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6 - Eva

 

La conobbi quand'era ancora una ragazzina lunga ossuta, con la faccia piena di pustoline, tutte moine e prurigine. Mi avevano interessato i suoi occhi, di un colore indefinibile tra il grigio e il verde, languidi come quelli di un cucciolo, e l'espressione delle sue labbra che socchiudeva e inumidiva con la punta della lingua in modo osceno.
Era venuta a pensione in città per frequentare le scuole superiori. I suoi genitori, accompagnandola a scuola, me l'avevano affidata - non ho mai capito su quali basi mutualistiche.
«Gliela raccomandiamo, per il profitto e anche per il resto».
Feci il grugno severo rassicurante - intuivo a che cosa alludessero con «il resto».
La madre si sentì in dovere di essere più esplicita: «Le ragazze d'oggi sono senza giudizio, e in una città ci sono tanti pericoli».
La mia faccia manifestò un pudibondo terrore - chissà quanto peccaminosi se li immaginavano, loro, «i pericoli in una città».
Il padre finì di mettere a fuoco l'oggetto della loro preoccupazione: «Il pericolo maggiore sono gli stessi compagni. Lei sa come sono gli studenti, scapigliati, senza freno».
Non era il solo a ritenere gli studenti indefessi violatori di fanciulle. Forse non aveva tutti i torti: lo studio gioca brutti scherzi alla morale costituita, talvolta.
«Sappiamo che lei è un grand'uomo, lo dicono tutti, ci rimettiamo a lei», concluse la madre.
La ragazzina mi guardava con l'espressione del cucciolo in attesa dell'osso.
Per levarmeli dai piedi finsi di condividere in blocco i loro scrupoli, e sedutomi sul fondo della ipocrisia esclamai: «Sarò per lei come un padre!».
I genitori sorrisero rinfrancati. Gli occhi del cucciolo si accesero come due fanalini. Feci allora un gesto oscenamente paterno: allungai la mano e le diedi un buffetto sulla guancia.
Il gesto - lo sapevo benissimo - piacque, soddisfece e tranquillizzò i suoi. Mi strinsero ambedue le mani, e mi avrebbero abbracciato se la gravità del mio portamento non li avesse trattenuti. Il gesto piacque anche al cucciolo, che arrossì fino alla radice dei capelli.

Eva dimostrò di possedere la straordinaria capacità di adeguarsi a qualunque situazione semplicemente riflettendo come uno specchio ogni interlocutore. Riusciva a sembrare intelligente senza esserlo. Non c'era quasi nulla dentro di lei, di suo: appena un soffietto di foto-souvenir del suo mondo contadino con le banali didascalie sul retro. Tutto il resto era vuoto. Un vuoto «pieno» di puntiglioso orgoglio, di irrefrenabile bisogno di esibirsi e primeggiare, di una insaziabile fame di lodi e di carezze. Pur di sfamarsi avrebbe ingurgitato qualunque vangelo, anche quello degli hashishin, purché predicato da un «vecchio della montagna» di bell'aspetto, danaroso e vestito come nei caroselli tivù.
Erano trascorsi parecchi mesi dalla visitazione al tempio dei suoi genitori. Avevo dimenticato la ragazzina pruriginosa e la promessa di vigilare su di lei - incastrato in un ginepraio di intraprese socio culturali. Mi ci buttavo per raggiungere quel livello di allucinata tensione che mi era diventata necessaria per sentirmi vivo.
Oltre alla vigilanza sull'Istituto Statale per Educande, mi occupavo in quel periodo di scienze congressuali. Insieme ad altri pochi esperti programmavo convegni, seminari, stages, tavole rotonde, simposi, dibattiti, ritiri, conferenze, riunioni, assemblee e congressi di vario livello aventi tutti per tema «Tecniche modi e tempi dell'intervento nella formazione morale e civile del fattore umano». Una nuova attività incentivata da un apposito ministero, allora molto in voga, definita progressista e abbastanza redditizia. Le mie capacità nel settore vennero presto riconosciute e ricevetti l'incarico di ispettore generale.
Dopo qualche decina di visite ai Centri di Formazione del fattore umano, avevo imparato a memoria il discorso di base su «la funzione dell'animatore a livello di comunità, modi e tempi». Svolgevo meccanicamente la tesi prefabbricata e collaudata nei concetti, nei toni, nelle pause e nelle reazioni del pubblico; intanto, per non annoiarmi, pensavo ai fatti miei - conteggiavo i rimborsi spese viaggio; osservavo le decorazioni della sala, se c'erano; guardavo fuori dalle finestre; valutavo le cosce delle ragazze sedute in prima fila. Era un discorso tagliato e cucito in modo da poter essere indossato da chiunque con la massima disinvoltura, bianco, nero o rosso che fosse. Non mi accadde mai di trovare un contradditore. Se l'avessi trovato - l'ipotesi è assurda - sarebbero crollate le colonne d'Ercole del sistema: il dollaro e lo stakanovismo, la POA e le guardie rosse, Andreotti ministro e i pensieri di Mao, i martiri di tutte le guerre e la verginità. Nel confezionare l'abito buono per tutti si partiva dal dato di fatto che l'uomo per natura sua non è litigioso - almeno sulle questioni ideologiche - e che invece ha un profondo bisogno di ricevere pronto in bottiglia sturata l'elisir della verità, che lo liberi dalla fatica di pensare con la propria testa.
Fu lei stessa, Eva, a ricordarmi i doveri di precettore venendo a trovarmi a casa nei pomeriggi dei giorni dispari. Aveva un pretesto logico e morale per giustificare agli occhi dei suoi e della gente tanta assiduità: andava male a scuola e aveva bisogno di ripetizioni.
La trovai meno insignificante della prima volta. L'eruzione umorale che prima si disperdeva in una miriade di pustoline doveva aver trovato un unico cratere di sfogo. In città, utilizzando i comuni strumenti di diffusione delle idee aveva appreso l'arte di rendere consumistico il prodotto: i suoi straccetti erano stati ritoccati, più aderenti, più corti, più socchiusi; sapeva accavallare le gambe mostrando le cosce con disinvoltura; espressioni, gesti e toni erano ripresi dalla presentatrice tivù del sabato sera; il suo repertorio linguistico si era arricchito di alcuni moduli porno-dissacratori, dosati in modo da apparire una intellettuale dell'ultra sinistra.
Era ancora poco per interessarmi a fondo. Lei lo capì, si sentì ferita nell'orgoglio e si intestardì nel proposito di conquistarmi.
Seguii freddamente il suo gioco, sicuro di poterlo dominare. Per dare un tocco di vivacità al gioco, decisi di evangelizzarla a tempo perso. A ciò non era estranea l'ipotesi che una graziosa fanciulla evangelizzata si può scopare più facilmente e con più gusto.
Dal canto suo, Eva possedeva un talento raro nell'assumere il ruolo della neofita. Mentre predicavo pendeva dalle mie labbra in un atteggiamento di religioso raccoglimento e gli occhi le brillavano di ideologica concupiscenza. Lei fingeva così bene il suo ruolo che io finii per prendere sul serio il mio.
Suonò il campanello dell'ingresso e qualcuno andò ad aprire. Dico qualcuno perché non sono mai stato in grado si sapere - tra mogli, figli, amanti, amici e questuanti - quanta gente stesse a casa mia in qualunque ora del giorno e della notte. Per stare tranquillo mi ero riservato un'ala del pianterreno, vietandone a tutti l'accesso. I piccoli apprendevano ancora in fasce che in quel recesso tabù viveva un nume sacrosanto. Portando su un piano di religiosità i rapporti con la gente di casa, evitavo i soliti conflitti che deprimono o stimolano la vita familiare dei comuni mortali: le prediche e gli scapaccioni, le moine e gli isterismi delle mogli, la correzione dei compiti e i nulla-osta per ogni rinnovo di guardaroba, le discussioni sui festival delle canzoni e sull'orgasmo vaginale e le sonnolente ammucchiate davanti alla tivù. Quando mi solleticava l'idea - molto raramente - concedevo una visita pastorale agli inquilini di casa. Avvertita per tempo, la tribù entrava al completo. tali eccezionali visite si verificavano sempre di sera, per la cena; e a quell'ora - per la dinamica dei riflessi condizionati - si metteva in moto da sé il discorso su «tecniche modi e tempi dell'intervento nella formazione morale e civile del fattore umano», e le parole cominciavano a venirmi fuori da sole senza che potessi fermarle. Entravo nel salone col piviale sul doppiopetto grigio, pomposo e corrucciato, libri riviste carte sottobraccio - di lì a poco avrei ottenuto la libera docenza. Il televisore veniva subito spento e acceso il lampadario centrale. Quindi sedevo a capotavola - posto che anche in mia assenza era sacrilegio occupare - e mi concedevo all'estatica turba.
Suonò il campanello, dunque, e qualcuno andò ad aprire dileguandosi discreto. Un picchio timido alla porta dello studio e lei entrò tutta tirata a lucido, con una rivista arrotolata in mano: labbra stropicciate di rossetto grigio cadavere sfumato di viola, palpebre abbondantemente ombreggiate di blu, l'arco delle sopracciglia depilato, i capelli sciolti cadenti in due bande sulle guance pomellate di ocra. Nell'insieme un risultato esteticamente discutibile ma apprezzabile nelle intenzioni.
«Scusi se la disturbo», mormorò.
«Nessun disturbo, figurati, mi fa piacere rivederti».
Si illuminò e venne avanti per stringermi la mano - per l'esattezza, mi diede la mano per farsela stringere.
Le indicai la poltroncina davanti alla scrivania e tacqui aspettando che aprisse bocca.
Avrei potuto aspettare fino alla resurrezione dei morti. Eva non aveva alcunché da dirmi. Mi guardava e basta. Il guardarmi doveva essere l'unico scopo della sua visita. Pareva impegnarla totalmente e soddisfarla anche, almeno a giudicare dalla sua espressione beata.
I lunghi silenzi mi annoiano, se non ho le mani occupate. Dissi: «Ti stai ambientando, vedo. Una città interessante la nostra, vero? Residui spagnoleschi, borbonici, sabaudi, papalini…»
Seguiva con interesse affettato. Capii che il tasto era sbagliato. Dissi: «Come stanno i tuoi simpatici genitori? Li rivedi spesso? Sei fortunata ad avere genitori che si preoccupano tanto di te…»
Rispose con un «bene grazie» seguito da una espressione di incontenibile disgusto. Altro tasto sbagliato. Non tollera ficcanaso e pastoie, la cavallina. Dissi: «Hai fatto amicizie? Ti diverti?».
Strusciò il sedere sulla poltroncina. Il tasto era azzeccato. Rispose: «Oh, sì, tanto! Non pensavo di fare tante amicizie. Istruttive, anche…»
Non ne dubitavo. Naturale che i ragazzi le corressero dietro. Dissi: «Ne sono contento» e la esaminai. «Ti trovo cambiata, sai». Lei si mise in evidenza, incerta. «In meglio, voglio dire. Ti trovo più matura, più carina».
Avevo toccato il suo la. Si contorse, arrossì, sorrise e non sapendo che altro fare prese a gingillarsi con la collana.
A quel punto, decisi di congedarla. Mi alzai e l'accompagnai alla porta. Mi sembrò dispiaciuta di doversene andare così presto. Per rasserenarla le presi una mano e dissi: «Torna pure a trovarmi quando lo desideri o se hai qualche problema. Considerami un amico».

Le visite pomeridiane di Eva si ripeterono con regolarità, esclusi i giorni di vacanza suoi e di lavoro congressuale miei. Il rapporto che ne derivò divenne struttura portante del mio complesso edificio esistenziale.
Nei tre anni che seguirono, Eva aveva digerito tre grandi amori e un numero imprecisato di piccoli, arricchendosi di esperienze pratiche; inoltre aveva appreso tutte le malizie dialettiche che io potevo fornirle. Era ormai in grado di interessare gli uomini e di farsi invidiare dalle donne. Le era rimasta intatta la devozione animalesca che mi aveva dimostrato già dal primo giorno, un sentimento comune in una ragazzina, cui però si aggiungeva una curiosità morbosa di scoprire i meccanismi esistenziali di un uomo straordinario - supponevo che fosse una forma abnorme di appetito sessuale sublimato.
Eva era una nullità dal lato creativo. Un vuoto vivificato da un inesauribile bisogno di ricevere sensazioni - la paragonavo a un mostruoso recipiente capace di disintegrare nel suo vuoto qualunque contenuto.
Man mano che penetravo affascinato in quel suo singolare vuoto, mi innamoravo e mi perdevo con lo stesso angoscioso smarrimento che deve provare l'insetto caduto nel calice del nepente. Ero passato dal ruolo dello sperimentatore a quello della cavia - lei, pur conservando per me l'animalesca devozione, mi utilizzò per sperimentare, cioè vivere, la mia vita. Mi sottoponeva a ogni genere di sollecitazione per conoscerne le reazioni e utilizzare le esperienze nei suoi rapporti interpersonali.
Ovviamente potei conoscerla in questi termini soltanto quando i fili del suo gioco si allentarono diventando visibili. Mi snebbiai, allora; e pur continuando ad amare il nepente trovai la forza per sgusciare da uno spiraglio fuori del calice divoratore. Non fu facile sfuggirle indenne - si era fatta scaltra nelle schermaglie psicologiche, non tradiva emozioni, usava con raffinato dosaggio parentesi di silenzio, sorrisi e assiomi.
Dopo l'allucinante periodo trascorso nel suo sacco disgregatore avrei dovuto fuggire da lei; sentivo invece un bisogno puntiglioso di razionalizzarla per possederla in modo totale e definitivo; legata mani e piedi. Soltanto così - pensavo - l'avrei rimossa da me con tutte le radici e l'avrei infine incasellata inoffensiva nello schedario dei ricordi. Scelsi cioè per liberarmene la soluzione più difficile e insieme la più allettante per un intellettuale sicuro di sé: razionalizzare l'irrazionale per dominarlo - un'antica alchimia politica, la stessa che ha prodotto la civiltà delle macchine e la razza di oranghi che attualmente intristisce la terra.
Espressa in termini di esigenze, Eva aveva bisogno di qualcuno che valesse per credere nei valori, di qualcuno che l'amasse, per amare; aveva bisogno di tenerezza, per intenerirsi, di luce per illuminarsi. Non potendo provare sensazioni in proprio, era diventata sensibilissima nel riflettere le altrui. Mancava di fantasia nel modo più assoluto. Il suo umore era sempre perfettamente intonato all'ambiente e alle persone con le quali entrava in contatto. Non faceva nessuno sforzo a piangere con l'amico triste e a ridere con l'amico ilare - al contrario di chi si compenetra nei sentimenti altrui e deve sempre fingere per arrivare a un rapporto accordato.
Mi dava un esempio aberrante della socialità. Sfuggiva la solitudine, da sola si annoiava a morte galleggiando in un vuoto assoluto, senza un volt di energia da scintillare, senza un fremito di sensazioni, senza l'immagine di un ricordo. Per ciò stava sempre in compagnia, in contatto sensibile con qualcuno che fosse vivo, per sentirsi viva.
Nelle sue rarissime notti di forzata solitudine, il tempo interminabile che precedeva il sonno le si popolava di fantasmi informi che ondeggiavano cullandosi con ritmo crescente, fino a diventare il sibilo lacerante di un diapason - il vibrare di un filo di ragno teso nell'infinito.
Eva aveva necessità di tanti uomini per ogni vuoto da riempire. Per tanto le riusciva di accettare diversi uomini contemporaneamente senza sentirsi in colpa. Il mio amore le colmava vuoti intellettuali; l'amore di Massimo, il fusto del paese, le forniva sensazioni di forza e di aggressività; l'estasi di Giorgio, un biondino timido, la faceva vibrare di tenerezza; e così via per tanti altri: non mancavano il compagno di scuola sgobbone che le comunicava stimoli allo studio, l'attivista di partito proletario che le ispirava sentimenti di fratellanza universale e il porcaccione da passeggio esperto nel raccontare barzellette oscene che la eccitava.
Pur schematizzata, Eva continuava a restare l'affascinante mistero dell'irrazionale. E da questo lato - credo - mi era diventata necessaria: un equilibrante per lenire l'aridità razionale di una vita prefabbricata come la mia. Ma non so bene se lei fungesse, in quella fase del nostro rapporto, da olio lubrificante per i miei ingranaggi esistenziali roventi a causa del loro moto folle o se tout court avesse la funzione di un vaso di fiori freschi sopra un computer.
Mi ero abituato alla sua presenza pomeridiana a giorni alterni. Esauriti i convenevoli riprendevo il lavoro e lei leggeva o studiava sdraiata sul divano. Di quando in quando richiamava la mia attenzione per farsi spiegare il significato di una parola o il concetto di una frase.
Una volta disse: «Posso esserti utile in qualcosa? non so, mettere ordine, battere a macchina…»
«Puoi andare in cucina e prepararmi un caffè molto lungo», risposi.
Uscì e portò il caffè. «Vanno bene due cucchiaini di zucchero?» chiese.
«No, mi basta uno, grazie».
«E' ancora molto caldo, fa attenzione», disse.
La guardai. Mescolava il caffè per sciogliervi lo zucchero. Tolse il cucchiaino, lo asciugò mettendoselo in bocca, lo ripose sul piattino. Mi porse la tazzina. Attese in piedi che io bevessi, seguendo con una espressione affettuosa. Mi era tanto vicina da sentirne il calore.
Da questo episodio e da altri mi parve di capire che in lei c'era il desiderio di completare il nostro rapporto vagamente sentimentale con un contatto fisico. Avevo visto giusto, ma con buona pace di Freud lei desiderava da me un contatto fisico che non aveva nulla da vedere col sesso.
Fu lei stessa che con lenta e studiata gradualità arrivò a stabilire quel contatto di cui aveva bisogno. Una volta stabilito, durava quasi ininterrottamente per tutto il tempo che lei si tratteneva. Le tecniche per arrivare al contatto erano quanto mai infantili: mi si sedeva vicino per farmi leggere qualcosa e senza parere appoggiava il suo ginocchio al mio; oppure metteva la mano sul bracciolo della poltrona dove io sedevo e le sue dita finivano sul mio polso; o anche prendeva la mia mano in un momento di foga interlocutoria, dimenticandosi di lasciarla.
Questo suo particolare bisogno di accumulare energia vitale attraverso un puro e semplice contatto epidermico, finì per destarmi la voglia di chiavarla. Non avevo ben capito la natura asessuata dei suoi contatti; d'altro canto mi tornava comodo fraintendere, collocare il fenomeno sul piano comune.
Mi impegnai in una escalation da certosino, apparendo sempre coinvolto e innocente, con l'alibi del suo contatto. Dalla fase dello stare insieme a chiacchierare con la mano nella mano, passammo a quella dello stare seduti allacciati sul divano; poi a quella di accarezzarci il viso vicendevolmente; quindi a mantenere unite le guance fraternamente. La fase più lunga e più intensa fu quella delle carezze col polpastrello dell'indice sulle sopracciglia, che durò oltre un mese.
Mi stupiva che si appagasse con così poco, sapendola sessualmente attiva. Non si aprì neppure quando l'escalation giunse all'abbraccio disteso. Aderiva con tutto il suo corpo al mio, e il contatto le infondeva una animalesca vitalità: le si inturgidivano il collo, le orecchie, le labbra; il viso le si arrossava e la fronte le si imperlava di sudore; gli occhi le si illanguidivano. Assumeva l'espressione di beatitudine del lattante dopo una poderosa poppata.
La prima volta che la baciai, la sua bocca si schiuse docile lasciando penetrare la mia lingua. Staccatomi da lei mi prese la faccia tra le mani e restò a lungo a fissarmi, aggrottata. Mi chiedevo che cosa le stesse passando per la testa, quando disse: «Mi hai deluso, sai».
Mi dispiacque, l'averla delusa. Aspettavo che dicesse perché: avrei potuto rimediare rifacendo meglio. Ma lei taceva. Dissi: «Perché ti ho delusa, cara?».
Mi guardò, scosse la testa, disse: «Così. Tu sei intelligente, puoi capire benissimo».
Avrei potuto capirlo, a rifletterci; ma non mi tornava utile, capire. L'escalation era giunta ormai a un punto da cui non era possibile ritirarsi senza perdere quel particolare orgoglio del maschio. Tanto valeva affrettare i tempi, recitare l'ultimo atto e abbassare il sipario.
Studiai la «soluzione finale» nei minimi dettagli, calcolando tempi e contrattempi - una minuziosità pari a quella dei criminali dei film americani quando progettano il piano per svaligiare Forte Knox. Come tutti i piani perfetti, il mio prendeva l'avvio da un contrattempo provocato.
Si trattava: primo, organizzare una gita in gruppo, a cui partecipasse ovviamente lei; secondo, non spendere una lira, perciò farla passare per «gita culturale» col rimborso spese a carico del servizio centrale della pubblica istruzione; terzo, produrre il contrattempo che obbligasse il gruppo a trascorrere la notte fuori casa; quarto, assicurarsi che ci fosse non lontano dal luogo del contrattempo un albergo con tutte camere singole e poco trafficato. Il resto sarebbe venuto da sé.
Infatti venne. Almeno fino a un certo punto. Dopo cena restammo tutti insieme a chiacchierare nella hall, gareggiando in banalità sul guasto al carburatore - dai sintomi non poteva essere il carburatore; meno male, il pulmino ce l'aveva fatta a sbarcarci giusto a cento metri dal provvidenziale albergo: ma avrebbe rimborsato anche le spese d'albergo, il servizio centrale?
Ritiratisi tutti, lasciai trascorrere un prudenziale lasso di tempo, quindi bussai alla camera di Eva. Non si stupì di vedermi. Mi fece entrare e richiuse la porta. Era ancora vestita, quasi che mi aspettasse. Però disse: «Perché sei venuto?».
Più che impacciato mi sentivo agitato. Risposi: «Così, per stare un po' insieme. Non ho sonno».
Mi prese affettuosamente per mano e fece per condurmi alla poltrona. «Vuoi qualcosa da bere? Aspetta, chiamo il bar».
«No, lascia stare. Sono venuto per vederti, vederti nell'intimità… un modo per conoscerti più a fondo, capisci? Senti, facciamo così: mi siedo e fumo una sigaretta; tu intanto fai finta di essere sola, spegni la lampada, accendi il lume da notte, ti metti a letto e fai la nanna».
Accondiscese con un sorriso. Senza badare a me prese a spogliarsi e tutta nuda si infilò sotto le lenzuola.
Finita la sigaretta, mi avvicinai al letto e dissi: «Ora che ti ho vista, posso andarmene».
«Se vuoi stare ancora un po', non mi dispiace», disse. Mi tese una mano carezzevole e sussurrò: «Sei molto caro».
Pensai fino a che punto sarebbe arrivata stavolta la sua mania di contatto epidermico. Dissi: «Ti dispiace se mi sdraio un attimo vicino a te?».
«Perché dovrebbe dispiacermi?».
«Non so, potresti avere degli scrupoli, qui a letto…»
«Mi credi tanto arretrata?».
«No, no, scusami», mi affrettai a dire sdraiandomi al suo fianco.
Stando io sopra le coperte e lei sotto ne veniva un contatto imperfetto. Lei disse ciò che speravo: «Vieni sotto anche tu… no, non così, sarà bene che ti levi qualcosa di dosso, per esempio le scarpe».
Tolsi le scarpe e tutto il resto. Dissi: «Vuoi che spenga la luce?».
«No, il lumino non mi dà fastidio».
Aderii al suo corpo e rimasi immobile, aspettando che mi si placasse l'interna agitazione. Quando mi fossi placato - pensavo - avrei sentito il piacere e allora glielo avrei fatto provare io, il contatto…
La distensione dello spirito tardava ad arrivare, mentre permaneva totale quella del corpo. La faccenda cominciò a preoccuparmi.
Lei chiese: «Che hai? Non stai bene?».
La guardai. Il suo viso era sereno, radioso come un mattino di primavera coi mandorli in fiore e i gorgheggi dei cardellini. Mi sentii più che mai disarmato. Veramente strano: la sensazione che mi dava il contatto del suo corpo nudo era dolcissima, ma l'uccello non reagiva. Pareva essersi dato all'ascetismo, e per quanto facessi non riuscivo a farlo uscire dalla sua tana. O che lei gli avesse contagiato la maledetta anomalia del contatto puro?
A quel contatto puro, Eva intanto si era già appagata. Col faccione rubicondo soddisfatto del pupo che ha vuotato tutte e due le mammelle di una nurse ciociara, allentò l'abbraccio, si stirò e sospirò: «Sei molto caro sai; riesci a infondermi non so come dire la forza dei nervi distesi».
Quell'uscita da carosello, in quella situazione, mi fece diventare di umore nero. Pensai: - Stai calmo. Meglio stare al suo gioco, per il momento. Non voglio che mi creda un impotente.
La parola impotente, seppure messa lì senza peso, mi colpì, divenne grossa, enorme, una meteora che cominciò a turbinarmi nel cervello. Richiamai alla mente le migliori prestazioni, i record massimi. Il risultato fu quasi nullo - lo sentii fremere appena alla radice. Allora dissi: «Spegniamo la luce e dormiamo, vuoi?».
«Sì, caro, dormiamo», rispose.
Prese subito sonno. Io rimasi sveglio a rimuginare.
Possedevo una discreta conoscenza della materia. Cominciai col prendere in esame il meccanismo che provoca l'erezione, quindi feci la rassegna delle cause per le quali l'erezione non si verifica. La sintomatologia del mio caso si orientava verso l'eziologia psicologica. Una diagnosi favorevole, il caso meno grave, da un lato. Tutto è a posto, ma il coso non funziona. Il che è già un conforto. Prognosi: basta individuare il fattore negativo specifico - un complesso di colpa oppure un odore sgradevole - studiarlo per conoscerlo ed eliminarlo. Qualcosa come lo studio biologico del Leptoconops irritans in una campagna antiparassitaria.
Trascorsi almeno un'ora alla disperata ricerca dell'agente negativo specifico - chissà dove aveva il suo habitat, nascosto in qualcuna delle centomila pieghe dell'oscuro sacco dell'inconscio. Senza il radar di un analista non lo avrei trovato in mille anni. Accantonai quindi l'ipotesi del blocco psichico per prendere in considerazione la diminuita capacità dei riflessi del midollo spinale. Un sintomo di astenia. Surmenage intellettuale. Troppe responsabilità, troppo lavoro, troppe preoccupazioni. Rimedio-palliativo: una doccia fredda per ridare tono al cervello, ai lombi e scuotere il coso. L'ipotesi era allettante, ma la cura impossibile: la camera di Eva era sprovvista di bagno.
Spostai infine l'attenzione sulla dinamica fisiologica delle parti direttamente interessate. Carenza ormonale. Le batterie sono scariche, non arriva corrente e il motore non si avvia. Palpai le batterie: scariche del tutto non mi parvero… Bella fregatura, se dipendeva dal circuito interrotto! Hai voglia a girare l'interruttore, la lampadina non si accende. No, il circuito non c'entrava, non avevo avuto traumi recenti, nulla di rotto. Bisogna considerare l'età, la diminuita produzione di sostanze nobili: carenza ormonale. Cura a base di testosterone. Gli effetti benefici si riscontrano dopo una quarantina di giorni…
Guardai l'orologio: erano le tre. mi restavano ancora poche ore per trovare una soluzione onorevole - la disfatta mai. Neppure una disfatta mascherata da una nobile rinuncia. In verità, se in me avesse prevalso il buonsenso avrei potuto ridurre di una casella lo scaffale delle chiavate, evitandomi in seguito un mucchio di dispiaceri. Decisi di assopirmi e di attendere fiducioso il risveglio - considerato che ogni mattina, immancabilmente, mi destavo in grazia di dio.
L'essere entrato in tale ordine di idee placò come per incanto la mia agitazione, fugò i timori e mi ritrovai col motore acceso pulsante. Mi affrettai a partire, prima che l'inconscio o che altro diavolo fosse me lo spegnesse di nuovo. Eva era docile e desiderosa di contatto anche nel sonno, per fortuna.
Si destò mentre le stavo sopra. Emise un gemito languido, di gola, allungò una mano e accese il lume senza spostarmi, sbatté le palpebre, spalancò gli occhi, mi pose le mani sulle spalle, restò un bel po' a guardarmi e infine disse: «Mi hai deluso, sai».
Credetti che si riferisse alle mie prestazioni e aumentai la pressione e il ritmo scrutando le sue reazioni. Non partecipava attivamente - naturale, in una ragazza perbene - però godeva maledettamente. C'erano tutti i sintomi…
Dopo restò allacciata teneramente al mio corpo con le braccia e le gambe.
A un tratto si sciolse, si allontanò e disse: «Perché l'hai fatto? Si poteva evitare, no?».
Mentii: «Mi sono trattenuto, ho lottato contro il desiderio, non volevo, è stato più forte di me, perché ti amo».
«Io credevo a un amore speciale, tra noi, un amore puro, come Dante e Beatrice».
Il rammarico percettibile nel tono della sua voce scompariva nel mare di dolcezza del suo viso caldo radioso.
Dissi: «Ora il nostro rapporto è anche più puro, perché è completo».
«Non lo credo. Per me, il rapporto era già completo. Hai rotto un'armonia che durava da anni».
Pensai che fossero fisime dietro cui nascondesse certi pregiudizi di cui si vergognava e che avrebbe superato. Dissi: «Non ti crucciare, adesso. Riposa. Ne riparleremo domani».

Era l'anno del diploma, la finalissima. Con molto garbo, Eva mi comunicò che aveva deciso di mettere giudizio per non pregiudicarsi l'esame. In parole povere, chiavare il meno possibile. D'altro canto - disse - rompere del tutto sarebbe stato un male peggiore, forse. Apprezzai molto quel forse. Ammise di avere ancora bisogno di sostegno morale e culturale - vedermi per sentirmi - e in particolare aveva bisogno di quel suo contatto fisico - vedermi per toccarmi, caricare la sua batteria attingendo dalla mia. Ciò le dava - a suo dire - pienezza spirituale e fisica.
Molto più tardi e in circostanze estranee a questa vicenda, mi è accaduto di ritrovare in un amico la mania del contatto con le persone o con gli oggetti significativi allo scopo di trarne energia. Egli, per evitare contagi microbici, non usava mai le mani ma un «tramite», buon conduttore, per esempio un pezzo di rame, che teneva sempre in mano pronto a essere messo in contatto con una fonte di energia. Si trattava di persona con intelligenza superiore alla media, con la quale discorrevo piacevolmente - l'unico fastidio era quello di vedermi di tanto in tanto poggiare quel suo «conduttore» sulla fronte, sul polso o in altra parte scoperta del mio corpo, quando non ci fosse a portata di mano qualche apparecchio radio o tivù che costituivano con certe auto e moto di grossa cilindrata l'ideale di fonte da cui trarre energia. Devo aggiungere però che il mio amico era nella sua mania più equilibrato di Eva, perché «prendeva» nei momenti in cui sentiva dentro di sé un calo di tensione, e «dava» agli altri quando si sentiva carico, e dava anche a chi scettico lo prendeva per matto.
Gli incontri si diradarono. Ci incontravamo qualche volta a casa di Nice, un'amica di Eva. Eravamo tutti e tre allergici alla siesta. personalmente, ritenevo un lusso volgare il buttar via una porzione di vita così grossa, se si moltiplicavano le due ore quotidiane per trecentosessantacinque, eccetera. Ammettevo che la digestione è un momento critico per l'organismo, ma con due tazzine di caffè la tensione poteva sollevarsi a un livello utile almeno per condurre analisi estetiche, se non per svolgere attività creative.
Eva in fase digestiva cadeva in letargo. Aveva bisogno si una spinta per rimettersi in moto. Un'ora o due di conversazione fungevano da volano.
Nice odiava dormire anche di notte e stava bene con noi perché ci trovava due creature singolari. Preparava un ottimo caffè e lo offriva con lo stile del mecenate uso ad avere nella propria corte uomini di genio e brillanti etere. Parlava e ascoltava con una espressione macerata: miscelava Kierkegaard con Adorno più un pizzico di Schopenhauer - l'escavazione profonda dell'interiore, l'angoscia dell'essere, una carica nucleare nell'ombelico del mondo e bum!… Naturalmente era bruttina e piena di complessi. Per equilibrarsi, compensava il compensabile con valori intellettuali.
Nice rappresentava un esemplare raro nella nuova generazione: era politicamente impegnata a sinistra, legava coi professori e andava bene a scuola. Adler era il suo santo taumaturgo; le aveva insegnato il modo di vivere considerando la psiche come una bilancia, i cui piatti si mantengono sempre allo stesso livello aggiungendo o togliendo peso o contrappesi. Una fatica del diavolo, questo continuo inarrestabile dosaggio: mascheramenti ed esibizioni, questo è inferiorizzante e lo nascondo tanto poco o tutto, questo è superiorizzante e lo mostro tanto poco o tutto. Un'altra faticaccia, la taratura dei pesi che sul mercato degli ideali mutano continuamente di valore: per poter dormire qualche ora di notte e poter tenere aperti gli occhi di giorno.
Nice era una delle tante creature che si suicidano per vivere, che si sottopongono a ogni supplizio, anche quello di diventare intelligenti, pur di essere accettate dagli altri e provare l'illusione di essere amati. La sua condizione somigliava alla mia - ma avevo per lei un sentimento di pena, senza quella ironia che a me non risparmiavo. Avrei leccato amorevolmente le sterili dolorose piaghe che le producevano i mostruosi ingranaggi della macchina in cui si era incastrata.
Era un pomeriggio afoso. Eva e Nice vestivano abiti leggeri e corti. Sdraiate vicine sul divano mostravano le gambe con maggiore prodigalità del solito. Notai che le sollecitazioni che ricevevo da Nice mi caricavano di desiderio per Eva.
Si parlava della mia idea di scrivere la storia di un uomo sradicato dalla campagna e trapiantato in una metropoli. Conclusi: «Egli ignorava l'esistenza del termometro. In estate cercava l'ombra e in inverno il sole. Era felice. Dove gli si faceva buio, lì si addormentava. Ora, invece, gli accade di non riuscire a prendere sonno se nel suo appartamento la temperatura scende o sale oltre i venti gradi…»
Eva disse: «E' una storia comune, oggi come oggi. Se avessi il tuo talento…»
La interruppi ironico: «Coraggio, dimmi…»
«Ecco, io scriverei la storia di un uomo straordinario…»
«Ogni vita, mia cara, è straordinaria», intervenne Nice.
Confermai, annuendo col capo.
«Non dico di no - si difese Eva - ogni vita è di per sé, e tanto più per chi la vive, una vicenda straordinaria. Io volevo dire altro, mi avete interrotto, volevo dire di un uomo straordinario che è straordinario proprio perché non lo è…»
Stavolta la interruppi io: «Scusa, cara, perché non provi a parlare più chiaro?»
«Mi spiego meglio. Un uomo che per apparire straordinario è costretto a fare i salti mortali».
Guardava me, parlando; e mi parve di cogliere un sorriso ironico - aveva ormai buttato giù l'idolo dal piedistallo, ma speravo che almeno non prendesse a calci i frammenti.
Nice disse: «Continua, Eva, la tua idea mi sembra buona».
Dovevo prendere il banco, subito. Mi affrettai a dire, rivolto a Eva: «In sostanza tu parli di un uomo qualunque che per sfondare indossa abiti non suoi. Una rielaborazione, mi pare, della favola dell'asino che veste la pelle del leone. Nella favola l'intento didascalico guasta… si potrebbe evitarlo… sì, mi stai dando una buona idea… ecco, io non lo smaschererei; nessuno dubita mai del suo travestimento, tutti sono convinti di avere a che fare con un vero leone. L'unico a sapere è lui. Di qui il dramma…»
«Esatto», disse Eva «E portando avanti il tuo discorso - ma non era il mio? - si potrebbe dimostrare che tutti i geni non sono che asini travestiti da leoni e mai smascherati…»
La discussione riportata sulle generali mi tranquillizzò, ma non perdonavo a Eva l'intenzione di ferirmi. Dissi: «Sembrerebbe che tu ce l'abbia con i geni. A ogni buon conto, sappi che io non mi reputo un genio».
«Può darsi», replicò piccata, «ma se lo credono gli altri non puoi farci nulla. E questo potrebbe essere un altro risvolto della storia».

Il rapporto cominciò a perdere colpi; prima o poi mi avrebbe lasciato per strada.
Decisi di provare in anticipo - per cominciare ad abituarmi e soffrirne di meno - i sintomi della delusione.
In primo luogo dovevo trovarle tutti quegli attributi necessari a scatenare lo sdegno di prammatica: quando ci si accorge di avere amato una canaglia, di avere sofferto e goduto condizionati da un essere indegno di lustrarci le scarpe, non si può non sentire la bocca amara e la voglia di farla finita.
Dimostrata con una lunga serie di fatti la fondatezza degli attributi «canaglia» ed «essere inferiore», mi sedetti aspettando l'arrivo dei sintomi specifici dell'amore deluso: sensazione di catastrofe, riflessioni pessimistiche sulla organizzazione cosmica, pensieri socio-politici eversivi, riaffioramento di precedenti fregature, inappetenza, vuoto di valori - un sintomo vago, quest'ultimo, ma importantissimo.
L'unico sintomo che rilevai - non previsto - fu il brontolio dell'orgoglio ferito: «Ti sei lasciato menare per il naso da una sgualdrinella». Il gioco era davvero stupido, a guardarlo dopo - tanto stupido che non mi stupii di esserci cascato: mi sarei sentito più umiliato se fossi cascato in un gioco intelligente.
Altro sintomo che avrei dovuto sentire: un senso di liberazione. «E' stato un incubo, ora ne sono uscito e ricomincio a vivere condizionato dalla mia sola volontà». Invece non mi sentivo affatto libero senza di lei.
Riemergeva il brontolio dell'orgoglio ferito. «Non è stato un incubo. Hai amato e sofferto davvero. Non tentare di uscirne con la storiella dell'incubo. Mi ricordi quella fanciulla scrupolosa che fingeva di dormire mentre l'amico la montava. E non ne esci neppure con l'altra tua favola dell'attore che recita tanto bene da credere vera la finzione».
Cominciai a barcollare e ad angosciarmi: «E allora, come è stato possibile, un uomo del tuo calibro, cascarci come una pera matura…» Doveva esserci una valida giustificazione: troppo lavoro, forse, o alimentazione irrazionale. Debolezza organica, esaurimento nervoso. Debole e quindi indifeso. Lei è stata il virus che entra nel sangue, trova anticorpi mosci, si instaura sfacciatamente, prolifera, pullula, domina.
La sera prima, Eva si era ricordata improvvisamente di una relazione di storia dell'arte da presentare a scuola il giorno dopo, improrogabilmente.
Notai in lei un insolito fervore e me ne mostrai compenetrato: «Che hai cara?».
«Sono stata scusata dal professore tre o quattro volte, per questa benedetta relazione. Domani devo assolutamente presentarla».
«Hai tempo tutta la sera. Isolati, lavora…»
«Temo che il tempo non mi basti. Non sono molto lucida. Dovrei stare sveglia tutta la notte, per farcela».
Era un modo di dirmi che se non l'avessi aiutata mi avrebbe fatto saltare il dolce. La «causa di forza maggiore» è la formula inventata dal sistema per fregare la gente quando le regole del gioco non gli tornano comode. Dissi: «Cara, non ci sono io forse? se ti do una mano, in un paio d'ore ce la caviamo. Quando mai trascorrere una notte in bianco!?».
Mi ringraziò. Ero convinto di avere in pugno la situazione. Impartii le direttive: «Io preparo la stesura; tu intanto mettiti a studiare il periodo nei suoi aspetti economici, politici, eccetera…»
Mi attaccai per un'ora a uno di quei mostruosi volumi specialistici dove ogni brano di materia è anatomizzato con la microscopica minuzia del paranoico. Vi trovai molto di più di quanto mi occorresse per stendere una relazione di dieci cartelle sul nudo scultoreo di uno scorcio di secolo - esattamente dodici anni - che ha lasciato a malapena qualche frammento di dita con influssi periclei.
Dopo un'altra ora di battitura a macchina, stanco ma giulivo, pregustavo appassionate ricompense andai a consegnarle il lavoro.
La trovai nel salotto addormentata sul divano, con le gambe prodigalmente esposte. Le gambe di Eva erano sempre esposte con prodigalità, non deliberatamente ma per una particolare struttura anatomica: l'ampiezza del bacino, l'enormità delle cosce, la lunghezza delle gambe erano tali da non poter essere nascoste in alcun modo, anche per il loro contrasto con l'esilità della testa, del busto e delle braccia.
Distolsi a fatica lo sguardo dalle sue gambe, la presi per le spalle e la scossi. Spalancò gli occhi spaventata. L'aggredii: «Ma insomma! possibile che tu non abbia il minimo senso del dovere?».
Abbozzò e disse: «Hai ragione. Scusa, mi ci sono appisolata…»
Pensai: «E' ancora insonnolita, può essere un momento favorevole». Per ammorbidirla avevo anche qualcosa da offrirle. Dissi: «Ecco la relazione pronta. Dieci cartelle giuste. La preparazione orale te la fai in mezz'ora».
Mi gratificò con un bacio. Per Eva, baciare era come stringere la mano per salutare. Lo sapevo, eppure ci ricascavo: il luogo comune sul bacio, la cordicella che abbassa le mutande.
Inzuccherò il rifiutò. Disse: «Sei stato molto caro a darmi una mano. Ma ora ho bisogno di un po' d'aria fresca per snebbiarmi. Usciamo, vuoi? Farà bene anche a te. Dopo farò la parte orale, te lo prometto».
La passeggiata durò due ore più del previsto. Ai giardini pubblici le venne il ghiribizzo di mettersi a giocare a nascondarello con una turba di ragazzini. Pretendeva che giocassi anch'io…
Dovetti chiamarla urlando, perché tornasse. Arrivò senza fretta. Disse: «Ciao. Mi sono divertita un mondo».
Feci una smorfia di compatimento.
«Ho capito, scusa, dimenticavo che sei una persona seria e che ho da finire quel maledetto lavoro».
«Appunto. C'è anche il dovere. Tu lo dimentichi troppo spesso. Ora rientriamo. Più tardi rientriamo e più tardi finisci…»
«E' commovente la cura che ti prendi di me», disse beffarda.
Una donna sa rifiutarsi in tanti modi. Eva usava con me il metodo più appropriato al ruolo che io avevo stupidamente assunto. Era tanto chiaro da essere ovvio che davanti all'alternativa dovere o copula, uno come me, per essere coerente coi suoi discorsi sui «valori etici strutturali che reggono la società civile», non poteva assolutamente dare la precedenza alla volgarità dell'istinto.
A mezzanotte trascorsa filtrava ancora la luce dall'uscio della sua camera. Pensai: «Figurati se un'oca del genere riesce a fare le notti in bianco studiando. Probabilmente si è addormentata con la luce accesa».
Entrai. Era sveglia, invece, e studiava - o almeno pareva, con il libro aperto in mano. Sedeva accoccolata sulla poltroncina, con un plaid sopra le gambe.
«L'hai presa proprio sul serio», dissi accarezzandole i capelli da dietro la spalliera, per nasconderle la mia nudità.
«Voglio fare una bella figura, domani».
«Brava, cara. Mi ricordi certe mie impennate giovanili, certe notti insonni…» Mi interruppi prima di farmi scappare il solito esempio dell'Alfieri e del suo sconcio Volli, sempre volli, fortissimamente volli. Che andasse a dare il culo, l'Alfieri! Se non me la fossi stesa per almeno dieci minuti non sarei riuscito a prendere sonno - me l'ero programmata, ormai. Decisi di aspettare: avrebbe finito per stancarsi di giocare all'Alfieri, la bambolona. Dissi: «Vorrei aiutarti in qualche modo. Purtroppo non posso studiare al posto tuo. Non riesco a dormire, sapendoti sacrificata. Ti starò vicino finché non avrai finito».
Mi guardò in tralice, sorridendo. Mi fece una carezza sulla guancia. Disse: «Non voglio che perda sonno anche tu. Vai a dormire, ti prego». E per chiudere il discorso mi scoccò il bacetto della buonanotte.
Insistei: «Ne avrai ancora per molto?».
Guardò il mio viso, forse per giudicarne la resistenza. Disse: «Ne avrò almeno per due ore».
Quell'almeno le lasciava un margine di sicurezza. Io presi quell'almeno inopportuno e lo scaraventai fuori dalla frase. Dissi: «Due ore? Bene, aspetto. E' giusto starti vicino nei momenti difficili. Sai che faccio? Me ne sto nel tuo letto a leggere. Quando arriverai lo troverai caldo».
Lei continuò a recitare con una bravura che non mi aspettavo. Disse: «Sei molto caro, ma non posso accettare che ti sacrifichi. Il tuo sonno è prezioso, saresti uno straccio, domani».
Io mi ero già infilato nel letto.
Lei riprese: «Sai, ho detto due ore perché tu non ti crucciassi. In verità potrebbero essere di più. Credimi, non devo distrarmi neppure per cinque minuti».
Dissi: «Ecco, una pausa di cinque minuti è quel che ci vuole. Lascia che te lo dica uno che se ne intende. Dopo riprenderesti con rinnovata lena…».
Stavolta le sfuggì, con un riso beffardo, il movimento iniziale di quel gesto sconcio che si fa col braccio.
Io proseguii angelico: «Ti distendi per cinque minuti, stiamo vicini vicini in contatto, ti rilassi…»
Si rifugiò ancora una volta nella incorruttibile corazza del dovere e lo fece prendendo tale e quale dal mio armamentario. Disse: «Mi deludi, sai. Non sei tu che predichi i valori inalienabili, fulcro e scopo di ogni momento esistenziale? Non sei tu che tuoni guai a chi calpesta nell'uomo in sé o in altri anche uno solo di questi valori? E se venissi meno al mio dovere, come potrei guardarmi più allo specchio senza sputarmi in faccia?».
Abbassai la testa. Pensai: «Te la sei meritata. Così impari a complicare la vita, la tua e quella degli altri - perfino il chiavare, che è la cosa più semplice e naturale del mondo». Dissi: «Non ti facevo tanto saggia. Credimi, ne sono lusingato… Non c'è sacrificio che non valga la pena di sopportare pur di salvare un valore morale».
La frase finale non era un granché. In compenso suonava bene. E dopo averla pronunciata me ne uscii pomposo, dimenticando perfino d'essere tutto nudo.

Il pomeriggio del giorno dopo andai da Nice. Eva non c'era.
«Come? sta a casa tua e la cerchi qui? Penso che stia ancora dormendo. Stamattina sono passata da lei. Ha brontolato che era stanca, che aveva saltato la scuola, che preferiva un'assenza a una figuraccia nella interrogazione di storia dell'arte».
Nascosi la rabbia dietro un sorriso. Dissi: «Poverina. Ha studiato tutta la notte senza farcela. Verrà più tardi».
«Ma che dici? Non ricordi che oggi è un giorno pari? Si alzerà fresca fresca per uscirsene col ragazzo…» Rilevò il mio stupore e aggiunse: «Il cervellone non ti salva dalle ingenuità sentimentali. Eva ha il ragazzo da molto tempo. Credevo lo sapessi…»
Tentai di difendermi dall'accusa di ingenuità e dalla sofferenza dell'inganno. Dissi: «Beh, non lo sapevo ma lo immaginavo. Eva è una ragazza esuberante, moderna… Non era difficile da immaginarsi, ti pare?».
Nice si accorse che soffrivo. Mi si fece vicina. «Non ne vale la pena, credimi. Non ti ha mai amato. Almeno non come tu avresti voluto», disse accarezzandomi. Mi sentii turbato, smise e si allontanò: «Che sbadata! Dimenticavo il caffè. Scusami, torno subito».
Mi lasciò tutto il tempo per rimettermi. Pensai: «Ecco una donna che saprebbe comprendermi e amarmi»; e quando la vidi versarmi il caffè premurosa e sorridermi non seppi trattenermi dal prenderle una mano. «Grazie, Nice, grazie di cuore».
«Grazie di che? Lo sai che ti stimo, che mi sei caro».
Eva mi si rificcò in testa. «Non mi ha mai amato, dici?».
«Non pensarci. D'altro canto devo capirla, non deve essere facile amare un uomo come te. Non sei un uomo qualunque, tu. E poi, l'hai amata davvero, tu?».
Soltanto allora mi accorsi che Nice parlava del rapporto tra me ed Eva come se sapesse tutto da sempre. Risposi: «Non lo so. E' certo però che sentimenti e sensazioni li ho vissuti e sofferti».
«Non vuol dire: puoi avere amato sentimenti e sensazioni, non lei».
«Sì, Nice, forse è stato così… Tu mi aiuti a capire».
«Sono sincera, ecco tutto. Vedi, dico ciò che penso, non prendertela…Tu sei un uomo che non può amare. Puoi fingere di amare, puoi forse suscitare amore negli altri…»
La interruppi: «Aspetta, fammi capire. Vuoi dire che non sono capace di vivere la realtà così com'è? Che ho bisogno di falsarla, per viverla? Sì, forse è così: sono un attore fallito che prova continuamente un copione che mai reciterà sulla scena della vita».
«Sì, ma non esattamente. Tu non sei un attore fallito. Tu reciti bene sulla scena della vita, tanto bene da ridere e da piangere dimenticando la finzione. No, non sei un attore fallito. Tu sei - perdonami per ciò che dico - tu sei un uomo fallito. No, non nel senso comune del termine: hai tutto ciò che si può avere. Agli occhi della gente tu sei arrivato. Sei un fallito, forse come tutti gli intellettuali, perché non potrai mai provare il gusto vero della vita, il gusto di vivere senza conoscere il meccanismo della vita…»
Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Le lasciai venire, traboccare, scorrere senza ritegno.
Nice mosse la mano. La fermai. «No, ti prego, lasciale… Voglio sentirle scorrere… Lascia che ne senta il gusto vero, per una volta almeno».

 

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