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5 - La superstrada


Isabella, nubile di trentadue anni, è stata ritrovata stamattina all’alba - la testa sfracellata sulla striscia gialla continua e i piedi penzoloni sull’orlo della cunetta.
La gente è in fermento. Dice che senza la superstrada non sarebbe successo. Il sindaco ha mandato in giro il banditore per avvisare la popolazione che verrà quanto prima uno di fuori per spiegare quali saranno gli utili della superstrada in futuro, intanto di stare tutti calmi. La guardia ha avuto l’ordine di scopare l’acciottolato della piazza e di innaffiare i gerani del sagrato.
Il processo si è svolto nella bettola di zio Crisantemo.
Ziu Massiminu, in apertura di seduta, dice: «Quello che frega noi è la legge. Colpa del non saper leggere e scrivere. Dovremmo metterci a scriverle, le nostre leggi; diversamente ci portano quelle di fuori.».
Ziu Massiminu ha fatto il minatore, ha partecipato agli scioperi del ‘21, perciò parla difficile e gira tutto in politica.
Il gruppo di ziu Antiogu non è d’accordo: «Abbiamo già tante complicazioni di lavoro fame pestilenze; ci mancherebbe altro perdere tempo a imparare a leggere e a scrivere come ragazzi di scuola.».
In paese non ci sono leggi scritte. Bisogna cercarsele dentro, caso per caso, e adattarle alla circostanza. Le tradizioni sono le fondamenta - e sono sacre anche se si tratta, a parere dei civilizzati, di fondamenta vecchie e malandate. Eppure reggono. Quando un contadino semina barbabietole anziché fave è scostumato. Gli altri contadini gli levano il saluto, i bottegai non gli fanno più credito e il prete non gli dà l’assoluzione. Allora, la produzione delle fave si intensifica, la morale si irrigidisce e si allungano le gonne. Se poi chi ha seminato le barbabietole guadagna bene, mette su casa di pietra e veste camicie che non si stirano, in tal caso il saluto, il credito e l’assoluzione gli vengono restituiti - ma sempre scostumato resta. E chiunque potrà mettere la mano sul fuoco che la moglie lo cornifica e che le figlie corrono la cavallina, tanto poi si sposeranno con un brigadiere del Continente.
E’ stato come per le cavallette e per le alluvioni: quando te ne accorgi è troppo tardi. La superstrada è arrivata tre mesi fa dalla parte del vidazzone comunale, dove pascolano le pecore di basso rango. Larga come un’aia, grigia a strisce bianche e gialle, due fette per le auto che vengono e due per quelle che vanno - tutte e quattro a casa del diavolo. Passa giusta dietro il cimitero, a nord, facendo una gobba intorno al paese.
«Non sono mica tonti, i forestieri», dice ziu Gesuinu, reduce della brigata Sassari, «quella è una trappola tipo le trincee che ci scavavano attorno i tedeschi per fregarci quando meno ce l’aspettavamo.».
Il paese è rimasto aperto soltanto da un lato, verso le paludi. I pescatori, sfaticati che non sanno tenere una zappa in mano, sogghignano maliziosi - di nascosto però dai contadini e dai pastori che devono attraversare quella “trincea” maledetta sotto il tiro di sbarramento almeno due volte al giorno col bestiame, i carri, gli attrezzi e tutto il resto.
Oggi, neppure il pomeriggio ha smosso gli uomini dalla bettola. Vi si sono aggiunte numerose donne, che hanno portato pane e formaggio e sono rimaste ad ascoltare. In paese, tutti usano meriggiare. Anche le pecore. I pastori sono comprensivi per questa umana esigenza delle greggi, e costruiscono apposite tettoie di frasche per ombreggiare le meriggiate. Alcuni istruiti visitatori del Continente, che vengono a studiare usi e costumi e se ne ripartono con le valigie cariche di cianfrusaglie antiche e pecorino, dicono che il fenomeno del meriggiare deriva da “fattori ben precisi” e cioè il clima caldo umido, i postumi della malaria, il vino nero denso e la religione cattolica.
L’interesse dei civilizzati rende sospettoso ziu Massiminu. «Quelli, se vengono qui a frugare non è per nulla», dice.
I più scuotono la testa, scettici: «E che diavolo vuoi che trovino qui? Pietre e pidocchi…».
«A quelli», interviene Peppino che ha fatto l’emigrato, «interessano le storie antiche, quando gli uomini mangiavano carne cruda strappandola dagli ossi coi denti e le donne se le mettevano sotto e le sfondavano davanti a tutti. Ci vanno matti, loro, per storie così. L’ho letto anche nei loro giornali. Dovete sapere che la gente civile fa e legge giornali per poter sapere i fatti degli altri. Al posto delle tradizioni, non fidandosi della parola, hanno leggi scritte in libroni, che sono tanti da non starci nel monte granatico. Per non farsi fregare o per fregare il prossimo devono conoscerle tutte oppure avere abbastanza soldi da pagare qualcuno che le conosca al posto loro.».
La mia gente non fa, non compra e non legge giornali. Qualche volta li usano i bottegai e i pescivendoli per avvolgere la merce o qualche raffinato per pulirsi il culo. Se un marito accoltella la moglie per faccende sue private, tutti corrono alle grida e assistono di persona. I ritardatari - gli obesi, gli sciancati e le donne gravide - si fanno raccontare dai presenti le prime sequenze. I vicini di casa hanno il compito di raccontare gli antefatti, gli annessi e i connessi. A spettacolo finito arrivano i carabinieri col pretore. A loro nessuno racconta mai nulla, perché non chiedono per legittima curiosità ma per scrivere. E le cose scritte sono sempre una fregatura - a parte il fatto che tu dici una cosa e loro ne scrivono un’altra.
Una volta Efisino il matto parlò e quelli della giustizia scrissero. Passati tre o quattro anni, qualche giorno prima del dibattimento, quelli della giustizia tornarono da Efisino e gli ordinarono di ripetere per filo e per segno tutto quanto. Efisino, seppure matto, ha una memoria di ferro: ripeté la storia nei minimi particolari. Intanto che lui parlava, loro leggevano per controllare se tornava giusto. Efisino differì in un dettaglio: la seconda volta, il coltello era penetrato “sotto la terza” costola e non “sopra la quarta”. Efisino si ebbe sei mesi giusti di galera per falsa testimonianza aggravata, e da quel lato rinsavì tutto.
Qualche coltivatore di barbabietola ha portato il televisore. Ogni tanto la gente va, lo guarda e lo ascolta, ma dice che non è vero per niente, che è tutta una invenzione come il cinema per divertire e commuovere nei giorni di festa. I civilizzati che fabbricano e vendono televisori dicono che non sta bene che ci sia gente tanto arretrata, che bisogna istruirla a tutti i costi, diversamente è una vergogna per tutto il genere umano.
Quando Peppino l’emigrante descrive il modo di vivere dei civilizzati, nessuno gli crede. Dicono che non è possibile, oppure che sono matti da legare.
Prima c’erano più guerre. Ogni volta ne partivano quindici o venti. I due o tre che ritornavano si provavano a descrivere le stranezze che avevano visto, ma ci rinunciavano presto per non passare da svitati. Ziu Gesuinu, reduce brigatista, ha accettato il ruolo di svitato e vive raccontando le sue memorie di guerra. E’ rimasto otto anni fuori - neppure lui sa precisamente dove. Appostato in un canalone a sparare sui nemici che gli passavano a tiro - dice. Al rientro non aveva più i calli della zappa; l’odore delle pecore gli dava svenimenti e l’aria dei campi coltivati gli gonfiava la milza.
Ziu Gesuinu il brigatista se ne sta tutto il giorno in giro per le bettole in cerca di uditorio. Appena l’ha trovato, comincia: «Un giorno ero di sentinella e sai chi ti vedo? Il re in persona, venuto a ispezionare insieme ai generali. Mi vede e subito mi riconosce. Si avvicina. Mi mette una mano sulla spalla e mi dice: “E che cos’hai tutto triste e nero, o Gesuinu?”. Io gli dico: “Eh, già non lo saprai tu Vittoriu, otto lunghi anni fuori di casa!”. E Vittoriu allora: “Ci hai ragione, Gesuinu, bravo! Domani si va in licenza.”».
Se l’uditorio è prodigo, prosegue: «Piano piano siamo entrati in confidenza. Una domenica - mi venga un colpo se non era la Domenica delle Palme! - Vittoriu è venuto a prendermi in macchina per andare a pranzo insieme. Mi ha portato in una reggia che ci aveva da quelle parti in mezzo a un boschetto. C’era ogni ben di Dio. Le mogli dei generali avevano preparato tutto loro, insieme alle serve. Vittoriu si era puntato subito sulle serve - tutta roba fresca. Si sfregava le mani dalla contentezza. Dice: “Forza paris, Gesuinu! Dobbiamo fare onore all’esercito.”. C’era una tavolata grande come la piazza di chiesa; da bere avevano portato diverse botti di malvasia, nieddera e vernaccia; da mangiare, un gregge di pecore arrosto con tutti gli intestini fatti a treccia in padella con le frattaglie e i piselli. Alla fine, gli attendenti hanno portato anche la frutta. E non ti portano le ciliegie? Non ci crederete: una cesta da vendemmia piena ne hanno portato, ricoperta di foglie di finocchio. Dapprima mangiavo tutto alla pari; ma quando la pancia mi si è tesa come un tamburo ho cominciato a sputare i noccioli. Gli altri commensali erano tutti seri composti svogliati: una ciliegia se la mangiavano in cinque morsi. Io allora per rallegrare la compagnia ho preso a lanciare noccioli, così, strizzandoli tra due dita… Uno è andato dritto sul naso della regina. Quando ha visto che ero stato io, mi ha guardato ridendo e muovendo un dito mi ha detto: “Eh, Gesuinu, birbaccione!”. Ed è entrata in gioco pure lei, lanciando noccioli sulla pelata dei generali… Vittoriu rideva come un matto… Eravamo diventati come fratelli, con Vittoriu. Non fa a crederlo, gli scherzi che ci facevamo l’uno con l’altro! Io ho sempre pensato che fosse della nostra razza: piccoletto, figlio di buona mamma e col naso sempre in tiraggio.».
Nella bettola di ziu Crisantemu la calura pomeridiana si fa sentire. L’adunata si è accosciata sul pavimento di cemento per rinfrescarsi almeno di sotto. Soltanto ziu Anselmu, che ha le chiappe legnose, è rimasto seduto sullo scanno di paglia e brontola: «E quale demonio aspettiamo, parlottando parlottando? Andiamo, mettiamo un tronco in mezzo e il primo che si ferma gli tagliamo il collo a roncolate.».
Ziu Anselmu rappresenta l’ala massimalista. E’ guardato con rispetto ma tenuto a debita distanza. Alla gente non piacciono le cose fatte in fretta. Specialmente se sono importanti come il mangiare, il dormire e lo scopare. E il vendicarsi non è meno importante.
Ziu Antiogu il saggio dice che per andare liscio il boccone che mandi nello stomaco, deve essere già digerito quello precedente. Tale la teoria tale la pratica. Infatti, egli non ha bisogno di mettersi a cacare in un vaso di maiolica. Si accoccola ai margini del cortile, davanti al formicaio, e segue per ore il via vai dei laboriosi animaletti. Ne ha appreso così dopo lunghe sedute le malizie economiche politiche e sociali e le trasmette alle nuove generazioni. Ziu Antiogu, assumendo l’aspetto grave che la circostanza impone, dice: «La minestra si mangia più spesso fredda che calda.».
La frase è piaciuta. Tutti hanno assentito muovendo la testa. Ziu Anselmu abbassa la cresta.
Ziu Anselmu ha le chiappe legnose, è scorbutico ed è massimalista perché soffre di bile e non assimila. E’ in lite da dieci anni con don Piero, il vicario di curia, per una questione di confine tra due chiusi. Si accusano l’un l’altro di indebita appropriazione di un metro buono di terreno. Dalle testimonianze lasciate a terzi dai rispettivi avi, è venuto fuori che anticamente i due chiusi erano delimitati da una siepe di ficodindia. Tale siepe - come è noto - può avere e può non avere un fossato ai lati. Se ha il fossato dal lato destro, significa che la siepe appartiene al padrone del chiuso di sinistra. Se invece il fossato è a sinistra, la siepe appartiene al chiuso di destra. Se non c’è fossato, i ceppi della siepe indicano il confine esatto tra i due chiusi. In questa controversia non si ha più traccia di siepe o di fossati. Ma i testimoni sostengono che la siepe c’era e che c’era anche un fossato - una metà dice che era a sinistra e una metà dice che era a destra.
Quando tra due litiganti la ragione è incerta, non è consentito dalla tradizione adottare rappresaglie, ma se si vuole e se si ha tempo da buttare si fa ricorso alla giustizia cosiddetta civile - che sta ancora ponderando la controversia del ficodindia in attesa di pronunciarsi.
Quando invece la ragione è certa, si applica la legge del taglione. Tu rubi una pecora a me, io rubo due pecore a te - una in più per gli interessi, le spese operative e i danni morali. Se non hai pecore, ti appicco il fuoco al grano, e siamo ugualmente pari e patta.
Ziu Antoni: «Isabella è morta, non sappiamo come. I conti non tornano. Chiamiamo Franziscu e Cristina e ci diranno loro cosa diavolo è successo.».
Ziu Antoni fa parte del consiglio degli anziani, che nella comunità godono di speciali privilegi: possono dare ogni genere di suggerimento ai giovani senza essere mai mandati al diavolo; hanno il posto riservato nel muraglione del sagrato; fanno ballare sulle ginocchia le nipotine fino a tredici anni e anche oltre per stimolarne la crescita.
Non è necessario mandare a chiamare i vecchi genitori dell’infelice Isabella: ziu Franziscu è lì appartato in un angolo e zia Cristina sta seduta sui gradini dell’uscio con altre donne, in attesa degli eventi.
Un silenzio teso ristagna nella bettola, mentre il vecchio padre rievoca: «Ventitré giorni or sono, il sei di maggio è stato. Rientravo dalla terra di Cruccuri… Un tempo disastroso. Il cielo era nero come la pece e i lampi e i tuoni rotolavano col carro di Nannai. Me la sentivo nel sangue, la malasorte mia…».
Sto per interromperlo e fargli notare che nel mese di maggio, dalle nostre parti, non si verificano temporali neppure per eccezione; poi ci rinuncio, ricordando che alla mia gente piace il clima tragico globale.
«… In casa era tutto buio. Il presentimento è diventato certezza appena sono entrato con l’asino in cucina. Dallo sportello aperto sul cortile entrava un chiarore da fantasmi; il camino era spento e non c’era pentola sul trespide. Disgrazia grande sentivo nella bocca dello stomaco. Cristina e Isabella sedevano una di faccia all’altra a testa bassa, con le mani sul grembo. Non ho avuto neppure la forza di aprire bocca, mi sono lasciato cadere sulla stuoia…».
L’adunanza pende dalle labbra del vecchio. Qualcuno gli porge un bicchiere di vernaccia scura per rianimarlo. Ma è inutile sollecitarlo a proseguire: il pover’uomo è in preda alle convulsioni.
Sospinta dalle mani delle donne, si leva e avanza di un passo, controluce nel riquadro dell’uscio, la vecchia madre. Le donne non hanno diritto alla parola nel consiglio degli anziani, possono eccezionalmente sostituire un maschio, nel caso che costui sia mutolo di nascita o lo diventi occasionalmente. La vecchia dice: «Il disonore in casa mia. Isabella, fiore mio bello sfortunato!».
L’uditorio si assesta, arrotando l’occhio e tende l’orecchio.
«Tutto mi confessò nei minimi particolari. Il sei di maggio era, giorno di Santa Giuditta, la Gloriosa - diverso ritorno aveva fatto, pimpante, dal bosco di Oloferne a casa sua… Avevo acceso il forno per il pane. “Isabella, figlia mia - le avevo detto, e mi si fosse seccata la lingua in quel momento! - Vai e corri a prendermi un fascio di erbe per fare scope da forno, e non andare lontano!”. E lei ubbidiente: “Subito - aveva risposto - all’oliveto di don Adriano vado, dietro casa di madrina, andando e tornando sto.”. E se ne era uscita di fretta col sacco. Quando l’ho vista uscire, il cuore di gelo mi si è fatto e mi è tornato il sogno alla mente…».
La gente civile non dà importanza ai sogni nell’analisi delle componenti di un fatto - li ritengono fantasie o allucinazioni prodotte da cattiva digestione. Non così la pensava Putifarre, ministro d’Egitto, e lo stesso Faraone. Non così la pensa la mia gente, per la quale i sogni sono avvisaglie di eventi straordinari, per lo più funesti. Le anime morte, con l’autorizzazione della Madonna o di Santi importanti, scendono nottetempo sulla terra, si avvicinano al capezzale dei dormienti e sussurrano loro notizie allarmistiche. Quando qualcuno muore in paese, specialmente se di morte violenta, ci sono almeno dieci persone che già lo sapevano per averlo sognato.
Non sempre i sogni sono confidenze di Santi su ciò che accadrà - assassini, disgrazie, cataclismi e pestilenze varie. Più spesso si tratta di attacchi demoniaci. Il demonio addetto a disturbare il quieto sonno dei mortali è Coda Lunga, astutissimo e gran puttaniere. La mia gente lo chiama confidenzialmente Cielle. Si traveste in centomila modi e mette in opera centomila astuzie per adescare i cristiani.
Di regola Cielle risparmia gli adolescenti - si dice che tema i sermoni morali dell’Angelo custode addetto alla guardia delle vergini fino al compimento del quattordicesimo anno. Dopo questa età entra in vigore il libero arbitrio, e ciascuno deve cavarsela da sé.
Cielle è il corruttore notturno, e anche pomeridiano, delle giovinette coi bruffoletti, delle vedove inconsolabili e delle spose male amministrate. Alle giovani, Ciele si presenta in abito di velluto blu, aitante, coi baffetti rossicci e un sorriso sfacciato. La fanciulla irretita vorrebbe scappare per una questione di principio, ma non può. Teme che voltandosi venga acchiappata di dietro.
Cielle ammalia la preda con occhi di basilico intanto che si accosta sempre più. Ormai a contatto, snoda la lunga coda che teneva nascosta e l’avvolge attorno alle reni della vittima. La quale finalmente si sveglia in orgasmo e urla. Per scongiurare i pericoli di ulteriori visite di Cielle, la tradizione suggerisce tre Pater, tre Ave e tre Gloria abluzioni gelate purificatrici. Una terapia più antica, tutt’ora diffusa, è quella di dormire in compagnia.
Cielle assume le sembianze di amico, parente e perfino di confessore per portare a compimento i suoi turpi disegni. La vittima, convinta che si tratti di apparizione santa, sta al gioco, in attesa di ricevere anticipazioni sul futuro. Si lascia avvicinare e accetta senza malizia le carezze fraterne. Quando il gioco si è ormai spinto fino al punto da cui è impossibile tirarsi indietro, il diabolico corruttore getta la maschera e ogni ritegno, estraendo fulmineo la lunga coda. Il resto vien da sé.
Io ho vissuto e studiato tra i civilizzati e nutro forti dubbi sulla importanza dei sogni. Sono considerato un “sangue misto”, tuttavia ho il diritto di sedere nel consiglio degli anziani a patto però che parli il meno possibile. E’ stato più forte di me interrompere la vecchia: «I sogni non sono pertinenti nella attribuzione delle responsabilità…».
Il consiglio degli anziani emette un sordo brontolio, accentuato dal fischio a due dita modulato da un pastore. Le donne accoccolate sull’uscio, non potendo aprire bocca, levano in alto le mani scuotendole in segno di dura disapprovazione.
Nel mio paese la giustizia si amministra diversamente che tra i civilizzati, dove i giudici sono di mestiere e possono fare tutto ciò che vogliono purché non dimentichino di pronunciare la formula rituale “In nome del popolo”. Se durante un dibattimento qualcuno del popolo si azzarda ad aprire bocca per sbadigliare o porta la camicia sbottonata, i giudici si arrabbiano e ordinano alle guardie di cacciarlo via “in nome del popolo”. Non di rado, col pretesto che uno ha fatto da cattivo, cacciano via tutto il popolo e il processo se lo fanno da soli, “in nome del popolo”. Se devono giudicare un caso copulatorio, il popolo - in nome del quale amministrano la giustizia - non può assistere. I giudici se li ascoltano da soli, i casi porcaccioni. Dal che si può dedurre: primo, che i civilizzati siano di moralità tanto fragile da bastare una immagine erotica per scatenare in essi Sodoma e Gomorra; secondo, che i giudici abbiano i lombi protetti da una cintura di castità o che non abbiano capacità erettiva; terzo, che viga la divisione in giudici e giudicanti, ovvero in fottitori e fottuti.
Sotto questo aspetto, la mia gente è sovrana. Non c’è grinta autoritaria che riesca a far sgombrare la piazza durante un processo. Non molti anni fa ci fu in paese un podestà cultore delle teorie del Nietzsche. Nei ritagli di tempo aveva anche scritto un Sein Kampf, ne aveva fatto stampare alcune copie e le aveva distribuite ai maestri di scuola. Un giorno riunì in una bettola di periferia il parroco, la guardia, il direttore della scuola e la congrega delle Dame di Carità. Tutti insieme decisero di stabilire un ordine nuovo. Durante un processo in piazza, dato il tema scabroso, il sindaco ordinò alla guardia di far sgombrare il popolo. E per sacralizzare l’ordine lo accompagnò con tre scampanellate di tintinnabulum, quell’aggeggio che usa il chierichetto durante l’elevazione del Santissimo. La gente esplose in una fragorosa risata, pensando che fosse una barzelletta forestiera. Alcuni si arrotolavano sull’acciottolato scompisciandosi dal ridere. D’altro canto era spassoso anche il tema di cui si dibatteva: un manipolo di giovanotti in vena di scherzi aveva irretito ed evirato il vice parroco, don Giuliano, un bel ragazzo venuto da fuori, occhi verdi, pupilla del vescovo. La faccenda era andata grosso modo così: impegnati nei lavori agricoli, i maschi avevano dovuto allentare le cure e la sorveglianza alle fanciulle. Ne aveva subito approfittato don Giuliano. Ai maschi era sembrata una concorrenza sleale e avevano deciso di passare al contrattacco. Stilarono una missiva amorosa con appuntamento vespertino, dopo la funzione, dietro il nuraghe vecchio; lo firmarono col più bel nome di Figlia di Maria e la fecero recapitare all’intraprendete vice.
Dunque, mentre i giovanotti si apprestavano coram populo a raccontare i particolari della operazione, il sindaco aveva dato l’ordine di far sgombrare la piazza, adombrando una turbativa dell’ordine costituito. Dopo le tre scampanellate, la guardia, secondo le disposizioni ricevute, sfoderò un manganello di ferro gommato e prese a menare botte da orbi sulle teste che gli capitavano a tiro. La gente ci rimase molto male. Superato il primo momento di sconcertamento, si levò con un urlo e passò a vie di fatto. La guardia non fu più ritrovata. Il manganello fu ritrovato dentro il podestà dai dottori forestieri venuti per fargli l’autopsia. Il parroco venne legato in groppa a un asino e cacciato a sassate - il vescovo si tenne l’asino e ne mandò uno nuovo. Di parroco, si capisce. Le scuole rimasero chiuse per un anno. E i podestà che vennero dopo non lessero più Nietzsche - o se lo lessero si guardarono bene dal tradurlo.
La mia gente è buona con gli umili. “Errare humanum est” - dice. E’ comprensiva con chi sbaglia e diffida sempre di coloro che non sbagliano mai. Rivolto agli anziani, dico: «Chiedo scusa per il lapsus» - e chiedo scusa anche a zia Cristina per aver messo in dubbio la pertinenza del sogno. Dal consiglio mi giunge uno sguardo affettuoso e una sigaretta accesa che prendo al volo.
La vecchia madre di Isabella riprende: «… Il sogno nella mente mi è ritornato. La notte prima mi era apparsa la buonanima di Antioga, e dietro di lei c’era la Madonna del Rimedio col rosario di madreperla. Antioga mi si è avvicinata con faccia triste come per avvertirmi di un pericolo. Parlava parlava ma non sentivo la voce; mentre vedevo la Madonna fare di sì con la testa e i grani del rosario sgocciolare sangue. Allora ho gettato un urlo e mi sono svegliata in un bagno di sudore… Subito nella mente mi è tornato il sogno, quando Isabella è uscita di casa a fare scope da forno. Non potevo stare più in me dalla pena, così ho lasciato casa forno pane e sono corsa all’oliveto, fin dove costeggia la superstrada del corno della forca… Quello che ho visto non mi regge il cuore a dirlo…».
La vecchia madre si interrompe per lasciare libero sfogo alle lacrime. Piange da mezz’ora e non accenna a riprendere il racconto. Nelle facce dei presenti appare delusione, quindi irritazione. Una voce borbotta: «Già non sarà il segreto dei cento diavoli, che non fa a dirlo!».
Ziu Massiminu interviene con tatto: «Coraggio, dillo, dillo pure liberamente, Cristina, siamo qui per fare giustizia e dobbiamo sapere tutto per filo e per segno.».
Gli anziani fanno cenni di assenso. Tra loro si leva una voce suadente: «Dai, Cristina, parla che ti sfoghi.».
La vecchia tampona le lacrime con la cocca del grembiule e riprende tra i singhiozzi: «Isabella, creatura innocente! Trentadue anni avevi e mai un uomo in faccia avevi guardato, sempre cuocendo e ricamando. Già non si potrà dire che fossi di gamba lunga, sempre tappata in casa… L’ho trovata gettata nel fosso della superstrada, e sopra ci aveva uno di quei forestieri che passano indemoniati con le macchine…».
Una voce la interrompe: «E visto in faccia lo hai, il bellimbusto?».
La vecchia salta su irosa: «Se era un bellimbusto lo saprà la bagascia che lo ha cacato! Uno di quelli che passano nella strada nuova era, la faccia di Giuda aveva. Quando ha sentito le mie grida è fuggito come un malfattore, è entrato nella macchina ed è sparito in un lampo. Ah, se mi cadeva nelle unghie!».
«E Isabella?», chiedono.
«La mia creatura innocente! Non era in sensi, tutta stracciata, con gli occhi bianchi, in un mare di sangue…».
La folla ammassata dentro e fuori la bettola non sa frenare un’esplosione d’ira. Gli uomini si levano in piedi uno dopo l’altro e prendono a battere per terra in cadenza le scarpe chiodate. Gli animi sono esasperati. Può scoppiare un tumulto da un momento all’altro.
Ziu Antiogu il saggio leva in alto le mani assumendo il ruolo del moderatore. Dice: «Calma, calma, giustizia sarà fatta!».
«Subito, subito!», gridarono i più accesi.
Ziu Antiogu allora getta un urlo ,agitando il bastone di olivastro per zittire il pubblico. Quando si è fatto silenzio scandisce la frase rituale dilatoria: «La minestra si mangia più spesso fredda che calda.».
Ziu Massiminu spalleggiato dall’ala massimalista si fa avanti e propone di interrompere la riunione, di andare a prendere picconi e dinamite e di far saltare almeno il pezzo che costeggia l’oliveto di don Adriano.
Don Adriano - presente per caso - non osa opporsi. Dice: «Pazienza se mi salta per aria qualche olivo, prima di tutto l’onore del paese. Non mettetene molta, però: l’annata promette bene, e il minestrone poi con che cosa ce lo condiamo?».
Uno chiede: «E la dinamite?».
Gesumino il bombardiere si avvicina e dice: «Pronta. A quella ci penso io.».
La mia gente ha un debole per tutto ciò che fa rumore. Qualunque sentimento provi, ama esprimerlo rumorosamente. L’odio e l’amore non hanno sugo, se non esplodono. Urla di dolore e urla di piacere. Canta a gola spianata la vita e la morte.
Diversi anni fa, durante l’ultima guerra della serie, quelli del municipio, che sapevano leggere e scrivere, facevano mille magagne: intascavano i sussidi dei combattenti invece di darli alle famiglie. O se qualche briciola davano, chiedevano in cambio pelo giovane.
C’era in giro una fame da tagliarsi a fette, e la gente non sapeva come uscirne. Si riunì allora il consiglio degli anziani e si fece un dibattimento clandestino di notte, nell’aia di S’Arrideli. Fu deciso all’unanimità di fare ricorso alla dinamite, ed ebbe il mandato esecutivo Gesumino il bombardiere - che prende più pesci lui con un chilo di dinamite di una intera flottiglia di algheresi. Dieci cariche da collocare alle finestre delle camere da letto dei sette consiglieri municipali. Una carica al giorno, cominciando dal lunedì fino al sabato. Le restanti quattro cariche, tutte insieme la domenica a casa del podestà.
Ogni notte, allo scoppio, la gente accorreva nel punto programmato, e controllati gli effetti se ne tornava a letto. La quadruplice carica domenicale si dimostrò un capolavoro d’ingegneria. Sembrava il finale dei fuochi d’artificio della festa della patrona Santa Maria l’Assunta. Le esplosioni si susseguirono con un intervallo di un minuto e mezzo preciso. Negli intervalli, dal colmo del tetto partiva a parabola una girandola multicolore che si dissolveva sfavillante sulle teste degli spettatori. Alla seconda esplosione, tutto il paese si trovava radunato in piazza, davanti alla casa del podestà. Molti si erano portati lo scanno da casa, per assistere più comodamente. Il gran finale si ebbe con l’incendio della legnaia, almeno cinquanta carri di ceppi e fascine. Meglio del falò di San Giovanni. La gioventù si prese per mano e fece il ballo tondo, quando Romoletto arrivò con la fisarmonica e attaccò un indiavolato mi e la. Chiccheddu il torronaio e ziu Nicodemu il sorbettiere non piazzarono i loro tavoli per mancanza di materia prima requisita per il fronte, ma per baldoria, danze, canti, scoppi e allegria quella domenica è ricordata come la festa meglio riuscita in tempo di guerra.
Da quel giorno i sussidi cominciarono a essere distribuiti con una certa regolarità. Una nuova assemblea clandestina fu convocata - stavolta nell’aia di Cuccuru Mannu - per un esame approfondito dei risultati conseguiti. Si constatò che la dinamite aveva sbloccato ma non risolto la situazione, ancora precaria a causa della esiguità degli assegni in circolazione. Si decise di aumentare il volume delle cariche esplosive, giusta la legge dei valori direttamente proporzionali.
Purtroppo si dovette lamentare scarsezza di materia prima nel mercato: i minatori del paese vicino erano in sciopero da oltre sei mesi, e la dinamite serviva loro per dirimere la complessa vertenza sindacale. Per fortuna lungo la costa c’era una fascia minata - riservata ai nemici, caso mai gli fosse saltato in testa di sbarcare lì. Si demandò l’incarico di dissotterrarne due o tre a un reduce artificiere della precedente guerra. Al resto avrebbe pensato Gesumino il bombardiere. Tre giorni dopo, a mezzanotte in punto, saltò per aria il municipio: muri, tetto, mobili, scartoffie e tutto quanto. Fu così che i sussidi, mancando gli intermediari, arrivarono direttamente agli interessati.
L’idea di raccogliere il suggerimento dinamitardo sorride chiaramente a molti. Anche a ziu Crisantemu, il padrone della bettola, il quale pur senza distrarsi dalle sue funzioni di mescitore, chiede la parola da dietro il bancone. Dice: «D’altro canto, quali altre rappresaglie possiamo compiere nei confronti di una superstrada? Non ha pecore da prenderle, non ha parenti ricchi da sequestrarle, non ha messi né pascoli da incendiarle…».
E non ha torto. Gli unici accessori vulnerabili - i cartelli di segnaletica e i vetrini fosforescenti - li hanno fatti sparire da tempo i ragazzi. Una sottrazione che purtroppo non ha debilitato la funzionalità della sua struttura.
Il parroco ha letto le intenzioni esplosive negli occhi lustri della gente che assiste fuori. Si fa largo a spintoni, entra nella bettola e si avvicina al consiglio degli anziani. Far saltare strade civili, nuove e trafficate - egli dice - è un reato gravissimo. Un altro conto sono le strade paesane, che potrebbero anche non esistere. Bisogna ricordare - ammonisce - che ci sono leggi civili alle quali siamo sottoposti, volenti o nolenti, che puniscono non soltanto il danneggiamento, ma anche l’occupazione temporanea in tempo statico di una strada.».
Gli anziani mi rivolgono uno sguardo interrogativo. «Tu che hai studiato», dice ziu Antiogu, «ci devi dire come stanno queste cose.».
«Sì», dico io, «le strade vengono costruite con lo scopo di mettere in moto il cosiddetto ritmo circolatorio - su questo non vi è dubbio. Più si circola e più si consumano macchine, benzina, olio, gomme e tutto il resto. Circolando chiusi al caldo, si suda e si beve di più. Per ristabilire l’equilibrio benzoidrico ci si deve spostare da una parte all’altra secondo una ben congegnata rete di punti di riferimento di benzina e di bibite. Stare fermi in una superstrada è severamente proibito. Infatti, appena si ferma un crocchio per strada - magari per guardare il buco che una talpa è riuscita a fare nell’asfalto - arrivano i tutori dell’Ordine Motorizzato, i quali ordinano di circolare seduta stante, prendendo una gavetta di cemento a presa rapida, arrestando la talpa e turando il buco.».
Il consiglio degli anziani delibera dieci minuti di riflessione per trovare il modo di darsi matti per non pagare all’osteria.
Nel silenzio che segue, si leva una voce acuta melodiosa: «Al sorgere dell’alba - ventitré giorni dopo il vile affronto”, canta ispirato Mimmino il vate cieco che registra le cronache, «Isabella Corrias, nubile di anni trentadue - di buona condotta pubblica e privata - figlia unica conforto della casa - per lavare l’onta patita - la vita si tolse. - Impavida sul ciglio della strada - col piede destro sulla striscia gialla - col cuore sanguinante - attese il passaggio della macchina verde - guidata dal vile barbuto - e proprio sotto quella si gettò.».
Zia Cristina gettò un urlo straziante, e le donne le fanno coro strappandosi i capelli.
Il consiglio degli anziani decide di rompere gli indugi. Uno si alza e guardando il parroco dice: «Voce del popolo voce di Dio!». E aggiunge in tono minaccioso: «E Dio vede, sente ma non parla.».
Gesumino il bombardiere capisce che è giunto il suo momento. Dice: «E’ vero, gli anni cominciano a pesarmi, ma guardate, ho mani ancora ferme».
«La minestra si mangia più spesso fredda che calda. E’ vero. Ma qualche volta la minestra bisogna mangiarla calda. » Dice ziu Antiogu il saggio. E levandosi dichiara chiusa la seduta.

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