare. Fu messo a verbale: Assiduo frequentatore.)
Il parroco gli fece notare come da qualche tempo non si fosse più accostato ai Sacramenti. Antonio arrossì e farfugliò. Era vittima di una fattura che si manifestava con sintomi di claustrofobia. Era stato anche da Francesco, il fattucchiere, per farsi leggere i Vangeli. (Francesco, il fattucchiere, seduto in prima fila, confermò sollevando una mano). Era religioso - contro ogni apparenza. Devoto, in particolare, al suo santo protettore, sant'Antonio l'eremita…
Fece colpo sulla gente. Il parroco si soffiò il naso e brontolò commosso: «Tanto meglio per lui; eviterà la dannazione eterna.»
Come s'erano svolti i fatti? Antonio storse la bocca e fece con la mano un gesto evasivo. Una cosa stupida, sbrigativa, due tre secondi al massimo. Una specie di raptus. Né gusto, né sugo. Un attimo di smarrimento. Un capogiro. Forse il caldo, forse l'isolamento del luogo, forse la penombra. Soprattutto il modo di vestire di Susanna… Il tasto era azzeccato. I vecchi annuirono, scuotendo la testa. Le ragazze d'oggi indossano gonne troppo corte e bluse troppo scollate. Le brutte, è vero, ci guadagnano in rispetto; ma le belle sono un attentato alla morale pubblica. La difesa ricordò che il sindaco aveva emesso una ordinanza proibitiva, sulla materia. Quale rispetto aveva portato la ragazza all'ordinanza dell'autorità costituita? Il pericolo era da lei previsto, anzi calcolato. Antonio portò ad esempio santi famosi in tutto il mondo, caduti in tentazione. Tra questi il suo santo protettore, perseguitato da perfide sgualdrinelle, ridottosi a fare l'eremita in un deserto per evitarle. Ci aveva anche pensato, lui - ma era colpa sua se ai tempi d'oggi non ci sono più deserti? Prendiamo il Sahara, ridotto ad una foresta di tralicci, popolato di troupes petrolifere…
L'accusa lo interruppe, non trovando pertinente sant'Antonio l'eremita, e il Sahara; e per turare la breccia aperta nel pubblico maschile chiamò al tavolo la madre. La madre di Susanna era corpulenta frolla sfatta. Difficile trovare una rassomiglianza con la figlia. Difficile perfino immaginare che quella donna potesse essere stata giovane - o che Susanna col passare degli anni potesse diventare come lei. L'osservazione era ricca di implicazioni divagazionali. Interruppi il processo e ordinai il massimo silenzio - minacciando di far sgombrare la piazza al minimo mormorio. Mi lasciai andare a piacevoli riflessioni sulla caducità dell'umana bellezza. La quale, essendo un concetto correlativo alla provvisorietà dell'umana gloria, mi procura non lieve diletto spirituale pensando ai successi letterari dei miei contemporanei. Il bocciolo di rosa, che diventa rosa. I giorni-piacere sfogliano uno ad uno i petali della rosa. I petali se li porta via il vento-nulla. Come le foglie dell'alloro, i peli di una fica. Bellezza e gloria. Che misero, che vano il fasto umano! Soltanto la foglia di fico, resiste. La foglia di fico porta all'eternità. La purezza-paradiso. Bisogna sudarselo, il paradiso. La mia gente manca di spirito di sacrificio. Dice: «Meglio un uovo oggi che una gallina domani.». Antonio si è giocato la gallina eterna per l'uovo effimero. La madre dell'uovo - che nel mio filosofare era apparsa un fiore senza petali, anzi una melagrana fradicia aperta - ridivenne testimone e le ridiedi il via. Riprese l'atteggiamento iniziale: la Madonna dei sette dolori. Non parlò, pianse. Che altro può fare una mamma ferita? Susanna corse a gettarsi tra le sue braccia, singhiozzando: «Mamma, mamma!». Antonio si fece piccolo piccolo. Un sordo brontolio serpeggiò tra la folla. L'arma riapparve, balenò tra le mani del vecchio genitore. La folla ammutolì, presagendo l'epilogo. Io intervenni di nuovo: «Buon uomo, ve lo ripeto, la legge è legge, e va rispettata. La sentenza non pronunciata non può essere eseguita. Un po' di pazienza, buon uomo.»
Il professore di filosofia levò la sua voce chioccia da mezzo alle gonne delle Figlie di Maria. Lo individuai e lo chiamai a deporre. Barbugliò impacciato e si capì che ce l'aveva con le lungaggini burocratiche. Lo incoraggiai con un sorriso benevolo. Accennò alle elefantiasi dell'apparato burocratico del mondo civile che già si comincia a far sentire nelle istanze della base autoctona. Lungaggini non tollerabili, in un caso come quello in esame: una povera madre ferita esige una pronta ed esemplare punizione. Parlando, guardava Antonio con odio viscerale. Domandai alla guardia se il professore avesse qualche rapporto di parentela con la ragazza. Nessuna parentela, era soltanto frocio. Dissi: «Va bene, cittadino: libertà per tutti. Enunci con chiarezza e brevità non filosofiche la sua opinione.» Il professore inghiottì saliva, guardò verso il parroco e prese coraggio. Parlò con il collo torto, accarezzandosi le mano l'una con l'altra - come fanno i chierici celibatari, per una abitudine al rapporto carnale con se stessi, senza peccato. Parlò a lungo del bene e del male secondo la patristica comparata alla scolastica ed aggiornata all'encicliche. Dimostrò logicamente l'efficacia della punizione quando segue immediata all'azione riprovevole - a questo punto stavo per chiedergli come mai il padre eterno attendesse il giudizio universale prima di scaraventare i reprobi nell'inferno; ma lasciai perdere perché la mia gente non ama i discorsi astratti e se si insiste se la prende a male, si sente provocata e reagisce passando a vie di fatto. Una volta un contadino accoltellò e ridusse in fin di vita un signore di grande cultura che dissertava su "la civiltà agricola aborigena", perché non capendo nulla del discorso vi aveva ravvisato gli estremi di una provocazione grave; e fu assolto con formula piena… Tornando al professore, si intuì a quale punizione puntasse. La giustizia - almeno quella della mia gente - non ama i mezzi termini. Dice pane al pane e vino al vino. Chiesi esplicita conferma. Sussurrò: «Castrazione».
Meglio non contraddire i filosofi. Antonio prese a tremare; avanzò e disse: «Meglio la morte». La madre aveva smesso di piangere. Gli occhi del vecchio genitore brillarono di una luce diabolica. Susanna, sciolto l'abbraccio, s'era raccolta ai loro piedi - tutti insieme formavano un gruppo scultoreo di intenso effetto. Risposi ad Antonio: «Questo è da vedersi». Ma gli strizzai un occhio, come a dirgli: «Uomini di mondo siamo». E nel contempo rivolsi uno sguardo cordiale - panoramico - alla folla, per cattivarmene la simpatia e attingerne autorità.
I giudici, tra la mia gente, godono dell'immunità. Così pure gli impiegati del comune, il brigadiere e il parroco - esclusi alcuni momenti torbidi in cui la mia gente non guarda in faccia a nessuno. Le donne specialmente hanno fiducia nei giudici. Un giudice conosce le leggi, compresa quella dei giorni infecondi. Anche i giudici come i preti possono sbagliare. Se sbagliano, trovano sempre qualcuno disposto a pagare per loro, giusto il dettato evangelico "beati gli umili perché saranno esaltati". Un giudice non può essere giudicato che da un altro giudice, e da Dio, naturalmente. Anche gli avvocati godono della immunità. Gliela garantiscono i latitanti e i loro parenti. Gli avvocati formano una categoria economicamente privilegiata; ad essi spetta la metà dei proventi delle rapine, estorsioni e abigeati. La percentuale sale, quando l'imputato ricorre in appello. Talvolta i parenti validi del recluso turano i buchi legali in famiglia con altre rapine, altre estorsioni, altri abigeati.
La madre, immobile, in attesa di riprendere la testimonianza, accennò un segno di stanchezza. E' buon metodo non trattare i testimoni con eccessivi riguardi. Se si lasciano mettere a loro agio mentono senza batter ciglio. La Santa Inquisizione, usando la dovuta severità, riusciva sempre a far dire la verità. Dissi alla donna: «Continui». La madre reclinò il capo. Le labbra presero a tremarle. Gli occhi le si empirono di lacrime. Scoppiò in singhiozzi. E tra i singhiozzi, con voce rotta, gridò: «Susanna, fiore mio bello sventurato!»
La folla rumoreggiò. Le donne balzarono in piedi agitando le braccia… «Niente tumulti!» gridai, severo.
I generali e i maestri di scuola fanno e rifanno la storia a guerre. La mia gente fa la storia a tumulti. Ha il tumulto nel sangue. "Malattia sociale: infantilismo politico", dicono i civilizzati. Accumula tutte le sozzerie che le fanno ingoiare - senza il conforto di un vomitatoio pubblico. Al primo singhiozzo di commozione lo stomaco le si rivolta. E allora sono guai grossi per le autorità costituite. Vomita materia infiammabile. Quand'ero giovane, la mia gente tumultuava più spesso; si commuoveva di più. Durante l'ultima guerra della serie aveva patito fame e pidocchi per anni, senza un lamento. L'inflazione sovvertiva ogni valore ma non l'ordine. Il valore di una fica era calato a mezza pagnotta rafferma; e i processi per motivi d'onore furono temporaneamente sospesi. Tuttavia, il più assoluto silenzio doveva garantire a chiunque di salvare la faccia, dato che l'onore restava, almeno nelle cerimonie religiose e nei discorsi politici, il valore di base. La gente sapeva che la famiglia di don Roberto mangiava a quattro palmenti - il vecchio don Rodolfo si faceva vedere sfacciatamente sull'uscio di marmo ruttare sazio con lo stecchino tra i denti - ma sapeva che il Re era stato offeso da un Re straniero ed era doveroso difendere il suo onore, dato che per tradizione l'onore di un Re è connesso all'onore di tutti i suoi sudditi, come l'onore della bandiera. Però, quando don Giuliano, il figlio maggiore di don Roberto si permise di dare del cornuto in piazza al marito di Adelina - vantandosi d'essersela portata a letto per un etto di zucchero - scoppiò un tumulto. Don Giuliano finì appuntato al muro con una coltellata, e furono saccheggiati e devastati i magazzeni delle famiglie notabili e le botteghe di alimentari.. La gente si sfamò, salvando l'onore. Spesso basta meno di un paio di corna gettate in piazza. Ci fu un tumulto perché il parroco voleva mettere i cavalli prima del santo in processione. Cacciarono il parroco legato sull'asino e sfasciarono la chiesa. Linciarono il vescovo, che, poverino, era accorso per rimettere pace. Si disputarono fino all'ultima scheggia i santi rotti e gli arredi sacri lacerati, per farsene amuleti contro il malocchio, la siccità, le cavallette, il colera, gli amministratori e altre pesti.
Anche stavolta, commossa dal pianto di una madre, la mia gente avrebbe scatenato un tumulto. Alla fine si sarebbero ritrovati il municipio devastato con tutto il consiglio appeso per il collo agli architravi e la banca svaligiata e incendiata. Un fenomeno che Freud non ha studiato: la questione del conscio travestito da inconscio; una questione nota alla mia gente. Infatti dice: «Si dà matto per non pagare l'osteria». Sa che in galera tutti non ci stanno; perciò dice: «Voce di popolo voce di Dio». Toccare Dio è sacrilegio; toccare il popolo è sacrilegio pericoloso.
Avevo detto: «Niente tumulti!» e aggiunsi, per scoprire il gioco: «Nel Municipio non c'è nessuno, a quest'ora; e la cassaforte della banca oggi è vuota». La commozione rientrò nei suoi giusti limiti. Le donne si riaccosciarono sul selciato, riasciugandosi gli occhi con le cocche dei fazzolettoni. In quello stesso momento il sole uscì da un ammasso di nubi, illuminando la piazza. «Dio è con noi!» esclamò il parroco, segnandosi. Io risposi: «Deo Gratias!». E interruppi il processo per la seconda volta.

Mi sgranchii le gambe passeggiando attorno al tavolo; mentre Nicodemo l'ortolano con la carriola passava in giro mazzi di lattughe e di ravanelli, io rimuginavo il «Deo Gratias». Ogni merito del bene che l'uomo fa, spetta al Signore Iddio, che lo ha imbeccato. Quando un poveraccio raggiunge un traguardo periglioso, sfiancandosi, è Dio che gli ha dato la Grazia. E se un poveraccio con dodici figli sulle spalle - più una moglie attaccata alle palle - senza arte né parte, riesce a sfamarli tutti e tredici facendo salti mortali, è la Provvidenza di Dio che lo ha baciato in fronte. Ma se allo stesso poveraccio va storta e crolla a mezza strada, è l'istinto della delinquenza che lo ha traviato - Dio non c'entra più, e lo pigliano a calci in faccia. Chi sbaglia, paga. Il primo dovere del buon cittadino è quello di denunciare pubblicamente gli sbagli altrui. La mia gente sente profondamente tale dovere. Ha occhi rotondi all'infuori e diaframma socchiuso sfocato all'interno. E' lo schema di una gerarchia tutelare: Dio tutela gli uomini, gli uomini tutelano le donne e le donne tutelano i bambini. Ma si tratta di uno schema semplificato; ci sono infinite tutele intermedie. Per esempio: Giorgetto è cresciuto storto; scassina e ruba. Ha venduto la gonna delle feste di sua madre e il berretto nuovo di suo padre, per comprarsi la serie completa delle figurine in monopezzo. E' il terrore degli asini attaccati al carretto: ci va sopra, frusta a sangue la bestiola e la manda dritta nel burrone dove usano gettarsi le fanciulle che non possono dire con chi hanno perso l'onore. La gente dice: «Colpa della madre. Le è piaciuto farlo, ma non lo sa tenere a freno. Che può farci quel pover'uomo di suo padre, tutto il santo giorno buttato in campagna?». La madre dice al padre, appena costui rientra con la zappa a spalla, moscio slombato: «Ave Maria! Figlio tuo è senza timore di Dio, e sì che di botte gliene do. Ma tu, perché non fai qualcosa per raddrizzare la malapianta? Oggi, il figlio tuo si è venduto due sedie della camera bella…». Il padre ha due o tre scatti d'ira, si incupisce, e si chiude in camera da letto - si cambia d'abito e bestemmia in silenzio. Poi rientra in cucina e carica di botte il figlio e la moglie che ha detto «Basta, così è troppo», e si prende il "di troppo". Allora, esce di casa e si intrattiene qualche ora nell'osteria. Dopo si ferma in piazza, allarga le gambe, leva la faccia al cielo e bestemmia a voce alta - se passa l'appuntato finge di abbottonarsi i calzoni e attacca un motteto. Non potendo assumersi direttamente la responsabilità, Dio provvede spesso indirettamente. Nel caso di Giorgetto gli viene scoperta la vocazione, viene mandato in seminario, e la chiesa si allarga di sette ettari e di un buon prete. I piccoli della mia gente - finché restano piccoli - sono creature libere. Vagano selvatici per strade e per campi, per fiumi e per boschi. Spigolano dappertutto, come i passeri. E dei passeri sono infaticabili ed esperti cacciatori. Giocano anche, coi passeri. Li baciano sul becco, pompando li gonfiano come palloncini di gomma finché scoppiano. I palloncini veri se li possono permettere una sola volta all'anno, per la festa del santo patrono. Essi conoscono ogni specie di erba commestibile, quelle irrigue ai margini del ruscello e quelle asciutte tra le siepi e nell'incolto. Sono refrattari ai veleni e ai microbi - eccettuati il colera, il tifo, la menengite, il tracoma e pochi altri. I danni che i piccoli fanno alle colture sono rilevanti, pari ai danni assommati della siccità, delle cavallette, del malocchio e delle ventate che soffiano ora gelide da ponente ed ora torride da levante. La gente non può far nulla contro di loro, perché sono cristiani - prega o bestemmia, a seconda del caso. Ai piccoli è severamente vietato assistere ai processi in piazza. La legge dice: "Non sta bene che le creature innocenti sappiano le faccende dei grandi". Ma i piccoli - curiosi e impertinenti - orecchiano nascosti dietro i muri fessi, sopra i tetti, sotto i carretti in sosta. Una volta la guardia ne scovò un gruppetto proprio sotto il tavolo su cui sfilano imputati e testimoni. Si dice che non capiscano un'acca; ma in proposito io ho sempre nutrito forti dubbi. Curioso di scienza pedagogica, tempo fa, dopo un processo, avvicinai una masnada di piccoli per sentire il loro parere. Era stato trattato il caso di un servo-pastore che aveva spaccato il cuore alla propria moglie - era accaduto che mentre lui, il servo-pastore, portava le pecore del padrone-pastore a meriggiare, il padrone-pastore meriggiava con la moglie di lui, del servo-pastore. I piccoli non ci trovavano nulla di male. Provai a tastare il senso morale. Chiesi: «Ma vi sembra bello che vostro padre vada a letto con una donna che non sia vostra madre?». Ed essi risposero che se due sono stanchi o sentono freddo nello stesso momento è giusto che vadano a letto insieme. Allibii. Ancora di più quando uno di loro mi disse che poteva essere un gioco. Seppi così che loro fanno spesso quel "gioco". Con accento severo, e turbato, esclamai: «E voi fate questo gioco senza rimorsi, senza paura dell'inferno?». L'immoralità dei fanciulli è sconcertante. Risposero che il gioco essendo piacevole lo facevano e lo rifacevano… Col tempo sono diventato più comprensivo, sui punti di vista dei fanciulli. Comprensione relativa ad un periodo di crisi - il periodo più felice della mia vita. Mi ero innamorato di una ragazzina. Un uomo in età - diciamo oltre i trenta - che si innamori di una donna minore degli anni ventuno ha il dovere morale di seppellire l'insana passione e di metterci una pietra sopra. La mia gente è severissima su questo tasto. Soffrivo il supplizio di Tantalo; l'avevo continuamente sotto mano e non potevo toccarla. Fantasticavo sulle meravigliose situazioni che avrei potuto vivere - ovviamente spingendo gli annessi e i connessi secondo modi e tempi predeterminati - se anche io fossi stato minore degli anni ventuno. Preferivo rimpicciolire me che ingrandire lei - ingrandendo lei, la mia fantasia si rinsecchiva. Mi tinsi i capelli e i baffi, vestii calzoni attillati, previa ginnastica dimagrante, e magliette di cotone scarabocchiate di slogan contestatari sul davanti e sul di dietro. Cominciai a trovare estremamente interessanti le nuove generazioni, le loro proteste e le loro canzoni, specie se cantate in minigonna. Imparai a protestare anche io. Studiai le teorie contestative occidentali ed orientali; da san Francesco spostai le analisi a Marcuse. In Rousseau trovai la base filosofica del ritorno alle origini. Nel fanciullo c'è l'analisi genuina della natura. Aderii entusiasticamente alle teorie del Lawrence e predicai il gran tuffo a due - maschio e femmina - nella natura - che immaginavo come un gran mare di fave in fiore in cui farci l'amore in un eterno meriggio fino a totale sfinimento. Covavo l'idea di scatenare la rivoluzione dei giovani per scalzare dal potere gli adulti, che mi erano venuti a schifo con il loro autoritarismo moralistico. Fondai un club segreto per gettare le basi strutturali della rivoluzione sociale e morale permanente. Sperperai interamente il patrimonio degli avi. Liberatomi al fine da ogni scrupolo da adulto andai a letto con la fanciulla vagheggiata. La delusione fu atroce. Lei era giovane solo apparentemente; in sostanza era più vecchia di me. Io ero ringiovanito troppo; ero ridiventato bambino. Un bambino singolare, con i pensieri e gli umori di un bambino e con il corpo e le voglie di un adulto: sgranocchiavo dolcetti, facevo le bizze per mangiare la minestra e di nascosto palpavo il sedere della domestica.

Dunque, il processo. Sono interessato anch'io all'epilogo - seppure io lo conosca già. Ma fatta l'ipotesi che io non sappia come andrà a finire, saprei figurarmi il vero con sufficiente approssimazione. Il verdetto lo esprime la mia gente. E' rispettosissima delle tradizioni. Non sono ammesse eccezioni; alla prima crollerebbe tutto il paese col campanile. Bisogna dire però che le tradizioni non hanno niente a che vedere con la giustizia. Non ci crede, nella giustizia, la mia gente. Quando ha in odio qualcuno e gli fa un malaugurio gli dice: «Che ti possa rincorrere la giustizia!». In aritmetica, giustizia + cittadino = cittadino fottuto. Meglio non averci a che fare. Antioco il pastore aveva fama d'essere un uomo aperto. Dopo aver seguito un comizio dell'onorevole Crò, sul tema "La Giustizia al servizio del cittadino", si era convinto in merito allo "spirito di collaborazione", e corse subito a denunciare alla Giustizia il furto di tredici agnelli, appena patito. Fu incriminato per simulazione di reato, fece tre anni e mezzo di carcere preventivo in attesa di giudizio, si ebbe due anni e tre mesi in giudizio, ridotti a due anni e due mesi in appello e riconfermati in due anni e tre mesi in cassazione. La gente gli rise alle spalle e gli amici gli tolsero il saluto. Antioco sarebbe rimasto lo zimbello del paese, se un giorno non fosse tornato dall'onorevole Crò per un altro comizio - non lo lasciò nemmeno finire di parlare: gli ruppe l'occipite destro con un proietto da fionda. Dopo, anziché rimettersi fiducioso nelle mani della giustizia, si diede alla macchia. Il paese lo riprese in considerazione - i vecchi gli portavano pane e tabacco e Isabella, la figlia maggiore di don Gesumino, andava ogni tanto ad alleviargli la solitudine.
La giustizia se l'aspetta sotto terra, la mia gente - quando gli angeli del Signore suoneranno le trombe della resurrezione. L'attende pazientemente, senza fretta; sa che prima devono nascere e morire tutte le creature terrestri. La giustizia della mia gente non è giustizia nel senso dei filosofi giuristi, ma semplicemente "una cosa giusta"; ed è giusto, quindi, prendere da chi ne ha. Altrove, nei paesi civili, i cittadini si dividono in buoni e cattivi - che pare sia un superamento della divisione classica in belli e in brutti, operato dal cristianesimo. Purtroppo, in quei paesi, permangono le cosiddette stratificazioni da abitudine, per cui i buoni risultano essere anche i belli, e i cattivi anche i brutti. Inoltre, il buono, oltre che bello, è ricco e nobile, intelligente, forte; mentre il cattivo, oltre che brutto, è povero, volgare, stupido e debole. Fra la mia gente il fenomeno è semplificato; vige la classificazione in puniti ed impuniti. Se un punito va a pescare un chilo di carpe nelle paludi padronali finisce in galera per furto. Se un punito da piccolo ha il ghiribizzo di andare a scuola, appena apre bocca rutta idiozie e viene cacciato via a pedate. Giunto in età lavorativa - il punito è di razza lavorativa precoce - dovunque arrivi e appena arriva trova ad attenderlo badili zappe picconi e masse da spaccar pietre. Cascano dentro la prima trappola che incontrano, con tutti e due i piedi e talvolta anche con il collo. Pagano le tasse. Alla prima rata scaduta, l'ufficiale giudiziario arriva in forze ed effettua il pignoramento. Nascono sfaticati e di poca intelligenza: non arrivano mai a fare i presidenti di governo o i capitani d'industria. Se ne conoscono solo rarissime eccezioni: Rockfeller e Ford, che hanno cominciato da straccioni con un quarto di dollaro trovato per strada. (C'è però chi sostiene che tali eccezioni siano storielle edificanti propalate dagli impuniti). La maggior parte dei puniti vanno dietro le pecore, e per ingannare il tempo progettano favolose rapine che non mandano mai a compimento. Chi le manda a compimento sono gli impuniti. E la polizia, appunto, non li prende mai, o se li prende è uno sbaglio e li rilascia con tante scuse. La polizia, per mettersi a posto con la coscienza e coi capi, infila nel sacco una decina di puniti e li getta a marcire in galera. Gli impuniti applaudono, sventolano bandiere e appuntano medaglie al valore.
Gli impuniti sono di razza longeva; dopo i venti anni si chiamano vitelloni e continuano a giocare. Ogni peggiore birbonata da essi compiuta non è che una innocente birichinata. I vitelloni del mio paese - età media trent'anni - tempo fa furono redarguiti cortesemente dal brigadiere perché pretendevano di ascoltare la santa messa standosene tra le anche delle figlie di Maria. Per dispetto, sfasciarono croci e cappelle e orinarono nell'ampolla della transustanziazione. Non furono giudicati in piazza. Gli impuniti non possono subire l'onta di un processo. Furono assolti in via istruttoria: una ragazzata senza intenzioni blasfeme; euforia giovanile. Tale stato euforico risultò una attenuante, perché causato da liquori, non da vino nero. L'euforia da vino nero invelenisce i puniti, ed è sempre un'aggravante…
Un grido nella folla mi richiamò al presente: «Prepariamo la forca!». La forca è fuori moda da circa un secolo, ma è rimasta nel linguaggio. La fine riservata agli adulteri è sempre la stessa; è cambiato lo strumento, ora più sbrigativo e meno costoso. Quando la mia gente esprime a voce alta la propria opinione, io non me ne infastidisco, come fanno certi venuti di fuori, che a metà proiezione di un film escono dalla sala borbottando «zoticoni screanzati» perché non sentivano il parlato. Costoro capiscono ben poco di arte, se non apprezzano le recite estemporanee: è gente civilizzata, a soggetto fisso. Per esempio: Lui e Lei sono sposati. Lui è attempato ricco sfondato capitano d'industria e trascura Lei - sopra un certo aspetto. Lei, povera ma bella, ha sposato Lui ignara dell'importanza di quel certo aspetto - convinta che i soldi bastino per essere felice. Una sera - ad un ricevimento mondano - Lei incontra l'alter-Lui aspirante capitano d'industria laureato in economia e commercio volitivo vestito in Liber virile reni magre ossute in slip. Lei se ne invaghisce; lo aiuta a far carriera carezzando la pappagorgia a Lui. All'alter-Lui riserva moine più impegnative, su quel certo aspetto - finalmente ha scoperto l'orgasmo e lo racconta alle amiche. Nel contempo, Lei - infaticabile - organizza la secessione andando a letto con i consiglieri delegati, uno dietro l'altro - gli ultimi due assieme, per affrettare i tempi. Il consiglio si riunisce e mette in minoranza Lui. L'alter-Lui viene eletto direttore generale. Indossa un doppio petto in Liber e sorride con una chiostra di denti così perfetti da sembrare falsi. A Lui viene il solito colpo apoplettico. Lei veste di nero - il nero le dona, perché è bionda. Trascorsi quaranta giorni, lei sposa l'alter-Lui - che diventa Lui nella sequenza finale subito dopo la benedizione del santo Zio… La mia gente non apprezza i films a soggetto fisso, e li disapprova a voce alta. Durante la proiezione, si sgola a dar suggerimenti ai protagonisti. A Lui rimprovera di essere un imbecille, per aver sposato una puledra, alla sua età. Gli suggeriscono, fatto lo sbaglio, di correre ai ripari - un bastone di olivastro per calmare i bollori. Ma Lui non ci sente, si lascia infinocchiare; e allora la gente urla, perché fa rabbia un cornuto così; e sghignazza, poi, quando Lei, vezzosa, dice a Lui che le è venuta l'emicrania e desidera uscire in auto. «Tonto, te la fa sotto il naso!» e Lui, premuroso, le dice di uscire, sì, di svagarsi, anzi, per svagarsi meglio che si faccia accompagnare dall'alter-Lui, persona a modo distinta… «A modo quello? Se ha la faccia da puttaniere… Ma che razza di uomini c'è a questo mondo? Beh, contento Lui…»

Una voce ripeté più forte: «Prepariamo la forca!» e altre voci fecero eco. In gergo significava: «Finiamola con le lungaggini e chiudiamo i conti.» La mia gente non tollera rinvii di processo. Prima del cadere del sole il verdetto deve essere pronunciato e la sentenza eseguita. Innocente o colpevole. Non sono ammesse assoluzioni per insufficienza di prove. La prova c'è o non c'è. Vita o morte. Nel caso di adulterio nessun imputato è mai stato dichiarato innocente. La mancanza di prove disonora l'imputato. Anche gli impotenti preferiscono la morte al disonore, e si dichiarano colpevoli a testa alta. Di norma la sentenza viene eseguita dalla persona che ha patito maggiore offesa nell'onore. Essendo Susanna nubile e non avendo fratelli, né cugini, né cognati, tutto il peso dell'onta ricadeva sull'onore del vecchio genitore, che acquistava il diritto pieno ed esclusivo di giustiziere. Certo del verdetto di colpevolezza, il vecchio genitore guatava Antonio armeggiando la Colt mod. West bottino di guerra del '17. L'arma era stata usata per eseguire diverse sentenze e si era dimostrata efficace. La teneva in custodia il sacrista; egli aveva il dovere di tirarla fuori ogni volta che, scoperto un adulterio, correva a suonare le campane.
La voce si levò ancora, per la terza volta, seguita da un coro di urla e di fischi. Il parroco pensò che mi fossi appisolato e mi scosse una spalla. Mi voltai. Egli guardò l'orologio e disse: «Tra mezz'ora inizia la novena.» Risposi piccato: «Finché il sole illuminerà la piazza non verrà la morte.» Il parroco fece spallucce. Per calmare le acque ordinai alla voce di farsi avanti. Testimoniare ad un processo in piazza è più che un dovere un grande onore, per la mia gente - ai tribunali civili non ci va neanche a pagarla a peso d'oro. La voce si fece strada in mezzo alla folla e salì abbastanza agilmente sopra il tavolo, data la sua età. Chiesi: «Tu sei la moglie legittima di Alfonsino il mediatore?» La donna rispose: «Sì, signore», pavoneggiandosi, sommovendo la lunga gonna a pieghe marron-giallo. Di proposito avevo detto "legittima". Era stata moglie "illegittima" di almeno tre generazioni di maschi. Ora, venuta in età tale da non esserle più dignitoso né sostenibile, l'antico ruolo, si era data alle opere pie. Presiedeva le dame di carità e cercava vocazioni claustrali tra le figlie di Maria. Cercavo di prendere tempo. Non me la sentivo di dichiarare chiuso il dibattimento - c'è chi non fa mai il callo dell'insensibilità professionale al dramma altrui - mi ripugnava di ordinare l'esecuzione. Chiunque, al posto di Antonio avrebbe potuto "sbagliare". Anche io. Oggi non sbaglio più - non posso sbagliare. Ancora oltre i cinquanta anni, quando si è dotati, dicono, di maggiore equilibrio, sbagliai, e più di una volta. Mi vennero i rimorsi. Invidiavo gli uomini che vanno a letto per dormire, che dormono, che si svegliano una sola volta la settimana con la loro legittima compagna, che fanno il loro dovere rapidi composti con un unico esile gemito finale, e si riaddormentano…
Chiesi alla donna: «Come sta Alfonsino, tuo legittimo marito?» Rispose che stava bene e che a quell'ora dormiva, il sant'uomo.
Alfonsino faceva il mediatore. Mediava maschi da monta per la riproduzione del patrimonio zootecnico. Pecorai e bovari si rivolgevano ad Alfonsino, che garantiva i risultati dell'operazione. Se si verificavano casi di nullità, la colpa era sempre della femmina. Alfonsino esercitava scrupolosamente il suo mestiere, e quando il montone, o toro che fosse, si rivelava freddo o maldestro: «Può accadere a tutti, no? come i cristiani anche loro sono, soggetti all'emozione…» non si faceva scrupolo di allungare una mano o tutte e due per agevolare l'operazione. Alfonsino usciva ogni giorno all'alba. Stazionava in piazza, sull'uscio della bettola, in attesa di clienti. Sorseggiava vernaccia e guardava la gente, taciturno. A mezzogiorno in punto - con o senza affari conclusi - rientrava a casa, pranzava, si metteva a letto e dormiva fino al tramonto. Al tocco dell'Ave Maria si levava, prendeva una chicchera di caffè e usciva, stavolta per svago.
La moglie di Alfonsino concluse la testimonianza facendo voti affinché il colpevole fosse giustiziato al più presto, perché lei non poteva fare a meno di trovarsi a casa quando suo marito si fosse svegliato… La sorte di Antonio cominciava a dolermi. Avevo chiamato a testimoniare la moglie di Alfonsino - gran bagascia - con uno scopo ben preciso. Lo scopo di Pilato: Gesù o Barabba. Ovvero il trucco del capro espiatorio. Purtroppo la mia gente non afferrò la sottigliezza. Per sua natura non si lascia mai sfuggire l'uovo oggi per la gallina di ieri o di domani. Tiene in vita la gallina finché fa le uova; quando entra in menopausa, le torce il collo. Dice: «Gallina vecchia brodo saporito.» Pensai allora che Antonio sarebbe potuto sfuggire alla sua sorte nel caso che il giustiziere avesse sbagliato il bersaglio o che l'arma si fosse inceppata. Alcune regole dell'antica norma forcaiola restano sempre valide. Per esempio: se la fune si rompe… se il cappio non si stringe… se il trave si spezza… Accidenti che non si erano verificati mai, perciò il loro ipotetico verificarsi appariva interventola mano divina in favore del condannato. Il vecchio genitore avrebbe potuto mancare il bersaglio con una Beretta d'ordinanza, non con una Colt mod. West. La Colt mod. West ha la precisione di una spingarda, e non si inceppa mai… Il vecchio genitore avrebbe potuto sbagliare se esasperato. Bisognava esasperarlo. Lo richiamai e gli dissi: «Prima della sentenza, nel rispetto della tradizione, faremo la prova del tuo onore.» Il vecchio genitore impallidì, digrignò i denti. Non poteva tirarsi indietro. Si accoccolò a un lato del tavolo visibilmente agitato. L'arma cominciò a tremargli nella mano.
La prova dell'onore di un uomo non si esegue sull'uomo stesso ma sulle sue donne: moglie, figlie, sorelle e domestiche (in passato il controllo era esteso alle cugine di primo e di secondo grado, alle cognate, alle nuore e alle nipoti consanguinee). E' una prova che viene richiesta raramente, oggi giorno; di solito bastano o il convincimento del maschio disonorato o la dichiarazione della fanciulla violata o un testimone anche fugace per la prova della colpevolezza. Un antico codice - non ancora abrogato - consente anche l'uso della prova dell'onore, se il giudice o la gente ne fa esplicita richiesta. Il modo di condurre la prova è semplice. L'onore dell'uomo poggia i suoi pilastri sulla moralità delle sue donne, moralità che si nasconde nel fondo di impenetrabili meandri. Per portarla in superficie viene usato uno speciale beveraggio, ricavato con il succo di varie erbe colte nel plenilunio di maggio e stemperato nel latte di vergine. Se il latte non è quello giusto gli effetti sono catastrofici. Se la ricetta è indovinata - ottima quella preparata da ziu Chiccheddu - si ottiene un siero della verità: l'onorabilità presa in esame si esterna rivelandosi in ogni più scabroso particolare. Ogni volta che si è usato il siero della verità è accaduto un macello. Speravo che usandolo, quella volta ne sarebbe venuto del bene per qualcuno, forse per Antonio. Nasturzio, il sacrista, custode del siero fu mandato di corsa. Intanto erano salite sul tavolo le donne del vecchio genitore, moglie, figlia e domestica. La gente, che già si stava annoiando, si rianimò. Il parroco dimostrava la sua disapprovazione scuotendo il capo. Gli dissi: «Dio ama la verità.» Non mi parve convinto. Il vecchio genitore scuoteva anch'egli il capo canuto; le mani, ora, gli tremavano convulse e battevano i denti come preso da febbre quartana. Le sue donne stavano invece in piedi sopra il tavolo senza tradire turbamento. Le donne non credono agli effetti del siero perché non possono udire la voce della loro onorabilità; la sentono soltanto gli uomini, mediante la sensibilità del loro onore. L'onorabilità della donna, stimolata dall'infuso, racconta tutto di sé; ma è discreta, non fa mai nomi. Non di rado si esprime in versi.
L'onorabilità della moglie cominciò: «Nel millenovecentodiciannove…» e finì «…sull'orlo del campo fiorì il rosolaccio.» Il vecchio genitore digrignò i denti. La folla trattenne il fiato. I cantastorie prendevano rapidi appunti per le loro canzoni. La più interessante l'avrebbero scritta sulla onorabilità della domestica: «…sotto il cielo stellato nel cortile selciato, la terza notte il sole fiorì a mezzanotte e gli angeli del Signore suonarono la tromba.» L'onorabilità di Susanna fu ascoltata senza interesse; i fatti erano già noti.
Il padre della domestica piombò davanti al tavolo e sporse querela contro ignoto, riservandosi di seguire gli sviluppi del caso; indi, senza proferire verbo tirò giù dal tavolo sua figlia e le affibbiò due sonorissimi ceffoni. Il vecchio genitore piangeva e gemeva; il suo onore sanguinava da più parti.
Dichiarai chiuso il processo. La sentenza doveva eseguirsi all'istante. Antonio si inginocchiò e chinò il capo. Il parroco gli si accostò, gli mise una mano sulla spalla e lo benedisse. Antonio si segnò. Anche la mia gente si segnò. Il vecchio genitore tese la mano tremante e sparò. Cadde il parroco, che non aveva fatto in tempo ad allontanarsi. La folla gettò un urlo. Il medico tastò il polso del poveretto e mi rivolse un muto cenno di assenso. Esclamai: «Giustizia è fatta!» Ognuno poteva tornarsene a casa. Antonio, secondo la tradizione, era condannato all'esilio perpetuo e alla confisca dei beni. Il padre della domestica si rifece avanti, disse che avendo seguito gli sviluppi del caso ritirava la denuncia. Ma la gente non si muoveva; restava immobile accosciata presagendo altro dramma. Il vecchio genitore stringeva ancora nella mano la Colt mod. West. Ora la mano gli tremava meno. Non aveva più alcun diritto su Antonio, ma ne aveva sulle sue donne. Nella Colt mod. West c'erano cinque proiettili che egli poteva distribuire a piacimento per tutelare il proprio onore. Sparò e ruppe il cranio alla moglie - tra i denti sibilò una frase intelligibile. Susanna ebbe fortuna: il proiettile a lei diretto raggiunse e fracassò la spina dorsale della guardia che si era mossa intersecando la linea di tiro. La folla applaudì a lungo: correva voce che la guardia, dal millenovecentodiciannove… A questo punto, il padre della domestica, che aveva riflettuto seguendo gli sviluppi del caso, con un balzo felino si gettò sul vecchio genitore e gli strappò di mano l'arma fumante. La folla ammutolì. La responsabilità dell'onorabilità della domestica ricadeva sul vecchio genitore: doveva starci attento lui. Gli sparò in faccia, a bruciapelo, portandogli via di netto il mento e la mascella; poi rivolta contro di sé l'arma lasciò partire il colpo spappolandosi il cuore. La Colt mod. West cadde rotolando ai piedi di Susanna. La folla gridò al miracolo. Era un segno del volere di Dio e Susanna raccolse l'arma. Aveva un solo proiettile e due obiettivi legittimi: o se stessa o Antonio. Scelse Antonio. Antonio cadde in ginocchio e stramazzò con una breccia aperta sulla tempia. La gente si levò per andarsene: la pistola era scarica e la tradizione vuole che non si possa ricaricare due volte per un solo processo.
Non mi aspettavo un epilogo così movimentato - ricordo che a cena mangiai pochissimo, quella sera…

 



Lo specchio

Prima o poi accade. Sapevo già che sarebbe accaduto; o meglio lo sapevo, ma avevo sempre finto di non curarmene mascherando l'assillo con oppiacee nebbie. «Il viso scarno ti dona, ti fa parere più intellettuale.» Come dire ad un morto di fame: «L'aspetto macilento ti spiritualizza.» L'uomo mitizza anche la fame e la lebbra, per salvarsi. Mi ero detto: «I capelli ti si sono spruzzati di bianco sulle tempie: un nuovo elemento di fascino.» E me ne ero compiaciuto, assurdamente, come uno storpio della propria deformità.
Essere diversi è angosciosa presunzione di evitare la legge comune. Mi definivo "spirito ribelle"; amavo veleggiare contro corrente. «Io cerco le tempeste, perché in esse troverò la pace.» Mi solleticava il ruolo del razionalista in un mondo di miti. Rifiutavo ogni mito liberatorio - sono diventato astemio, in odio all'alcool-droga. L'uomo passa dalla fica materna in un utero-labirinto che si apre nell'abisso. Ha pensato: Che fare? Tornare indietro è impossibile; la vita è un mostro che divora se stesso, azzannando, masticando, digerendo e trasformando la realtà nella dimensione di un ricordo. Che cosa ha trovato l'uomo per salvarsi? Ha gettato fili di sogno e di speranza - esili fili di ragno appesi al nulla gettati attraverso la foschia che nasconde l'orrida ampiezza dell'abisso. Rinascere in un'altra dimensione - con un proprio atto di volontà, senza fica e senza utero. La metempsicosi. Che altro è se non l'illusione di poter ritrovare, finalmente al momento giusto, ciò che nella vita è stato appena intravisto, con occhi e bocca pieni di polvere, con mani e piedi legati, trascinati dal corso di una bestia folle? E la "fonte dell'eterna giovinezza", le trombe della resurrezione? Allettamenti per lasciarsi scivolare ad occhi chiusi, sorridendo, nell'abisso… Mi era parso più razionale lasciare "eredità d'affetti", camminare interrando semi esemplari ai margini della strada, covando la speranza d'un loro germogliare e fiorire, e che qualcuno, vedendoli, potesse raccoglierli. Questo mito "razionale" durò fino al momento in cui immaginai di aver bisogno di sperimentarlo. Crollò davanti allo specchio; crollò come un castello di carte, fatto con carte false. Le carte - i semi - le bruciai gettandole in fascio nel camino ardente d'ironia. «Non ti eri assicurato neppure che fossero semi germinabili, né che la terra fosse fertile, né che sarebbero stati favorevoli il sole la pioggia il vento. E sarebbe passato qualcuno, poi, lì, al momento giusto, su quella stessa strada? E fra tutti gli uomini, sarebbe passato quello giusto, con le dita e il cuore sensibili e non quello con le scarpe chiodate?» Spinsi l'ironia fino in fondo: «E che me ne sarebbe venuto, a me, del romantico gesto di uno sconosciuto che fiuta con naso intenerito l'olezzo di un fiore che io ho soltanto seminato?»
Anche l'ironia è un meccanismo liberatorio, una carnevalata. Ti mascheri e danzi sui cocci di vetro - con la musica, coi barbiturici, con l'alcool. La danza di Zorba. Un ritmo che da lento si fa forsennato fino all'orgasmo. Schiatterai lo stesso; con l'eutanasia, ma schiatterai.
Giunta a questo punto la "crisi" mi parve eccessiva. Cercai di analizzarla razionalizzarla dominarla. Forse è la giornata grigia; forse ho dormito male; forse non ho digerito bene. Aprii gli scuri e c'era il sole. Feci memoria: mi ero addormentato sereno e pesante appena alla terza pagina di un libro interessante. Pensai: «Allora, forse, è l'estro di recitare un dramma nuovo. Viene noia, recitare a soggetto; così, qualche volta, si improvvisa. Sei sempre stato un attore. Ora ti è venuta la voglia di recitare il climaterio», sorrisi, lasciandomi tentare dall'ipoteso - la mattina mi ero svegliato eretto, come sempre. «I grumi di un dramma si stemperano nell'ironia.» Cominciai a dubitare e perciò a sperare e a risentirmi normale, quando l'idea assurda di volermi vedere "come io sono veramente" mi riportò davanti allo specchio. Non c'era finzione che trovasse appiglio sulla levigatezza del vetro. Come si può vivere, per tanti anni, senza sapere quante rughe hanno scavato la faccia, quanta tristezza si è annidata negli occhi? Mi ero attribuito un aspetto standard - o meglio mi ero visto come un abito guardato dalla parte interna. «Un abito rivoltato, sembra quasi nuovo», mi dissi con sarcasmo, «prova a rivoltarti, adesso…» Mi accoccolai sopra una poltrona. Pensai: «Così si è accoccolato il progenitore in perizoma prima di scaraventarsi nel vuoto. Ma prima ancora ha gettato un filo di ragno, ha sognato la fonte dell'eterna giovinezza…»
Senza più riflettere gettai anch'io il mio filo. Staccai, ruppi e gettai nella spazzatura tutti gli specchi e li sostituii con una fanciulla di sedici anni.

Avevo spesso sentito di elisir dell'eterna giovinezza, il sogno di rinverdimento dell'uomo che scopre d'aver ingoiato tutto il filo su cui si arrampicava agile godereccio, come se il gioco dello spaghetto fosse dovuto durare sempre. L'elisir più raccomandato era quello usato da un certo principe di Capivanio - uno di quei beati uomini d'altri tempi cui era lecito fare tutto ciò che concordasse con la sua volontà. Costui, seguendo le teorie del dottor Santorio padovano, esperimentò che l'alito di una fanciulla favorisce, come la vitamina E, il ricambio delle cellule esaurite. Andando a letto con fanciulle dall'alito fresco, il principe Capivanio, all'età venerabile di novantasette anni, contribuì - dicono le cronache dell'epoca - ad aumentare l'indice demografico.
L'elisir che mi portai in casa, in sostituzione degli specchi, era bionda, aveva occhi tra il grigio e il verde, e muoveva le labbra, nel sorriso, nell'ira, nella parola, nel bacio e comunque, con vezzo raro piacevolissimo. Le labbra, in particolare il labbro superiore, erano, come dire, l'asse della sua libido. Aveva la clitoride sulla punta della lingua. Di intelligenza inequivocabilmente media, come lo è l'intelligenza di una qualunque ragazza di sedici anni, la sua natura biologica somigliava molto a quella di un rettile - senza accostamenti di cattivo gusto romantico alla vipera. Non possedeva, cioè, calore proprio. Il calore lo cercava e lo prendeva ovunque le capitasse di trovarlo. Di giorno, si sdraiava al sole; di notte, si accucciava davanti al fuoco del camino. Altro suo particolare di rilievo era il saper piangere. Ci provava gusto, a piangere; qualche volta riusciva perfino a riscaldarsi, piangendo. Piangeva per tutto, purché ne avesse voglia: per un tramonto, per un addio ad una amica, per un vaso caduto per terra, per un fiore reciso, per una carezza. Accettò di buon grado – mi parve - il ruolo di specchio. Sembrava divertita, come un bambino che scopre un gioco nuovo. Io dubitavo che fosse la cornice a piacerle, non la mia faccia. Scacciai il pensiero molesto. Riuscii a scacciarlo soltanto dopo aver passato in rassegna tutte le ottime qualità interiori che io possedevo e che potevo sciorinare. Per economia di tempo, e per non affaticarla in laboriose indagini, credetti opportuno indicargliene alcune io stesso. Lo feci, mi pare il secondo giorno, dopo una notte lunga che mi aveva intenerito le ossa e il cervello. Introdussi l'argomento: «La vita comincia a quarant'anni.» Scrutai nel suo volto una reazione favorevole - non mi vanno le esibizioni smaccate; possono essere controproducenti. Attesi la reazione più banale: «Però, te li porti bene gli anni…» oppure: «Sai, al par tuo un ventenne ci sfigura…» invece, silenzio. Pensai: «E' timida. Magari lo pensa, ma non lo dice. Deve essere orgogliosa, anche.» Pensai così per avere il pretesto di continuare il discorso. Ripresi: «Quando il cuore è giovane gli anni non contano.» Aveva appoggiato la guancia sopra la mia spalla e pareva addormentata. L'accarezzai, per sapere se davvero dormiva. Al contatto della mia mano sull'ombelico ebbe un fremito, aprì uno spiraglio d'occhio e mormorò: «Ti ascolto.» Io proseguii: «Se mi guardi così di fuori posso sembrarti come tanti altri; ma se mi guardi bene di dentro troverai tante cose che gli altro non hanno…» Lei assentì col capo, sbadigliò e disse: «Non sono mica stupida. Hai un'auto che è una cannonata. Mi porti a fare un giretto? Non ho voglia, oggi, di andare a scuola…»
Auto, cielo azzurro e strada asfaltata erano fuori ad attenderci. Partii imballando il motore. Le ruote scavarono due solchi sulla ghiaia del viale. Lei s'attaccò eccitata alla maniglia del cruscotto. Filai come un bolide sul rettifilo della statale, preso dal gusto della corsa. Rischiai non so quante volte di rompermi l'osso del collo. Mi aspettavo che lei mi complimentasse. Dissi: «La mia auto dà prestazioni fuori classe.» E aggiunsi: «Naturalmente non bastano; ci vuole fegato, e l'esperienza del volante.» Non disse nulla; neppure quando, in curva, superai un "Milletre" che si era incocciato mentre sopraggiungeva un camion in senso contrario. Con perfetto tempismo avevo infilato la seconda e schiacciato a fondo l'acceleratore tutt'insieme. L'auto si era avventata con un ruggito nel varco ancora aperto tra i due mezzi antagonisti. Rimessa la presa diretta, mi distesi per smaltire la tensione. Pensai: «A saperglieli chiedere, la seconda mi dà i cento.» Chiesi: «Che ne dici, cara?» Parve cadere dalle nuvole. «Di che?» «Ma di ciò che è successo poco fa… o meglio, di ciò che non è successo.» «E che cosa dovrei dire, se non è successo nulla?» rispose spalancando gli occhi più verdi che grigi. Non mollai la presa. Dissi: «Credi che un altro ce l'avrebbe fatta?» Rispose: «Non lo so. Come faccio a sapere se un altro ce l'avrebbe fatta?» E prese a canticchiare una di quelle orribili canzoni che vincono i festival, «Ritornerò in ginocchio da te…» cantata da lei mi piacque. «Hai una bella voce, lo sai?» Rispose: «Non è vero. Smettila di prendermi in giro.» «Dico sul serio. Ti comprerò il disco; così ti ricorderai di me.» Schioccò un bacetto vezzoso, sussurrò: «Grazie», e mi accarezzò una guancia.
Trascorse così il giorno. La strada s'era fatta buia e il buio mi inteneriva. Perciò dirottai in un viottolo verso il mare. Quel viottolo ce l'avevo stampato chiaro nella memoria. Conduceva ad una spiaggia raccolta ad arco, brevissima, tra rocce e scogli a strapiombo. Vedendola, avevo pensato: «Se fossi innamorato, verrei qui a fare l'amore.» Mi accadeva quand'ero solo e scoprivo un posticino romantico. L'amore al naturale mi dava vertigini di piacere - l'erezione emotiva, breve dirompente. Qualche volta, riflettendoci, l'avevo presa per una forma di claustrofobia affettiva. Avevo fatto il paragone tra la comodità di un letto casereccio e un arenile umido, con la sabbia che s'infila dappertutto. Con tutto ciò la natura non ha rivali. Neppure le ortiche… Me ne ero accorto, una volta, ma dopo, quando mi si erano gonfiate le mani. «Se c'è qualcosa di normale nell'uomo è la fregola di fare l'amore all'aperto.» Avevo infine concluso.
Quella sera, infilando il viottolo marino, pensavo: «Non può esserci creatura sessuata che resista al fascino di una spiaggetta tra gli scogli, in una notte serena e per di più illuminata dalla luna.» Era piovuto di recente e dove la stradicciola diventava pista, tra asfodeli e rocce affioranti, le ruote slittarono dentro larghe pozzanghere melmose. Lei si allarmò. Disse: «Ma lo sai almeno dove stiamo andando?» Non la degnai di uno sguardo. «Perché? Ti sembro forse uno di quelli che non sa quello che fa?» E accelerai, improvvisando una ginkana per evitare sassi, cespugli e pozzanghere. Lei disse: «Sarà. Però non vorrei restare impantanata.» «Se non è che per questo… Sarebbe piacevole, noi due in auto, tutta la notte.» L'idea mi sorrideva, ma intanto stavo attento a non finire nel molle e in particolare ad evitare le rocce affioranti. «Ci mancherebbe, spaccare la coppa dell'olio o il differenziale.» Lei disse: «Non è per ciò che tu dici… anche se restare una notte in auto, a gelare, a me proprio non sorride… è che mi dà fastidio pensare di farmi trovare qui dalla gente.» Assentii. «Hai ragione. Me l'immagino, ciò che direbbe la gente. A me, più che a te. La gente ha in odio, per ragioni di morale, gli uomini di quaranta che stanno con donne di sedici. Li giudica bricconi. Lo sai tu perché?» Rispose: «Mah! Non lo so. Credo per morale. Ti è scappato detto anche a te. Io non ci ho mai pensato. Ma lo sai che tu fai domande astruse?» «Perché astruse? O forse mi giudichi anche tu un briccone, e non vuoi dirlo?» Mi guardò attentamente, poi sorrise, scosse la testa, e disse: «Ma va, tu, un briccone! Piantala con queste storie», cambiò discorso. «Sai, ieri, la mia compagna di banco mi ha insegnato il bacetto rimbalzato.» Pensai: «Al diavolo le metafisiche.» E con affettato interesse le chiesi: «Racconta.»
Dopo un tratto di salita, giunti sulla cresta di collina, apparve d'improvviso sotto di noi la piccola insenatura. Lasciai scivolare l'auto con il muso in giù sulla sabbia e le ruote posteriori sul duro. Aprii il vetro, mi distesi sul sedile spalancando le braccia, allargando il petto per farci entrare una grossa boccata d'aria marina. Il mare era grigiastro con riflessi argentei, appena increspato dalla maretta. Avrei voluto sussurrarle: «Guarda dove ti ho portata. Che meraviglia! Non ti commuove l'immensità dell'oceano sotto il cielo stellato? Non ti intenerisce il fruscio lieve della risacca sulla sabbia? Non ti esalta la maestosità degli strapiombi neri? E non ti parla d'amore il silenzio della terra addormentata alle nostre spalle?» Ma lei - intanto che pensavo le parole per metterle giuste in fila l'una dietro l'altra - aveva brontolato: «E' pieno di zanzare questo posto!» dandosi una manata sul polpaccio.
C'era un pretesto per accarezzarla, e lo feci. Mi sembrò anche che ci fosse una buona ragione per chiederle: «Dimmi, cara, com'è il bacetto rimbalzato? Dev'essere meraviglioso, fatto con le tue labbra.»
Si rianimò, dimenticò le zanzare, accostò il suo viso al mio, e accese la luce per farmi vedere meglio. Pensai: «Adesso non ha più paura di essere vista dalla gente.» Lei spiegò: «E' un doppio pussi pussi. Si fa a distanza ravvicinata, ma senza contatto. Così…» Atteggiò le labbra al bacio congiungendole due volte con due schiocchetti. Esclamai: «Delizioso!» E pensavo davvero a ciò che dicevo. Lei volle che mi cimentassi anch'io. Il gioco finì per destarmi un desiderio di qualcosa di più concreto. Chiesi: «Scusa, cara, ma perché senza contatto? Mi pare sprecato, così…» Fece una smorfia di disgusto. Disse: «Rovineresti tutto. E' bello proprio perché è diverso dal solito. Mi chiedo se tu sei tanto intelligente quanto sembri dalle tue idee di rivoluzionario.» Incassai il colpo. Con tono da mea culpa mormorai: «Scusami. Su certe cose sono rimasto uno sporco reazionario. L'amore mi piace fatto secondo natura. E' proprio una colpa? Ma credimi, sono aperto alle teorie più moderne, purché sia tu ad insegnarmele, e purché non siano eccessivamente rinunciatarie.»
Non accettò. Disse: «Tu sei irrecuperabile, alla tua età.» Pensai: «E' solo sincera, non vuole offendermi.» Accoccolandosi con le ginocchia tra le braccia, mormorò: «Non senti freddo, tu? Ce ne andiamo?» Pensai: «Venti chilometri di pista scassata con il rischio di impantanarmi, per niente.» Non mi deludeva lei, mi deludevano il mare, la spiaggia, gli scogli, la luna che non riuscivano a destare l'anima "romantica" di una sedicenne. Ero fermamente convinto che tutti abbiamo, fra le tante, un'anima "romantica". Pensai ancora: «Forse è distratta. Forse si vergogna a tirar fuori la sua anima romantica, così, davanti a me, per non sembrare della stessa pasta frolla delle sue - come dice lei - antenate.» Ma non pensai affatto che potessi essere io la remora; io con la mia età, con la mia faccia, con il mio modo di fare, con le mie idee - tutto già programmato e razionalizzato, perfino le reazioni emotive in una spiaggetta fra gli scogli. Ci pensai solo più tardi. In quel momento, invece, feci la faccia scandalizzata ed esclamai: «Come?! Tu vuoi andar via da questo incantevole luogo senza neppure degnarlo di uno sguardo? Ma che cosa hai tu al posto del cuore?» E con gesto melodrammatico aprii lo sportello, balzai fuori dall'auto e presi a camminare sulla sabbia verso il mare, improvvisando e declamando: «Talàtta, talàtta! Oh, mare, mare, mare! Quante cose fai pensare…»
Lei, che mi aveva seguito svogliata, strascicando i mocassini sulla rena, accentuando stanchezza e brividi di freddo, trovò lo spazio per mordere - ne immaginai la smorfia, alle mie spalle - disse: «Guarda, caro, che mare fa pure rima con amare…»
Non c'era posto alcuno per i ripicchi, nella mia tenerezza. Mi sdraiai supino, con le mani sotto la testa per non riempirmela di sabbia. Bastava la sua presenza a rendermi felice. Mi si era accucciata accanto - a schiena curva, le mani infilate sotto il maglione, mi guardava con gli occhi spalancati, più grigi che verdi. Dissi: «Non si deve ironizzare sulla fonte di ogni vita…» Era un contrattacco: riequilibrare le posizioni con una esibizione dottrinaria. Già stavo per enunciare le teorie di Oparin, con la storia dei coacervi, per puntare su Darwin, arrivare alla scimmia attraverso la branchie dei pesci e l'apparato respiratorio degli anfibi… Lei mi interruppe: «Risparmiati. Proprio avantieri questa predica ce l'ha fatta il professore di scienze… e poi, adesso ho freddo; se no, sai, mi piace sentire la tua voce.» Pensò che ci fossi rimasto male, e mi accarezzò. Facendo una moina, disse: «Non ti adirare, ti prego.» E mi schioccò un bacetto rimbalzato che mi rasserenò del tutto. Allora, levandosi, disse: «Vogliamo andare, adesso?» E mi tese la mano.
Seguii affascinato il suo morbido elastico incedere. Pensai: «Pare nata apposta per passeggiare di notte su una spiaggia deserta fra gli scogli.»

Prima che rompessi gli specchi - parecchio tempo prima - mi ero spesso compiaciuto per certe espressioni intelligenti che apparivano nel sorriso e in particolare nello sguardo, per un vezzo del sopracciglio sinistro più alto e più arcuato del destro. Riservavo agli occhi la dose maggiore di fiducia e di stima, per il loro ruolo di primo piano nelle intraprese sentimentali. Uno sguardo ben coltivato e ben diretto, è più esplicito e persuasivo di qualunque argomentazione - l'ipotesi partiva da un convincimento astratto, ma poggiava su dati di fatto. Viaggiando in treno, da studente, mi accadeva di sedere di fronte a una ragazza. Era l'occasione buona per sperimentare l'ipotesi. Una bruna - lei, dapprima, tentò di sfuggire lo sguardo; poi pian piano il suo viso si fece attento, come quello di chi si accinge ad ascoltare una storia interessante; infine soggiacque, docile turbata, all'imperiosa carezza visiva. Era arrossita, e ne fui felice e lusingato. Avrei voluto indagare sulle cause del suo rossore, ma c'era gente vicina ed ero molto timido, allora. Fra gli insuccessi, una ragazza rossa, lentigginosa, che masticava gomma. Prima ancora che mettessi a fuoco lo sguardo, mi disse che non le andava a genio d'essere guardata così come una bestia rara; cacciò fuori un palmo di lingua e cambiò posto. Quella volta divenni rosso io, ma l'eccezione mi confermò la regola - d'altro canto c'è idiosincrasia per le rosse, ancora oggi. In breve tempo ottenni dagli occhi rilevanti prestazioni sentimentali; riuscivo a far dire loro tutto ciò che volevo. Anche il luogo e il momento - notai - avevano la loro importanza. "La dialettica dello sguardo", come la chiamavo allora, in omaggio alle dottrine politiche progressiste, era da usarsi preferibilmente in treno, dove si verificavano diversi fattori notevoli: il dondolio, le vibrazioni, lo scorrere intermittente dei pali telegrafici ed il brontolio ritmico delle ruote sui binari. Sapevo di impotenti che portavano l'uccello in treno per sentirlo starnazzare.
Da una notte gelida era venuta una giornata grigia nuvolosa. Accendemmo il fuoco nel camino del soggiorno. Lei si era appollaiata sopra una poltrona, con un libro aperto sulle ginocchia e una pila di dischi che andava mettendo uno dietro l'altro nel giradischi. Io attizzavo il fuoco, ascoltavo la musica, guardavo lei, e mi lasciavo portare beato da pensieri leggeri. Pensavo: «Avrei voluto incontrarla e conoscerla allora, in treno.» Mi finsi la scena… Certi pomeriggi avevamo ginnastica, e dovevo trattenermi in città fino al treno delle diciotto. Gettavo la borsa nella rete del primo scompartimento che mi capitava d'infilare, poi facevo un giro di perlustrazione nei corridoi. La caccia alle ragazze era il relax dopo le fatiche scolastiche. Eravamo tanti da riempire il treno noi soli. La gente non ci poteva soffrire, perché non lasciavamo posti liberi da sedere, perché non stavamo mai fermi e quieti, perché discutevamo a voce alta. «Invece d'imparare l'educazione a scuola imparate diavolerie», mugugnava la gente, e ci odiava, specialmente perché eravamo, «come cani, sempre col naso dietro le femmine.»
Girovagando da un vagone all'altro l'avrei incontrata, così com'è, coi capelli biondi lisci lunghi che le coprono mezza faccia, col suo cappottino liso un po' stretto e le scarpe basse di camoscio scalcagnate. Sarebbe stata sola, appoggiata al vetro del finestrino, intenta a guardare le ombre della campagna. Io mi sarei avvicinato; mi sarei messo al suo fianco e avrei richiamato con lo sguardo la sua attenzione. Avrebbe finito per darmi il viso, gli occhi, la bocca… ed io le avrei sorriso. Avrebbe detto: «Ciao», e poi avrebbe chiesto, per fare amicizia: «Di dove sei?» «Ginnasiale, di…» avrei risposto. «E tu?» «Magistralina, di…» «Hai occhi rari, lo sai? Verde e grigio…» Lei sarebbe arrossita e avrebbe mormorato: «Ti prego, non guardarmi così…»
Interruppi il fantasticare e dissi: «Cara, come trovi i miei occhi?» Levò la faccia dal libro e rispose: «Sono marrone scuro, mi pare.»
«Sì, lo so di che colore sono… ma tu come li trovi?»
«Sono belli. Un po' sciupati…»
«Sì, erano belli, un tempo… Aspetta, ti faccio vedere», mi alzai e presi l'album delle foto. Ne indicai una.
«Sei tutt'altra cosa, adesso», mormorò guardando alternativamente me e la foto.
«Avevo la tua età», dissi. E con rammarico aggiunsi, «perché non ti ho conosciuto allora?»
Sorrise. «Non credevo che alla tua età si facessero pensieri così campati in aria», disse, ma il suo sguardo era dolce.
«Ti piace viaggiare in treno?» chiesi, seguendo una mia idea.
«Non molto.»
«Mi piacerebbe incontrarti in treno, così per caso. Conoscerti e fare amicizia in viaggio, e arrivare a scendere insieme di notte in una piccola stazione di campagna…»
Lei mi guardò stupita. «Ma che bisogno c'è di conoscermi in treno, se mi conosci già?»
«Se te lo dicessi, forse non capiresti.»
«Perché non, capirei? pensi che sia cretina?»
«No, non dico questo… Ascolta: credi tu che io possa dirti guardandoti quanto ti amo?»
«Non so… aspetta… fammi leggere nei tuoi occhi», avvicinò il suo viso al mio. I suoi lineamenti sfumarono quando mi fu troppo vicino, e dovetti stringere gli occhi. Notò subito il difetto. Disse: «Sintomi di presbiopia. Proprio la lezione di oggi.» Sfogliò il libro e lesse: «Difetto della vista dovuto alla perdita di elasticità del cristallino, si verifica specialmente nei vecchi…»
Pensai: «Ecco perché mi stanca leggere, perché tengo il giornale a un metro dalla faccia», tornai vicino al camino. Borbottai: «Ma che diavolo vi fanno studiare adesso a scuola, la fisica… Ai miei tempi era una cosa seria, l'ottica.»
«Ma non stavi parlando di un viaggio in treno?» chiese.
Me n'era passata la voglia. però, per cortesia, dissi: «Se ti fa piacere ci andiamo anche subito, o quando vuoi tu.»
«Per me, figurati! Non mi fa né freddo né caldo. Preferisco l'auto, lo sai. E' più comodo, più personale…»
Mi sentivo deluso irritato. Me la presi con l'auto. Dissi: «L'auto… povera umanità inscatolata!» Già altre volte mi era accaduto di dare la colpa all'auto per ogni acciacco. Dieci gradini bastavano a farmi venire il fiatone; una passeggiata di cento metri mi appesantiva la milza. Tutta colpa dell'auto. Dissi: «Ti piace l'auto. Perché ti piace?»
Lei levò ancora la faccia dal libro. Rispose: «Che domanda?! Te l'ho già detto, no? Mi piace se è bella e se corre.»
La risposta mi intenerì. Pensai: «La mia auto è bella e corre.» E mi riappacificai con la macchina. Dissi: «Ti amo. Andiamo in auto?»
Si prese il mento tra le mani e stette a guardarmi con un sorrisetto ironico.
«Ti prego», insistei.
«D'accordo», disse alzandosi. Ritornò subito dopo, con il mio soprabito sul braccio e le chiavi dell'auto in mano.

La parte dello specchio finì per annoiarla. Un giorno che io volevo, come al solito, vedermi in lei, storse la bocca, e disse: «Mi sono stancata, sai, di questo gioco.»
Dapprima mi irritai come si irrita un padrone quando uno schiavo sottomesso gli si ribella. Gridai: «I patti sono patti. E poi, chi ha detto che è un gioco?»
Forse non trovava parole da dire, perciò si commosse e strizzò alcune lacrime. Lasciandomi commuovere anch'io, domandai: «Sei triste?» Pensai: «Tristezza e lacrime fanno venir voglia di fare l'amore.» Ripetei: «Sei triste? Che cosa ti fa triste? A chi dirlo se non a chi ti ama» La feci sedere sulle ginocchia, per creare un clima più intimo. Le accarezzai i capelli con dita leggere, finché finì per sciogliersi. Sussurrò: «Mi sono innamorata.» Pensai con tristezza: «Non certo di me.» Ma non provai alcuna gelosia. Mi apparteneva tutta, dalla punta dei piedi alla cima dei capelli. Mi dissi: «Perché dovrei proibirle di innamorarsi e di sognare? Non sanno fare altro che sognare, alla sua età. Si innamorano come pere del primo cretino che rassomiglia al fusto di moda. Si accontentano di farsi stringere e palpare, guardandolo imbambolate. Tutt'al più gli mandano qualche bacetto rimbalzato.» Le dissi con benevolenza: «E' naturale, alla tua età. Puoi dirmi tutto. Se c'è uno che può capirti…» Stava col viso basso, giocando con le unghie. «Allora?» Ripresi a dire, «Cosa c'entra il fatto che ti sei innamorata? Non eri forse innamorata di un tuo compagno di scuola quando ti ho chiesto di venire? Non penserai che io non mi sia accorto che ti sei innamorata altre tre volte in due mesi? Una volta, la sera che ti ho portata a ballare… una seconda volta, quel paio di giorni che sei stata fuori al tuo paese… e una terza volta col nuovo professore di filosofia, il quale, tra parentesi è brutto, sposato, e puzza di finocchio… E dunque, di che ti crucci adesso?»
Fece un viso patetico. Strizzò ancora qualche lacrima. Sospirò e disse: «Adesso è un'altra cosa. Sento che è una cosa seria, adesso…»
Sbottai in una risata. «Una cosa seria!» esclamai, esagerando l'ilarità, «tu! via, non farmi ridere… Ho avuto anch'io sedici anni. So bene quel che succede a sedici anni.»
Si imbronciò. La sentii irrigidirsi, tra le mie braccia. Pensai: «Ho toccato il tasto sbagliato. Meglio assecondarla.» Dissi: «Scusa, cara… può darsi che stavolta sia una cosa seria. Se me ne parli, capirò se è una cosa seria.»
Si rasserenò. Mi guardò con occhi umidi. Mormorò: «Non ridere, ti prego, se ti dirò tutto… mi fai soggezione, tu, qualche volta.» Io fui contento di farle soggezione "qualche volta", perché spesso era lei a farne a me. Le accarezzai un ginocchio borbottando: «Via, non sono un orco.» Mi stampò un rumoroso bacio tra guancia e collo. «Tu sei molto paziente, con me…» mi sussurrò all'orecchio, vezzosa, accarezzandomi i capelli sulla nuca. L'abbracciai eccitato. Attirò la mia testa sul suo seno e ve la tenne a lungo, senza parlare più. Ricordai com'era dolce materna, dopo l'amplesso. Risentivo la stretta delle sue braccia che mi avvinghiavano il collo e le spalle. Lasciavo il lume da notte acceso, per vedere offuscarsi i suoi occhi verde-grigio e le sue labbra inturgidirsi quando gemeva nel piacere… Era dolce materna, dopo l'amplesso. Mi tratteneva a lungo su di lei, mi accarezzava, quasi con riconoscenza, e qualche volta piangeva… «Ora finge», pensai. Mi parve di capire che cercava di farmi ingoiare un boccone amaro cospargendolo di zucchero vanigliato. Allora mollai le redini, per vedere dove andasse il suo corso. Dissi: «Continua. Ti ascolto.»
«Vedi, quando mi sono innamorata di Cleo l'ho presa alla leggera. Poi, ricordi? sono stata a ballare, domenica scorsa, e ho incontrato Toni, quello che mi fa una corte spietata. Attraversava un brutto momento, poveretto… una disgrazia in famiglia. Gli ho sempre risposto picche, non è il mio tipo; ma quella sera, mi faceva una gran pena…»
La interruppi, ironico: «E allora, tu, per tirarlo su gli hai detto si…»
«Già. Proprio così. Vedo che mi capisci», proseguì lei - non cogliendo o facendo finta di non cogliere l'ironia - «E siccome sono una ragazza sincera, il giorno dopo ho detto a Cleo: "Scusa, Cleo, mi sono sbagliata, con te… Ho conosciuto un altro e credo di volergli bene." Lui, Cleo, è rimasto a guardarmi a bocca spalancata, sai, tra parentesi, è il tipo che va a dire in giro: "Non è nata ancora la ragazza che mi pianterà." Non poteva crederci. Soffriva da morire, ma non dava a vederlo. Ha detto: "Bene. Se le cose stanno così… Addio…"»
La interruppi di nuovo: «Scusa, cara, io non ho capito bene. Chi è importante, Toni o Cleo?»
Scoppiò a piangere. Fra i singhiozzi, volgendomi uno sguardo desolato, disse: «Come? Non l'hai capito? E' Cleo che amo… dopo, l'ho capito; quando l'ho lasciato, l'ho capito…» Continuò a piangere, fregandosi i pugni negli occhi, come fanno i bambini. «Sono nei pasticci, adesso… Proprio non so cosa fare, adesso… Tu che sei esperto, dimmi, cosa faresti?»
Io pensai: «Se ha bisogno del mio aiuto non l'ho persa ancora.» E ne fui felice. Con l'enfasi di un nume tutelare esclamai: «Benedetta ragazza! Tutte così… si mettono in testa idee più grandi di loro e poi non riescono a cavarne i piedi. Per fortuna, tu…» Stavo per dire: «Per fortuna, tu, hai un uomo come me che ti risolve i problemi.» Saltai, passando subito alla soluzione: «E' facile. Digli che lui nonostante tutto è rimasto per te un caro amico. Digli che ti fa piacere la sua compagnia… Se davvero ti vuol bene, accetterà anche il ruolo dell'amico, per non perderti.»
Mi ero messo nei panni di Cleo. Mi pentii subito del suggerimento che le avevo dato. Le avevo messo in mano una buona arma che avrebbe ferito soltanto me. Fui tentato di fare marcia indietro. Ma lei non me ne lasciò il tempo. Disse: «Hai ragione; farò proprio così. Sei davvero un tesoro, in fatto di consigli.» E scivolò dalle mie ginocchia.
Riapparve per un attimo sulla soglia, finendo d'infilarsi il cappotto. Disse: «Ciao. Io esco. So dove trovarlo.»

Rientrò a notte tarda. La sentii rovistare in cucina. «Deve aver fame», pensai. Dopo la udii salire le scale, con passo felpato. «Crede che io dorma», pensai.
Entrò, vide la luce da notte accesa e disse: «Ciao. Non dormi ancora?» Si spogliò frettolosa, lasciando cadere tutt'intorno la sua roba. Tenne le mutandine e infilò la giacca del pigiama. «Dev'essere scocciata», pensai. Si infilò sotto le lenzuola e si accoccolò per dormire.
L'avevo attesa per un tempo che mi era parso interminabile, con fremiti d'ansia da far battere i denti. Temevo che non sarebbe più tornata. Ci avevo pensato con terrore. «La mia è un'impossibile sfida al tempo - mi ero detto - quale uomo può, guardandosi allo specchio, ritrovare i suoi sedici anni? Io possedevo questo magnifico specchio, ed ora l'ho perso.» Invece, lo specchio dei miei sedici anni era tornato. Era qui, vicino, ora, accanto a me. Aguzzai lo sguardo nella penombra. Teneva gli occhi chiusi. Era uno specchio senza riflesso d'immagine, con gli occhi chiusi. Implorai: «Amore, apri gli occhi, ti prego e guardami… Ho l'anima triste come la morte, stanotte.»
Si mosse appena, infastidita. La scossi su una spalla con la mano. Mi agghiacciava il terrore di restare solo con me stesso. «Egoista e ingrata», sussurrai con rammarico.
«Lasciami dormire», rispose, senza aprire gli occhi, «sono stanca morta… oggi proprio non me la sento. Ma lo sai che ore sono?»
Pensai: «Ha fatto pace con Cleo. E' stata con lui - per questo non se la sente.» La gelosia mi lacerava le viscere con unghiate feroci. Ma più dolorosa era la paura di perderla. Dissi: «Scusami, capisco che tu sia stanca. Trova almeno una briciola di tenerezza per me. Non posso dormire. Sono triste. Ho bisogno di un po' di tenerezza…»
«Ho capito», disse con gelida condiscendenza. «Ho capito. Hai bisogno della danza, per rilassarti.» E si dispose supina. «Ma spicciati, a danzare… ho sonno.»
Mi ferì. Ma pensai: «Non posso permettermi il lusso dell'orgoglio, non voglio perderla.» E mi sentii pronto a strisciare come un verme, per non perderla. Pensai ancora: «La danza può essere tante cose… un pezzo di musica, due tre compresse di barbiturici, una corsa in auto… ma ora è parlare, parlare e rivoltarmi come una tasca.» Dissi: «Scusa, mi hai frainteso. Non questa danza desidero adesso, e comunque non così…»
Lei mi interruppe, ricomponendosi, più seccata che delusa. Con sarcasmo disse: «Vuoi forse che danzi io, per te, in pigiama?»
«Voglio solo parlare… con te. Guardarti. Stiamo vicini e parliamo. Vuoi?» Sussurrai, passandole un braccio sotto la testa. Desideravo sentire il peso della sua testa, la carezza dei suoi capelli, della sua guancia sul mio petto. Dissi: «No, stai ferma, stai pure così, non mi pesi.»
Lei capì, forse, di non avere scampo. Cercò di affrettare il ritmo della danza, per finirla presto. Finì per rattristarmi. Disse: «So già bene ciò che vuoi dirmi. Non ne vale la pena, credimi… ma è bene che tu sappia che per me è finita.»
Mi sentii raggelare. Con la bocca arida, balbettai: «Perché finita? Puoi capire tu la parola fine? E perché? Perché non ne vale la pena? Che cosa, non vale la pena? La mia vita…»
«No», rispose, «sono io che non vale la pena… io, credimi.»
«Ritrovare la giovinezza… e tu dici: non vale la pena. Ma tu sai, puoi capire, tu, che cosa sia la giovinezza…»
«Giovinezza giovinezza, primavera di bellezza!» prese a canticchiare, beffarda.
Morsi le labbra, per non urlare. Con voce soffocata, dissi: «Non hai cuore… Tutto posso permetterti, ma questo no, non posso. E' troppo, questo…» Poi, senza più ombra di rimprovero, aggiunsi: «Cara, non scherzare più, ti supplico. E' una cosa seria.»
«Credo bene che è una cosa seria, per te, se non ti lascia dormire… Però, lascia che te lo dica, è stupido lo stesso non dormire, anche se è per una cosa seria.»
Tentai di riportarla nel ritmo della danza. Dissi: «La giovinezza è ciò che potevi essere e non sei stato.»
Lei sorrise. Rispose: «Belle parole. Da ciò che mi risulta, tu hai sempre fatto e avuto tutto ciò che hai voluto. Perché allora vuoi dare corpo ai fantasmi.»
«Sei un fantasma, tu? Tu non sei un fantasma. Tu, sei la mia giovinezza, in carne e in spirito.» La strinsi al petto, nell'impossibile anelito di farla penetrare dentro di me. Quando allentai la stretta, lei gettò il fiato, mi sgranò gli occhi addosso, sollevò la testa, esclamò: «Ma tu sei pazzo da legare…»
Non mi dispiacque la frase, perché mi permise di riabbracciarla e di sussurrarle: «Sì, pazzo di te, amore.»
Rise e disse: «Giulietto e Romea!» E capii che avevo detto parole che fanno ridere i sedici anni. Allora pensai a voce alta: «Se avessi ancora i miei sedici anni…»
Rise ancora. Rise finché non vide apparire sul mio volto l'ira. Scusandosi, disse: «Rido, sai, pensandoti a sedici anni…»
«Ero un bel ragazzo, allora… Chissà come sarebbe stato bello con te, allora…»
«Ma va, non crucciarti per nulla. Avresti fatto schifo, a sedici anni. Come fanno schifo tutti i ragazzi di sedici anni. Hanno sapore di latte.»
Un filo di speranza. Pensai: «Subisce il fascino dell'uomo maturo. No, non l'ho ancora persa…» Dissi: «Hai ragione, ed io sono un vecchio stupido. Ciò che conta è l'esperienza, no? Forse l'ideale sarebbe l'avere il cuore di sedici e l'esperienza dei quaranta… non è così, cara?»
«Sei complicato come al solito. Ma ti immagini? Io, di conseguenza, dovrei avere l'esperienza dei sedici e il cuore di quaranta… sarebbe buffo, anzi cretino. Ma perché non hai fatto il professore di filosofia? Chissà quante ragazze ti saresti portato a letto, con il fascino delle tue idee straordinarie.»
«Non scherzare, ti ho detto. Sono cose serie…»
«D'accordo», finse lei, e con tono da predicatore disse: «Cose serie sono, cose da grandi…» mutò ancora espressione e tono e aggiunse: «Le parole mi stancano, se mi fanno pensare. Concludi, perché ho sonno.»
Pensai: «Parlare è una danza - la danza di Zorba - come dormire. Ma no può farsi con l'orologio davanti, come una conferenza. Se il sangue è molto triste bisogna danzare a lungo prima di trovare il nirvana… C'è chi si aiuta con l'alcool… L'alcool affretta gli effetti della danza. perché non provare?» Dissi: «Tu vuoi dormire, no? Anch'io lo voglio…»
«Disse: «Finalmente l'hai capito.»
«Sì, ma devi avere ancora un po' di pazienza. C'è del liquore, giù. Vuoi andare a prenderlo? Sì? Porta qualcosa di forte…»
«Bah… Chi ti capisce è bravo», borbottò lei, levandosi dal letto con lo stesso umore di chi sta andando a farsi operare di emorroidi. «Così si sveglia», pensai, vedendola rabbrividire.
Il primo bicchiere mi bruciò la gola. Il secondo mi stordì. Il terzo mi commosse fin dentro le budella. Trovai dentro - chissà dove nascoste - un mucchio di parole da tirare fuori. E con le parole vennero fuori tante lacrime da bagnarmici tutto. Mi stupii che ne avessi tante, di parole e di lacrime, da tirare fuori prima di sentirmi placato vuoto come un sacco rivoltato. Lei disse: «Dovresti farlo più spesso, bere. Sei straordinario, quando bevi. Se avessi i tuoi soldi proverei con l'oppio. Come droga, dicono che sia una cannonata.»
Ci addormentammo storditi, cullati dal flusso delle mie parole.

Era un nuovo giorno, ed io me ne accorsi. Non percepivo più gli stimoli della vita. Supplicai: «Fammi vivere ancora. Trascorrerò il tempo che mi darai a guardarti.»
Non rispose. Si mordicchiava le labbra.
Insistei: «So che ti costa. Non ha prezzo ciò che tu puoi darmi.»
Disse: «Ho detto basta. Ho già detto che il gioco è finito.»
«Un gioco?… non dire così. Neppure per te può essere stato un gioco soltanto.»
«Sì, invece. Parlo seriamente. Sii ragionevole. Non poteva essere niente altro che un gioco. Un gioco e basta. E neppure piacevole, per me.» Disse, e scandì bene le ultime parole.
Sentii una fitta atroce nell'orgoglio - nel punto più vulnerabile e più doloroso. Portai le mani alla faccia, manifestando nel gesto un po' della mia pena. Speravo di impietosirla. Balbettai: «Come… Spiacevole?… Ti facevo ribrezzo, io? E allora, le parole dolci che mi dicevi? i gemiti di piacere… i baci, le carezze, i sorrisi?» Era un soffrire lancinante, acutissimo e lucido. E più soffrivo e più scavavo nel dolore con unghiate feroci. Finii per entrare in un clima da incubo. Mi pareva di assistere ad un dramma altrui. Pensai, per salvarmi: «Reciti bene. Reciti fino in fondo la tua parte. Poi lo spettacolo finirà - tutto sparirà dietro i pesanti drappeggi del sipario.» Ma non avevo coscienza alcuna dei limiti tra la realtà e l'incubo. Lei non aveva risposto, allora insistei: «Era tutto falso, dunque?»
Non esitò. Rispose: «Sì, era tutto falso.»
«Allora, tu, hai sopportato… è stata una tortura…» Pensai: «No, non può essere. E' un incubo. Ora finisce, e lei mi sorride…» Levai gli occhi colmi di lacrime. La vidi. Mi stava davanti, in piedi, con le braccia conserte. Non tradiva emozione; soltanto gli occhi, mi parve, tradivano irritazione e disprezzo.
Quasi senza muovere le labbra, disse: «Non ho mai goduto, con te… è stata una tortura.»
Provai un impeto di rabbia - il desiderio di distruggerla. Gettai un urlo senza voce.
Lei non udì e non capì. Disse: «Sei un attore sputato. Hai la vocazione del melodramma. Ma stai attento: la parte che reciti può farti soffrire davvero.»
Non risposi. Il mio silenzio e il mio pianto la irritarono. Disse: «Smettila! Ascolta o balla la danza di Zorba. Oppure bevi, ubriacati; fuma la marjuana o vattene a puttane… L'hai sempre detto, tu, che la gente si fa i miti di liberazione per non schiattare. Tu hai i nervi tesi… scaricali. Sei o non sei un teorico dello scaricamento razionale dei nervi?»
La udivo come da lontano. S'era messo in moto un meccanismo che non riuscivo a controllare, che minacciava di sgretolarmi. I denti dell'ingranaggio già strappavano i primi brani di carne, ed io ne subivo lo strazio, impotente affascinato atterrito. Pensai: «Sporco masochista! Sii uomo. Danza la danza di Zorba fino a che crollerai esausto, e poi dormi.» Ma il dramma mi avvinceva con artigli d'acciaio, sentivo che a recitarlo tutto fino in fondo, il dolore si intorpidiva e scioglieva. Dissi, gemendo: «Tutta finzione! Tu! Ti diverte, distruggere un uomo.»
Rispose: «Non mi diverte affatto. Anzi, non mi hai mai divertito, tu.»
Pensai: «Che altro dire, ancora? Sono davanti all'abisso. Ora posso vederlo chiaro e distinto. Ogni strada finisce lì. Che fare? Lasciarmici cadere?» Provai nausea. Cercai una scappatoia. «E' tutta una finzione. Non l'ha detto anche lei che sei un attore sputato?» Dissi: «Va bene, sono un attore… Ma questo non ti autorizza a decidere tu della recita. Tu prendi in mano la fune e decidi di calare il sipario. Ma io - che ne sai tu? - io ho forse finito di recitare?»
«E chi te lo proibisce?» rispose lei sarcastica. «Continua pure, ma da solo. Rimetti gli specchi al loro posto e guardati in faccia.»
«No, non posso…» gemetti, e sapevo che le parole non erano in un copione, «dammi ancora qualche giorno. Lascia che io trovi e che io dica l'ultima battuta…»
«No. Non la troveresti mai tu, in questo caso, un finale di mio gusto. Credo di conoscerti.»
Era l'unico appiglio; mi ci aggrappai disperatamente: «Ancora qualche giorno. Non voglio morire così, angosciato… Lo vedi anche tu… non sono pronto, adesso. Dammi ancora un po' di tempo. Due giorni. Va bene, due giorni?»
Lei sembrò riflettere. Un silenzio troppo lungo per la mia ansia. Implorai: «Allora? Sì? Due giorni? Sì?… Soltanto due giorni. Che cosa sono due giorni, per te? Hai finto per tanto… fingi ancora per altri due giorni. Io fingerò di non sapere che tu fingi.»
Scosse il capo, fece una smorfia di disgusto, disse: «Va bene. Altri due giorni… poi, crepa.»
I due giorni erano soltanto la bombola di ossigeno per prolungare l'agonia - inutile vigliaccheria. Con lucidità capivo, senza vergognarmene. L'unica cosa che conta - quando si sta crepando - è il tempo. Ogni secondo appare prezioso, contiene l'illusione dell'eterno. Mi trovavo sull'orlo dell'abisso, e cercavo dentro di me, disperatamente, un filo da gettare nella foschia dell'assurdo, una bava di ragno sospesa nel nulla, a cui aggrapparmi. Ma era come star seduto con le gambe penzoloni nel vuoto sperando di vedermi spuntare le ali.
Lei mi concedeva tutto il suo tempo, tutta la sua tenerezza. Fingeva, con lo stesso animo di chi dà il colpo di grazia all'agonia del giustiziato. Non soffrivo quasi più, ora, sprofondato in un torpore dolciastro assurdo. Trascorrevo le ore sdraiato in una poltrona, davanti a lei.
Alla fine, forse capì. «Vuoi un caffè?» chiedeva premurosa. E appena colto un cenno di assenso si precipitava a portarmelo, con lo zucchero già mescolato. Mi porgeva la tazza, chinandosi su di me, scuotendo indietro i capelli che le erano scivolati sul viso, poi mi si inginocchiava davanti e restava a guardarmi con dolcezza. Oppure sedeva sul bracciolo, mi prendeva una mano tra le sue, mi sorrideva. «Posso fare qualcosa per te?» chiedeva. «Vuoi ancora tranquillanti?» «Vuoi che metta musica?» «Vuoi che balli per te?»
Pensai: «Che cosa prova lei, adesso, per me? Pietà?» Dissi: «Non sei mai stata così affettuosa, così cara come ora, con me. Perché?»
Rispose: «Non so come dire… Mi viene più facile, ora, esserlo. Forse perché è la fine…»
«Allora mi vuoi un po' bene, ora…»
«Credo di sì. Credo proprio di sì, adesso…»
«Allora non fingi del tutto, ora…»
«No, credo proprio di no. Non fingo, adesso…»
Mi parve di sentire tra le dita l'esile profondità di un filo. M'illuminai di speranza. Con agitazione mormorai: «Ma allora un valico c'è, una speranza…»
Lei spezzo subito il filo. Disse: «No, non ce n'è. Soffriresti di più. Sii un uomo.»
Pensai: «Non ci sono più strade…»
Lei mi lesse dentro. Disse: «Non ci posso far niente. Mi dispiace, credimi… posso solo conservare di te un buon ricordo.»
Mi ritornò alla mente il "filo" cretino della "eredità di affetti". Pensai: «E che mi giova? Che ne verrà a me, se io non sarò con lei?» Ricordai il "filo" hegeliano: «Io sono il centro dell'universo… morto io, muore tutto l'universo.» Pensai: «Anche lei?» Storsi la bocca con amarezza. Lei sarebbe rimasta. Ripresi l'idea di restare nel suo ricordo. Il vuoto che io ero non poteva rifiutarlo. Pensai: «Ora bisogna dire, bene, l'ultima battuta.» Dissi: «Non mi dimenticherai mai? davvero? Dimmi, davvero?»
Sfiorò la mia fronte con dita lievi. Mi guardò e capì che erano queste le ultime parole. Gli occhi le si velarono di pianto. China sopra di me, scandendo le sillabe, disse: «Non ti dimenticherò mai.»
Chiusi gli occhi, per non vederla andar via, per non vedere il vuoto entro cui precipitavo.

 



Diario di un congressista

Lago del Pino, 3 settembre

Sono uno dei venticinque "leaders naturali" scoperti nella mia provincia da un'équipe di ricercatori sociali, e sono stato invitato a partecipare al corso residenziale di base sul tema: "La vivificazione della comunità. Mezzi e strumenti, modi e tempi. Funzione dell'animatore."
Ho accettato l'invito per ragioni diverse; perché non c'è niente da pagare - viaggi di andata e ritorno, vitto e alloggio in albergo di prima categoria; perché mi lusinga il ruolo di "leader naturale" che mi è stato attribuito - seppure non ho ben capito di che si tratti e se sarà redditizio; perché in paese mi annoio a morte e mi solletica un'esperienza nuova e singolare come questa - in gruppo misto; infine, perché mi incuriosisce sapere chi sono e che cosa vogliono da noi questi signori della OMAPAS, i quali parlano con disinvoltura un paio di lingue straniere, vestono impeccabilmente, sorridono sempre anche quando inciampano nel piede di una poltrona, e dicono "prego" per ogni gesto che fanno… La sigla dell'organizzazione - si legge sulla carta intestata extrastrong, vera giapponese - vuol dire "Organizzazione Mondiale per l'Assistenza ai Popoli Arretrati e Sottosviluppati". Noi rientriamo tra questi popoli, perciò sono venuti.
Ho indagato tra gli invitati; Ne sanno quanto me. Uno ha detto di aver sentito dire che si tratta di una équipe di esperti in public relation pagati dall'America, che fanno indagini di mercato per piazzare prodotti industriali in surplus; vogliono vedere le nostre reazioni - scelti come campioni - prima di spedire gli stock della mercanzia. Abbiamo concordato di mantenerci sul chi vive, dicendo il meno possibile di ciò che pensiamo, godendoci nel migliore dei modi i quindici giorni di dolce vita.
All'arrivo, nella hall, mi ha accolto una signorina occhialuta - fianchi larghi, gambe asciutte da puledra, vestita alla buona, tailleur di taglio maschile, una borsa di pelle grezza a tracolla, simile a quella che usano i tranvieri.
«Le porgo il benvenuto a Lago di Pino a nome dell'OMAPAS!» Ha gorgheggiato sorridente, stringendomi la mano con piglio virile. Una rapida occhiata al foglio sopra il fascio delle cartelle, e: «Lei è il dottor Giorgio Grigetti, leader della comunità di Ricciarello… La prego!» E ha fatto un cenno imperioso al cameriere che si è gettato sulle mie valigie, le ha sollevate da terra ed è rimasto impalato ad attendere nuovi gesti.
Mi sono impappinato, non abituato ad essere ricevuto come un Aga Kan. In particolare mi ha confuso di piacere il titolo - che non mi appartiene - attribuitomi con chiaro ed inequivocabile tono, come se tutto, dalla mia faccia al mio abito al mio portamento, testimoniasse della mia natura di dottore.
Mi è riuscita simpatica, naturalmente. La sua cortesia si è spinta fino ad accompagnarmi in camera. «L'organizzazione le ha riservato il numero diciassette, e si augura che lei la troverà di suo gradimento.»
Ho pensato: «Sarà sempre meglio del mio materasso di crine.»
Lei, badando a non passarmi mai davanti, ha continuato: «La sua camera è adiacente a quella del dottor Jambon, nostro capo servizio. La preghiamo di voler trovare, sopra il suo tavolo da lavoro, la cartella a lei intestata con il materiale relativo al convegno.»
Tra letto e armadio, impacciato, ho risposto: «Grazie del disturbo. La troverò senz'altro.» E ho fatto una faccia da cretino - me la vedevo nello specchio.
Lei - che più tardi ho sentito chiamare dottoressa Guglielmini - ha concluso: «I lavori, come lei sa, inizieranno domani alle dieci. Stasera avrà tutto il tempo per ambientarsi. La prego di voler rammentare che la cena è fissata per le ore ventuno e che le verrà servita nel salone del pianterreno insieme agli altri ospiti.»
Mi è venuto spontaneo battere i tacchi e fare l'inchino. Lei ha sorriso e salutato con un grazioso movimento del capo; ha socchiuso discretamente la porta e si è allontanata senza rumore di passi.

4 settembre

Inizio dei lavori alle dieci e trenta anziché alle dieci. Una forte emicrania ha indisposto la dottoressa Castellucci, dell'équipe residenziale.
Nel salone di soggiorno, le poltrone sono state raccolte in semicerchio davanti al tavolo riservato alla presidenza, che è composta da tre signori in grigio con cravatta e da una signora in età truccata a tinte forti, scollacciata, carica di collane e bracciali. Ciascuno ha un cartellino davanti, su cui è stampato titolo, nome, cognome e settore in cui sono esperti.
Il dottor Alfonso Benedetti, esperto in public relation, ha preso la parola del primo. Ci ha spiegato che è tramontata ormai l'età dei congressi con le sedie in fila come al cinematografo. «Il dialogo aperto e democratico è un fatto di pariteticità, ed esige che tutti possano guardarsi in faccia… Il cerchio è il simbolo della comunicabilità perfetta. Ogni punto geometrico-umano ha una sua propria insostituibile capacità e funzione di reversibilità. Le esperienze e le opinioni del gruppo si appianano in un circuito chiuso che esprime l'obbiettività.»
Questo periodo mi ha molto impressionato e mi ha fatto riflettere a lungo. Ho capito finalmente perché nei nostri paesi, quando muore qualcuno, parenti e amici in gramaglie si siedono in cerchio per terra, senza sapere che così facendo si distribuiscono dolore pena angoscia l'un l'altro indefinitamente.
Dopo la prolusione, il dottor Benedetti ci ha pregato di eseguire l'autopresentazione. Io che sono uno degli ultimi del giro ho fatto in tempo a scrivermi tutto ciò che ho interesse a far sapere per mettermi in buona luce. Ho detto: «Io sono il leader Giorgio Grigetti, di Ricciarello, trenta anni, ma per intensità di vita - come dice il Rousseau - ne dimostro di più.» - Infatti ne ho nascosto quattro - «Mi sono diplomato ragioniere commerciale a venti anni» - verità: a venticinque - «Ma poiché non trovavo in paese né industrie né aziende, mi sono diplomato maestro elementare a ventidue» - Verità: a ventotto - «E attualmente sono titolare di ruolo» - Verità: straordinario in prova di biennio - «Da giovane ho pubblicato alcuni volumi di poesie» - Verità: un libricino in tipografia - «E non ho mai abbandonato lo studio dei classici, i quali mi hanno sempre sostenuto nei momenti difficili. Ringrazio lo spettabile OMAPAS d'essere stato invitato a questo bel convegno, dove spero di imparare molto per la mia nobile professione di educatore.»
I signori della presidenza hanno ascoltato con viso intento pensieroso ogni autopresentazione. Dopo ognuna hanno detto "grazie" sorridendo e facendo un leggero inchino col capo.
Morivo dalla curiosità di sentire come si sarebbero presentati loro dell'équipe dirigenziale. Il primo, il dottor Grand-Bart ha detto, mezzo in italiano e mezzo in francese: «Sono il direttore tecnico del settore allevamenti razionali del Progetto. Laureato alla Sorbona, ho preso a occuparmi del problema dello sviluppo umano in rapporto all'economia avicola rurale fin dalla Resistenza. Ho approfondito i miei studi all'università di Springton in USA, dove mi sono specializzato nel campo delle reazioni sociali condizionate… L'OMAPAS mi ha chiamato a dirigere un primo esperimento di allevamento razionale di polli nella repubblica di Israele; ma le mie simpatie hanno premuto per un massiccio intervento nella vostra terra, e voilà… spero di portare un modesto contributo all'evoluzione socio-economico-culturale di questa simpatica, attiva, intelligente terra.»
Mi sono sentito un verme, per aver fino adesso ignorato che esistono al mondo uomini come il dottor Grand-Bart che dedicano la loro intelligenza allo sviluppo dei polli comunitari.

Lago del Pino, 5 settembre

Il dottor Anselmo del Giorgi, esperto di strumenti antianalfabetismo, ha svolto una relazione sull'uso delle Lavagne Luminose, che il Progetto Isola dell'OMAPAS intende diffondere nei paesi dove le punte dell'analfabetismo raggiungono il 35%.
«L'uso delle Lavagne Luminose», ha detto tra l'altro il relatore, «si riallaccia alle tecniche dette dell'Entrainement mental sensible, su cui più avanti soffermerà l'attenzione il prof. Josy Rosetti, nostro gradito ospite nel pomeriggio.»
Le Lavagne Luminose - non ancora pervenuteci per un disguido di carattere burocratico organizzativo - sono prodotte in serie dalla Tel. Church and Company di Filadelfia, e alcuni sperimentatori sostengono che, se usate tenendo nel giusto conto le leggi della percezione di gruppo, sono in grado di far compitare speditamente un analfabeta dopo un corso della durata di dieci giorni.
Un congressista maestro di scuola si è alzato per ringraziare e plaudire ai nuovi strumenti didattici che alleviano la fatica della missione magistrale. Egli ha detto: «Signori! Sono lunghi anni che triboliamo per sanare la piaga dell'ignoranza nel nostro paese, specie tra gli adulti. All'uopo, attingendo ai fondi del CIF in concerto col parroco e col direttore didattico, abbiamo organizzato un corso serale, diretto con alto senso di dedizione dalla signorina Angeletti presidente diocesana. In tutta sincerità, abbiamo rilevato che al corso la gente non viene: vuoi per il tempo, vuoi per mancanza di sensibilità culturale. Neppure una conferenza su Dante, tenuta dall'illustre prof. Melas nostro conterraneo, è riuscita a smuovere l'apatia generale. Preferiscono andare nelle bettole… ora, noi abbiamo il dovere morale di adeguarci al progresso, e credo che queste Lavagne Luminose siano ben più idonee allo scopo che non i vecchi sillabari e le tradizionali esercitazioni grafiche a base di aste. A nome di tutti i colleghi auspico un rinnovamento alle scuole, cominciando dai banchi che sono stati costruiti in tempi in cui i bambini erano più gracili di quelli attuali, e propongo che le sopraddette Lavagne Luminose sperimentate nei corsi popolari di tipo A sostituiscano una volta per tutte quelle in ardesia.»
Il relatore, dottor Anselmo de Giorgi, ha ascoltato con benevola attenzione il maestro congressista, riservandosi di rispondere dopo altri eventuali interventi.
Le Lavagne Luminose hanno destato vivo interesse. Si sono fatte congetture e progetti per la diffusione dei nuovi strumenti antianalfabetismo in alcune zone di tono culturale particolarmente depresso.
Il dottor Grand-Bart ha giustamente smorzato gli entusiasmi, avvertendo che «tale strumento è sì validissimo ausilio nella funzione educativa, ma non taumaturgicamente risolutivo, perché anche il fattore umano locale ha la sua incidenza.»
Gli interventi sono stati numerosi. Si sono protratti cinque minuti oltre la campana della cena. Il relatore ha rinviato le risposte ad altra occasione.

6 settembre

«Non c'è differenza sostanziale tra l'ipotesi di un bracciante e l'ipotesi di un professore universitario: sono ambedue ipotesi da verificare.» Così ha aperto la sua comunicazione il dottor Pippo Prischelli. Ho udito alcuni colleghi congressisti mormorare che il dottor Prischelli deve essere un marxista imboscato nella organizzazione «se va a dire cose del genere.» Io ho pensato: «Possibile che gli altri siano tanto ingenui? Non hanno battuto ciglio.»
Il relatore ci è stato presentato come "esperto di socialità comparata al film". Egli è funzionario dell'OR.PER.CUL.SO.PRA (Organizzazione Per la Cultura Sociale Pratica), la sua relazione, come rilevo dal programma congressuale, ha per tema "L'uso del film-choc per il risveglio comunitario".
Il dottor Prischelli ha così proseguito: «Indipendentemente dall'analisi stilistica, dobbiamo individuare il personaggio in base all'immagine globale. Qualche volta, non di rado, le immagini di un film esprimono qualcosa di diverso: lo sbattere di una porta può avere un significato che bisogna scoprire alla luce dell'indagine analitico-strumentale. Infatti, nel rapporto ipotesi-verifica rientra anche il rapporto film-spettatore nell'interpretazione di un certo significato. Se tutti i procedimenti sono stati seguiti nella maniera più consona ai principi che più avanti mi sforzerò di enunciare - seppure non esistono significati in assoluto - si conclude con un rapporto analogo, anch'esso dialettico, al rapporto ipotesi-verifica, un rapporto che, è bene sottolinearlo, è strumentale ed empirico… Il film non è il fatto apocalittico quale è avvertito da certi intellettuali d'avanguardia. Non è neppure il diversivo-evasione, il mattone-che-arriva-in-testa: la sua giusta dimensione è quella dello choc, o, per chiarire meglio, l'occasione che instaura un dialogo paritetico, lo stimolo al sorgere di idee e di giudizi - più attivi nella misura in cui l'animatore cinematografico avrà seguito il metodo analitico-strumentale, indipendentemente dal film, il cui significato si esplica e si ricompone nella coscienza individuale, a diversi livelli…»
La comunicazione del dottor Pippo Prischelli ha trovato consenzienti tutti i congressisti. Non ci sono state obiezioni, ma numerose richieste da parte di leaders per avere un proiettore e almeno un film a settimana, onde sperimentare nel loro paese il rapporto ipotesi-verifica e produrre nella gente lo choc salutare che la renderà attiva e impegnata culturalmente.
Il relatore ha avvertito che per un certo periodo di tempo sarà necessario utilizzare un provetto animatore cinematografico (da fornirsi, su richiesta degli interessati, dall'OR.PER.CUL.SO.PRA.), poiché possono insorgere difficoltà di ordine tecnico durante la proiezione ed inoltre la discussione che ne dovrà necessariamente scaturire va guidata secondo i moderni canoni del dialogo paritetico (che ci verrà brevemente illustrato, fuori programma, nel pomeriggio, dal prof. Fabio Trapani, commissario congressuale aggiunto). Il dottor Prischelli ha segnato nel taccuino i nominativi dei leaders interessati, promettendo di inviare gli esperti del continente al più presto.
La dottoressa Guglielmini, segretaria generale dell'organizzazione, ha preso la parola per la prima volta, sottolineando i pericoli che possono insorgere con l'uso del film choc. Ella ha detto: «Dobbiamo essere sempre in grado di prevedere le reazioni di massa alle sollecitazioni dei film choc. Si dia il caso di un film sulla rivolta anticoloniale dei Maumau nel Kenya, con scene di violenza e di stragi… Non è forse possibile la identificazione, per esempio, da parte di contadini spettatori depressi nelle orde dei Maumau e la proiezione-identificazione dei loro amministratori nei colonialisti inglesi? Quali incontrollabili reazioni potranno prodursi con lo choc?»
Si è scatenata una vivace discussione. I congressisti si sono spaccati in due fazioni, una grande ed una piccola. La piccola: «Tanto meglio, se la gente si dà alla caccia dell'amministratore disonesto.» La grande: «I fini dell'educazione sono di far rientrare gli uomini nell'ambito dell'ordine sociale e morale costituito. Svegliare le coscienze e problematizzarle, va bene; ma bisogna poter incanalare le medesime nel senso legalitario.»
Il dottor Prischelli è rimasto visibilmente compiaciuto degli effetti prodotti dalla sua comunicazione. Ha preso la parola per tirare le conclusioni. Ha detto: «Cari amici, approvo entrambe le tesi - solo apparentemente in antitesi - e sento profondamente le vostre ansie e i vostri timori. In realtà, l'uso del film-choc rientra nel nostro programma d'intervento detto del Rischio Calcolato. Non è facile, col tempo a nostra disposizione, illustrare dettagliatamente le tecniche del Rischio Calcolato. Basterà rammentare lo schema delle leggi sulla proiezione-identificazione, cui accennava la dottoressa Guglielmini, che è di tipo complesso-sovrapposto: cioè ogni spettatore, dopo essersi proiettato-identificato in un protagonista del film, non è portato alla ripetizione degli atti ma alla acquisizione dei soli meccanismi di comportamento che rientrano in ogni umana natura…»
La campana del pranzo ha interrotto l'oratore. Ai congressisti indigeni si sono aggiunti stamattina i più bei nomi degli animatori e operatori sociali di stanza nelle zone sottosviluppate del Mezzogiorno: hanno seguito con silenzioso interesse, prendendo numerosi appunti. la dottoressa Guglielmini ha distribuito blok-notes extra.

Lago del Pino, 6 settembre

Alle quattro del pomeriggio, dopo una passeggiata salutare nel parco ed una chiacchierata distensiva al buffet, l'équipe congressista al completo è rientrata in sala di riunione. Abbiamo ricevuto dalla direzione dell'OR.PER.CUL.SO.PRA. il seguente tema da svolgere nel lavoro di gruppo: "Esperienze pratiche di attività cine educative nel Mezzogiorno, alla luce dei principi enucleati nella relazione del dottor Pippo Prischelli". Mentre i gruppi si sono ritirati ognuno in propria sede, l'équipe dirigente è uscita per compiere una visita di studio alle Cantine Sociali della vicina cittadina.
Io faccio parte del gruppo n. 3, e ne sono lusingato perché comprende il meglio degli animatori del continente, nostri odierni ospiti: il prof. Dino Savona dell'ufficio stampa INCIC, l'avv. Roberto Nisi, consulente sociologo dell'Azienda Primavera di Salerno, l'assistente sociale Mary Scannamigliolo - belloccia, erre moscia, presumibilmente noiosa a letto - dell'Istituto Caseggiati Popolari di Trapani, il dott. Anselmo Cordella, delegato zonale Abruzzo dell'Associazione Nazionale Sviluppo Membri di Comunità, lo studente universitario Nicola Auteri, dirigente del Centro Studi Parrocchiali di Brindisi, l'avv. Guglielmino Tanassi, funzionario del Consorzio di Bonifica, settore sociale, del Basso Molise, la dottoressa Annabella Cirimpoli - decisamente clitoridea, a letto deve far faville - segretaria aggiunta dell'Istituto Nazionale Case Malsane, il prof. Salvatore Valinulli, presidente della Lega per la Emancipazione del Bracciantato Rurale, e infine l'ins. Romualdo Vicari, consigliere comunale di Pinello.
Il lavoro di gruppo è durato dalle sedici alle diciotto, con una breve interruzione intorno alle diciassette per un caffè stimolatore. Alle diciannove, ora di ripresa dei lavori congressuali, abbiamo presentato la seguente relazione, benevolmente accolta dalla presidenza:
«Premesso che il gruppo n. 3 ha tardato a centrare l'obiettivo del tema in discussione, essendosi soffermato, in via preliminare, all'esame del rapporto ipotesi-verifica; preso atto che fino ora, nell'utilizzazione del film come strumento per l'educazione del cittadino e per lo sviluppo della comunità, non si erano tenuti in debito conto i valori del metodo analitico-strumentale; anzi, che l'indulgenza intellettualistica, considerando il film come un fatto apocalittico, e che la sprovvedutezza di massa, utilizzando tout-court il film quale strumento di evasione domenicale, hanno strumentalizzato questo servizio in senso negativo, cioè in senso tradizionale-qualunquistico; considerato che in ognuno dei Centri rappresentati dai Componenti del gruppo è visibile una sedimentata situazione di arretratezza socio-economica aggravata da un vuoto di valori e caratterizzata in genere da assenteismo di tipo frantumato; ciò detto il gruppo è dell'avviso che il film possa risolvere in gran parte il problema dell'educazione delle masse. In ordine a questioni pratiche, al gruppo risulta una grave carenza di sale di proiezione e di proiettori. Pertanto propone la costituzione di una Commissione Permanente di Studio per il reperimento e l'esame obiettivo dei dati e per la stesura di un documento programmatico da sottoporre alle Segreterie dei Ministeri della Pubblica Istruzione e del Turismo e Spettacolo, al fine di ottenere adeguate sovvenzioni per la vivificazione del settore. Al contrario, risultano di buon livello tecnico-professionale gli Animatori qualificati e gli Esperti che dirigeranno gli erigendi Clubs Cinematografici. Tale sfasatura tra disponibilità del Fattore Umano e gli Strumenti potrà superarsi con l'intervento dello Stato e con la partecipazione attiva delle Masse. A tale scopo, di estrema importanza risulta l'acquisizione del metodo analitico-sperimentale, i cui valori sono stati chiaramente illustrati stamane nella relazione del dottor Pippo Prischelli. Il gruppo n. 3 infine ritiene che nel rapporto ipotesi-verifica non sempre rientri il rapporto film-spettatore nell'analisi di un certo significato. Si riserva di approfondire il punto in sede di discussione generale.»

7 settembre

Il piatto forte del convegno è stata la comunicazione letta stamane dal prof. Olivuzzi, esperto di ricerche di mercato, Capo Sezione del Centro Residenziale di Ortobello. La comunicazione, durata tre ore e quindici minuti, aveva per argomento "I polli nell'Assistenza Sociale. Esperienze e Prospettive".
Il discorso si riferiva ad un'esperienza fatta in una comunità della Bassa Padana da un'équipe di sette Assistenti Sociali precedentemente specializzate in un Corso per Animatrici Agricole.
I dati essenziali della realtà comunitaria erano i seguenti:
Sabbionetto, 376 abitanti, economia agricola di tipo tradizionale, cereali in rotazione con foraggio, reddito medio pro capite annuo di lire 67.525, detratte le tasse e gli investimenti;
- le chances attitudinali più spiccate del fattore umano locale risultavano essere nell'allevamento di animali da cortile, in maggioranza - 78,3% - polli ruspanti;
- tale allevamento veniva condotto con sistemi primitivi, distribuendo ai pennuti granaglie e mangimi a base di crusca due volte al giorno e per il resto lasciandoli in balia dei loro istinti ruspanti;
- in conseguenza dell'arretratezza dei metodi di allevamento, i maschi adulti risultavano asociali e di scarso livello culturale, dediti alle partite a briscola serotine, al gioco domenicale delle bocce e all'uso smodato di vino nero; le donne, dal canto loro, si evidenziavano "schiave delle mansioni domestiche e della tirannia maschile", sciatte e sessualmente frigide (percentuali di orgasmo su 47 campioni attivi: 7,18% ogni 68 rapporti annuali di tipo coniugale); insofferenti e recalcitranti però a tale situazione e desiderose di emanciparsi e di inserirsi attivamente nel processo produttivo; i piccoli, infine, da un lato sacrificati dalle donne che li utilizzavano per i servizi casalinghi e da un altro lato utilizzati dagli uomini come apprendisti non retribuiti nei lavori di campagna, disertavano la scuola, accudendo alla meno peggio, il sabato e la domenica, alle lezioni di catechismo e alle funzioni religiose.
Le sette assistenti sociali, allogate presso altrettante famiglie del paese, studiarono l'ambiente per tre mesi, annotando e discutendo ogni rilievo in riunioni serali, cui parteciparono i leaders di comunità: il Sindaco, il Parroco, il Brigadiere dell'Arma, il Maestro Coadiutore, il Segretario dell'unico partito politico esistente e la Guardia Civica in rappresentanza dei genitori.
Gli scopi che l'indagine si proponeva erano principalmente tre:
- dimostrare la validità dell'allevamento razionale di polli in sostituzione dei tradizionali ruspanti;
- che il processo di trasformazione delle strutture di allevamento avrebbe portato a maggiori redditi e ad un contemporaneo aumento del livello culturale - principalmente attraverso lo sforzo di adeguamento del fattore umano alle nuove tecniche;
- che la maggiore presenza di polli sul mercato e sulle mense avrebbe rinsaldato i vincoli familiari, svezzando i maschi adulti dalle carte e dalle bocce e stimolandone l'attivismo, emancipando e affrancando le donne che avrebbero avuto più tempo libero, maggior cura della persona, conoscenza delle tecniche affettive, ecc., producendo infine nei piccoli, sgravati dal lavoro manuale, amore per la scuola e per la lettura.
Ci fu un'imprevista resistenza, vinta gradualmente: i polli indigeni ruspanti mal tolleravano i polli da allevamento razionale importati per lo più dal Nord America. Si ebbero battibecchi frequenti, anche sanguinosi. Alla fine i ruspanti finirono in padella. Alcuni, irriducibili, scelsero la via dei boschi. Altri si sforzarono di adattarsi alla stia razionale, ma forse per nostalgia del razzolare non riuscirono mai a raggiungere parità di volume e di peso coi compagni importati…

8 settembre

La dott.ssa Giorgina Cappucci, segretaria generale dell'ANCP (Associazione Nazionale Cattolici Parastatali), esperta in materia di indagini sperimentali comparate, promotrice di molteplici attività rivolte a stimolare e vivificare il fattore umano, ci ha presentato l'attesa relazione su "Le tecniche dell'indagine. Modi e tempi".
La relatrice si conserva giovanile e piacente nonostante l'età e le dure battaglie che - si dice - la impegnano duramente. Ha così esordito: «Mi rivolgo a voi, giovani generazioni dotate di naturale vigore, di immediata effervescenza… Vi siete già certamente cimentati in qualche indagine… Le vostre indagini certo peccano di improvvisazione, mancano di esperienza riflessiva, ma toccano ugualmente il fondo con l'impeto entusiastico, caratteristica precipua del nobile vostro volontariato…»
A questo punto, alcuni di un gruppetto vicino hanno ammiccato tra loro, forse fraintendendo il discorso. Sono stati redarguiti con imperioso gesto dalla dottoressa Guglielmini, che si era appollaiata sopra uno sgabello da buffet alle loro spalle. Io ho cominciato a prendere appunti, dato l'interesse dell'argomento. La dottoressa Cappucci ha proseguito: «Nessun intervento di natura diretta è possibile se prima l'animatore non conosce l'oggetto che intende animare. Per ciò l'animatore deve farsi ricercatore… Partendo dall'inchiesta, se essa viene approfondita, si arriva all'indagine. L'indagine si propone la scoperta della verità… A seconda dell'oggetto, l'indagine può dare risultati diversi. Ed è sempre necessaria per una conoscenza obiettiva. Essa va condotta nei modi e nei tempi che la natura stessa dell'oggetto indica e impone. Ad opportuni stimoli e sollecitazioni, corrispondono determinati sviluppi - da ciò si prenderà la mossa, per la ricerca più particolareggiata, sia essa una ricerca spontanea o guidata… Abbiamo rilevato che la ricerca può assumere diversi sviluppi: occorrono sensibilità e tatto per non provocare rotture, traumi, diffidenze o peggio, blocchi introversi… Dopo l'esplorazione, ognuno può esprimere il proprio punto di vista, che di solito è soggettivo. Può essere obiettivo quando chi esplora ha per solo scopo la messa in evidenza dell'oggetto, senza interessi di parte… Il che è abbastanza raro. Nella ricerca deve esserci l'attività del soggetto che indaga e la partecipazione dell'oggetto indagato: quest'ultima partecipazione avviene di solito in un secondo momento, dopo un tempo più o meno lungo a seconda della capacità di inserimento di chi è indagato e a seconda della sensibilità reattiva di chi indaga. Più è voluta l'idea di ciò che si vuole conoscere, più è complessa l'opera di indagine… La ricerca di un fanciullo, per esempio, si limita a pochi elementi superficiali; nell'adulto è indubbiamente più profonda e completa e si esplica di norma secondo determinati cicli…»
Qui, il congressista di Albumini - individuo rustico che ben poco profitto dimostra di trarre dal congresso - ha borbottato una frase che ha suscitato ilarità. Per fortuna la frase non è giunta alla relatrice; ma la dottoressa Guglielmini - che nel frattempo si era spostata dallo sgabello sul bracciolo di una poltrona - ha udito ed ha avuto un gesto di severissima disapprovazione. Ha anche segnato qualcosa nella sua agenda: certamente il congressista di Albumini non verrà più invitato.
La relatrice ha così concluso: «Dopo un certo numero di ricerche si può arrivare alla specializzazione. Se si rivelano carenze di ordine psico-fisico non sono possibili richieste di sussidio o di assistenza gratuita che vanno direttamente inoltrate alla nostra sede nazionale in Roma. Per altre eventuali delucidazioni sui metodi d'indagine, ecc. i leaders interessati possono indirizzare i loro desiderata a me personalmente.»
Io e molti altri abbiamo annotato l'indirizzo della dottoressa Cappucci. Al termine, il dottor Grand-Bart si è calorosamente rallegrato con la relatrice per l'apporto veramente notevole da lei dato al convegno. Noi abbiamo applaudito.

9 settembre

Giornata congressuale distesa. Di mattina era in programma una relazione su "Le tecniche dell'Allenamento Mentale", che è stata rinviata a data da stabilirsi per l'assenza giustificata del relatore dottor Anselmo Filippucci, esperto nel settore delle "Relazioni di massa". Corre voce che durante la notte abbia ricevuto l'invito telegrafico di rientro in sede per urgenti comunicazioni del Presidente dell'OMAPAS, in relazione al "Progetto Guatemala".
Per colmare il vuoto, siamo stati intrattenuti dalla dott.ssa Colombi, della segreteria particolare dell'onorevole Trabuchetti, con una conversazione su: "La situazione e le prospettive economiche e sociali dei funzionari statali ed equiparati".
Al termine, il congressista Bandelli, ragioniere di gruppo B in prova di triennio, è intervenuto avanzando una proposta che ha destato vivo interesse tra i giovani convenuti. «In questi giorni - ha esordito il Bandelli - abbiamo discusso su tutti i problemi vecchi e nuovi che urgono all'umanità; abbiamo espresso opinioni e critiche ed abbiamo prodotto indicazioni per la soluzione di ogni singolo problema, soluzioni tutte rientranti in pieno nei valori e negli scopi della Congressualità. In questo settimo giorno di fatica desidero fermare l'attenzione su un ponderoso problema che è stato fin'ora negletto dalla spettabile Adunanza… Il problema dei funzionari statali del suo aspetto sociale, ma ancor più economico… La chiarissima relatrice dott.ssa Combi, con cognizione di causa, ha parlato di miglioramenti in esame presso i competenti Organi, di Congressi futuri a spese dello Stato per la formazione civica dei pubblici dipendenti e ci ha anticipato la notizia del programma ministeriale di strutturare Nuclei Permanenti di Assistenza Morale e Sociale ai Pensionati, con particolare riguardo ai pensionati pre-conglobamento. La questione delle carriere, a mio avviso, va esaminata sotto un diverso profilo, anzi va capovolta radicalmente… Attualmente, la Carriera Media Statale si inizia con:
- 5 anni di provvisoriato, dai 20 ai 25 anni circa; e così prosegue:
- 10 anni di ruolo straordinario nel coeff. 175/3 bis, dai 25 ai 35 circa;
- 10 anni di ruolo ordinario superiore nel coeff. 218/2s, dai 35 ai 45 circa;
- ancora 10 anni di ruolo superiore nel coeff. 302/5r, dai 45 ai 55 circa;
e infine, gli ultimi 5 anni della carriera del ruolo finale coeff. 407/6, con lo stipendio lordo di L. 147.169 mensili.
La pensione non è male… gli otto decimi, meno un ottavo per trattenute assistenziali… Fermiamo ora l'attenzione su alcuni punti. primo. Lo stipendio più basso lo si ha quando si è giovani, quando cioè si ha bisogno di un incentivo pecuniario per un maggiore rendimento nel lavoro, nella società, nella famiglia; si hanno meno soldi nel momento di maggiori energie e necessità spenderecce; all'opposto si ha lo stipendio più alto quando si è ormai vecchi, quando non c'è più non dico l'occasione ma neppure il desiderio di andare al cinema con le ragazze, quando non si hanno più i denti per masticare, né famiglia da costituire; si va in pensione quando ormai si è presa l'abitudine a lavorare, e tale abitudine, una volta presa - come ognuno sa - è difficile da togliersi… Considerato ciò, propongo che sull'argomento si apra la discussione congressuale, e propongo altresì che ne venga fatta adeguata menzione nel documento conclusivo, in particolare sulla opportunità di:
- concedere il periodo di pensione a partire dal giorno dell'assunzione in pianta stabile, dall'età di 20 anni circa, per un numero di anni pari all'età media dell'uomo, meno i 40 anni di servizio da prestarsi obbligatoriamente e meno i 20 anni già posseduti. Considerando in anni 74 l'età media attuale (ma su questo i Sindacati potrebbero presentare una scala mobile) si avrebbero: anni 16 di pensione, da godersi precisamente dai 20 ai37 anni (il che non è molto, tutto considerato); dai 37 ai 47 anni di età concedere lo stipendio del ruolo finale, con la più alta retribuzione; e così via diminuendo fino allo stipendio del ruolo provvisorio. Chi, infatti, è più provvisorio di un vecchio che può passare a miglior vita da un giorno all'altro?… Amici Congressisti: molte cose sono cambiate e molte dovranno ancora cambiare nel mondo…»

Riviera Verde, 11 settembre

Ieri notte, dopo cena, la dott.ssa Guglielmini, segretaria generale dell'OMAPAS ha suonato il campanello per zittire il brusio dei commensali. Ci ha dato una bella notizia. «Domani l'équipe congressuale dell'OMAPAS si recherà al completo, in pullman belvedere; a Riviera Verde, per una visita di cortesia all'équipe congressuale dell'ARCAS. E' in programma: a) uno scambio di vedute tra i congressisti delle due Organizzazioni; b) una breve relazione di sintesi, di saluto e di augurio del dottor Amilcare Demuto, funzionario del Servizio Centrale per la Diffusione dei Convegni di Studio; c) una cena fredda nel salone dei convegni dell'Albergo ITES…»
Sono rimasto colpito da invidia per i colleghi congressisti di Riviera Verde, alloggiati come pascià. Non è precisamente un albergo - dove i pellegrini trovano alloggio e ristoro per poter riprendere freschi il viaggio interrotto - ma un palazzo reale. Saloni, salotti, separé, ascensori automatici che odorano di lavanda. Maggiordomi ad ogni angolo, vestiti da generali. Tra i congressisti dell'ARCAS ci sono diversi uomini di cultura e politici. Ci hanno spiegato che si tratta di un Congresso di IX grado. Il X è l'ultimo gradino nella scala dei valori congressuali, riservato ai Capi di Stato. I temi principali, già svolti, sono stati: "Formazione del Fattore Umano con il metodo dell'Allenamento Mentale", "Il valore del dialogo nella Congressualità Permanente" e "Cultura impegnata avanguardia di Cultura di Massa". Vi partecipano i più bei nomi dell'élite culturale nazionale, uniti in amicizia con i politici che decidono i piani delle varie Rinascite. Non ho potuto fare a meno di pensare a quanta strada abbiamo fatto dal giorno in cui il Padre Eterno disse all'uomo: «Tu guadagnerai il pane col sudore della tua fronte.»
Nella scalinata, dietro le vetrate dell'ingresso, stavano guardie in divisa grigia con i guanti bianchi per salutare la gente in arrivo e in partenza. Fuori, al freddo, sostava una marea di automobili. La mia "600" l'avevo parcheggiata nascosta dietro una siepe di ligustri per non guastare lo splendore armonioso del quadro. Dentro, al caldo, i congressisti passeggiavano, conversando signorilmente, composti a due o a tre, tutti con un mazzo di carte in mano. Anch'io mi sono messo a passeggiare come loro, cercando di darmi lo stesso contegno - anche se stanco del viaggio. Ho avuto paura di sedermi, per non guastare il raso delle poltrone. Ho scrutato e orecchiato, curioso di sapere come è fatta la gente importante, come parla, come mangia… Sopra c'erano altri saloni. In uno si svolgeva - "lavoro ristretto" - cioè i relatori del gruppo facevano la sintesi generale delle sintesi delle varie sintesi dei gruppi. I partecipanti ascoltavano con attenzione ciò che dicevano i quattro dietro un tavolo di otto metri. Io mi sono intrufolato nel salone, perché mi piace ascoltare e imparare. Su questa mia attitudine congressuale si è espressa favorevolmente anche la dott.ssa Guglielmini, che mi tiene in buona considerazione. Dopo due ore circa ha suonato la campana bitonale. Allora tutti abbiamo cominciato ad allargare la faccia, a sorridere ad aprire la bocca.
Per mangiare siamo andati nel salone più sopra. Quando la racconterò agli amici del bar in paese, non ci crederanno. Una cosa molto strana. I Congressisti dell'ARCAS non mangiano seduti dietro un tavolo ma in piedi, passeggiando e conversando. A l'americana - si dice. Si fa così: ci sono quaranta metri di tavola apparecchiati di raffinate cibarie, e uno stuolo di camerieri vestiti completamente di bianco, anche le scarpe e i guanti, tutti in fila dietro; ma soltanto come decorazione, perché ognuno dei congressisti va con piatto e posate e prende ciò che vuole. Quando ha fato il pieno di tovagliolini colorati, gelatine, salsette, fettine e contorni, riprende a passeggiare e inizia a mangiare. Qualcuno, forse ancora più pratico, usa fermarsi per imboccare il cibo, specie se poco solido. Mi hanno spiegato che tale sistema facilita la digestione ed è possibile mangiare tre volte più del normale senza diventare obesi. Sarà che io non ci sapevo fare, ma di primo acchito non l'ho apprezzato. Ho mangiato pochissimo e ho rinunciato al vino per non macchiarmi l'abito nuovo congressuale grigio a righini blu. Quella gente importante pareva abituata a mangiare così da lungo tempo. Riusciva perfino a parlare, a farsi inchini, a stringersi la mano, raccogliendo tra cinque dita più di cinque oggetti insieme, pranzando. E' stata un'esperienza che mi ha insegnato molto, e mi ha aperto a nuovi ignoti orizzonti culturali.

Lago del Pino, 12 settembre

Ripresa dei lavori ordinari. Il dottor Linetti, direttore della rivista "Sviluppi Congressuali" edita in numeri indici dall'Associazione Nazionale per la Coagulazione della Socialità, è giunto stamane in aereo da Milano, per illustrarci i valori e le prospettive della Congressualità.
«Siamo ormai entrati - ha detto l'illustre oratore - nell'Era Congressuale, in modo direi totale e definitivo. Totale, nel senso che investe in sé ogni settore, ogni momento della dinamica umana. Definitvo, perché a tutti, di qualunque estrazione ideologica, di qualunque livello sociale, di qualunque capacità culturale, è dato risolvere ogni proprio conflitto nella Identità Finale, composta nella dialettica congressuale.» (Ho annotato per me: Cioè si trovano tutti d'accordo su tutto.) «La Congressualità è l'ultima definitiva filosofia dell'uomo. Il suo avvento pacificherà le nazioni del mondo e il suo imperio non avrà mai fine…»
A questo punto si è levato un distinto signore - doppio petto grigio ferro, colletto, polsini bianchi inamidati - che non avevo mai visto prima. Pallido, un tantino eccitato ma chiaro, ha detto: «Non sono d'accordo con la Congressualità istituzionalizzata… L'umanità, io credo, attraversa una congiuntura caratterizzata da un esaurimento cerebellare di tipo astenico. Si giunge all'accordo universale senza travaglio interiore, per forza d'inerzia e si maschera l'impotenza cerebellare dietro una raffinata potenza verbale. Noi oppositori, non senza il conforto di una tecnica strumentale storicistica, riteniamo che la Congressualità istituzionalizzata sia portatrice di Massificazione, di livellamento cioè delle idee e dei gusti. In realtà, l'uomo è nato ruspante ed è stanco di ruspare nell'incertezza già dall'età della pietra e chissà da quanto tempo prima, è stanco di essere libero. Non c'è fatica più grave del dover badare a se stessi. E' stanco di aver partorito una dopo l'altra idee che risultano ogni volta deteriorabili. Le idee sono come le uova: si bevono bene se sono di giornata. Ma a differenza delle uova, le idee sono sempre risultate anche pericolose, una in contrasto con l'altra e portatrici del germe della discordia e della prepotenza…»
Il relatore, dottor Linetti, ha sorriso all'oppositore. ha risposto, riprendendo il discorso interrotto: «L'illustre prof. Giacometti, che tutti sappiamo brillante teorico marxista dell'ala marcusiana, mi ha fatto l'onore di interrompermi avvalorando in sostanza la mia tesi…»
Il solito scocciatore di Albumini ha borbottato: «Il solito trucco; erano d'accordo.»
«Sono ottimista - ha continuato il dottor Linetti - sulla funzione della Congressualità per superare differenze sociali, etniche e di razza… Una prova di ciò la trovo nell'indice di diffusione dei congressi, in aumento non soltanto nelle nazioni tradizionalmente democratiche come gli USA ma altresì nelle nazioni totalitarie, dove, sia pure con lentezza, le tecniche congressuali vengono apprese ed usate… Certamente fondamentale è la presenza dei Valori. Là dove questi Valori esistono, - ha concluso l'oratore - gli uomini trovano concordia e umanità di vedute. Sempre e dovunque un problema umano di piccola o di grande importanza è stato portato nell'area di un congresso, strutturato secondo i canoni della moderna dinamica congressuale, se non risolto è stato almeno analizzato e ricomposto in termini di universalità. Per le soluzioni non si può farne una questione di scadenze fisse; la Congressualità non pone, né può porre per sua natura limiti di tempo all'accordo risolutivo dei congressisti. Bisogna sapere attendere la maturazione delle identità umane. Non si dimentichi che l'uomo deriva da una comune matrice e che è portato per istinto a ricercarla e a rifugiarvisi.»

Lago del Pino, 13 settembre

Giornata ricreativa. Programma: «Ore 10 partenza dei congressisti in pullman belvedere, messo gentilmente a nostra disposizione dalle Aziende Riunite di Soggiorno. Ore 10,45 - circa - visita ai recenti scavi archeologici della città punico-romana di Ochatus, sotto la guida dell'illustre prof. Roveri direttore dell'Istituto di Antichità di Pesaro Barbino. Ore 12 rientro a pranzo. Pomeriggio libero. Ogni congressista potrà dedicare il proprio tempo come più gli aggrada. Ore 20 - precise - riunione generale nello spiazzo retrostante l'albergo. Cena all'isolana, con falò centrale, agnello, capretto o porchetto arrosto a scelta, vini tipici, e… Sorprese varie!»
La visita agli scavi - per dirla col gergo di un'assistente sociale - è stata una "frana". Una serie interminabile di trincee. - «Sono fognature; pensate! a quei tempi esistevano le fognature, qui…» con blocchi di pietra giallastra ammucchiati ai lati. «I punici usavano per lo più arenaria.» Qualche traccia di lastricato nerastro. «I romani invece usavano basalto…» Allora, il solito congressista di Albumini ha detto: «E noi mattoni crudi.» Infine, sostenendoci l'un l'altro, ci siamo calati in una bica rettangolare con alcuni cocci di terracotta sul fondo. «Una delle tredici tombe riportate alla luce; sono stati catalogati numerosi reperti di valore molto ben conservati… si possono ammirare al Museo Nazionale di Trieste.» Qualcuno ha detto: «Allora, perché non andare al Museo Nazionale…» E la dott.ssa Guglielmini, segretaria nazionale, prendendo alla lettera la frase: «L'équipe studierà l'idea per un prossimo Congresso al Castello di Miramare…»
Dai ruderi di Ochatus al pullman due chilometri di pista tra cardi spinosi e lastroni muschiosi viscidi. Alcune assistenti sociali ci hanno rimesso le calze e le bucce delle ginocchia.
Dopo pranzo, sono andato a letto stanco morto.
All'imbrunire, mi sono scosso il sonno di dosso con un caffè - ho rinunciato alle brioches perché «Le ordinazioni extra sono a carico dei Signori Congressisti.» Potrebbero anche allentare lo spago della borsa… D'altro canto non sono che un congressista di I grado. Gli inizi sono sempre difficili, anche nella carriera congressuale. Esperienza già fatta… Fantasticando e pregustando gli avanzamenti di grado - il salone dei Convegni dell'Albero ITES era la visione paradisiaca di una meta che mi ero prefisso di raggiungere - mi sono affacciato a curiosare sul piazzale.
Già fervono i preparativi per la cena all'aperto. Due pastori autentici - tenuta di fustagno marron a coste, gambali e berretto. - «Chissà dove li hanno scovati,non gli manca neppure la grinta dell'abigeo.» Scuoiavano sanguinosi agnelli appesi per le zampe posteriori a dei rustici pali.
Nel mezzo, avvampa il falò - frasche, radici e ceppi di lentischio, mirto e corbezzolo. Da un lato, un altro pastore - stessa tenuta, stessa grinta degli altri due - raccoglie le braci accoccolato seduto sopra un sasso, girando un agnello in uno spiedo di olivastro appoggiato ad un ceppo.
Un cerchio di pietre è disposto intorno al fuoco. Le pietre sono state sistemate con l'animo sensibile di chi si premura che il sedere del prossimo poggi sulla faccia più levigata. Chissà su quale di quei sassi siederà il delicato deretano della dott.ssa Guglielmini, segretaria generale!
La dott.ssa Guglielmini si è seduta sul sasso vicino al mio. Le va piccolo. Una buona superficie di natiche resta sospesa, un po' a destra e un po' a sinistra. Talvolt, perdendo l'equilibrio, si poggia al mio fianco - il fatto non mi lusinga molto: la poverina non ha scelta; alla sua destra siede la dott.ssa Jesebel, un'armena incartapecorita, amministratrice del Progetto.
L'Organizzazione ha distribuito a ciascun congressista una "leppa" autentica di Pattada e un fiasco di vino - di Oliena o di Jerzu a scelta. La rimanenza di "leppe" e di fiaschi stanno in una cassa alle spalle della segretaria generale. «E' vietato l'uso di qualunque posata. I signori congressisti sono pregati di volerlo ricordare!» ha detto con voce stentorea la dott.ssa Guglielmini, sculettando sul sasso. Secondo me è già sbronza da portare a letto.
La festicciola ha cominciato a scaldarsi quando, finita la legna, è calata la penombra. E' rimasto un mucchio enorme di braci e di cenere. Il vino denso di Oliena basta a vincere la tramontana frescolina. Alcune coppie si sono voltate per uniformare il calore del corpo o per sbaciucchiarsi. A mezzanotte circa, alcuni miei complessi di natura riservata si sono sbloccati. Il fianco pencolante della mia illustre partner è opulento morbido. Al primo contatto - quello del "vediamo se ci sta" - le ho chiesto «scusa» con una faccia innocente. Lei ha sorriso: «Ma le pare!» Al secondo, si è voltata, ma non subito; ha sorriso e detto di nuovo: «Ma le pare!» senza che io le avessi detto scusa. «Bella festa davvero», le ho sussurrato. «Oh, sì; grazie!» ha risposto, prendendola come un complimento personale. E si è definitivamente sistemata sulla natica destra.
Non sono ancora aduso agli strapazzi congressuali. Mi sono ritirato alle due di notte con il mal di schiena, le mano stanche, una voglia matta e lo stomaco in subbuglio. Dalla mia camera ho udito a lungo i canti, le battute salaci e i risolini delle assistenti sociali. Gli ultimi rimasti, i più resistenti, sono quelli dell'équipe dirigente.
Dovevo aver preso sonno da poco, quando ho visto la mia camera invasa da uno stuolo di fantasmi. Per poco non mi è venuto un colpo. Erano le assistenti sociali dell'équipe congressuale in camicia da notte, guidate dalla dot.ssa Guglielmini, pure lei in camicia da notte. Mi hanno levato le coperte di dosso e mi hanno scaraventato giù dal letto. «Divertissement di livello internazionale», mi è stato spiegato più tardi. Poi, mettendo ognuna le mani sulle spalle di una compagna, hanno composto un trenino e facendo "tuuu-tu-tuuu" sono uscite nel corridoio, per ripetere il "divertissement" in un'altra camera.

14 settembre

Alcuni di noi, fra i più attivi, sono stati scelti ed invitati, per il 27 del prossimo mese, dalla Sezione Congressuale Regionale delle Puglie, a frequentare un Seminario congressuale sul tema: "Strutture e finalità nelle Zone Sottosviluppate". I congressisti, alloggiati nel Centro Residenziale Barese all'uopo costruito con il finanziamento della Cooperazione Statale Sviluppo del Mezzogiorno, durante venti giorni soffermeranno l'attenzione su un punto ritenuto fondamentale: "La gratuità ed il volontarismo della Congressualità, indispensabile per un esito positivo".
Io sono della partita. Finalmente potrò visitare l'Italia meridionale.

Lago del Pino, 15 settembre

A cura dei Monitori della sezione Congressuale Regionale, assistenti sociali Davide Sferici e Aristide Riccio, è stato introdotto l'argomento della relazione del Monsignore Gervasio de Fraia. «…Comincerò col riconoscere in qualsiasi raggruppamento umano un elemento che chiamerei etico, prescindendo da tutti gli aspetti inconsci e inabissati, nelle strutture biologiche di base. All'interno di una Comunità, l'autorità è un fatto più che altro coordinatore, e ne deriva la condizione essenziale di far conoscere al singolo il discorso generale. Per esempio: Io sono un capo-famiglia. Torno a casa stanco dal lavoro. Dico al mio figliolo: "Portami le pantofole!" Orbene: abuso, anche se molto piccolo di autorità. Se invece avessi detto: "Vai a prendere le pantofole di papà, perché papà ha lavorato tutto il giorno per il bene della famiglia ed è stanco!" allora non sarebbe stato abuso di autorità, ma un introdurre il bambino in un disegno generale di coesistenza, di solidarietà di gruppo… I termini del fenomeno si evidenziano ancor più quando si spostano nella sfera di una comunità congressuale… Questa nuovissima moderna aggregazione umana nel cui ambito ogni conflitto si compone ed ogni dissidio si appiana. Si pensi al vecchio sorpassato concetto di autorità e lo si riporti in questo ambito congressuale… Qui all'autorità si sostituisce la responsabilità… Le responsabilità sono ripartite in ognuno dei congressisti nella evidenziazione delle capacità e delle volontà soggettive, che vanno dall'insegnamento all'apprendimento attivizzato e ad una comune finalità di intenti. Ho saputo, è vero, che alcuni di voi si sono lamentati sulla diversità delle poltrone. Alla direzione sono state riservate poltrone in gomma piuma. Ma considerate che ogni differenza di tipo sociale è scomparsa. Lo stesso clima, le stesse parole, gli stessi pasti, la stessa dedizione, le stesse camere, gli stessi letti… I complessi prodotti dalle discriminazioni si frantumano… La Congressualità getta le basi per una società di uguali, senza passare attraverso il materialismo marxista ed ateo,salvando, anzi potenziando i Valori originari della specie umana, che sono cristiani e cattolici… Già nel Cristo e nel suo Vangelo vi sono le prime evidenti tracce direttrici di una Congressualità redentrice…

Dieci anni dopo
Berna, 11 settembre

Si è aperto oggi un congresso certamente storico, al fine di gettare le basi per la strutturazione - modi e tempi - del CMP, la Congressualità Permanente Mondiale.
Sono presenti le Sezioni congressuali di tutte le nazioni civili. L'Italia è rappresentata da 37 sigle: una Delegazione di 30 membri per ogni sigla. Manca la Cina comunista - in disaccordo su alcuni Valori di natura politica da inserire nella Magna Carta della Congressualità (CMP).
Il nostro apporto si prevede determinante, e non soltanto per l'entità numerica dei nostri Delegati.
A chiusura, ogni Delegato dovrà poi riferire, in altrettanti Congressi Nazionali aggiornati alle risoluzioni dei Congressi Zonali e periferici di Base. Le 37 relazioni sono già pronte, stese alla luce delle discussioni precongressuali, e intendono dimostrare:
a) la validità dei Valori;
b) l'identicità degli Scopi;
c) la comunanza degli Strumenti;
d) la necessità di risolvere ogni problema nel Dialogo;
e) l'urgenza di istituire una Congressualità statale con relativo Ministero;
f) l'urgenza come sopra di costituire un Organismo Internazionale, da denominarsi "Delegazione Mondiale delle Congressualità Statali", di cui facciano parte, di diritto, i Ministri competenti ed almeno 70Membri Delegati per ogni Congressualità;
g) la libertà di istituire "Congressualità Private", purché nel pieno rispetto della legalità democratica;
h) la libertà di costituire un "Organismo Internazionale" che rappresenti le "Congressualità Private" da denominarsi "Federazione internazionale delle Congressualità Private".
Nel documento conclusivo,stilato di comune accordo dai 37 delegati in un precedente Congresso, si legge: «Il progresso tecnologico attuale, che ci permette calcoli elettronici con approssimazione matematica variabili di milionesimi, ha ormai scelto e indicato, in base alla loro utilità economico-morale-sociale, quali Valori vanno conservati e diffusi, ed ha inoltre enucleato ed evidenziato i Valori nuovi. (Questi ultimi risultano tutti indistintamente validi.)»
E' sorto qui il problema delle "finalizzazioni". La finalizzazione dei Valori è di primaria importanza nella definizione della loro validità in concreto. pertanto si è stabilito che tutti i Valori - a parte i fini soggettivi transitori - dovranno avere un fine-obiettivo-permanente-unico.
Prosegue il documento: «Lo stesso progresso tecnologico può essere strumentalizzato per la selezione delle attitudini e la specializzazione dei tecnici della Congressualità. Tali tecnici opereranno sempre in équipe, per affinare la loro coscienza socio-comunitaria. Staranno insieme quando pensano, quando progettano, quando mangiano, quando dormono e quando si svagano: perché condizionandosi in una interdipendenza associata di rapporti possano trovarsi sempre d'accordo… L'introspezione elettronica della psiche umana ha dimostrato inequivocabilmente che l'uomo, se resta solo per troppe ore regredisce, richiamato dall'ancestrale mai sopito suo istinto di ruspante. Tali studi vennero fatti anni fa dal Progetto Paesi Sottosviluppati del Mezzogiorno, finanziato dall'Ente Internazionale di Ricerche Biopsicologiche, che operò in zone pilota del Nuorese (Sardegna) e della Sila (Calabria). Si scoprì che la solitudine dei pastori è dovuta a carenze di abitudini associative, e che queste carenze, aumentando l'individualismo, aumentano il suo isolamento, lo portano a rifugiarsi nei cosiddetti Valori Ruspanti - notevole remora al processo di Sviluppo delle Aree Depresse. Furono utilizzati Circoli Culturali dove l'individualismo ruspante veniva messo a duro conflitto con strumenti modernissimi sensibilizzatori della socialità. I risultati furono mediocri. Raggiunsero buoni livelli solo quando fu utilizzata la Congressualità progressiva e gratuita, e più precisamente, nel suo interno, il lavoro di équipe misto con Assistenti Sociali.»
«Equipe» - precisa il documento - «seppure a pronunciarla pare solo una parola, è complessità di concetti, di elaborazioni, di finalità: in breve è lo strumento cardine della filosofia congressuale.»
«Per la verità - conclude il documento - «c'è una indecisione tra gli esperti sulla finalità e sui costi fra le équipes umane e le équipes meccaniche? Esperimenti fatti negli USA illustrati dal prof. A. Pioppiccini in un saggio apparso nell'ultimo numero di Nuovo Umanesimo Congressuale, hanno dimostrato che l'uomo selezionato dopo alcuni anni di lavoro d'équipe può dare risultati pari a quelli di una macchina elettronica. L'indecisione si sposterebbe quindi sul piano dei costi. Si sta attualmente studiando, se le spese di fabbricazione, ammortamento capitali, consumo di energia atomica, manutenzione, ecc. siano pari o no agli stipendi globali di un'équipe, compresi: le indennità di missione, assegni per prestazioni professionali, assegni integrativi aggiornamento culturale, cure energetico-rigeneratrici, rimborsi spese viaggio (le quali ultime, essendo ancora a benzina non convenzionata con la Organizzazione Mondiale Congressuale, risultano ancora parecchio alte).»

Berna, 12 settembre

Si vocifera che il prossimo Congresso si terrà negli USA, in Florida, e che avrà la durata minima di tre mesi. Ho avvicinato il Segretario del futuro Presidente del CMP ed egli mi ha assicurato la sua benevolenza segnandosi il mio nome.
Ho controllato nella mia agenda gli impegni congressuali. Tutto pieno. Per almeno venti anni non avrò preoccupazioni di sorta…

 

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