I GALLI NON CANTANO PIU’
racconti -- BERTANI EDITORE
Verona 1978
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Presentazione
In questi racconti, l’uso della parodia e della satira serve a restituire persone e situazioni deformate da nevrosi, conformismi,insincerità, ma anche spinte, dalla loro stessa “malattia”, ad auto emarginarsi o distruggersi. La coscienza morale e politica da cui sempre la satira nasce, in Dessy è tanto forte da rompere, a tratti, il gioco stesso del raccontare in parodia, per dare spazio a voce immediata a quei momenti, sentimenti, a quelle condizioni storiche di vita in cui persista, nel buono e nel meno buono, un segno di autenticità, un mondo di esperienze bisogni visioni non ancora assorbito da una “modernità” distruttiva. Dessy è infatti sardo, e vive in Sardegna: con la caparbietà dell’elce “che mette radici nella roccia”. Narratore attento a rendere il clima di un regime, quello democristiano e neocapitalistico, testimone del disagio urbano (e particolarmente di quello vissuto dagli intellettuali e politicizzati…), egli conosce e fa parlare continuamente anche l’”altra”, la prima Sardegna, raccogliendo l’autobiografia di una pastora, ascoltando un venditore ambulante, sedendosi con affettuosa ironia in mezzo ad un consiglio di uomini del paese, seguendo passo passo l’iniziazione sociale-sessuale di due ragazzi, il loro sfruttare un’intelligenza qualitativamente diversa da quella pur dominatrice dei “forestieri” (dalla maestra al ministro)…Senza mai fuggire nel comodo rifugio dell’idillio e del Mito, Dessy fa soprattutto satira proprio perché troppo forte gli risulta il contrasto tra l’essenzialità, l’autonomia, la gravità del vivere popolare, da una parte, ed il “balletto” urbano, l’imitazione neocoloniale della metropoli dall’altra…
Una libertà senza aggettivi: ecco forse il suggerimento finale, “paradossale”, di questi racconti scioltissimi, franchi, non convenzionali.
1 - La società dell’asparago
Rino e Ilario - tredici anni, quinta elementare, «nessuna assistenza» come dicono i libretti scolastici - uscirono di casa alle cinque del mattino per andare a scuola. Era di marzo e si ritrovarono col primo solicello a bordeggiare le siepi di ficodindia nella campagna di Terrepani, una fetta di terra in un canalone roccioso dimenticata da Dio e dagli uomini.
Le siepi del ficodindia - viste da chi sa guardare - sono nel loro piccolo come l'universo. Giorno dopo giorno vi resta sempre qualcosa da scoprire. A differenza dell'universo danno il frutto per ingrassare il maiale da sacrificare per Ognissanti. Quand'anche le siepi fossero state scoperte del tutto, resta il piacere di vederle mutare e rinnovarsi. Il modo per vederle mutare più rapidamente è quello di incendiarle: resta uno scheletro fuligginoso di pale e di festoni di rovo e di pruno. Lucertole, topi, bisce e rane finiscono arrosto, ma dopo qualche settimana risorgono dalle loro ceneri come l'araba fenice. Forse perché sono animali non commestibili, e il dispettoso Jahvé si diverte a farli proliferare. Le siepi del ficodindia con tutti gli annessi e connessi che vi proliferano aggrovigliati sono indistruttibili. Puoi rasarle con una ruspa e spargerci sopra il sale: alle prime piogge autunnali cominciano a verdeggiare, pollonano i pruni, i rovi, gli asparagi e spuntano i ciuffi delle euforbiacee. Il succo di queste ultime serve a tanti usi: drogare i pesci del ruscello e ingrossare il coso se mai la femmina l'avesse largo.
Rino e Ilario - primavera della mia gente - erano felici in semplicità, come tutti i sottosviluppati, i puri e i manichei. Basta mettersi qui o lì, all'ombra o al sole, dalla parte giusta, secondo che faccia caldo o freddo. I sommi reggitori, Dio e il Diavolo, in fin dei conti sono due pesti: non fanno altro che bisticciare tra di loro coinvolgendo l'uomo - che dal canto suo se ne starebbe volentieri in disparte a farsi i fatti suoi. Per non fare la fine del vaso di coccio tra i due vasi di ferro, l'uomo si è fatto furbo e tiene il piede su due staffe: fa le corna contro il malocchio, bestemmia se salta una ruota al carro, prega e danza se l'annata è siccitosa, si vende l'anima per una fanciulla di primo pelo.
Le centomila sfumature tra il bianco e il nero, proposte e imposte dalla civiltà, complicano e confondono la vista, il gusto, le idee e le azioni e creano prospettive false: chimere, liocorni, fiori di plastica, benessere liofilizzato. Seguendo sempre i bisogni del momento, la mia gente divide il regno della natura in «cose utili» e «cose inutili». Quando si ha fame, animali e piante mangerecci sono utili. Quando la pancia è piena e il sole batte a picco, cardi e lumache sono inutili ed è utile un macchione di lentischio che faccia ombra o un ventaglio di penne di tacchino.
Rino e Ilario, digerita in un baleno la fetta di pane d'uso, insensibili alla poesia dei roveti e dei pruni in fiore, presero a guardare concupiscenti i polloni dell'asparagina.
Un fascio di pertiche di rovo e di pruni trascinato lungo i filari di una vigna in fiore fa tabula rasa - per un anno quella vigna non produrrà neppure un chicco d'uva. E' un rito terapeutico politico-sociale che risolve le nevrosi proletarie e induce il padronato a più miti consigli. Ma chi ha l'animo sereno non si cura delle pertiche del rovo e dei bronchi del pruno: raccoglie asparagi, che sono fiori mangerecci, poesia in prosa.
Quando Rino e Ilario ne ebbero messi insieme un mazzo tanto grosso da non potersi più contenere in una mano, li fasciarono con una foglia di asfodelo chiusa con uno spino. Durante l'ultima guerra, per incarico del podestà, il padre di Ilario raccoglieva le spine del ficodindia - sostituivano egregiamente gli spilli di metallo nelle scartoffie municipali.
Più avanti trovarono legna secca. Si fermarono e accesero un focherello. Si scaldarono alla fiamma, quindi cadute le braci vi misero ad arrostire gli asparagi raccolti.
Satolli e felici, tirarono fuori il pisello e pisciarono contro vento per il gusto di fiutare l'odore aspro dell'aspartato di ammoniaca. Non sapevano spiegarsi la causa del fenomeno, ne prendevano atto e basta - come di altri fenomeni relativi all'apparato in questione. Nonostante fosse un «centro di interesse», la maestrina non ne parlava mai.
La maestrina veniva da fuori ed era di razza diversa: giovane, bionda, bianca, soda e appetitosa. Aveva il viso sorridente, le orecchie sempre rosse e tumide come se qualcuno le avesse pizzicate da poco. Gli scolari privilegiati se la godevano da vicino, seduti nei banchi di prima fila per «diritto di censo» o per «merito distinto». Quelli degli ultimi banchi, «gli sfaticati», dal canto loro non restavano a bocca asciutta: ricevevano continuamente dai primi dettagliate descrizioni, ed erano gli unici a sapere con esattezza quanti nei avesse intorno all'ombelico.
La maestrina era molto istruita. Rispondeva senza esitare, con voce limpida e fluente, a qualsiasi domanda di storia, geografia, scienze; ma si aggrottava e il suo tono di voce si incupiva non appena qualcuno sfiorava il tema delle urine e dell'apparato relativo.
L'apparato relativo, quella mattina, Rino e Ilario se lo tennero in mano per un bel po', stupefatti di vederselo crescere a vista d'occhio. Presero a strapazzarlo per ricondurlo alla ragione. Fatica sprecata: più lo menavano e più cresceva e induriva.
Dopo qualche ora si lasciarono cadere per terra sfiniti, ansimanti con la lingua fuori come cuccioli in rodaggio tra le stoppie di luglio. Rino si spaventò e scoppiò a piangere, al pensiero che quel coso enorme potesse restargli così per tutta la vita.
Ci vollero altre due ore di energiche e ininterrotte manipolazioni per risolvere il preoccupante fenomeno.
Rasserenatisi, cominciarono a riflettere concatenando la straordinaria dirizzatura con gli asparagi mangiati - quegli asparagi pollonati in quella siepe. Si giurarono di non rivelare il segreto ad anima viva. Avrebbero utilizzato per se soli quei prodigiosi frutti. Mostrandone gli effetti ai compagni, li avrebbero fatti crepare d'invidia.
Era pomeriggio, quando decisero di rientrare in paese. Costeggiarono per un lungo tratto la superstrada. Si lasciarono scivolare nella cunetta e rimasero con la faccia a livello dell'asfalto seguendo lo sfrecciare dei bolidi fino a farsi venire il torcicollo. Poi si misero seduti sul ciglio, a un metro dalla striscia gialla e dalle ruote. Avevano in mano un mazzetto di asparagi - si ripromettevano di arrostirli l'indomani nel cortile di scuola all'ora della ricreazione e di farne assaggiare alla maestrina. Essendo sprovvista, chissà dove avrebbe subìto l'effetto - forse nel naso, come Pinocchio.
Una grossa limousine verde pisello con autista si fermò davanti ai due ragazzi. Un signore di mezza età dall'aria distinta abbassò il vetro e fece cenno ai ragazzi di avvicinarsi. Era l'on. Trabuchetti, membro permanente del governo, consigliere delegato di una catena di agenzie funebri. Di lui si sapeva che da venti anni si era votato a una rigorosa castità - precisamente dal giorno della prima candidatura parlamentare.
Disse: «Cos'è quella roba che avete in mano?»
I ragazzi fiutarono l'affare. Si avvicinarono e gli sventolarono sotto il naso le punte verdi squamose. Dissero: «Sono buoni da mangiare in insalata, bolliti e conditi con olio e aceto; soffritti a fuoco lento in padella; arrostiti sulle braci; meglio ancora sbattuti con le uova e messi al forno».
L'on. Trabuchetti prese gli asparagi, li guardò attentamente, li fiutò, guardò interrogativamente la segretaria che sedeva al suo fianco. Lei fece un cenno di assenso. Lui allora sfilò un biglietto da mille nuovo di zecca da una mazzetta, lo getto ai ragazzi e ripartì.
Rino e Ilario restarono per un pezzo a guardare e a palpare il bigliettone. Si sorrisero ammiccando - la prossima volta avrebbero fatto mazzi più piccoli.
Il giorno dopo, Rino e Ilario andarono a scuola mossi da un vero interesse.
La signorina Myriam, la maestrina, non si era neppure accorta della loro assenza. Esclusi i «magnifici sei» col grembiule e il fiocco in prima fila, gli altri erano tutti «malandati» che venivano a spizzichi secondo la luna. D'altro canto, lo spazio del registro riservato alle assenze era molto limitato: ci stavano sì e no sei o sette assenze per ogni scolaro, e tante lei ne annotava alla fine del mese, scegliendo tra i numeri dall'uno al trenta quelli che le riuscivano graficamente meglio - il 16 e il 19, per esempio. Così la pagina delle assenze nel registro diventava un prato con tante farfalle e il direttore didattico le aveva dato l'ottimo per questo.
La maestrina seguiva i metodi moderni - cioè quelli che rispettano la personalità del fanciullo. La società civile abbisogna di cittadini democratici, perciò niente schiaffi se non in caso di estrema necessità e non più di due o tre per volta. Si diventa democratici con «l'autodisciplina», cioè abituarsi da soli a fare silenzio e a stare composti senza alzarsi dal banco, anche quando la maestra si assenta per andare in gabinetto o per scambiare due parole con le colleghe nell'andito. E' anche importantissimo, per la maturazione civile del fanciullo, «l'autogoverno» nello svolgimento del programma ministeriale. La signorina Myriam, appena seduta in cattedra, si preoccupava dell'autogoverno e diceva: «Bene, bambini. Che cosa proponete di fare oggi? Tu, Giorgetto, vai alla lavagna, metti la data e sotto scrivi: «Programma di lavoro; e sotto ancora: Primo, secondo, terzo, quarto e quinto… Cinque cose da fare per oggi bastano, sì?… Dunque, controlliamo i vostri centri di interesse. Che cosa vi urge oggi? Storia, geografia, scienze, religione o aritmetica?»
Di solito rispondevano i «magnifici sei», e così veniva compilata la graduatoria preferenziale delle materie previste dal programma ministeriale.
Quella mattina, la maestrina fu presa in contropiede. Alla domanda di prammatica «Che cosa vi urge», Rino e Ilario scattarono in piedi e con voce stentorea dissero: «Signorina, ci fa la lezione sui modi e sui tempi delle tecniche imprenditoriali in un paese sottosviluppato?»
La signorina Myriam trasecolò: «Ehi, ragazzi, dico, che cosa vi salta in testa? Dove diamine avete orecchiato quell'accidente di domanda, com'era?… tecniche imprenditoriali?»
«Abbiamo letto la storia di Rockfeller, signorina. Vogliamo sapere come ha fatto a diventare ricco sfondato con cinque centesimi trovati per strada. E' una storia che ci piace tanto».
La maestrina si illuminò tutta. Rockfeller benefattore dell'umanità, pagina 175 del sussidiario, occupava uno spazio importante tra san Francesco d'Assisi e Gutemberg. Oltre che nel programma ministeriale rientrava nella campagna INA per il risparmio nazionale. Si assestò in cattedra e disse: «Ottimo centro d'interesse. Adesso vi siete spiegati. Ho capito tutto. Dite: vi sentite emuli, nevvero? Bravi. L'emulazione è un sentimento nobile, la molla che muove l'intelligenza e fa scattare il progresso. Allora, Giorgetto, al numero due scrivi: Storia, i benefattori dell'umanità, Rockfeller».
«C'era una volta un ragazzo povero. Non dico povero come voi degli ultimi banchi, ma molto di più. Non aveva fondo ai pantaloni, non toccava cibo da un mese e vagava randagio come un cucciolo senza padrone per le vie della città alla ricerca di una crosticina di pane raffermo. Dovete sapere che il piccolo Rockfeller era orfanello - come Pinocchio quando i gendarmi arrestarono babbo Geppetto. Non si perdeva d'animo per questo. Egli sapeva di esser cittadino di un paese libero, dove la via del successo è aperta a tutti indistintamente. Bastava perseverare. Vi ricordate? lo diceva anche Galileo, in quarta, l'anno scorso, inventando il cannocchiale: perseverando arrivi. E infatti, arrivò… eccome! Cammina e cammina, sempre pensando con tenacia, il piccolo Rockfeller, stremato dalla fatica e dalla fame, sedette sul marciapiede, tenendo però i piedi raccolti composti per non farseli arrotare dalle carrozze. Ed ecco il fatto che doveva cambiare di punto in bianco la sua vita: gli caddero gli occhi su qualcosa che luccicava ai suoi piedi. Allungò la mano tremante, la prese, la mise sul palmo dell'altra, la guardò attentamente: era una monetina da cinque centesimi, che egli si affrettò a intascare. Di fronte c'erano tanti negozi: panetterie, drogherie, salumerie, Upim e Standa. Avrebbe potuto sperperare la moneta, farsi un panino - aveva tanta fame! - comprarsi un abito nuovo - i suoi calzoncini erano senza fondo e faceva tanto freddo! - e invece no, decise di perseverare, di amministrare oculatamente il piccolo capitale, che in breve tempo crebbe, divenne un colossale patrimonio, un impero economico. Diede così lavoro e benessere a migliaia di disgraziati bisognosi come lo era stato lui da piccolo, e vissero tutti felici e contenti».
Finita la lezione la maestrina ricordò la circolare ministeriale relativa alla morale della storia - ogni episodio deve essere esemplare e stimolare nel fanciullo sani propositi. Disse: «Vi è piaciuta la storia? Sì? E la morale? l'avete capita la morale? Bene. Allora, adesso facciamo il riassuntino scritto sul quaderno. Su quello a righe, naturalmente. Almeno una paginetta, sia ben chiaro, e che nessuno cerchi di sbrigarsela con due righe, altrimenti neppure glielo guardo, gli metto un due e peggio per lui».
Gli scolari che non avevano Rockfeller come «centro d'interesse» abbozzarono e preso il quaderno si buttarono giù a scrivere freschi freschi. Non così Rino e Ilario che avevano concreti motivi per voler approfondire la questione della tecnica - modi e tempi - della moltiplicazione dei centesimi. Dissero: «Signorina, la storia ci è piaciuta molto, non ci stancheremmo mai di sentirla. Vorremmo però sapere come di preciso ha fatto il piccolo Rockfeller ad ammucchiare tutta quella grana cominciando con cinque centesimi».
«Come? non avete capito? E' semplice, l'ho già detto, basta perseverare.»
«E che è questo perseverare?»
«Come, che è? Vuol dire mettersi in testa di fare qualcosa e farla a tutti i costi. Ricordate l'Alfieri, quest'anno, a pagina 204 del sussidiario? Volli, volli, fortissimamente volli. Si fece legare alla sedia davanti al libro di scuola, studiò molto, si istruì e diventò un grande poeta stimato da tutti. Capito?».
Non erano cime dell'intelletto, Rino e Ilario - non avevano capito. Il fatto è che come tutti i sottosviluppati non sapevano uscire dal particolare dei loro bisogni fenomenici per entrare nella sfera del generale coi valori numerici. Per ciò insistettero: «Noi abbiamo una nostra idea per fare soldi, ci manca però l'organizzazione. Come si organizza una società per fare soldi?»
La domanda - si disse la maestrina - non rientrava nei programmi ministeriali; quindi era mossa da un centro di interesse negativo. Inoltre aveva da finire la manica del maglione. Disse: «Adesso fate il riassuntino da bravi, avete due ore di tempo, fate pure con calma, non c'è fretta. Dopo ne riparleremo».
Ne riparlarono nel pomeriggio. Rino e Ilario avevano insistito. Il caso si dimostrava didatticamente interessante, anche se mosso da un centro negativo. Non bisognava creare frustrazioni - una recente circolare ministeriale metteva in guardia sui pericoli delle frustrazioni.
La maestrina li fece entrare nel salottino. Sedette in una poltrona e indicò loro il divano. Disse: «Eccomi pronta ad ascoltarvi e ad aiutarvi a risolvere i vostri piccoli problemi. Siate chiari e concisi».
I ragazzi si erano preparati l'incontro attribuendosi le parti della drammatizzazione.
Ilario: «Noi vorremmo fondare una società capitalista, tipo fondazione Rockfeller».
Maestrina: «Non ditemi che avete trovato per strada cinque centesimi!?».
Rino: «Qualcosa di più. Ne abbiamo trovato mille».
Ilario: «Il punto però non è questo…» - gomitata a Rino - «c'è ben altro, sotto».
Maestrina: «Beh, se c'è, tiratelo fuori».
Rino: «A suo tempo».
Ilario: «Intanto le basti sapere che abbiamo scoperto una miniera che può fruttare bigliettoni da diecimila».
Maestrina: «Ma no?! E che avete scoperto, un filone aurifero? un pozzo petrolifero?».
Rino: «L'oro e il petrolio sono capaci di trovarli tutti. Noi abbiamo scoperto una miniera di asparagi».
Maestrina: «Asparagi? Ma se è piena di asparagi, la vostra campagna. E che ci fate, la birra?»
Ilario: «Eh, eh… non sono asparagi comuni, questi, sono speciali, straordinari. Volendo si potrebbero vendere mille lire l'uno e forse di più».
La maestrina sorrise dentro di sé: che fantasia galoppante i fanciulli. Credono nelle favole, fanno il tifo per Cappuccetto rosso sperando che non caschi nelle grinfie del lupo cattivo… Ingenui! non sanno che il mondo è fatto a scale, c'è chi sale e c'è chi scende, ossia chi sta sopra e chi sta sotto. Decise di stare al loro gioco, di prenderli per buoni - l'ultima circolare ministeriale metteva l'accento sul fatto che i piccoli vanno presi per buoni, tanto non ci si perde nulla a lasciarli sfogare. Disse: «D'accordo, non si tratta di asparagi comuni: sono speciali. Ditemi in che cosa consiste questa loro specialità».
Rino e Ilario tacquero imbarazzati. Si vergognavano a dirlo a una donna, anche se di razza forestiera.
La maestrina li incoraggiò: «Su via, non vi mangio mica! Se non sapete dirlo in italiano ditelo in dialetto - comincio a capirlo, sapete…».
«Non è una questione di lingua, ma di… una cosa brutta. Se noi lo diciamo, poi lei ci sospende».
«Una cosa brutta? Via, sciocchini! come può essere una cosa brutta? Non ci possono essere cose brutte negli asparagi».
«Eppure è così».
Una pazienza da Giobbe, con quei marmocchi - pensò la signorina Myriam - ecco perché insegnare è una missione. La pazienza non le faceva difetto, e neppure la curiosità. Disse: «Vi credo. Purtroppo, se voi non parlate io non saprò se gli asparagi da voi scoperti possiedono speciali proprietà. Di conseguenza non potrò aiutarvi a organizzare una società per lo sfruttamento dell'asparago. Capito?».
«Abbiamo capito, sì, ma lei ci fa soggezione».
La maestrina sorrise comprensiva. Disse: «Va bene, facciamo così, se vi vergognate, scrivetelo su un foglietto…»
Un ottimo metodo, sperimentato frequentemente a scuola. «Signorina, Antioco ha detto una parolaccia!»
«Che parolaccia?»
«E' una parolaccia brutta che non si può dire». «Se non si può dire e non me lo dici, come faccio a sapere se è una parolaccia? Per punire Antioco devo sapere qual è la colpa che ha commesso, no? Dunque, vai dietro la lavagna e scrivila su un pezzo di carta». Aveva imparato a quel modo un mucchio di parolacce.
Rino e Ilario assentirono, ponendo una condizione: «Ma dopo, lei ci promette si stracciare il foglio e di non punirci?»
«Ve lo prometto», disse la maestrina, e andò a prendere quaderno e matita. Staccò un foglio e lo porse ai ragazzi. Questi si appartarono in un angolo del salotto, presero a confabulare, quindi attaccarono a scarabocchiare a turno.
Dieci minuti più tardi consegnarono il compito e rimasero in attesa, a rispettosa distanza.
La maestrina diede una occhiata al foglio, impallidì, ebbe un fremito, arrossì, prese ad ansimare, le mancarono le ginocchia e cadde sulla poltrona con un gemito.
Rino e Ilario si spaventarono. Che le fosse venuto un colpo? Corsero nell'andito, aprirono tutte le porte finché trovarono la cucina, riempirono un bicchiere d'acqua, tornarono indietro e lo rovesciarono sulla faccia della signorina maestra.
La maestrina fremette, strabuzzò gli occhi, vide i due «mostri» e cacciò un urlo. Sarebbe svenuta di nuovo se non l'avessero intenerita le facce contrite dei due ragazzi. Pensò che poteva avere avuto una allucinazione e diede un altro sguardo al foglio… No, niente allucinazioni, l'elaborato parlava chiaro, anzi chiarissimo, perché i ragazzi avevano seguito diligentemente le indicazioni metodologiche della circolare ministeriale numero 169/b arricchendo il tema con dovizia di illustrazioni e didascalie. Non poteva esserci dubbio che tutti quei cosi dapprima mosci, poi eretti e infine enormi col trattamento asparagico non fossero appunto dei cosi.
Riprendendosi dallo svenimento, la maestrina cominciò a pensare che se la faccenda degli asparagi fosse stata vera bisognava ammettere che i ragazzi avevano fatto una importante scoperta. Tale da meritare non una, come il Rockfeller, ma due pagine intere di sussidiario, tra i benefattori dell'umanità. Lei non si occupava di politica e pertanto non leggeva i giornali - soltanto lo Specchio di quando in quando - ma sapeva che gli scienziati di tutto il mondo cercavano affannosamente l'elisir della perenne fioritura - altro che siero anticancerogeno! Tutto è caduco, nel mondo, gira e rigira, anche il piacere, che è soltanto un effimero volo di farfalla, uno sbocciare di fiore troppo presto avvizzito, e così via… Oh, se proprio due suoi scolari avessero scoperto l'elisir della perenne fioritura!… Ma via! si stava lasciando influenzare dalle fanfaluche di due marmocchi.
I due marmocchi attendevano visibilmente in apprensione la risoluzione della crisi della signorina maestra. Appena resisi conto che sarebbe sopravvissuta al colpo, si affrettarono a dire: «Si ricordi la promessa: niente sospensione».
«La ricordo», disse lei, «però ho idea che vi stiate burlando di me. I casi sono due: o ciò che dite è falso, e allora siete due piccoli porcaccioni ed è mio dovere impartirvi una salutare punizione; oppure è vero, e allora è tutta un'altra cosa. In questo secondo caso, dovete darmi le prove».
«Certo che possiamo provarlo», dissero i due a una voce.
Rino infilò una mano nella tasca della giacca e aggiunse: «Ne abbiamo qui un mazzo per campione. Ma…»
«Ma?…» ripeté la maestrina scrutando gli asparagi con occhi rotondi.
«Ma… dico, che facciamo? Vuole provarli lei? Lei mica ce l'ha, il coso».
La maestrina stavolta non svenne, si limitò ad arrossire. Arrossiva in modo singolare, ed era uno spettacolo vederla. Cominciava dal viso, dalle tempie giù per le gote fino all'angolo della bocca; quindi il rossore si estendeva al petto: uno striscione dallo sterno-cleido-mastoideo obliquo fino al capezzolo della mammella sinistra. Pensò di essersi sbilanciata troppo, ma ormai era in ballo e avrebbe ballato fino in fondo. Disse: «So bene che io il coso non l'ho, ma voi presumo di sì. Quindi, l'esperimento lo farete voi in mia presenza. E sia ben chiaro: un esperimento scientifico, senza compiacimenti. Intanto giurate che nulla direte ad anima viva dell'esperimento che faremo. Alzatevi in piedi, mettete la mano sulla Bibbia e dite lo giuro».
Rino e Ilario si alzarono ed eseguirono.
«Bene», disse la maestrina prendendo in pugno la situazione, «ora venite con me e procediamo con ordine».
Si trasferirono in cucina, riempirono una pentola d'acqua la misero a bollire sulla fiamma del gas, la condirono con un pizzico di sale, lavarono gli asparagi sotto il rubinetto, li rovesciarono nell'acqua, misero il coperchio e attesero.
La maestrina disse: «Intanto che cuociono, controlliamo i vostri cosi allo stato naturale. Abbassatevi i calzoncini, dunque - io vado a prendere metro, quaderno e penna. Gli esperimenti si devono compiere scientificamente».
Rientrando li ritrovò in piedi, nell'angolo tra la credenza e il muro - insieme ai calzoni tenevano abbassati la testa e il pisello. Li guardò e sorrise materna. Si fermò a mezza stanza, mise il quaderno aperto sopra il tavolo, divise la pagina in due parti con una linea verticale, scrisse da una parte Rino e dall'altra Ilario. Quindi si avvicinò a Rino, gli si inginocchiò davanti, gli sollevò il cosino con due dita, lo misurò attentamente - cinque centimetri e sette millimetri. Tornò al quaderno e annotò. Passò poi a Ilario e ripeté l'operazione - cinque centimetri e quattro millimetri.
Rino abbozzò un sorrisetto di superiorità, subito represso da un'occhiataccia della signorina maestra.
L'acqua della pentola ormai bolliva e l'odore degli asparagi si era diffuso nella cucina. «Tra cinque minuti saranno pronti… E dite: quanto tempo passa prima che si verifichi la reazione?».
Rispose Ilario: «Di preciso non sappiamo: dieci minuti, un quarto d'ora… Ricordiamo un particolare: abbiamo fatto pipì poco prima che accadesse. Appena fatto pipì quel coso è cresciuto, cresciuto e non c'era verso di acquietarlo…»
«Vedremo, vedremo», mormorò la maestrina con voce turbata. Tornò al quaderno e annotò: «Misure relative a stato di erezione normale»; quindi si voltò verso i due ragazzi ancora nell'angolo e disse: «Seconda fase. Adesso menatelo un pochetto - senza compiacimenti, si capisce. Per facilitarvi il compito mi volto dall'altra parte».
Rino guardò Ilario e disse: «Signorina, ci vergognamo, davanti a lei, non ci riusciremo mai. Ci vorrebbe il suo aiuto. Noi terremo gli occhi chiusi».
La maestrina ritenne che la richiesta fosse psicologicamente fondata: i ragazzi, in quella situazione non potevano non essere imbarazzati - sui pericoli del fanciullo in imbarazzo, una recente circolare ministeriale avvertiva i docenti invitandoli a creare un ambiente non conflittuale onde evitare i traumi. In fondo si trattava di manipolare, per un fine scientifico, due creature quasi innocenti: tale e quale il pisello di Gesù Bambino nella Madonna del Cardellino.
Cominciò da Rino. Glielo prese delicatamente e lo depose sulla palma aperta della mano sinistra, poi con l'indice della mano destra gli diede dei colpetti sul capino facendo pst-pst finché lo sentì palpitare, fremere, inturgidirsi, levitare e volare via dalla palma. Corse a prendere il metro e misurò - centimetri nove esatti. Ripeté l'operazione con Ilario - centimetri nove e tre millimetri. Stavolta fu Ilario ad abbozzare un sorrisetto.
La maestrina disse: «Gli asparagi sono ormai cotti. Ragazzi, giù i cosi, le misure sono state prese e trascritte».
Rino prese a lamentarsi: «Che dice mai, signorina? arrivati a questo punto, è un fatto naturale, no? per rimetterli giù è necessario lavorarli».
«Lavorarli? Che volete dire, lavorarli?».
«Lavorarli con la mano, su e giù, come natura comanda».
Alla maestrina sorse il dubbio che quei due mocciosi la sapessero più lunga di quanto non dovessero. Figuriamoci, se la storia degli asparagi portentosi fosse stata tutta una montatura: ci avrebbe fatto una bella figura! Guai a loro se fosse stata una burla: il sei in condotta non glielo avrebbe levato neppure il Padreterno. Mangiò la foglia e disse: «Scommetto che questo lavoro vi vergognate a farvelo da voi. E' così?».
Rino e Ilario assentirono scuotendo la testa in sincronismo.
«E naturalmente, poiché vi vergognate, volete che ve lo faccia io. Ho indovinato?».
Aveva indovinato. Si armò di pazienza, e per non tirare la faccenda per le lunghe li prese ambedue, uno per mano, menandoli più rapidamente che poté. A un certo punto, i due bricconi presero a contorcersi e ad ancheggiare. Lei stava inginocchiata senza potersi tirare indietro. Mugolando le spruzzarono il naso, le guance, il mento; poi le caddero addosso.
Quando lei riuscì a districarsi, Rino e Ilario si afflosciarono sul pavimento.
«Bravi. Statevene buoni buoni.», disse la maestrina andando a lavarsi la faccia nell'acquaio, «intanto vi scodello gli asparagi».
Spense il gas, tolse la pentola dal fornello, ne rovesciò il contenuto nello scolapasta e da lì nell'insalatiera. Condì con olio e aceto e servì in tavola.
Avvicinando due sedie disse: «Ragazzi, siamo giunti alla fase culminante dell'esperimento. Avvicinatevi, sedete e mangiate con appetito. Mi auguro - soprattutto per voi - che il prodigio si compia».
Se l'auguravano anche Rino e Ilario. I preliminari dell'esperimento facevano balenare scorci di paradiso. Si gettarono sulla insalatiera come lupi famelici.
La maestrina li trattenne. «Eh, no, la scienza non ammette improvvisazioni. Metà e metà. Aspettate». Portò due piatti e divise gli asparagi.
Ilario protestò perché la razione del compagno gli sembrava più abbondante. Lei controllò tolse un asparago da una parte e lo mise dall'altra. I due impugnarono la forchetta…
A questo punto, la maestrina rivide negli occhi della mente l'illustrazione di un testo di fisiologia relativa all'organo femminile. In fondo lo hanno anche le femmine, il coso. Piccolino sì, ma lo hanno. Non potevano, quei prodigiosi asparagi, operare l'ingrandimento anche sul cosino delle femmine? E in quale misura? Perché non fare la prova e sciogliere il dubbio? Ci avrebbe guadagnato la scienza; si sarebbe risolto d'un colpo il problema della emancipazione della donna… non solo: si sarebbe potuta togliere alcune soddisfazioni, per esempio inchiappettare l'ispettore scolastico che le stava sullo stomaco. Trattenne i due lupi famelici che stavano per gettarsi sul cibo e disse: «Alt! Rispondete prima a una domanda: quale quantità di asparagi è necessaria perché si produca l'effetto?».
Rispose Ilario: «Noi abbiamo provato con pochi, neppure la metà di questi. C'è però un particolare: erano asparagi arrosto, non bolliti».
«Bene. Gli effetti in relazione al modo di essere cucinati potremo verificarli con esperimenti futuri. Adesso dobbiamo prendere atto che sono bolliti. In relazione alla quantità, voi dite, questi sono più che sufficienti. Ergo, dividiamo in tre parti».
«In tre parti?» esclamò Rino, «e la terza parte a chi vuol darla? Ha forse un gatto maschio in casa.».
«Macché gatto d'Egitto! La terza porzione me la mangio io. Farò l'esperimento anche su di me…»
I ragazzi scoppiarono a ridere. Una risata grossa e allegra da far venire i crampi all'ombelico e i lucciconi agli occhi. Dimenticarono perfino che stavano mancando di rispetto alla signorina maestra. «Oh, oh, oh! lei mangiare asparagi!… e che diavolo si aspetta di vedersi crescere?… la punta del naso?!…».
La signorina Myriam sentì riemergere il vecchio complesso del pube liscio e si adombrò. Disse: «Ma guarda un po' che arie si danno per un pizzico di pisello! Cosa credete, ignoranti! che non l'abbiano anche le donne?».
I ragazzi smisero di ridere, si guardarono con stupore, poi spalancarono la bocca e tesero le orecchie.
«Certo - fate pure quella faccia incredula - è come dico io. L'abbiamo anche noi. Piccolo piccolo, questo è vero, ma l'abbiamo. E' come un campanellino…».
Rino e Ilario si lasciarono sfuggire un «oh» di meraviglia, pur scuotendo la testa increduli.
«Ah sì?» proseguì lei piccata, «fate come San Tommaso, eh? vedere per credere, è così? Ebbene, ve lo faccio vedere e vi metto spalle al muro».
Detto fatto, la maestrina sollevò la gonna e abbassò le mutande.
Rino e Ilario trasecolarono. Producevano saliva e deglutivano, gli occhi puntati sul cespuglio biondo. Se in quel momento fossero stati punti da cento vespe non avrebbero mosso un pelo, tanto erano assorti nella contemplazione di quel centro di interesse.
Lei allargò un tantino la fessura. Disse: «Beh, che fate così impalati? Avvicinatevi, guardate… di sopra. Lo vedete?».
Si avvicinarono e scrutarono attentamente nel cespuglio senza vedere ciò che cercavano.
«Vi ho detto di guardare nell'emisfero nord… Fate conto che sia il mappamondo: è situato al polo nord… ricordate? Oceano glaciale artico… Lo vedete? No?… Aspettate, mi siedo. Forse si vede meglio, se mi siedo».
Seduta in cima alla sedia con le cosce aperte, il panorama era quanto mai affascinante - che bellezza, la signorina maestra! Se l'avessero raccontato, nessuno ci avrebbe mai creduto. Eppure, il campanellino non riuscivano a scoprirlo. Doveva essere davvero molto piccolo, difficilmente individuabile tra tutto quel ben di dio.
La pazienza è la prima virtù di una educatrice - numerose circolari ministeriali si soffermavano sul valore pedagogico della pazienza. La maestrina l'aprì con le dita e la mostrò tale e quale può vedersi in un ottimo testo di fisiologia.
Rino e Ilario non la immaginavano così complicata - avevano sempre pensato a un tubo, anzi uno spezzone di tubo. Pieni di interesse, con le pupille diaframmate a spillo scrutarono e studiarono quel centro di interesse in ogni suo dettaglio.
«Oh, dico: adesso dovreste vederlo. Eccolo qui, ve lo sto indicando col dito. Si affaccia sull'orlo superiore del cerchio… Il cerchio lo abbiamo studiato, no? Diametro per tre e quattordici uguale circonferenza».
Ilario - finalmente - credette di vederlo. Tutto giulivo esclamò: «Eccolo! l'ho visto! lì! eccolo, lì…».
Rino, che ancora non c'era arrivato, borbottò spingendo avanti il naso: «Lì dove?».
«Lì», ripeté Ilario. E nella foga di indicarlo ci mise il dito sopra.
La maestrina sobbalzò. Stava per dire: «Vuoi togliere subito quel ditaccio da lì, brutto screanzato!». Ci ripensò e disse: «Si sente anche al tatto, no? Visto che c'è? Ancora increduli? Toccate, toccate pure. Finirete per ricredervi del tutto. Sì, così, coraggio, ma piano, con dolcezza, è un cosino delicato… e se toccate a dovere, cresce. Lo sentite come cresce?»
Era cresciuto, eccome! Pareva una biglia di un cuscinetto a sfera. A turno presero a palleggiarlo a destra e a manca come un minuscolo punching-ball.
Gli asparagi furono consumati e l'esperimento diede ragione ai ragazzi. Nel quaderno della maestrina venne registrata una terza misurazione: «Rino ventinove virgola sette; Ilario trenta - centimetri, naturalmente. In calce appariva il seguente rapporto: 9,3 sta a 30 come 20 sta a X. Dal che è facile arguire che la maestrina si era posta il problema degli effetti asparagici su di un soggetto adulto fornito di apparato venticentimetrale.
Qualche giorno dopo, il trio fondò la «Società dell'Asparago» Spa. La signorina Myriam mise il capitale. Rino e Ilario fornirono la manodopera. I profitti sarebbero stati ripartiti a metà tra capitale e manodopera.
Il capitale era costituito da un vecchio tavolo da cucina, un ombrellone da spiaggia, un secchio di lamiera zincata e un fondo liquido di cinquemila lire.
La manodopera consisteva nella raccolta degli asparagi, nella divisione di questi in mazzetti - ciascuno calibrato sulla circonferenza ottenuta unendo la punta dell'indice e del pollice, nella esposizione dei mazzetti sopra il tavolo ai margini della superstrada, nel piazzare e aprire l'ombrellone nelle giornate di sole, infine nello spruzzare di tanto in tanto acqua dal secchio per evitare il deterioramento del prodotto.
La prima giornata di attività si concluse con un fiasco. Buona parte del prodotto era rimasta invenduta. I ragazzi misero gli asparagi a mollo nell'acqua del secchio e lo nascosero insieme al tavolo e all'ombrellone in un macchione di lentischio. Mogi mogi tornarono in paese.
A casa si fermarono giusto il tempo per farsi una fetta di pane e un pezzo di formaggio. Si ritrovarono in piazza di chiesa, e da qui, senza dare nell'occhio, si recarono a casa della maestrina per fare il resoconto.
Lei non si lasciò scoraggiare dal primo insuccesso. Disse: «Ogni inizio è di per sé difficile. Perseverando si arriva. Tenete sempre a mente l'esempio di Rockfeller. Bando dunque alle recriminazioni e passiamo a esaminare in dettaglio le strutture portanti della nostra società. Punto primo: produzione. Attenzione, mai produrre più di quanto il mercato non possa assorbire. Un eccesso di produzione costringe ad abbassare i prezzi, ovvero svalutazione e infine slump - che detto con parola nostra è il crac… Non sapete cosa è il crac? E' il rumore che fa la sedia che si rompe mandando a gambe levate chi vi stava seduto. Secondo punto: i surplus. Anche se l'ipotesi sulla capacità di assorbimento del mercato è ragionevole, può sempre accadere che una certa quantità di prodotto avanzi. In questo caso è necessario un impianto per la conservazione. Terzo punto: il mercato. I mercati si cercano, si conquistano, si conservano, si coccolano - come le donne, se non le curi ti abbandonano e ti cornificano. Noi il mercato lo abbiamo, e senza concorrenza, almeno per ora. Dobbiamo quindi imporre il prodotto. Come? E' semplice: con la pubblicità. La pubblicità è l'anima del commercio, no? Vi spiego meglio con una parabola.
«C'era una volta un uomo che viveva in un villaggio sui monti, dove le case erano fatte di legno. Si ficcano tanti pali per terra, e questi sono i pilastri; i pali si rivestono di tavole orizzontali, e queste sono i muri. Ora, in questo villaggio, la gente univa le tavole ai pali legandole con lo spago, perché era arretrata. Mentre il nostro uomo - che chiameremo Giovanni - ha già inventato il chiodo, scoprendo che piantato in due distinti pezzi di legno li tiene inchiodati l'uno all'altro indissolubilmente, come marito e moglie in un paese senza divorzio.
A un certo punto, Giovanni - che chiameremo del chiodo - decide di passare dall'intenzione all'azione, mettendo a frutto l'invenzione. Oltre tutto, non essendo brevettata, poteva essergli carpita da uno più furbo di lui, come accadde a Meucci col telefono - ricordate, quest'anno, a pagina 183 del sussidiario - che si fece soffiare l'invenzione da Bell. Si mette quindi all'opera e ne fabbrica un corbello pieno. Di buon mattino se lo mette in testa e se ne esce in giro per le strade del villaggio gridando: Chiodi, chiodi belli appuntiti! Chi vuole chiodi? Una dozzina soltanto dieci lire!
Indovinate che cosa accadde? Alla gente non gliene importava nulla, dei chiodi. Per forza! Non sa che cosa sia il chiodo, né a che cosa serva, né come si pianti e via discorrendo. Perciò non viene ascoltato. Chi dice che è un impostore e chi sostiene che è matto. Qualcuno per curiosità getta un'occhiata nel corbello e qualcun altro arriva anche a prenderne uno tra le dita chiedendosi se non siano stuzzicadenti per cavallo.
Giovanni del chiodo - con questa denominazione passerà alla storia tra i benefattori dell'umanità - non demorde. Si richiude in casa, si siede a tavolino e fa lavorare il cervello. Dopo alcuni giorni di riflessione, capisce che bisogna dare alla gente una dimostrazione pratica e corre difilato ad acquistare un megafono a batteria. Poi fa il giro del paese gridando: Si invita tutta la popolazione per oggi pomeriggio alle ore sedici e trenta ad assistere a una dimostrazione pratica della utilità del chiodo: che nessuno manchi! Al termine verrà sorteggiato tra i presenti un televisore portatile.
Giovannino è astuto. Sa che all'inizio dovrà incentivare l'intrapresa rimettendoci di tasca; ma sa anche che nel prezzo del prodotto ci farà entrare l'ammortamento del capitale, gli interessi semplici e composti, i profitti, le spese di gestione e di manutenzione, il rinnovo degli impianti, le tasse, le public relation, la pubblicità, i regalucci alla segretaria e tutto il resto.
All'ora fissata, Giovanni - d'ora in avanti lo chiameremo semplicemente col nome di battesimo - si presenta davanti alla folla convenuta per dare la dimostrazione pratica. Pianta rapidamente tanti pali per terra finché è pronto lo scheletro della casa, quindi prende una dopo l'altra le tavole e menando gran colpi di martello le inchioda ai pali in un battibaleno.
Conclusa l'opera si volta sorridente alla folla e senza il minimo segno di affaticamento dice: Signore e signori, come tutti hanno potuto vedere coi loro occhi, senza perder tempo, ché il perder tempo a chi più sa più spiace, senza star lì cincischiando a legare con spago, con il mio prodigioso ritrovato chiamato chiodo, debitamente piantato con l'aiuto di un semplicissimo martello, ho fissato le tavole ai pali. Loro diranno: tutta apparenza! E io dico: signore e signori, osservino pure attentamente senza paura, tocchino con mano, si avvicinino, prego: il chiodo è entrato tutto dentro, neppure si vede, soltanto la testa. Coraggio, provino, tirino, strappino senza timore… lei, giovanotto, sì, lei con le spalle forzute: lo sfido a staccare coi suoi possenti muscoli una sola di queste tavole fermate col chiodo… Visto, signore e signori?
A questo punto, la gente comincia a convincersi perché ha visto e toccato. Però è ancora indecisa perché ha paura di fare in modo diverso da come ha sempre fatto - può beccarsi la scomunica del parroco per eresia, la prigione dal maresciallo per sovversione all'ordine costituito, la multa dal sindaco per contravvenzione alle norme edilizie. Giovanni è perspicace: sa tutto questo e anche altro. Si reca quindi dal parroco, dal maresciallo e dal sindaco recando in dono un corbello di chiodi per ciascuno, promettendo altre regalie se li useranno magari nella costruzione della loro casa di villeggiatura.
Il colpo giunge al bersaglio. le autorità cominciano a parlar bene dei chiodi. La moglie del sindaco prende sotto la sua protezione il giovane inventore.
Giovanni si chiude per la terza volta in casa e si mette alacremente a fare chiodi. Ne riempie una stanza intera, poi dorme ininterrottamente un giorno e una notte.
Fresco riposato, la mattina dopo di buon'ora esce con due cartelli appesi al collo - uno davanti e uno di dietro. Davanti ci sta scritto: L'uomo duro usa il chiodo da muro. Ci sono disegnate una casa fatta a spago e una casa fatta a chiodo, ambedue sollecitate dalle raffiche di un tornado. La prima scricchiola e si squarcia come una melagrana di Cabras. La seconda resiste intatta infischiandosene - dentro al sicuro gli inquilini festeggiano il compleanno della figlia diciottenne danzando la trebisonda al suono di una fisarmonica. E di dietro solo scrittura: La società del chiodo, fondata nel 1817, premiata alla fiera di Vooroograad, fornitrice della real casa di Madrid».
Tutto si poteva dire della maestrina - e tutto infatti si diceva - ma non che le mancassero le virtù didattiche. Rino e Ilario capirono tanto bene la morale della parabola che si ripromisero si non smettere fino a quando non fosse stato varato il piano pubblicitario.
Decisero di non raccogliere più asparagi di quanti non fossero sicuri di piazzare sul mercato; di mettere insieme tre bei mazzi avvolti in carta velina legati con fiocchetto per farne dono al direttore delle scuole, al brigadiere e al vice parroco don Antonio; di preparare uno striscione con slogan asparagici per impressionare gli automobilisti e indurli a fermarsi.
L'ultimo punto si mostrò un osso duro. La maestrina dovette preparare un caffè per mantenere alto il tono - un caffè lungo, naturalmente, per non danneggiare il delicato sistema nervoso dei fanciulli, giusta la circolare ministeriale del 7 aprile che aveva per oggetto la salvaguardia delle nuove generazioni dai pericoli della droga.
Nel libretto scolastico, Ilario era qualificato «deficiente» in tutto fuorché nelle arti figurative, valutato «ottimo». Ebbe quindi il compito di elaborare il grafico. Raggiunto in linea di massima l'accordo sul soggetto, Ilario si gettò a scarabocchiare.
Il soggetto consisteva in un «prima e dopo la cura asparagica», e doveva svolgersi in due parti. Nella prima, un omuncolo tutto rachitico, tutto stanco, tutto frocio che sospirava in un fumetto «Oh, me tapino», senza punto esclamativo, a significare la mancanza dell'energia necessaria a esprimere una interiezione. Rappresenta il tipo che la gente ignora e che le donne disprezzano.
Nella seconda parte, lo stesso dopo la cura. Uno scorcio di cielo azzurro illumina un tratto di strada cittadina. Sul marciapiede davanti a una vetrina di gioielleria sta lui, un fustacchione basette alla Robespierre, camicia bianca alla Roberspierre aperta sul petto villoso, bacino magro ossuto, gonfiore asparagico. Convergono su di lui i prototipi delle donne che contano: la bionda languida popputa, la bruna vispa gambe lunghe, la rossa vampira serpentina. Il fumetto relativo al fustacchione recava scritto: «Come l'araba fenice, con l'asparago pollone, sono rinato e son felice».
Sul volume del gonfiore, i ragazzi avrebbero strafatto senza la presenza moderatrice della maestrina, la quale avvertì che il segreto di ogni successo sta nel seguire la via di mezzo - non per nulla il Signore, creando l'uomo gli collocò nel mezzo l'organo addetto alla riproduzione.
La Società dell'Asparago Spa iniziò l'attività vera e propria quindici giorni dopo, di domenica.
Il giorno non fu scelto a caso: la superstrada era più affollata e il traffico più lento. La gente se ne stava sbracata dentro le auto, vogliosa di soste campestri, di pisolini pomeridiani su prode erbose. I bambini frignavano per andare a fare pipì; le fanciulle smaniavano per scendere a raccogliere pratelline - fiori di mandorlo no: si era sparsa la voce di un irascibile villico che aveva scaricato la doppietta a sale e lardo sul sedere di una incauta fanciulla che per farsi un bouquet si era attaccata a un ramo e col ramo aveva tirato giù mezzo albero. C'erano vecchie nostalgiche della natura che supplicavano figli e generi di farle uscire da quella scatola a respirare l'ultima boccata d'aria, e armate di buste di plastica e coltelli si sparpagliavano frugando nei margini incolti alla ricerca di bietole e cicorie - tutta un'altra cosa le verdure selvatiche, che hanno il sapore «sapore», non il sapore di merda di quelle coltivate in serra, impacchettate nel cellofan e conservate negli scomparti frigo dei supermercati.
La vendita degli asparagi andò a meraviglia. Alle quattro del pomeriggio il tavolo era completamente ripulito, ed erano spariti anche i venti mazzi del deposito.
Il cartellone di richiamo aveva funzionato. Dovettero rifarlo, però, perché un vecchio matto con la zazzera lunga - forse un critico d'arte - se n'era incapricciato trovandolo somigliante a un Picasso «in rosa», e se l'era portato via per tre bigliettoni.
Rino e Ilario stavano smontando lo stand, quando arrivò la grossa limousine verde pisello con autista. Si fermò molleggiando davanti al tavolo - una frenata a disco: per un soffio l'utilitaria che le stava dietro, facendosi risucchiare per risparmiare benzina, non andò a spiattellarsi sul suo posteriore.
Le balestre oscillavano ancora e già la portiera si era spalancata e l'onorevole era schizzato fuori.
I ragazzi lo riconobbero. Era lui, il primo acquirente, l'ignaro ispiratore della Società dell'Asparago. Gli dovevano riconoscenza.
L'onorevole si guardò attorno con circospezione. Vide che fra le auto che sfrecciavano nei due sensi non c'erano ficcanaso - questurini, baschi blu, giornalisti - si avvicinò ai ragazzi, li prese a braccetto e saltata la cunetta li condusse sotto un fico.
Disse: «Ragazzi, parliamoci chiaro. Pensateci bene, prima di rispondere. Sono un pezzo grosso governativo - non so se mi spiego. Posso fare la vostra fortuna o farvi sbattere in un riformatorio. Fuori il rospo. Che accidenti di asparagi mi avete venduto l'altro giorno? E' chiaro che non erano comuni. Di questo avviso sono tutti i botanici, i biologi, i chimici che ho consultato…»
Rino e Ilario finsero di cadere dalle nuvole. «Come? non erano comuni? Comunissimi erano… Da noi li mangiano anche i bambini linfatici, gli scorbutici e i vecchi col mal della pietra».
«Non fate gli gnorri! A me hanno fatto uno strano effetto… Ma vi rendete conto che potevano provocare la caduta del governo?».
In verità la crisi di governo c'era stata - negli annali parlamentari è registrata come «la crisi dell'asparago».
L'onorevole Trabuchetti, membro permanente del governo, consigliere delegato di una catena di agenzie funebri, casto da circa venti anni, la sera degli asparagi rientrava nella capitale reduce di una importante riunione di partito. A livello di direzione si era discusso sulla opportunità di mantenere la crisi in sordina o di farla esplodere o di chiudere quella e di aprirne una nuova più stabile.
Viaggiava con lui miss Amalia, segretaria particolare, tutta bionda e tutta latte, di poche parole nonostante conoscesse molte lingue, esperta nel preparare code di gallo e nel fare i nodi alle cravatte.
L'onorevole Trabucchetti se la portava sempre appresso ovunque andasse, perché a stare solo pativa lo spleen. Quando il cielo era grigio e la campagna sfumava nella foschia, guardare fuori del finestrino gli provocava una sensazione inesprimibile che gli si localizzava nelle viscere strizzandogliele. Allora abbassava le tendine, accendeva la plafoniera e rivolgeva l'attenzione all'interno della vettura - più precisamente alle ginocchia di miss Amalia - e sospirava. In quei delicati frangenti, miss Amalia si apriva e stillava latte più del solito; toglieva qualche forcina dalla crocchia ammorbidendola, lasciandone scivolare civettuole ciocche; quindi prendeva a cicalare in francese - una lingua che non ha l'eguale per esprimere sensazioni opposte alla malinconia.
La sera degli asparagi, l'onorevole si fermò appena mezz'ora in casa - una villa con qualche ettaro di giardino fuori dai rumori del traffico. Aveva giusto il tempo per una lettura di prova del discorso che avrebbe fatto al parlamento in seduta notturna. Glielo aveva preparato quella testa d'uovo del dott. Musili - un uomo di qualità, capufficio di gabinetto a soli ventotto anni. Adesso il gabinetto gli andava stretto, si pensava di allargare le strutture direttive del partito istituendo una co-segreteria tecnica. Il dott. Musili sarebbe stato un co-segretario tecnico ideale di un partito proiettato nel futuro. Era ferratissimo in materia socio-economica, possedeva un fiuto politico da fare invidia a un cane da tartufi. Esile palliduccio vocetta chioccia, nessuno l'aveva mai visto muoversi dal suo posto di lavoro, dietro un'enorme scrivania, sepolto dai dati statistici quotidiani aggiornati. I dati statistici erano la sua forza: bastava mettergliene davanti due o tre con un appunto relativo a qualsiasi problema economico-politico, in un battibaleno risolveva il rebus meglio di Giuseppe l'Ebreo.
La seduta notturna si proponeva di salvare la coalizione di governo - una Wahlverwandtschaft tra cristiano-sociali - minacciata dagli attacchi bilaterali della destra e della sinistra. Salvando la coalizione si sarebbero riportate le masse sul piano dell'ordine e della legalità. Già da qualche tempo le masse si agitavano per dei nonnulla: la stabilità monetaria, l'assistenza medica diretta, la liberalizzazione dei profilattici e altri. La destra e la sinistra, con animus diversi, avevano fiutato gli umori della piazza e minacciavano di far cadere il governo sulla scabrosa questione del riassetto delle carriere dei pubblici dipendenti.
L'onorevole Trabuchetti si sentiva profondamente amareggiato. «Ma come?» si chiedeva «Non abbiamo risolto ancora il problema delle convergenze parallele e c'è gente che vuole il riassetto delle carriere. Ma si rende conto?»
Il dott. Musili, capufficio di gabinetto, aveva avuto un sorrisetto - non uno di quei sorrisi sfottenti da superuomo ma un moto vibratorio elettronico agli angoli delle labbra, e aveva buttato giù con una comune penna biro l'ancora di salvezza.
Con quel discorso in mano, l'onorevole Trabucchetti si sentiva un giocatore di poker con quattro assi serviti e un jolly nella manica. Passeggiando sul tappeto del soggiorno ridacchiava, pensando alle facce congiunte della destra e della sinistra quando avrebbe fatto scoppiare la bomba del decreto legge sul riassetto delle carriere, completo di nuove tabelle, nuovi coefficienti, nuove retribuzioni, calcoli già fatti, decorrenze fissate a scadenze semestrali - intanto l'acconto di lire milletrecento lorde.
Prima di uscire aveva fatto una leggera colazione - un consommé di pollo magro ruspante, un ovetto alla coque, due grissini, una fettina di prosciutto crudo, una coppa di fragole sciroppate e due o tre forchettate di asparagi soffritti nel burro. Mezz'ora dopo - più o meno - il presidente, fatto il conteggio dei presenti, aveva dato il via all'oratore.
L'onorevole si era levato in piedi pronunciando l'esordio di prammatica: «Onorevoli colleghi, il paese attraversa un momento estremamente delicato», quand'ecco il coso che egli credeva ormai definitivamente estinto prese ad agitarsi, quasi che suo fosse il discorso e sentisse lui il dovere di ergersi a salvatore della patria.
Mano mano che l'oratore procedeva trasportato dall'enfasi, il coso si gonfiava, cresceva, s'induriva. A mezzo discorso gli era cresciuto tanto che dovette spostarsi indietro di un passo per diminuire la pressione sulla spalliera del banco davanti. Interruppe la lettura per asciugare il sudore che gli colava copioso dalla fronte e bevve un bicchiere d'acqua minerale… Non gli accadeva da venti anni… la sua signora - una torinese di famiglia borghese del ramo tessili - aveva pazientato per una settimana; poi si era arresa al giardiniere, un ragazzo di poche parole, e infine si era stabilizzata con l'autista che l'accompagnava ogni mattina a fare compere. Agiva sempre con molta discrezione e nessuno aveva mai avuto da ridire. D'altro canto, anche gli ultimi nati rassomigliavano all'onorevole. La signora non transigeva su quel tasto: al momento culminante del rapporto concentrava il pensiero sul marito. Ed egli le era grato, di questo.
Pensò di essere vittima di un'allucinazione. Il coso gli si era fatto enorme e premeva con un rovinoso scricchiolio sulla spalliera del ministro dell'interno. La resistenza dell'oratore crollò. Impallidì, strabuzzò gli occhi, il tetto della sala cominciò a ruotargli intorno…
Il presidente fece sospendere la seduta. L'infaticabile onorevole collega di governo - annunciò con accenti commossi - era stato presumibilmente colto da un collasso cardiocircolatorio per l'eccessivo peso delle responsabilità.
Erano accorsi due inservienti, avevano agguantato l'onorevole, lo avevano disincagliato a strattoni e sollevato di peso lo avevano portato al parcheggio e imbarcato nella limousine.
Miss Amalia attendeva accovacciata come sempre nell'angolo a sinistra del sedile posteriore. Aveva la frase di congratulazioni pronta sulle labbra. La voce le si spense in un soffio, quando lo vide abbattersi sul sedile con la faccia congestionata. Intuì che qualcosa doveva essere andato di traverso. L'autista pensò al peggio, innestò la marcia e partì difilato al pronto soccorso.
A mezza strada, nei pressi dei giardini pubblici, l'onorevole chiese aria. Aveva la faccia paonazza e ansimava come un mantice. Miss Amalia aprì il vetro del finestrino. Non bastava. L'autista fermò e aprì tutti e quattro gli sportelli per ventilare l'ambiente.
A un tratto l'onorevole si scosse, con un balzo si precipitò fuori dall'auto dirigendosi di corsa verso un cespuglio di acacie. Miss Amalia gli corse dietro, preoccupata.
L'onorevole sbottonò i calzoni. Non ne poteva più: quel coso enorme pulsava ossessivo. Si avvicinò a un albero e prese a strofinarlo sulla corteccia. Miss Amalia credette che stesse facendo pipì e si voltò pudicamente da un'altra parte. Egli con un gesto imperioso la chiamò a sé. Lei vide e trasecolò: al chiaro di luna le apparve l'obelisco di san Pietro. Egli non le lasciò neppure il tempo di rimettersi dallo stupore; la stese, le strappò le mutande e glielo infilò fin dove poté - circa un terzo - tappandole la bocca con l'avambraccio per soffocare le urla. Non ci fu verso di infilarci i rimanenti terzi. Egli sperava che l'operazione avrebbe ridimensionato l'obelisco e gettò un grido di giubilo quando lo sentì venire torrentizio. Vana fu la speranza: il mostro restava tale e quale.
Fu una notte da tregenda, quella notte in casa dell'onorevole. Trattenne miss Amalia ordinandole di mettersi a bagno - non poteva abbandonarlo in un simile frangente. Entrò in camera della moglie, che dormiva. Le levò di dosso le lenzuola, l'aprì e la penetrò. Riuscì a infilarne due terzi. Lei provò un male del diavolo; sentì vampate incendiarle il viso; udì lo strappo di una lacerazione; capì di essere diventata finalmente donna e ne gioì intimamente. L'onorevole si prodigò ininterrottamente per due ore. Il mostro non diede alcun segno di cedimento.
Si mise a vagare disperato nel parco. Si chiuse nel bagno e stette mezz'ora sotto la doccia fredda, senza alcun risultato. Prese allora una decisione radicale. Si attaccò al campanello, svegliò e riunì famiglia e servitù nel salone. Si scopò singhiozzando la cuoca, la cameriera, la nurse della figlia e il precettore del figlio, la moglie dell'autista e l'autista, il vecchio giardiniere col cappellaccio e Ralf il cane da guardia, la suocera e la prozia coi baffi - chi sulla poltrona, chi sul tappeto e chi alla pecorina. Non ci fu verso di ammansire la belva.
Ritornò da miss Amalia col coso tra le mani disperato piangente. Lei lo guardò con infinita pena. Mormorò: «Sia fatta la sua volontà», e docilmente si stese aprendosi per riceverlo nel migliore dei modi. Dopo sette tremendi spintoni, riuscì a infilarlo tutto quanto. La donna sentì lo stomaco in subbuglio e una pressione sui polmoni da mozzarle il fiato. Spalancò allora la bocca e dalla gola traboccò un fiotto denso…
Rifugiatosi all'ombra del fico, l'onorevole disse: «Ragazzi, non ve ne faccio una colpa, il fatto è fatto, sono pronto a dimenticare a patto che mi diciate…».
Rino e Ilario stavano in allarme - che fosse un funzionario della sezione narcotici della questura? Si diedero di gomito e presero a recitare la commedia attingendo dai racconti del libro di lettura e dai caroselli della tivù, condendo il tutto con un pizzico di verità.
«Vossignoria ci perdoni, siamo due poveri fanciulli costretti da un triste destino - che in termini socio-economici sarebbe una situazione di sottosviluppo - a vagare per la campagna alla ricerca di cibo. Nostro padre l'anno scorso si è buscato l'artrite diventando inabile al lavoro per il settantacinque per cento; per il rimanente venticinque è disoccupato cronico. Attualmente è in attesa della pensione - don Gesuino il parroco si sta occupando di mandare avanti la pratica, il ricavato metà e metà. La nostra madre, poverina, è ricoverata da tempo in ospedale per una specie di meningite senza speranza. Il medico ha detto che è tutta colpa delle preoccupazioni, e il parroco aveva ragione a dire che non bisogna preoccuparsi perché c'è la provvidenza. Però ci vuole la fede, diversamente la provvidenza non provvede. fede in casa non ce n'è. Per questo dobbiamo provvedere noi che siamo i figli più grandi. Con il ricavato della vendita dei prodotti della campagna - asparagi, lumache, more, funghi - compriamo il latte per i nostri fratellini».
L'onorevole Trabuchetti era uomo di cuore oltre che di governo. Capì che nonostante la buona volontà del potere legislativo restavano ancora tanti problemi sul tappeto. Si ripropose di presentare, con procedura urgente, una proposta di legge per la nomina di una commissione d'inchiesta sulle condizioni dell'infanzia abbandonata nelle aree sottosviluppate. Ciò che adesso gli premeva era di rimettere le mani su un mazzetto di quei prodigiosi asparagi. No, non per lasciarsi travolgere dal vizio - il paese aveva bisogno di lui, di uomini morigerati, votati alla rinuncia, casti per dovere, che dedicassero ogni loro energia al pilotaggio della navicella dello stato, perennemente veleggiante tra le onde infide e perigliosi scogli. Gli opposti estremismi non avrebbero mai prevalso, finché uomini come lui votati al sacrificio della gestione del potere fossero rimasti al timone, col vessillo dei valori inalberato. No, non sarebbe mai venuto meno agli impegni assunti davanti al paese. Sarebbe stato un sacrilegio tradire le aspettative popolari: quando non c'è un popolo in aspettativa, la democrazia si spegne. Il guaio grosso è il problema del ricambio: il potere logora. Non c'è Sustanon che basti. Per esempio, un ministro dell'interno impegnato a difendere e a conservare l'ordine costituito consuma quasi mezzo etto di materia grigia al giorno, e anche di più in periodi torbidi. Chi potrà mai comprendere il dramma esistenziale di un ministro votato al sacrificio? Purtroppo le mogli non perdonano certe defaillances, non afferrano il meccanismo della sublimazione - creature istintive. L'uomo politico governativo appartiene alla schiera degli eletti: sublima. Un contadino è diverso: segue gli istinti e basta. In fondo, che lavoro fa? muove la zappa su e giù all'aria aperta, rassoda i muscoli, fortifica l'organismo, senza alcuna preoccupazione; poi rientra a casa fischiettando, si stende la moglie e se la scopa… Qui, per associazione d'idee, l'onorevole rivide le immagini della notte dell'asparago; ritrovò il detto latino semel in anno licet insanire e ne comprese tutta la saggezza: la necessaria valvola di sfogo per poter riprendere con più lena il lavoro. Forse pochino semel in anno. Un professore di lettere suo amico opinava che in verità il detto originario suonasse semel in mense. Niente di male neppure licere una volta la settimana - non sta forse scritto nei testi sacri: santificherai la domenica astenendoti dal lavoro?
«Insomma», concluse le sue elucubrazioni l'onorevole fissando i due ragazzi con occhi lustri - «i vostri asparagi erano gustosi, il sapore genuino della natura, capito? Sono piaciuti tanto anche alla mia segretaria. Sono disposto a pagarveli il doppio dell'altra volta. Contenti?».
I ragazzi non rispondevano, e l'onorevole credette che volessero tirare sul prezzo. Mise mano al portafogli e sfilò da una mazzetta un bigliettone da diecimila.
Rino e Ilario sgranarono gli occhi e deglutirono. Maledizione! Avevano venduto tutto il prodotto senza preoccuparsi di eventuali richieste straordinarie.
L'onorevole ormai trascinato dall'onda dei ricordi che lo facevano vibrare fin nei più intimi precordi rimise mano al portafogli. Stavolta tirò fuori una mazzetta più larga quella dei cinquantamila, e agitandola davanti alla faccia sbalordita dei ragazzi proruppe con voce rotta dall'emozione: «Sentite, voglio fare la vostra fortuna… ecco, questi soldoni sono tutti vostri se mi date un mazzetto di asparagi della specie dell'altra sera…». Temette di essersi sbilanciato troppo e aggiunse: «Non pensate a chissà cosa. Il fatto è che soffro di una fastidiosa ulcera gastrica e i vostri asparagi, forse non ci crederete, mi hanno giovato come la mano di Dio…»
Rino e Ilario capirono che potevano fidarsi - ormai quel gran signore era preso nell'ingranaggio dell'asparago, avrebbe venduto la madre per poterne avere un mazzetto. L'affare si mostrava redditizio. Dissero: «Ci dispiace veramente. Vossignoria deve sapere che abbiamo smerciato tutta la mercanzia: c'è grande richiesta sul mercato e la produzione scarseggia. Abbia la pazienza di aspettare fino a domani: i primi mazzi della produzione saranno suoi. Per stanotte si metta il cuore in pace, reciti un'Ave Maria e si addormenti buono buono. Intanto ci lasci una caparra, e l'affare è fatto. Sa, non è per sfiducia… dobbiamo far fronte a tante spese, i sigari per il vecchio babbo, il latte per i bambini, vossignoria capisce…».
L'onorevole assentì. Lasciò un cinquantamila di caparra, strinse forte la mano ai ragazzi, salì nella limousine verde pisello e fece cenno all'autista di partire - pensando che il Signore si può santificare anche di lunedì, se la domenica non è pronto il santo da portare in processione.
Qualche giorno dopo, al calar del sole, Rino e Ilario si recarono in missione da Assuntina.
Avevano discusso a lungo con la maestrina l'opportunità della visita. Era giunto il momento di allargare il giro di affari, sfruttando la congiuntura favorevole: quando nell'aia il vento soffia vispo, allora va ventolato il grano.
Assuntina abitava fuori paese, a una certa distanza dalle altre case per evitare contaminazioni. Non si stupì di sentir bussare a quell'ora tarda e aprì. Ma quando vide i due mocciosi fece per richiudere, ringhiando: «Andatevene a succhiare le poppe di vostra madre, maleducati senza rispetto!».
Rino infilò la testa nello spiraglio col rischio di farsi ghigliottinare, affrettandosi a dire: «Ma che poppare! Siamo qui per altro, messaggeri di un grosso affare».
La donna si lasciò convincere e li fece entrare. A ogni buon conto lasciò la porta socchiusa - ci sarebbe mancata anche l'accusa di corruzione di minorenni! Disse in tono sbrigativo: «Fuori il rospo alla svelta e filate via subito».
«Calma, calma, Assuntina», scandì Ilario, al quale il successo nel commercio aveva dato la sicumera del commendatore, «prima ci mettiamo comodi. Non si può parlare d'affari stando in piedi, specialmente affari come questi…». E con un gesto da nababbo appena sbarcato nella Costa Smeralda cavò di tasca una mazzetta di verdoni sventolandoli sotto il naso di Assuntina.
«Santa Rita mia bella!» farfugliò la donna sentendosi venire meno. Non ne aveva mai visto uno neppure da lontano, di quei verdoni. «Dove li avete rubati? Vuoi scommettere che avete i carabinieri dietro e volete inguaiare me?».
Parlò Rino: «Non dire sciocchezze. Fai presto a perdere la testa, tu, per qualche spicciolo. Si vede che sei una morta di fame, una sottosviluppata. Noi non siamo ladri bensì produttori. Siamo diventati capitalisti, come Rockfeller. Capisci? Abbiamo scoperto un prodotto che si vende bene nel mercato…».
«Mercato? E quale mercato? Dove diavolo l'avete trovato, voi, un mercato, qui, in questo paese di merda? Se non riesco a vendere la mia cosa per nichelino, qui…».
«Non qui, stupida, sulla superstrada. Ci passa un mare di gente danarosa. Basta trovare il modo di fermarla, e compra. Soldi a carrettate. Capisci?».
«E voi, che merce vendete? Pidocchi?».
«Questo è un segreto. Te lo diremo se concluderemo l'affare. Abbiamo pensato di allargare le vendite ad altri prodotti. Capisci? Ci sono prodotti che si associano benissimo ad altri. Per esempio, i cavoli con l'aceto, il pane col formaggio…».
«E il maschio con la femmina», concluse Ilario.
«Ho capito, sì. Non sono mica deficiente. Se lo capite voi che siete due mocciosi, posso capirlo anch'io, no? Però, che diavolo c'entro io, in tutto questo?»
«Altro che, se c'entri!». Riprese Rino «Veniamo al dunque. Noi vendiamo un prodotto che fa diventare il coso degli uomini grande, grosso ed energico. Dimmi tu con che cosa lo assoceresti quel coso?».
Assuntina pensò che i due bricconcelli stessero menando per il naso, e si inalberò: «All'accidente di vostra madre! che il diavolo vi porti».
I ragazzi non raccolsero la provocazione.
«Appunto», disse Ilario alzandosi e mettendosi a passeggiare per la stanza. Si fermò, estrasse dal taschino della giacca un pacchetto di estere lunghe triplo filtro, offrì, accese con un accendino d'oro Johnson e sbuffò una nuvola di fumo aromatico. «Appunto», riprese a dire, «ma le madri, almeno per il momento, non entrano nella faccenda. C'entri tu, adesso. Non sei ancora da mandare in pensione. Con qualche ritocco, vista in penombra… Comincerai da sola. Più avanti vedremo. Altre seguiranno il tuo esempio, quando ti vedranno piena di soldi, girare in carrozza tutta in ghingheri. Faremo soldi a carrettate. Abbiamo già studiato e programmato tutto. Ti apposterai da domani sera poco dopo la grande curva, ai margini del boschetto di lecci, vicino al cimitero. Ti consigliamo di portarti una coperta - il terreno è un po' ruvido - e qualcosa da mangiare. Il cinquanta per cento degli incassi li verserai alla Società per le spese di gestione e il rimanente cinquanta per cento lo divideremo in parti uguali fra tutti noi. Ma sia ben chiaro: se cerchi di fregarci ti togliamo la rappresentanza. Operatrici del tuo settore se ne trovano quante se ne vogliono».
Rino ritenne che per finire di convincere la donna fosse giunto il momento della incentivazione. Porgendole una decina di verdoni, disse: «Prendi, questo è un acconto. Ti servirà per far fronte alle prime necessità. Qualche abituccio, rossetti, neretti, ombretti, profumi e preservativi».
Assuntina non riusciva a capacitarsi. Prese i verdoni e li ripose nel cassetto del comò. Poi si diede un pizzicotto sotto la coscia per convincersi che non stava sognando. Aprì la vetrina della credenza e offrì agli ospiti un bicchierino di rosolio. In vena di confidenze, disse «Però, un pensierino sulla superstrada l'avevo fatto anch'io, ragazzi… Ci sono anche stata, una sera. Mi ero detta: mi metto in mostra e qualche automobilista mi vedrà e si fermerà. Aspetta e spera che quelli si fermino! Correvano tutti come matti, neppure i paracarri vedevano. Finalmente, uno si è fermato, è sceso, ha aperto il davanti della macchina e si è messo a frugare dentro, bestemmiando come un turco. Mi sono avvicinata con passo molleggiato e gli ho detto: "Che te la faresti una doppietta, bel biondino?". E lui: "Ma va a battere da un'altra parte! Capiti proprio giusta! Per colpa di questo stramaledetto motore, domani non farò in tempo a imbarcarmi volontario per il Vietnam". Dopo quella brutta esperienza, ho rinunciato».
I ragazzi ebbero un sorrisetto di compiacimento. «Ti mancava il piano di programmazione. Si vede che non conosci le teorie di sviluppo dei popoli arretrati. Adesso tutto diventerà facile, con l'organizzazione capitalistica alle spalle. Il pane non ti mancherà e neppure il companatico. Intanto, vedi se ci sono vocazioni in giro. Al reclutamento pensiamo noi. Tu da sola non potrai reggere tutto il peso degli affari che ti verranno addosso».
«A proposito del daffare», intervenne Rino, «per metterti alla prova, ti verremo addosso noi. Distenditi e rilassati. Intanto accendiamo il fuoco».
Assuntina obbedì senza capire le intenzioni dei ragazzi - stava sotto l'imperioso dominio dei verdoni che gonfiavano le loro tasche - e qualunque ordine le avessero impartito lo avrebbe eseguito ciecamente.
Rino e Ilario accesero un focherello nel camino. Presero un mazzo di asparagi e li misero ad arrostire sulle braci. Li mangiarono man mano che indoravano.
La donna seguiva la scena esterrefatta: «Ehi, dico, che fate? Vi mettete ad arrostire e a mangiare asparagi qui, a quest'ora? Io dico che siete un po' tocchi, voi due».
«Chiudi il becco, femmina. Tra poco te lo faremo vedere noi, l'asparago. E levati di dosso quello straccio di gonna…» si voltò a dire Rino.
«Ohi, ohi! Non vi sarete messi grilli in testa, voi due?!». Ridacchiò vedendoli aprirsi i calzoni, e stava per aggiungere: «Ma l'avete il pisello?» quando vide apparire due cosi enormi molleggianti. Trasecolò, si segnò, esclamò: «Gesù Giuseppe Maria! Di tutti i colori credevo di averne visto, ma due cosi così, neppure in sogno…».
Si prodigò come una mamma per calmare i due insoliti pargoli. E non fu fatica da poco. Albeggiava, quando distesa, sfinita, coi due lupacchiotti attaccati al seno, si commosse e provò un grande bisogno di aprirsi anche nell'animo.
Rino e Ilario annotarono scrupolosamente le confidenze di Assuntina per conto della maestrina, che si era messa in testa di costituire un fascicolo personale riservato per ciascun membro della Società dell'Asparago Spa.
«Nella mia vita c'è molto da piangere e poco da ridere. Forse pensate che sia nata così. Invece no. Non si nasce bagascia, lo si diventa. Si può nascere ricchi o poveri, questo sì. Io sono nata povera. Sono stata ragazzina come voi e anche io ho cominciato a lavorare presto, per sfamarmi e coprirmi. A diciassette anni mi hanno sposata a un vecchio che aveva quindici anni di miniera e - dicevano - aveva messo da parte un bel gruzzolo. Altro che soldi! in miniera aveva preso la malattia dei polmoni e dopo un anno rimasi vedova.
Essere vedova aveva i suoi lati buoni. Potevo uscire da sola, scambiare qualche parola con gli uomini, perfino entrare nella bettola a bere una gassosa. Una vedova non ha più onore proprio da conservare e non ha onore di marito da rispettare. Perciò nessuno trovava da ridire vedendomi rincasare dopo il tramonto o se qualche volta mi lasciavo tentare per arrotondare la pensioncina e per rompere la solitudine. Chi la vuole una vedova? Soltanto un altro vedovo che abbia figli piccoli la sposa per avere una serva in casa. Eppure non ero e non sono da buttare via, a trent'anni passati. Non sono sformata dai figli - il destino non me ne ha mandato - ho ancora il ventre piatto come una ragazzina. Da quel lato, mio marito buonanima mi toccava una volta la settimana, quando tornava dalla miniera. Rientrava il sabato sera, si cambiava e usciva per incontrarsi coi compagni nelle osterie. Rincasava ogni volta all'alba, e cantava perché aveva il vino buono. Si svegliava la domenica a mezzogiorno, mi chiamava e faceva il suo dovere in quattro e quattr'otto. Si alzava e sedeva a mangiare. Quindi prendeva il tascapane, montava in bicicletta e fatto il giro di saluto alle bettole e ai compagni ripartiva in miniera. La disgrazia della malattia è venuta dopo un anno di questa vita. Avevo diciotto anni, ma con la casa intestata a nome mio ho tirato avanti senza dovermi inginocchiare a nessuno.
Mi piace vivere libera, vedere gente, leggere romanzi e andare al cinema. Ci vado tutte le domeniche, al cinema, sul tardi, quando esce l'infornata dei ragazzini. Mi siedo sempre nell'ultima fila, per vedere tutta la gente senza essere vista. Mi pulisco, mi vesto e mi porto bene come una signora, e le sedie di fianco alle mie non restano mai vuote. Gli uomini dicono: gallina vecchia brodo saporito. Io invece preferisco i giovani, anche se sono timidi. Quando qualche ragazzo mi si siede vicino per incoraggiarlo gli offro una mentina.
Qualche volta mi accompagna Marta, una mia cugina maritata di fresco. Passo a casa sua e vedo di che umore è. Se è allegra si mette a friggere pasta frolla zuccherata; se è nervosa veste lo scialle e se ne va in chiesa; se è triste viene con me al cinema. Ha marito per modo di dire, perché è emigrato in terra straniera a scavare carbone. Le manda trentamila lire al mese, tutto ciò che risparmia. Quindici per la vita e quindici da mettere in un libretto per fare la casa. Lei stringe sulla vita e altre cinque le conserva in un altro libretto. E' partito una settimana dopo i rosoli. Figli non ne possono fare - e come potrebbero, lontani l'uno dall'altra? E se anche potessero, dove li metterebbero senza casa? Se tutto va bene dove lui lavora, in sei o sette anni mettono su casa e possono cominciare a fare figli. Sono fortunati, perché hanno già il pezzo di terreno da fabbricare, appena fuori dal paese, dalla parte dell'oliveto di don Ernesto. E' un posto buono, lontano dalle paludi, ci arrivano poche zanzare e quando soffia il ponente la puzza delle carogne quasi non si sente. In più, ci abita gente povera ma onesta che all'occorrenza dà una mano al vicino - non è come certa altra gente che se vede un disgraziato rotolarsi per terra con le coliche neppure si ferma.
L'altra domenica, al cinema davano una bella storia d'amore. A un certo punto, Marta si è messa a piangere. Anche io sento un nodo alla gola quando lui parte e lascia lei sola, poverina, e si salutano e si baciano senza potersi staccare; ma non pensavo che Marta si commuovesse fino a quel punto. Mi sono detta: il pensiero del suo uomo lontano... si sarà immaginata con lui nella settimana trascorsa da sposina prima della separazione. So che fa bene vuotare il sacco e le ho detto: "Piangi pure e sfogati con me, che sono donna anch'io". Lei si è messa a piangere più forte. "Dimmi sinceramente la tua pena; non sarà che hai desiderio del tuo uomo? Eh sì, ti capisco: quando si è provato non è facile farne a meno". Marta mi ha guardato scandalizzata: "Cosa credi? Io non ho provato proprio nulla, sai; sono ancora vergine".
Dovevo sospettarlo. I nostri uomini sono smaliziati nelle faccende di cuore. Rischi non ne vogliono correre con la loro donna. Immaginai le riflessioni dell'uomo di Marta, la notte dei rosoli: fra una settimana io partirò e lei resterà sola e indifesa, chissà per quanto tempo, in mezzo ai pericoli. Se lei l'assaggia, dopo non saprà più trattenersene e non ci sarò io vicino per soddisfarla. L'uomo è cacciatore e la donna ha ginocchia deboli. Io la rispetto e resta vergine. Così starò tranquillo sul conto suo: al mio rientro avrò una base sicura di controllo. Per me non mi preoccupo; troverò sfogo nel posto dove andrò; lì le donne sono tutte bagasce, e per un uomo non è disonore, figli a casa non ne porta.
Era andata precisamente come avevo immaginato. Marta all'uscita del cinema, passeggiando lemme lemme mi raccontò tutto. La prima notte di nozze l'aveva spogliata fino alla camicia. Le aveva tirato fuori le mammelle, l'aveva abbracciata e se l'era fatto da solo. Prima di tirarselo fuori aveva spento la luce, perché lei non vedesse com'era fatto e non si mettesse grilli in testa. Voleva partire disteso e rinfrancato, per ciò aveva goduto a quel modo due volte al giorno per tutta la settimana.
Per consolarla, dissi: "Devi essere orgogliosa di avere un uomo che sa il fatto suo. Hai appena sedici anni, ne hai di tempo per farti ingravidare". Marta si era scandalizzata di nuovo: "Cosa credi? Neppure ci penso, io, a quelle cose, non sono di testa leggera. Figurati. Mi sono commossa senza un motivo preciso". Visto che era così senza malizia, ho lasciato cadere il discorso.
Da ragazzina ne ho viste di tutti i colori. Eppure non ci sono cascata mai, perché il dovere di una donna è di conservarsi intatta per l'uomo che la sposerà. Adesso per me è diverso, sono vedova e non devo badare all'onore di nessuno. Sono libera, eppure provo un certo rimpianto di quando ero ragazza, con l'orgoglio di avere una cosa importante da difendere dalle centomila astuzie dei diavoli che entrano in corpo ai maschi. Se ci ripenso mi viene da ridere. Un riso con lacrime, però. Ripenso spesso al signorino Raimondo, il figlio dei signori dove sono stata a servire. La sua vita era come la vita di certi poeti che ho letto: piangono sulla loro giovinezza passata a studiare e a fantasticare... Il signorino Raimondo era di famiglia nobile. Si fece prete e a quest'ora dev'essere almeno vescovo... Se ripenso alla sua storia mi viene da piangere...
Si era fatto tardi. Rino e Ilario dovevano correre a scuola. Erano quasi le nove. All'ora della ricreazione avrebbero riferito alla maestrina l'esito della missione.
Rino disse: «Se tutti i poeti che hai letto avessero avuto un mazzetto dei nostri asparagi di tanto in tanto, non se ne sarebbero rimasti a rimpiangere la giovinezza…»
E Ilario concluse: «La storia del signorino Raimondo ce la racconterai la prossima volta. Adesso dobbiamo proprio andare. Il tempo è denaro - come diceva il nostro maestro Rockfeller. Battendo l'autostrada vedrai che te ne capiteranno tante che avrai da raccontarne diffilate per un anno. E chissà che un giorno o l'altro non ti capiti di incontrare il tuo vecchio padroncino, magari vestito da vescovo. Potrebbe anche tornare utile alla nostra Società…»
Il consiglio degli anziani si riunì nella bettola di ziu Crisantemu per esaminare la situazione che si era venuta a creare in paese con la Società dell'Asparago. Fatto strano, da un po' di tempo circolavano più soldi ed erano apparsi per la prima volta alcuni verdoni, senza che nessuno sapesse dire da dove fossero piovuti. Il brigadiere Foschi ronzava per le bettole e per i vicoli fiutando come un cane da lepre.
Nulla sfugge alla gente, e chi sa ha il dovere di riferire al consiglio degli anziani. Dunque, erano due mocciosi i diffusori di verdoni. Si erano dati al commercio degli asparagi e avevano fatto soldi.
Ziu Anselmu disse: «Secondo me sono matti quei forestieri che passano nella superstrada, comprare quella roba che non vale nulla. Comprassero agnelli e capretti…»
«Io dico che non sono scemi. Se li pagano bene vuol dire che ci trovano qualche utile. Può anche essere che servano come medicina. La buonanima di mio nonno guariva ogni genere di malattia con impiastri di foglia di cavolo cappuccio…» disse ziu Girolamu, di idee socialiste e grande ammiratore delle gesta di Garibaldi in Gallura. E aggiunse: «Però, che teste fini, quei ragazzini. Con un commercio ben avviato sulla superstrada si potrebbero risolvere i nostri problemi».
Ziu Bissenti fece il punto della situazione. Disse che Rino e Ilario facevano onore al paese - bisognava ammetterlo. Il paese non mancava di santi taumaturghi, i quali seppure di origine forestiera erano ormai di casa; ma non aveva dato alla luce nessun cittadino illustre. Circolava la voce che Rino e Ilario si fossero dati alla bella vita, insidiando la castità delle fanciulle. E questo non deponeva a loro favore. Comunque la faccenda andava vagliata attentamente. Il principio della moralità delle femmine era fuori discussione, però i soldi sono sempre soldi. A conti fati, il consiglio degli anziani poteva esprimere un giudizio positivo e sostenere moralmente l'iniziativa dell'asparago.
Ziu Luiginu scosse il capo: «Io dico attenzione! Ci stiamo lasciando trascinare dal demonio. Poveri sì ma onorati. Non potranno certo andare in giro chiamandoci eretici, quegli eretici dei paesi vicini! La tradizione è sacra. La via dove siamo sempre passati l'abbiamo conosciuta dai nostri vecchi ed è quella su cui dobbiamo continuare a passare. E non dimentichiamo la legge del brigadiere, che ci siamo impegnati a non ostacolare perché è più forte di noi…»
Il richiamo al rispetto delle tradizioni strinse a coorte gli anziani della destra, che presero a borbottare e assentire col capo.
Da sinistra si levò ancora la voce di ziu Girolamu: «Un conto è la legge che viene da fuori, fatta da gente ricca che teme la concorrenza dei poveri; un altro conto è il giudizio nostro e della nostra gente. Guardiamo i fatti e lasciamo da parte le belle parole».
Dall'affare dell'asparago - non c'era dubbio - il paese aveva tratto non pochi benefici. Era aumentata la produzione del pane; durante la settimana erano state macellate tre pecore in più delle normali cinque; la vendita dei sigari e del trinciato era aumentata vertiginosamente. La gente mangiava di più e i vecchi fumavano di più. Circolava più denaro. Più ne circolava e più facile era acchiapparne.
Il dibattito stava prendendo una piega riservata. Ziu Bissenti, il presidente di turno, propose l'allontanamento del parroco. Con diplomatica cortesia, come vuole il rispetto per Santa Madre Chiesa, disse: «Reverendo, a Cesare quel che è di Cesare e ai preti quel che è dei preti. La faccenda che abbiamo tra le mani comincia a puzzare? Pazienza per noi, ci siamo abituati, più di quanto siamo sporchi non possiamo sporcarci. Per lei, reverendo, è diverso. Le sue mani sono pulite, sante e benedette. Ascolti il nostro filiale suggerimento: se ne vada in chiesa e si tolga dalle palle. Ne abbiamo tanto bisogno per dipanare secondo giustizia l'ingarbugliata matassa».
Il parroco capì che il consiglio aveva intenzione di tramare chissà quale machiavello fuori del raggio di vista del buon Dio. Doveva rispettare le tradizioni, e fece buon viso a cattivo gioco - avrebbe mandato il chierichetto a spiare e a tempo debito sarebbe intervenuto. Disse: «Parole sante, Bissenti: lo Spirito Santo vi illumini!».
Uscito il parroco il consiglio votò approvando all'unanimità la mozione che respingeva la proposta di collaborazione con il brigadiere. Che lui facesse le sue indagini e applicasse le sue leggi - era pagato per quello. Loro avrebbero giudicato dal punto di vista dell'interesse del paese.
«Guardiamo i fatti», disse ziu Girolamu estraendo dalla tasca un mazzo di sigari che distribuì ai presenti. Si tenne l'ultimo per sé, l'accese con gesto solenne, ne succhiò completamente l'aroma, quindi rivolto all'assemblea disse: «Ecco, questo è un fatto. Vediamo gli altri fatti e che ce ne viene in tasca. Dopo daremo il giudizio».
Ziu Kalloneddu chiese la parola. Disse: «Il grado di parentela non c'entra, sapete che sono nonno materno di Ilario, la giustizia è giustizia, non guarda in faccia nessuno. Devo dire comunque che il ragazzo si comporta bene in famiglia, educato e rispettoso. Quando ha un soldo in tasca non lo sperpera in caramelle e figurine come fanno altri ragazzi. Un sigaro ogni tanto me lo regala - non lo poso negare. E quando c'è da pulire il mondezzaio del cortile è sempre pronto.
L'altra sera ho fato i novantasette anni. Io neppure me ne ricordavo ma lui sì. Me ne è arrivato di sera tutto dolce e mi ha detto: «Nonno bello, ho una sorpresa per te, un regalo che neanche te lo sogni». Io ho pensato a un paio di scarpe nuove, sono trent'anni e più che me lo sto sognando. Ho detto: «Eh, nipote bello, vediamo questa sorpresa… purché non sia qualcuna delle tue burle. Già ti conosco, briccone!» E lui mi dice: «Ma no, nonno bello, cosa pensi mai. Vieni con me e vedrai».
Mi sono messo lo scialle di lana pesante sulle spalle del cappotto, ché la notte era umida, e l'ho seguito nell'oliveto di don Ernesto, fino ai margini della superstrada - che il diavolo se lo porti! C'era un fuoco acceso e gente forestiera seduta intorno arrostendo asparagi. Mi sono detto che dovevano essere scappati da un manicomio, mettersi a merendare asparagi a quell'ora. Ho detto a Ilario: «Che ti possa rincorrere il Bogino! dove demonio mi hai portato? non ti sarai messo su una cattiva strada? Non saranno banditi forestieri preparando qualche brutta rapina? Portami via subito da qui, altrimenti ti spolvero le idee matte dalla testa col mio olivastro!» Lui si è messo a ridere come un matto: «Ma no, nonno bello, questa è tutta gente perbene, avvocati, professori, ingegneri, dottori, onorevoli. Cosa vai a pensare?! Mangia anche tu un paio di asparagi, bisogna stare in compagnia, altrimenti si offendono. Mangia, che dopo ti faccio il regalo». Il dovere dell'ospitalità è sacro; anche se svogliato ho mangiato anche io sette otto asparagi.
Stavo aspettando come un babbeo, ascoltando le chiacchiere di quei signori forestieri, quando ho sentito nelle brache una cosa che frusciava. Già non mi sarà entrata una biscia nei calzoni? - ho pensato. Quando succede, già lo sapete, bisogna acchiapparla prontamente al collo e stringere per soffocarla prima che possa mordere. Così ho fatto. La tenevo ferma, gridando: «Ilario! Nipote mio bello! Corri, che ce l'ho stretta al collo, abbassami i calzoni - maledetta biscia!» E lui, ridendo a crepapelle: «Aspetta, nonno bello, aspetta che adesso ti mando subito aiuto!» E' corso via tornando subito dopo con Assuntina la bagascia. Neppure la riconoscevo, tutta vestita di organdi pizzi e fiocchi come una cavalletta per la festa di sant'Isidoro…
Tutta la notte combattendo con quella biscia… Dal millenovecentotrentasette ero… che non ricordavo più di averla. Eh, nipote mio benedetto! Chi poteva immaginarsi un regalo così?! Che Dio gliene renda merito nell'altra vita».
Il consiglio degli anziani aveva ascoltato la testimonianza di ziu Kalloneddu con religiosa attenzione. Molti avevano gli occhi lucidi di commozione.
Ziu Bisenti, presidente di turno, ruppe il silenzio. Disse: «Io sono come San Tommaso: vedere e toccare per credere. se siamo d'accordo, questa sera sul tardi, quattro o cinque di noi andiamo e facciamo un sopraluogo nell'oliveto per appurare la verità. Chi vuole venire alzi la mano».
Alzarono la mano tutti, anche ziu Battista, paralitico dalla guerra di Libia, che si faceva portare sulla sedia a rotelle dalla nipote Bonarina.
A un mese di distanza dall'entrata di Assuntina nel giro dell'asparago, il registratore di cassa installato dalla maestrina cominciò a segnare incassi favolosi. Stipata e sprangata la credenza, dovettero sgombrare la cassapanca dell'ingresso e fornirla di chiavistello.
I membri della Società dell'asparago si riunirono in seduta straordinaria dopo il telegiornale della sera.
Per giustificare l'assiduità dei loro incontri, la maestrina aveva deciso di scoprire nei suoi due scolari una straordinaria attitudine allo studio delle matematiche. Aveva mandato a chiamare a scuola i genitori e aveva dato loro la buona notizia. Era necessario far proseguire gli studi ai due meritevoli figlioli: sarebbero diventati due ottimi ragionieri. Certo, mancavano di basi: ci avrebbe pensato lei, un'oretta ogni sera. Gratis, naturalmente. Un sacrificio che lei faceva volentieri per aiutare due ragazzi poveri. I genitori trasecolarono, guardandosi l'un l'altro, senza potersi capacitare d'aver generato due futuri ragionieri. Alla parola «gratis» si erano rinfrancati e avevano benedetto quell'angelo di maestrina - l'importante era levarsi dai piedi due mangiapane a tradimento; se oltre le lezioni private la maestrina avesse dato loro anche la cena tanto di guadagnato.
Più difficile giustificare la presenza di Assuntina. Una bagascia - anche se la comunità le riconosce una funzione di pubblica utilità - è una pecora nera da tenere fuori del gregge. Soltanto Madre Chiesa, forte della esperienza della Maddalena, poteva avvicinarla senza contaminarsi, al fine di sciogliere lo sporco, candeggiarla e reintegrarla nella comunità. La maestrina puntò sulla carta della redenzione. Faceva parte della Associazione delle Dame di Carità, di cui era segretario il vice parroco don Antonio, un prete giovane moderno, aperto alle ventate di rinnovamento - fumava, beveva, parlava di politica. Alla prima riunione la maestrina portò il caso di Assuntina. Negli scopi statuari della Associazione rientrava anche la redenzione delle peccatrici. Se si fossero prodigate, con l'aiuto di Maria Ausiliatrice, Assuntina sarebbe stata tratta a salvamento. Le dame avevano arricciato il naso. Erano dell'avviso che la vecchia bagascia fosse irrecuperabile - un conto era la Maddalena, peccatrice ancora fanciulla, per non parlare delle capacità redentive del Divino maestro neppure lontanamente equiparabili a quelle in loro possesso. Il vice parroco don Antonio si schierò dalla parte della signorina Myriam, elogiandone lo zelo apostolico. Spiegò che sulla questione delle capacità di redimere una pecorella smarrita, chi redime riceve una speciale grazia e diventa in pratica un tramite dello stesso Divino Redentore. Citò due o tre massime in latino che finirono per convincere l'assemblea, che demandò alla maestrina il compito. Don Antonio si impegnò a visitare redentrice e redimenda almeno due volte la settimana.
Alle nove di sera, dunque, ebbe inizio in tutta tranquillità la seduta straordinaria. Al primo punto nell'ordine del giorno figurava la relazione di Assuntina.
Era ringiovanita di dieci anni. La pelle le si era tesa e rinnovata sulle ossa, rimpolpate dalle bistecche di manzo; le mammelle le si erano rassodate; si pavoneggiava inguainata in un abito di velluto cremisi ampiamente scollato e olezzava come gli aranceti in fiore dei giardini di Milis.
Disse che gli affari andavano a gonfie vele. Allettati dal prodigioso asparago, gli uccelli calavano a stormi invadendo l'oliveto alla ricerca di nidi: una vera e propria crisi degli alloggi. Lei si faceva in quattro, coadiuvata da Rita, Silvia e Donatella - tre studentesse pendolari che frequentavano le superiori in città: sul tardi avevano lezioni di attività pratiche e con ciò buoni motivi per assentarsi senza destare sospetti. Una fatica improba, alloggiare la crescente e pressante marea di volatili. Urgeva provvedere.
La maestrina aveva studiato le teorie relative allo sviluppo economico nelle società capitalistiche, e le teneva a mente. Avvertì che si stava scivolando sulla china dell'inflazione. Propose di diminuire la produzione per alleggerire il mercato. Per non diminuire i profitti avrebbero aumentato i prezzi.
Rino e Ilario, pur non avendo studiato, avevano una esperienza pratica di commercio. Sostennero che aumentare i prezzi sarebbe stato pericoloso. Avrebbero creato un mercato d'élite. Soltanto pochi privilegiati avrebbero potuto accedere all'asparago. Non si opponevano soltanto per una ragione di carattere ideologico: contraendo eccessivamente le vendite si sarebbe finito per diminuire i profitti. Il ferro andava battuto finché era caldo: piangeva loro il cuore di interrompere il flusso di verdoni che riempiva la cassapanca. Proposero di portare a due i posti di vendita - avrebbero reperito un altro tavolo da cucina e loro due si sarebbero divisi per dirigere ciascuno un mercato. Infine, si sarebbe dovuto aumentare il numero delle prestatrici d'opera che avrebbero lavorato sotto la direzione di Assuntina.
Assuntina si associò a Rino e Ilario. Disse: «Non ci sono soltanto studentesse, che, d'altro canto, forniscono una manodopera occasionale. Occorrono lavoranti fisse, che conoscano il mestiere. Tra le Figlie di Maria qualche vocazione ci sarebbe, ma bisogna attendere che maturino. Ci sarebbe di pronto una mia cara e vecchia amica di gioventù, Sandrina, che esercita nel paese vicino…»
Rino e Ilario avrebbero preferito non assumere manodopera fuori paese - i benefici della Società dovevano ricadere in loco. Un principio su cui non intendevano transigere.
La maestrina comprese ma non approvò l'amor patrio dei ragazzi. Disse che i popoli capitalisti, in quanto ricchi non lavorano ma fanno lavorare gli altri popoli, attingendo appunto nei serbatoi dei morti di fame che si disseminano un po' dappertutto.
Restò deciso che Assuntina si sarebbe recata il giorno dopo con la prima corriera da Sandrina per ingaggiarla come salariata fissa, senza percentuale sugli utili.
Prima di dichiarare chiusa la seduta, la signorina Myriam chiese informazioni di carattere confidenziale su Sandrina - più che mai fissata nell'idea di creare uno schedario tipo scolastico con i «fascicoli personali riservati».
Assuntina che aveva un debole per le confidenze, prese la parola e la tenne fino a notte tarda.
«Sandrina aveva un anno più di me, ma meno giudizio. Gambe slanciate da puledra, soda di fianchi e di poppe, sorrideva con le fossette alle guance. Gli uomini le ronzavano attorno come api al miele. Lei si era montata la testa - una testa piena di quella segatura dove fanno nido i grilli. Io glielo dicevo spesso: «Non farti incantare dalle belle parole dei maschi, sono tutti uguali, se non guardi dove metti i piedi, inciampa oggi inciampa domani, finirai per rompere la brocca». Si era messa a fare l'amore con Girolamo, uno che aveva la licenza dell'Avviamento, si classificava intellettuale e perciò non lavorava.
Girolamo se ne stava in piazza tutto il santo giorno, da un bar all'altro, come un gran signore. In attesa di partire per il servizio militare succhiava la pensioncina della madre vedova di guerra. Mica tonto, lui, andare a zappare grano o a pascolare pecore! Partito che fosse, l'avrebbero rivisto col cannocchiale in paese! Sarebbe tornato, sì, ma soltanto a bordo di una spyder rossa, col grado di ufficiale dei paracadutisti.
Sandrina si era lasciata incantare da quelle fanfaluche. «Tu sei diversa, non sei di razza tonta, ti voglio bene e appena sistemato tornerò a prenderti. Ti porterò in città, ti farò vivere in un palazzo dieci volte più grande del municipio, diventerai una gran dama piena di braccialetti e collane...»
Per fare le sue chiacchiere, Girolamo portava Sandrina dietro il muro del cortile. Lei aveva perso il lume della ragione, sognando il paradiso. Quando tutti dormivano, si alzava in silenzio, metteva uno scialle sulla camicia da notte, saltava la finestra del cortile e lo raggiungeva dietro il muretto.
Girolamo parlava parlava fin quando lei stanca frastornata socchiudeva gli occhi. Allora lui le infilava una mano sotto, la faceva avanzare lemme lemme e tentava di acchiappargliela.
Sandrina, che del tutto rimbecillita non era, gli fermava la mano e gliela rimetteva a posto, dicendo: «Continua a parlare della città, del nostro palazzo, della bella vita che mi farai fare, dei vestiti che indosserò, delle pietanze che mangeremo... mi piace tanto sentirtene parlare. Le mani, però, tienitele in tasca». E sospirava, riaccucciandosi sonnacchiosa con la schiena appoggiata al muretto.
A quel punto Girolamo si risentiva. «Ma come!? questo è il bene che mi vuoi? questa è la riconoscenza per tutto ciò che ho in mente di fare per te? No, tu non mi vuoi bene e non hai fiducia in me». E Sandrina replicava: «Certo che ti voglio bene, ma fiducia non ne ho perché non bisogna averne. Una cosa è l'amore e un'altra è la fiducia». Girolamo si innervosiva e faceva lo scandalizzato: «Ehi, dico! che malignità vai pensando? Io ti rispetto, sai, come una santa. All'altare di mattina, col velo bianco e davanti a tutta la gente, ti voglio portare!» E Sandrina: «Appunto per questo devi tenere le mani a posto». Girolamo borbottava: «Ma guarda tu che sospettosa! Io non desidero fare altro se non ciò che è lecito. Basta fermarsi in tempo. Capisci?» E la riabbracciava: «Vedi, noi stiamo abbracciati così, buoni buoni; che male c'è?»
Riprendeva allora a dipingerle il paradiso e a stringere e a palpare, strofinandosi come un gatto in fregola. Si faceva venire brividi, sussulti e stridore di denti come chi è preso da un attacco di febbre quartana. Sandrina se ne preoccupava e allentava le difese: «Cos'hai, bello mio? cosa ti succede? eh, ma tu stai male davvero!» E lui, con voce flebile: «Niente, non è niente... solo un male passeggero. C'è che la voglia naturale è troppa, ma preferirei morire che mancarti di rispetto. Per questo mi viene la crisi. Tu non puoi capire».
Quell'anima candida di Sandrina se lo prendeva allora tra le braccia e se lo coccolava e carezzava come una mamma: «Perché non ti fai visitare dal dottore? Tu devi averci una brutta malattia nervosa, bello mio». E il bellimbusto: «Ma no, è un fenomeno di natura, non capisci?». Sandrina non capiva, allora lui spiegava: «Bisogna giocare la natura, per darle sfogo», quindi lo tirava fuori e glielo strofinava tutt'intorno - dentro no, quando mai?! All'altare col velo bianco e i fiori d'arancio l'avrebbe portata...».
E gioca la natura oggi e giocala domani, Sandrina se l'era ritrovato dentro restando con la fune al collo. Girolamo a quest'ora avrà pure i gradi di generale, che la vocazione dello sfaticato c'era, ma in paese non è più tornato.
Don Antonio era uomo di parola. Un prete raro, da quel punto di vista. Si poteva dire anzi che nelle faccende che gli stavano a cuore manteneva più di quanto non promettesse. Per seguire da vicino il processo redentivo moltiplicò le visite alla maestrina. Nacque così tra loro una tenera amicizia.
La signorina Myriam e don Antonio trascorrevano insieme le ore morte del pomeriggio, quelle normalmente dedicate alla siesta. Il caffè coi biscottini dava il via alla conversazione; il marsala coi crostini imburrati la chiudeva.
Due anime espansive, bisognose di affetto - così si definivano - precipitati in un piccolo mondo sperduto e povero di spiritualità - così definivano il paese. Li accomunava lo stesso ideale missionario; il maestro è un po' sacerdote e viceversa - lo sosteneva anche l'articolo sette della Costituzione.
Don Antonio poteva considerarsi un prete rivoluzionario, pur senza trovarsi in contrasto con la storia, l'ideologia, la gerarchia, la prassi e i dettami di Santa Madre Chiesa, in quanto egli concepiva la rivoluzione come la crescita di un tenero germoglio nel robusto ceppo originario. Da tenero ideale germoglio sarebbero pollonati innumerevoli rami che avrebbero costituito il fronzuto albero della nuova chiesa. Di quale specie e varietà dovesse essere il germoglio da innestare, don Antonio non sapeva ancora con precisione - ci stava pensando.
Di questo interiore travaglio fece parte alla maestrina. Uno degli attributi del rivoluzionario germoglio era la gioventù. Per uscire fuori dai simboli, era necessaria la presenza della chiesa tra i giovani. Per esempio: oggi, i giovani fanno politica. Ergo, la chiesa deve fare politica con i giovani. se li si lasciasse soli a fare politica, chissà dove andrebbero a finire. Ma come arrivare ai giovani, divenuti scettici materialisti? Come fare per accattivarsi la loro simpatia e la loro fiducia? A queste domande, don Antonio aveva risposte ben precise e un programma di aggancio.
«Le nuove generazioni sono quelle che contano», assentiva la maestrina, forte della esperienza che si era fatta con l’attenta lettura delle Circolari ministeriali, «perché i giovani sono gli adulti di domani».
«Sì, ma che cosa vogliono i giovani?» chiedeva il vice parroco inzuppando il biscotto nel caffè. E si rispondeva: «Vogliono prima di tutto lavorare, farsi una posizione. Dopo lavorato, divertirsi santamente… lo sport, la musica, la radio, la tivù, gli scacchi - ha visto quanta passione per gli scacchi da qualche tempo? - e specialmente il teatro…»
Il pilastro portante della programmazione d'aggancio era il teatro. Con il teatro si potevano fare un mucchio di cose: tenere unito un gruppo, lanciare messaggi e ammonimenti morali e sociali senza fare politica, creare un dialogo con la comunità e infine raccogliere quattrini con la vendita dei biglietti. Il teatro era per don Antonio come quei motorini tedeschi «tuttofare», con base combinabile a centomila accessori, che di volta in volta diventano trapano, macinacaffè, sega, spruzzatore, lucidatrice, frullatore e così via.
In paese mancava un teatro - per la verità mancavano anche le fognature, l'ambulatorio e un servizio per la raccolta delle immondezze. La sala parrocchiale era quanto mai angusta, non si prestava alle scenografie moderne e poteva contenere si e no un centinaio di spettatori. Per edificare un teatro decente occorrevano molti milioni - quarantasette, secondo un calcolo approssimativo - che si sarebbero potuti raggranellare con l'aiuto di qualche buona anima del parlamento.
Nel giro di qualche settimana don Antonio si era accorto che la maestrina era al centro di un misterioso traffico e che nell'aria di casa stagnava olezzo di verdoni. L'intuito femminile aveva convinto la signorina Myriam della utilità di aprirsi al vice parroco: la Società dell'Asparago avrebbe potuto avere un prezioso collaboratore, forse anche un nuovo socio.
La maestrina si consultò con gli affiliati in una riunione straordinaria intorno al tavolo di cucina appena sparecchiato.
Rino e Ilario si mostrarono decisamente contrari all'idea di mettere a parte del loro segreto un prete - figuriamoci poi farlo entrare nella Società! D'accordo, si trattava di un prete rivoluzionario, niente affatto barbogio, che non obbligava i ragazzi a frequentare le lezioni di catechismo… ma sempre prete era.
Assuntina si schierò con la maestrina. Disse: «Amici della consorteria!» - avrebbe voluto usare il termine soccida, ma già un paio di volte la maestrina l'aveva corretta, perché tale sostantivo andava bene per allevatori di bestiame non per capitalisti - «Non è tutto oro quel che luccica, ovvero due più due non sempre fa quattro. Nessuno meglio di una come me può dire che cosa è un prete. Vi parlo per esperienza. Ho avuto occasione, più volte, di raccogliere le confidenze di don Antonio. Ci sono momenti nella vita di ciascuno in cui tristezza e sconforto macerano la coscienza, e allora cerchiamo disperatamente conforto in un contatto umano. In quei momenti, non rari, sono molti gli uomini che vengono a bussare alla mia porta. Liberato il corpo dalle sue esigenze, anche lo spirito è pronto a vuotarsi… Oh, se sapeste come io so le tristi vicissitudini di don Antonio!… All'età di tre anni, poverino, perse la mamma che adorava e venne chiuso in un orfanotrofio…»
Rino e Ilario capirono che Assuntina non avrebbe esitato a raccontare la vita romanzata del prete, per convincerli. Cascavano dal sonno, la giornata era stata faticosa; non desideravano altro che andarsene a casa e stendersi al calduccio sulla stuoia davanti al camino. A conti fatti, la mente direttiva era la maestrina. Se lei aveva proposto l'inserimento del prete nella Società, doveva certamente sapere quel che faceva. A parte ciò, arrivavano a comprendere anche da soli che la presenza dell'autorità religiosa rendeva sacra l'organizzazione - era come un parapioggia aperto che li avrebbe riparati da eventuali precipitazioni.
Parlò Ilario dopo essersi velocemente consultato con Rino. Disse: «Siamo disposti a ritirare il nostro veto. A patto che don Antonio venga coinvolto in modo diretto nel giro».
La signorina Myriam non afferrò il concetto della clausola. Disse: «Coinvolto come? Una volta che accetta di fare parte della Società come azionista è automaticamente coinvolto, no?»
Intervenne Rino: «Non basta. Deve fare il battesimo dell'asparago. Una prova da farsi davanti al consiglio. Dopo potrà considerarsi veramente un socio. Siamo anche disposti a esaminare favorevolmente l'idea del finanziamento per la costruzione del Teatro Stabile, con la compartecipazione agli utili, naturalmente».
La signorina Myriam si impegnò a rispettare le condizioni poste dai ragazzi. Assuntina si assunse l'onere relativo alla iniziazione. Avrebbero organizzato una festicciola serotina a base di asparagi; per tutto il resto si sarebbero rimesse nelle mani del Signore.
Messo a parte della prodigiosa scoperta, delle solide strutture capitalistiche che andavano sorgendo e delle prospettive di sviluppo della Società asparagica, il giovane prete rimase sbalordito.
Assuntina dovette correre a preparare un caffè ristretto e la maestrina ne approfittò per indossare la vestaglia da camera.
Le perplessità di don Antonio erano alimentate in particolare dalla recente Enciclica. In «quegli» asparagi, egli non escludeva lo zampino di Satana. L'Enciclica «Imanentia Diabuli Urbis et Orbis» metteva in guardia appunto sui pericoli derivanti dalla presenza del Maligno sulla terra. Non era da credere - come qualche teologo lassista sosteneva - che il Diavolo, superato dal progresso tecnologico che rendeva risibili e stregoneschi i suoi poteri, avesse deciso amareggiato di ritirarsi a vita privata. No, Satana non demordeva: si era evoluto trasformandosi appunto in progresso tecnologico - come già in passato si era camuffato da socialista, citando perfino il Vangelo.
La maestrina non aveva argomenti teologici da contrapporre; accavallò le gambe scoprendole un po' più su delle ginocchia e sorrise umettandosi le labbra con la punta della lingua. Disse che aveva fiducia nella Grazia che il Signore concede a ogni creatura e sostenne tout court la «Imanentia Dei». Infatti coi proventi di «quegli» asparagi si sarebbe potuto edificare il Teatro Stabile - l'innesto di quel germoglio che sarebbe diventato il fronzuto albero della nuova chiesa.
Don Antonio chiese di potersi raccogliere in meditazione per una decina di minuti. Diede una scorsa alla Dottrina per trovarvi conforto ideologico nel caso avesse deciso a favore della «Imanentia Dei». sant'Anselmo gli fu di grande aiuto, e ancor più il Sommo Teorizzatore del libero arbitrio. Le vie del Signore, come quelle attraverso cui passa il progresso di una comunità sottosviluppata, sono infinite e imperscrutabili agli occhi dei mortali - eccettuati il dott. Mansholt del Progetto 80 e il dott. Karrus del Piano di Rinascita.
Quella stessa notte si tennero i festeggiamenti in onore di don Antonio, nuovo membro della Società dell'Asparago. Assuntina e Sandrina con Rita, Silvia e Donatella, le tre studentesse pendolari, si prodigarono per rendere meno gravoso il compito della padrona di casa.
Tre mesi dopo venne inaugurato il Teatro Stabile completo di tutte le attrezzature, attori compresi.
Di buon mattino, una marea di gente sostava nei pressi del raccordo con la superstrada, ansiosa di vedere Monsignore col suo corteo.
Il macchione nero spuntò all'orizzonte d'asfalto a mezzogiorno in punto. Il vescovo ordinò all'autista di rallentare e di mettersi al passo - la strada comunale era bianca e quei gommoni levavano un polverone del diavolo togliendolo alla vista dei fedeli che si erano assiepati ai due lati per ricevere la benedizione. A un tratto, tra gli evviva della folla, si levò alto un grido di donna: «Signorino Raimondo!» Era Assuntina che nella mano ingioiellata benedicente aveva riconosciuto quella del padroncino.
Il Teatro Stabile di don Antonio fu inaugurato alle sette del pomeriggio, quando Monsignore e le altre Autorità convenute fecero ingresso nel salone e sedettero in prima fila. Sul palco addobbato di garofani bianchi raccolti dalle Dame di Carità nei cortili del paese, si avvicendarono i bambini dell'asilo e i ragazzini delle elementari, che recitarono a turno poesie scritte da Mimmino il sacrista, e le fanciulle del coro parrocchiale, belline in organdi rosa, calzine e scarpette bianche - tutte con le tettine in boccio, eccettuata Bonarina la figlia della guardia, tracagnotta popputa. Anche Monsignore ammise che stonava veramente in quel consesso di aeree libellule.
Fu quella la prima volta che le Autorità citarono ufficialmente la Società dell'Asparago, definendola «intrapresa economica e sociale avente per scopo la redenzione della comunità». Il vescovo ebbe parole di paterno elogio per l'impegno e l'abnegazione mostrati dalle dilette pecorelle; e altre parole di compiacimento ebbe per i frutti che cominciavano a maturare e a raccogliersi, lodando il rispetto dello «Jus primitiae» alla Chiesa, riconosciutole col dono del Teatro Stabile.
L'onorevole Trabuchetti, in rappresentanza del governo, cominciò col fare una analisi delle comunità sottosviluppate; passò quindi a illustrare le teorie governative di sviluppo delle stesse, sottolineando che in pratica è dalla base che deve partire la spinta di rinnovamento economico, e che dove tali spinte esistono - aiutati che il governo ti aiuta - egli avrebbe studiato appropriate incentivazioni. Concluse ricordando che il governo anche quando sembra distratto e assente non perde mai d'occhio i propri figli, neppure i più disgraziati. Essi, in qualunque tragico frangente si trovino, non devono mai disperare ma attendere con serena fiducia.
Alla prima riunione del consiglio di amministrazione parteciparono don Antonio e Sandrina.
Nella sua qualità di presidentessa, la maestrina dichiarò aperta la seduta. Disse: «Un'era di prosperità si schiude per la nostra Società e per la comunità tutta. La fondazione del Teatro Stabile appartiene ormai al passato. Seguiranno presto altre opere che nel breve volgere degli anni trasformeranno questo lurido villaggio di beduini in una ridente cittadina, forti anche dei lumi di Santa Madre Chiesa qui rappresentata dal nostro beneamato don Antonio. Sono contraria alla accumulazione passiva di capitale e favorevole agli investimenti immediati - non si sa mai col fluttuare della lira, l'inflazione, voi mi capite, meglio non correre rischi»
Don Antonio chiese a quanto ammontasse il capitale della cassapanca.
«Trecentoventisette miliardi e quindici milioni arrotondati», rispose la maestrina. E vista la faccia incredula del prete scrisse sul quaderno la somma in cifre e in lettere.
«Con tale somma potremmo edificare il tempio più maestoso che mai abbia glorificato il Signore!» esclamò estatico. Quindi, con un lampo rothschildiano aggiunse: «Potremmo perfino prestare soldi ai paesi depressi, contribuire alla salvezza delle istituzioni in pericolo…»
Rino lo interruppe: «Eh, no, basta coi doni al Signore. In virtù dello Jus Primitiae dovuto alla Chiesa, la prima mano se l'è beccata lei - e speriamo che l'investimento sia stato redditizio, si dia da fare, reverendo, con la sua filodrammatica e con la vendita dei biglietti. La nostra è una società capitalistica, caro reverendo, non una pia opera di beneficenza - come il governo che dà i quattrini a fondo perduto». Il ragazzo scrutò il viso della maestrina, ne colse l'assenso e proseguì: «Non ci scambi per radicali, qui vale la legge del profitto. L'abbiamo imparata dalla maestra e in particolare da Rockfeller, grande benefattore dell'umanità. Pertanto propongo la costruzione di un ponte in cemento armato che attraversi l'autostrada, unendo il paese alla campagna circostante. Voi sapete quanto sia problematico per contadini e pastori attraversare quel fiume di macchine. Non c'è giorno senza che qualcuno ci lasci una mano, un piede o tutta intera la pelle. Un ponte bello largo, che consenta agevolmente il transito a chi va e a chi viene, con greggi, armenti, branchi, carri e attrezzi. Sarebbe utile sotto tutti i punti di vista».
«Utile sì, lo riconosco. Ma a noi come Società che cosa ne entrerebbe?» disse don Antonio.
«E' semplice», rispose Ilario. «Faremo pagare il pedaggio differenziato a seconda delle categorie sociali, delle specie animali e del tipo di veicolo. Mi spiego: se si tratta di veicoli, valuteremo il pedaggio in rapporto al loro costo sul listino dell'usato; se si tratta di animali, a seconda del loro valore sul mercato; se si tratta di cristiani, pagheranno in rapporto al volume del portafoglio. Faremo sconti per comitive turistiche. Sappiamo che anche nelle autostrade si fa così. Per rifarsi dei soldi spesi per costruirle, i capitalisti fanno pagare l'uso per trent'anni prorogabili, dopo diventerà pubblica. La stessa cosa faremo noi col ponte. Sulla questione dei trent'anni, io e Rino abbiamo ancora qualche dubbio. Dovremmo far meglio i conti, moltiplicare la quota media dei pedaggi per il numero medio dei transiti giornalieri, poi moltiplicare per tutti i giorni compresi in trent'anni; quindi sottrarre il costo del ponte più le spese di manutenzione e di esercizio. Se trent'anni sono pochi, li porteremo a cinquanta».
La maestrina guardò con ammirazione i suoi due scolari: si sentiva orgogliosa dei progressi che andavano facendo sotto la sua guida.
L'idea fu giudicata buona da tutti i membri e approvata. Avrebbero bandito il concorso per l'appalto entro il mese.
Sandrina chiese la parola per proporre l'acquisto del bosco ai margini della superstrada, dove lei, Assuntina e le tre studentesse pendolari erano costrette a lavorare in posizione veramente scomoda, data la natura pietrosa del terreno. Acquistata l'area, vi si sarebbero potute costruire una ventina di villette con riscaldamento - meglio abbondare in vista degli sviluppi. Non sarebbe stato male anche un ristorante, dove recarsi a consumare i pasti, considerando che una donna che esercita una professione non ha il tempo per fare la casalinga.
Rino intervenne: «Capisco i vostri problemi donneschi e solidarizzo con voi. Tanto più se le vostre aspirazioni coincidono con un aumento dei profitti. Però, - come diceva Rockfeller - è bene non rincorrere due lepri insieme. Appena ultimato il ponte, il primo buco da turare sarà il vostro: compreremo il bosco e costruiremo le villette. Intanto, per occupare venti villette occorrono sette inquiline per venti, cioè centoquaranta professioniste in pianta stabile, più - direi - una trentina di supplenti. Datevi da fare per stimolare le vocazioni, aumentare le reclute e addestrarle al compito».
La maestrina stava per dichiarare chiusa la seduta, quando Assuntina alzò stancamente la mano per significare che aveva una comunicazione da fare. Disse: «Cari amici della consorteria. Vi siete accorti certamente che durante tutta l'ora sono stata zitta e che nessun contributo ho potuto dare ai lavori di programmazione degli investimenti. Il fatto è che ho un problema personale che mi assilla. Ho nel cuore il signorino Raimondo. Voi non potete immaginare quale gaudio per me averlo rivisto Monsignore dopo tanti anni, con l'anello piscatorio, l'infula, il pastorale, la mitra e tutto il resto…»
«Ti comprendiamo», disse la signorina Myriam. «Esamineremo il tuo caso. Oltre tutto, sgombri da assilli personali diventiamo più efficienti. Vedremo di darti una mano, abbiamo con noi don Antonio, non sarà difficile farti avere un abboccamento con il tuo ex padroncino. Intanto che ti accingi a vuotare il sacco, Sandrina vai in cucina e porta il caffè: ti ascolteremo più attentamente».
«Se ripenso al signorino Raimondo mi viene un languore nelle viscere:non so bene se nostalgia o altro. Il signorino Raimondo, prima di farsi prete, era un poeta, una di quelle creature macilente che non sorridono mai e piangono sempre. Piangono sulla loro giovinezza che credono di avere persa quando sono ancora giovani. Quando la giovinezza è perduta davvero, vorrebbero essere ancora giovani ma non ce la fanno più, e allora da capo a piangere. E stavolta a ragione. Perciò si danno alla politica, e diventano magari onorevoli o monsignori.
Non si deve meravigliare che io conosca per filo e per segno la vita di tanti poeti, senza essere mai andata a scuola. Mi ha insegnato il signorino Raimondo, che mi ha fatto leggere tanti libri. Romanzi sentimentali di ogni genere e specialmente poesie. Ho una grande simpatia per i poeti, poverini, mi fanno tanta pena con la loro tristezza. Per esempio Leopardi, quando dice «che pensieri soavi, che speranze, che cori o Silvia mia», che è esattamente quello che io sento ripensando al mio padroncino. Io credo che gira e rigira sono uomini che non riescono a trovare uno sfogo naturale.
Conobbi il signorino Raimondo la prima volta che andai a servire. Avevo quattordici anni, non sapevo neppure dov'ero messa. Mi aveva accompagnato mia madre, di sera dopo cena per non sembrare morti di fame che chiedono da mangiare prima di aver lavorato. Mi aveva lasciato lì, in casa di quei signori, dicendomi: «Cerca di lavorare e di essere ubbidiente in tutto, e ricordati che alla prima lamentela dei tuoi padroni vengo qui e ti taglio il collo». Io non ce la facevo a lasciare casa mia. Avevo il cuore a pezzi e lo stomaco chiuso, ed ero senza lo sfogo del pianto, ché da quel lato sono sempre stata una disgraziata: le lacrime non mi vengono fuori. In famiglia pativo fame e freddo e bastonate, ma ci stavo bene, coi fratellini e con le sorelline, e ogni mattina all'alba cantavo scopando l'acciottolato del cortile e dando la crusca alle galline.
Il signorino Raimondo stava sempre chiuso in camera sua, rintanato dietro il tavolo pieno di libri e di carte. Leggeva, studiava, scriveva poesie e non faceva altro. Io pensavo: ma perché non se ne esce in campagna a prendersi il sole e a respirare aria pura - ma non osavo dirlo. I genitori e tutto il parentado lo portavano a esempio, dicevano che era un genio, Leopardi redivivo. A diciassette anni aveva già scritto tante poesie che non ci stavano più dentro l'armadio. Ne scrisse una anche per me, dove dice che i miei occhi brillano come stelle... La conservo chiusa nello scapolare che porto appeso, insieme alla reliquia di santa Rita.
Era bello, bianco di carnagione come una femmina ma con due occhi neri mascolini che mi facevano svenire appena mi guardavano. Anche i capelli aveva neri e ricci. Quando sorrideva muoveva le labbra come in una smorfia di dolore - questo lo faceva diventare ancora più bello. Mi chiamava qualche volta per portagli da bere: acqua, limone e un pezzetto di ghiaccio. Prendeva il bicchiere senza distogliere lo sguardo dal suo lavoro e se lo poggiava sulla guancia - ma la sua mano tremava, prendendo dalla mia mano il bicchiere. E non capivo perché, allora. Restavo a guardarlo, aspettando che bevesse. Beveva a piccoli sorsi, per placare l'arsura delle labbra. Aveva le labbra rosse tumide.
Una volta presi il coraggio a due mani e gli chiesi che cosa stesse scrivendo. Sorrise e disse: «Tu non puoi capire perché sei ignorante». Era una risposta cattiva e si pentì, perché aggiunse: «Però hai una espressione intelligente. Potrei insegnarti a leggere e a scrivere. Ti piacerebbe? » Mi sembrò di toccare il cielo con un dito. Dissi subito di sì. Lui cambiò espressione: «Però non sarà facile. I miei non lo permetteranno. Tu sei una serva e non sta bene che io mi metta con te. Se ne parlassi io a mia madre, chissà cosa penserebbe. Capisci? » Scossi la testa per dirgli che non capivo. Riprese: «Ho capito io. Se vuoi che ti insegni a leggere e a scrivere dovrai essere tu a chiederlo a mia madre. Potrò farti un'oretta di lezione dopo cena, quando avrai finito di sparecchiare e di riordinare... Potrai così leggere e forse anche capire ciò che scrivo». Avvicinai la faccia al foglio su cui stava scrivendo: mi pareva di cominciare già a decifrare quei misteriosi segni che mi avrebbero svelato le meraviglie del paradiso.
Il signorino Raimondo aveva concluso: «Se ne parli con la signora e lei dice di sì potremo iniziare stasera stessa». Io annuii senza parlare, tutta contenta e piena di riconoscenza sentendo la sua mano che mi andava su e giù dolcemente per il fianco. Aspettavo immobile che dicesse altre parole o che smettesse di accarezzarmi o che mi mandasse via. Invece aveva riabbassato la faccia sulle carte, senza leggere o scrivere, tenendo sempre la sua mano sul mio fianco. La muoveva leggera tremante, e quel contatto mi faceva venire i brividi. La sua mano non saliva e non scendeva oltre i limiti. Mi palpava con delicatezza, quasi con rispetto - non alla arraffa arraffa, come usano fare certi ragazzi d'oggi - e ne ero lusingata. A un certo punto, la sua mano si fermò sulla mammella sinistra, la strinse e cominciò a gemere e ad agitarsi come per un attacco di epilessia. Lo guardai. Aveva la testa tesa all'indietro, la bocca socchiusa e ansimava. Mi fece spavento, perché allora non sapevo nulla della vita. Dissi: «Signorino, lei si sente male, beva un po' d'acqua che le passa». Non sembrò gradire le mie attenzioni. Si ricompose, divenne cupo e mi disse di andarmene, che aveva da scrivere e voleva essere lasciato in pace.
Imparai a leggere e a scrivere con la sua pazienza. Le prime parole che scrissi furono parole d'amore. Le sue poesie furono il mio sillabario. Era un giovane strano. Alcuni dicevano che era "toccato dal martello di sant'Amadio". Aveva la testa piene di idee che sembravano un sogno di farfalle. Quando i suoi genitori lo rimproveravano per qualcosa, restava freddo impassibile. Altero e sdegnoso, socchiudeva le labbra in un sorriso ironico, e non replicava mai, neppure quando aveva ragione. Se ne tornava in camera sua, si rincantucciava dietro il tavolo e scriveva. Più era triste e più scriveva. Era triste di natura, il signorino Raimondo: ogni volta che finiva di farmi lezione, mi metteva la mano sul fianco e sospirava.
Quando gli restava del tempo, mi leggeva le sue poesie. Non capivo molto bene il concetto, ma erano molto belle da ascoltare: aveva una voce calda, un po' roca. Leggendo si commuoveva, e allora la sua mano mi carezzava più forte. Non andava mai però oltre il lecito, soltanto carezze con la mano. Eccettuata una volta, la prima e l'ultima.
Successe di pomeriggio - un pomeriggio d'estate. Il levante afoso mozzava il respiro e toglieva la forza anche di pensare. I padroni si erano messi a letto a riposare, per alzarsi col frescolino della sera. Finito il mio lavoro, entrai in camera del signorino con la scusa di riordinare. Il signorino Raimondo riposava leggendo. Dovette udirmi entrare, ma non si mosse, chino sopra un librone con le mani tra i capelli scarruffati. Ero molto curiosa di tutto, e così mi avvicinai per sbirciare nel librone. C'era una figura che occupava tutta la pagina: due giovani, maschio e femmina, abbracciati nudi, che sembrava volassero trascinati in un turbine di vento, e tutti e due avevano una ferita sanguinosa nel petto. «Chi sono? » chiesi sottovoce, impietosita e turbata. Levò appena la testa. Disse: «Sono Paolo e Francesca. Due che si amavano e che non dovevano amarsi. Lo facevano di nascosto. Il marito di lei, che era il fratello di lui, li trovò insieme e insieme li uccise. Insieme, abbracciati, precipitarono nell'inferno». «Poveretti» esclamai con i lucciconi. Il signorino si drizzò sulla sedia, mi puntò l'indice sul petto e con un tono di voce strano mi disse: «Se i miei ci trovassero me e te, facendo ciò che facevano Paolo e Francesca, ci ucciderebbero così e insieme andremmo all'inferno... » Aggrottò la fronte e mi appoggiò la mano tra le mammelle: «La spada bucherebbe qui... » Io inghiottii saliva e rabbrividii. «Sarebbe doloroso e tragico, il tuo seno bianco macchiato di sangue... » Si era trasfigurato, parlando: gli si erano inturgidite e imporporate le labbra e le guance, e gli occhi gli si erano accesi. Metteva soggezione a vederlo così. Sentii le ginocchia piegarmisi, quando mi aprì la camicetta, mi scoprì e mi toccò le mammelle. Pensai che volesse vederne il biancore, e lo lasciai fare. E poi, a dire la verità, mi piaceva farmi toccare.
D'un tratto si levò in piedi, mi prese e mi abbracciò sospirando. Nessuno mi aveva mai abbracciato prima di lui, neppure mia madre. La testa cominciò a girarmi. Sarei caduta per terra svenuta, se lui non mi avesse sorretto e se non ci fosse stato alle mie spalle il letto. Sdraiata, con gli occhi chiusi, aspettavo che mi abbracciasse ancora.
Dopo un bel po' che aspettavo, riaprii gli occhi. Lo vidi davanti al letto con una ciottola d'acqua e una pezzuola nelle mani. Voleva farmi gli impacchi freddi sulla fronte per farmi rinvenire. Che bambini eravamo tutti e due, Signore benedetto! Dissi: «Non è niente, non si preoccupi, è stato un momento di debolezza, forse il levante». Si rinfrancò. Sedette sulla sponda del letto e mi prese una mano chiedendomi perdono per aver fatto cose brutte. «Cose brutte? » dissi, «che dice mai, signorino? A me sembrano tanto belle... » A quelle parole sorrise e ricominciò ad accarezzarmi. Stavolta lo fece meglio. Si sdraiò al mio fianco, mi carezzò, mi baciò e succhiò i capezzoli. Finito che ebbe di succhiare, sollevò la gonna e mi aprì le cosce. Spostò le mutande e me la frugò tutta. Io cominciai a gemere e a contorcermi tutta e lo abbracciai forte. Si abbassò i calzoni e anche lui mi abbracciò forte. Eravamo proprio come Paolo e Francesca...
Fu in quel preciso istante che entrò la signora. Gettò un urlo, mi prese per i capelli, mi strappò dal letto e mi trascinò sul pavimento fino alla cucina. «Corri subito a fare fagotto», disse. Io non pensavo tanto a me, in quel momento, quanto al signorino. Avrei dato la vita, per risparmiargli anche un solo rimprovero. Lo ricordo ancora, poverino, accoccolato nel letto, paralizzato dal terrore.
Non l'avevo più visto, da quella volta. Ora l'ho rivisto, finalmente. Ed era anche più bello, in pompa magna, in mezzo a due ali di folla inginocchiata... Anche io mi sono inginocchiata e ho allungato una mano per sfiorarlo con le dita, Monsignore... Come sono passati quei giorni! Avevo un modo pulito di vedere, allora. Col tempo mi sono fatta la pelle dura e gli occhi mi si sono incupiti... Una cosa sola vorrei, rivederlo prima di morire, parlargli del nostro tempo, leggere insieme qualche poesia... mi rattrista pensare che forse l'altro giorno il signorino Raimondo non mi ha neppure riconosciuta, che forse neppure si ricorda di me».
La signorina Myriam abbracciò commossa Assuntina, le carezzò i capelli grigi e disse: «Via, non disperare, comprendo il tuo stato d'animo. Ti siamo vicini tutti - vero don Antonio?»
Anche i ragazzi erano commossi. Rino disse: «Accidenti che scalogna! poteva entrare dieci minuti più tardi quella strega! Dev'essere stata una bella frustrazione, per tutti e due. Comunque, su con la vita! Dio provvederà, e se non provvede lui provvederà don Antonio».
Il vice parroco si era commosso soltanto dal lato umano. Dall'altro lato disse: «Piano, ragazzo, non bestemmiare. La Chiesa riconosce sì l'amore, anzi col matrimonio lo santifica, ma non ammette il rapporto carnale - voi mi capite - in quanto esuberanza dei sensi eccetera. Dico, scherziamo? farmi fare il ruffiano, favorire un incontro tra una peccatrice e un Vescovo! Se si trattasse di favorire un incontro platonico , non dico di no…»
Rino esplose: «Eh, no, caro reverendo, lei predica bene e razzola male. Quando le fa comodo, le va a cercare lei le peccatrici. E il battesimo dell'asparago? Altro che rapporti platonici…»
Don Antonio stava per replicare, quando la maestrina credette giunto il momento di fare ricorso alla dolcezza. Disse: «Don Antonio, via, non essere severo con Assuntina. Ricorda il Vangelo, molto ti sarà perdonato perché molto hai amato… Alla Maddalena fu concesso un incontro con il Divino Maestro. Diamo anche ad Assuntina questa occasione. Ciò che accadrà apparterrà alle loro coscienze. E' vero, la nostra è una società fondata sul profitto, ma almeno tra noi soci aiutiamoci… Don Antonio, trattieniti un pochino stasera, appianeremo insieme i nostri dubbi».
Ilario, che nel frattempo si era consultato con Rino, disse: «Da ciò che abbiamo capito, il desiderio di Assuntina è di incontrarsi con il signorino Raimondo, ora Monsignore, per rievocare insieme i tempi passati. Visto che Don Antonio si è convinto a darti una mano, domani stesso si recherà in Curia per ottenere una udienza. Ciò fatto, nel giorno stabilito, tu Assuntina ti presenterai e per il resto farai tu. L'esperienza adesso non ti manca. Io e Rino siamo dell'avviso che per mandare in porto l'operazione evitando frustrazioni sia bene che ti porti un bel mazzo di asparagi. Chiederai a Monsignore la grazia di cucinarglieli e di servirglieli a tavola tu stessa».
A sei mesi di distanza si ebbero le prime ripercussioni in Parlamento. La polemica dell'asparago divampò spaccando in due il paese. Nacque la corrente dissidente nella sinistra governativa, all'interno del partito di maggioranza. Gli scissionisti capeggiati dall'onorevole Trabuchetti minacciavano un'alleanza extra-governativa con la sinistra dell'opposizione, se il governo avesse disatteso ancora le istanze popolari. La crisi di governo, che con gli anni si era stabilizzata, entrò in una fase di virulenta instabilità e minacciò di far franare l'ordine costituito, per cui si rendeva necessario l'inasprimento fiscale, la contrazione dei salari e la riconversione delle industrie. Una situazione ideale per la destra che soffiava sul fuoco, rispolverando i mitici tempi in cui l'uomo non aveva bisogno dell'asparago per menare il manganello.
La polemica divampò furiosa bruciando ogni altra preoccupazione, compresa quella della ricorrente epidemia di colera. I giornali andavano a ruba. Nelle bettole e nei bar la vendita degli aperitivi alcoolici salì a cifre mai prima raggiunte. Si polemizzava da tutte le parti. La gente negli stadi anziché seguire le partite di calcio si azzuffava pro e contro l'asparago. Il referendum abrogativo sulla pillola venne rinviato a furor di popolo per essere sostituito dal referendum sull'asparago.
A seguito di indagini effettuate personalmente dal ministro di giustizia, apparve un documentato servizio sulla terza pagina del «Corriere del Popolo», l'organo ufficiale della borghesia nazionalista.
«La scienza non ha dubbi!» - vi si leggeva - «L'asparago e i suoi derivati rappresentano un terrificante pericolo per l'equilibrio biologico umano e per la ecologia morale e sociale. Alcuni dei fenomeni di degradazione umana che si vanno sempre più diffondendo (omosessualità, obiezione di coscienza, svalutazione della verginità, furti di auto e accessori, bolscevismo, rapine e sequestri di possidenti, divorzi) sono una conseguenza accertata dell'uso della droga asparagica».
Alle grida di allarme del «Corriere del Popolo» ne seguirono subito altre. Una importante Casa distillatrice di alcool sintetico, un noto Istituto farmaceutico produttore del testosterone biscarpionato e una Società assistenziale a responsabilità illimitata promossero una campagna radio-tivù con una serie di caroselli che concludevano facendo il punto sulla questione: «Gli effetti dell'Asparagus officinalis sull'organismo umano sono spaventosi: l'intelligenza ne esce spappolata, l'equilibrio psichico dissestato, il fisico distrutto. Rimuove e scatena gli istinti primordiali, favorisce le spinte criminogene (quest'ultima frase, si seppe tardi, era stata coniata dal senatore Plafundi - nda), e favorisce l'insorgere di alcune turpi malattie: il tracoma, la lebbra, la tabe, la sifilide, la tbc, le emorroidi e il tricomas purulento».
Alcuni deputati di destra si riunirono in seduta urgente per presentare un progetto di legge tendente a conservare gli articoli del codice relativi alla difesa della integrità della Razza.
«L'Unione Sera», quotidiano della opposizione, si schierò cautamente dall'altra parte della barricata.
«La rivoluzione proletaria» - si leggeva nell'editoriale - «raggiunge ormai anche le zone depresse. Al rapporto di lavoro schiavista col latifondista che vorrebbe mandarli a zappare per duemila lire, i giovani preferiscono emigrare per diventare così veri proletari, e quelli che restano si organizzano in proprio, promuovendo imprese economiche, pianificando su schemi marxisti che aboliscono il profitto a vantaggio della comunità.
Appena raggiunta l'età dei dodici anni, corrono a frotte sui monti, tagliano legna riducendola in fascine per rivenderle la sera a duecento lire l'una. I più intraprendenti - fanciulli nati con lo stakanovismo nel sangue - ne portano a spalla fino a sei: duecento per sei fanno milleduecento. Più redditizi sono i funghi, che sul mercato hanno raggiunto la quota di lire mille al chilo. Si vendono bene nelle stazioni ferroviarie ai lavoratori pendolari che non hanno il tempo di andare a fare la spesa al mercato. Se fossero incentivati dallo Stato, i nostri ragazzi coltiverebbero e venderebbero funghi tutto l'anno, contribuendo a contenere il rialzo dei prezzi. Purtroppo sono lasciati in balia di se stessi, senza cantine e senza micelio: e al naturale - si sa - i funghi spuntano soltanto dopo le piogge autunnali.
Ecco dunque come sono disattese dal governo le legittime aspirazioni di progresso delle nuove generazioni! Eppure, questi nostri ragazzi proletari hanno fede nella Scienza e nella Tecnica. Diciamolo pure: la scuola borghese è in crisi, slegata dagli interessi reali della comunità. Alla scuola i ragazzi preferiscono la campagna, il sano lavoro all'aperto, dove sognano l'edificazione di fabbriche per la lavorazione e la conservazione dei prodotti.
L'avvicendarsi delle stagioni segna il ritmo della produzione naturale - questo si sa.
D'estate, i nostri ragazzi raccolgono cipolline e carciofini, molto apprezzati nei mercati stranieri, conservati in olio e aceto.
In autunno prevalgono i funghi. Ma non vanno dimenticate le lumache, che alle prime piogge escono da sotto i muretti a secco e dalle sterpaglie per pascolare. Una menzione meritano i fichidindia, che costituiscono non solo la base dell'alimentazione del maiale familiare, ma trovano sistemazione nei grandi mercati della città tra le frutta esotiche.
In inverno rosseggiano i corbezzoli e nereggiano i mirti ancora poco diffusi perché ritenuti indigesti: con una spruzzata di limone e una spolverata di zucchero sono più saporiti delle fragole e certamente più nutrienti.
In primavera gli asparagi, divenuti oggi famosi in virtù delle sostanze energiche che contengono. I ragazzi li raccolgono tra le siepi e ai margini dei muretti. Ne fanno tanti mazzi equamente calibrati e li vedono a cinquecento lire l'uno. Sostano ai margini della superstrada e agitano il loro prodotto davanti alle auto che passano. Questi ragazzi sono l'avanguardia sottoproletaria dell'intelligenza imprenditoriale del proletariato. Hanno scoperto, senza analisi di laboratorio, con la semplice osservazione diretta, le proprietà corroboranti dell'asparagina. Si dica quel che si vuole: l'esperienza ha provato che l'uso metodico dell'asparago - specie se soffritto in grasso di montone - rimuove i blocchi prodotti dalla civiltà repressiva capitalistica.
E' di questi giorni la notizia di un convegno promosso dal vice parroco don Antonio cui hanno partecipato oltre ottanta sacerdoti del dissenso, dove si auspica l'avvento di un sistema sociale che santifichi nell'uomo il Sommo Creatore. Un sistema sociale - aggiungiamo noi - che se da un lato aliena, reprime e rilassa, per altri versi agita e rende convulsi. Rompe cioè l'equilibrio del cittadino. se tende i nervi, si usa il carciofo - altro prodotto proletario che si è già diffuso nel mercato. Se li rilassa, si usa l'asparago. E' la stessa natura proletaria, quindi, che provvede a superare le contraddizioni del sistema. E l'applicazione pratica di tali prodotti non è altro che prassi della dialettica marxista della natura».
Esattamente due giorni dopo la crisi di governo - come si è detto - i dissidenti della maggioranza, capeggiati dall'onorevole Trabuchetti, si riunirono a Villa Doria e diedero vita alla corrente della sinistra governativa.
La sinistra della opposizione gongolava. «Avete visto? La nostra politica del dialogo comincia a dare i suoi frutti. Il nemico si sgretola sotto la spinta delle sue stesse contraddizioni che noi, col dialogo, abbiamo evidenziato».
Il partito governativo della maggioranza assorbì prontamente il colpo. La segreteria nazionale si riunì d'urgenza, decretò lo scioglimento del governo antiasparagico di centro-destra varando seduta stante un governo asparagico di centro-sinistra. L'onorevole Trabuchetti fu eletto presidente del consiglio.
In occasione della seduta parlamentare per la votazione di fiducia, il nuovo governo mostrò subito il suo impegno progressista. I ministri, pur essendo gli stessi del precedente governo, sedettero spostati di un bel po' a sinistra, comprimendo la sinistra dell'opposizione all'estrema destra. Inoltre, dimesso il doppio-petto grigio con cravatta, indossavano blue-jeans e maglioni a collo alto di taglio radicale.
L'onorevole Trabuchetti tenne il discorso di prammatica sulle opposizioni ideologiche e sul programma.
«Onorevoli colleghi, fonti male informate o forse tendenziose hanno diffuso nel paese notizie circa una nostra presunta collusione con la sinistra dell'opposizione, che è e deve restare in quarantena fino a quando non avrà assimilato i valori democratici. Per noi, sinistra significa progresso democratico programmato e ordinato secondo modi e tempi da definirsi nel rispetto delle Istituzioni».
Dopo aver dissertato sulla teoria degli opposti estremisti, l'onorevole Trabuchetti attaccò col programma. Esaminando la questione delle aree sottosviluppate - pupilla dell'occhio governativo - disse che «è ormai tempo di rispondere al grido di dolore che da secoli si leva da quelle infelici lande. Noi risponderemo con una serie articolata di investimenti, incentivando l'iniziativa privata, rafforzando e rendendo più funzionali gli Istituti pubblici esistenti, uffici delle imposte e caserme».
Soffermandosi sulle incentivazioni alle imprese locali, citò la Società dell'Asparago, «una iniziativa esemplare, meritevole di tutta la nostra attenzione per i risvolti anche economici che si rilevano».
Al momento della fiducia, la destra votò contro. La sinistra dell'opposizione si astenne per non compromettere il dialogo.
Nella serie dei decreti legge varati dal nuovo governo, il primo riguardava le incentivazioni alle Società per azioni operanti nelle aree sottosviluppate.
La sera precedente, l'onorevole Trabuchetti si era recato con miss Amalia in visita privata nella villa della signorina Myriam, portando in anticipo la lieta novella.
L'incontro, cui parteciparono tutti i membri della Società in abito da sera, si tenne nel Salone degli Specchi - un vasto ambiente arredato alla turca dove periodicamente venivano controllati gli effetti dell'asparago nel tempo e in rapporto al variare delle stagioni.
In un clima di cordialità miss Amalia rievocò la notte dell'asparago mettendo l'accento sui meriti che andavano ai due giovanissimi imprenditori Rino e Ilario nei rafforzati legami familiari dell'onorevole. A suo nome lei esprimeva riconoscenza, e proponeva l'ingresso nella Società di tanto sensibile e importante uomo.
Rino e Ilario accolsero la proposta con entusiasmo - valutato anche l'apporto che miss Amalia avrebbe potuto dare nei periodici esperimenti.
Dopo lunghe laboriose trattative, si arrivò a una ristrutturazione della Società. Un notaio, giunto appositamente dalla capitale, stese lo statuto e raccolse le firme. Ci fu anche un rimpasto nelle cariche sociali. Fu eletto presidente l'onorevole Trabuchetti, don Antonio vice presidente e la maestrina segretaria.
Prima di chiudere la laboriosa seduta, si parlò della inaugurazione del ponte sulla superstrada, i cui lavori erano ormai ultimati. Nella Buick nuova di rappresentanza, Rino e Ilario con l'onorevole: avrebbero aperto il corteo tagliando il simbolico nastro all'ingresso del ponte. Dell'acquisto del nastro si sarebbe occupata Sandrina, che avrebbe anche scelto il colore, preferibilmente verde o bianco - da evitarsi nel modo più assoluto il nero e il rosso per rispetto al principio governativo di chiusura agli opposti estremismi.
La discussione stava per degenerare sulla questione della seconda macchina. Alla fine si votò per l'auto di Monsignore, a fianco del quale avrebbe trovato posto Assuntina, che aveva superato le frustrazioni.
La terza auto del corteo sarebbe stata la Mercedes della maestrina, che avrebbe ospitato anche don Antonio. Al quarto posto, un'auto con la rappresentanza militare - un ammiraglio e due generali erano già in elenco. Al quinto posto Sandrina, le tre studentesse pendolari e un seguito di Figlie di Maria.
Il popolo festante avrebbe chiuso il corteo.
2 - La conchiglia a due piazze
Lavoro in qualità di esperto al Centro di Ricerche Sperimentali. Tre anni fa dirigevo l'équipe del settore Sondaggi Socio-affettivi che condusse, tra le altre, un'inchiesta sulle tecniche - luogo, modi e tempi - di approccio tra giovani e meno giovani di sesso diverso. I dati relativi ai «modi» e ai «tempi» erano quelli che erano e non interessano in questo racconto. Interessano, invece, i dati relativi al «luogo». Saltava fuori che il 60,3 per cento dei rapporti (si teneva conto esclusivamente di quelli conclusi felicemente, cioè a letto) aveva preso l'avvio in una sala da ballo, il 19,7 per cento a scuola, il 12 per cento in un mezzo di trasporto. Il restante 8 per cento andava nell'ordine a: cinema, viale lungomare, giardinetto pubblico, palestra coperta, stadio. La percentuale più bassa toccava alle sedi dei partiti politici con lo 0,2.
I risultati dell'inchiesta non allarmarono tanto le segreterie dei partiti quanto me, destinato alla castità perpetua. Infatti non frequentavo e non mi andava di frequentare nessuno di quei luoghi dove è possibile iniziare un rapporto sentimentale. Una prospettiva tragica, a ventisette anni. D'altro canto non me la sentivo di cambiare le mie abitudini - casa, lavoro, trattoria, poltrona, lettura, siesta, giardinaggio e pediluvio serale davanti alla tivù.
In un'altra epoca avrei potuto far fruttare la forzata astinenza gabellandola per volontaria rinuncia - la maggior parte dei santi sono tali perché hanno trovato difficoltà nel creare rapporti interpersonali. Oggi, purtroppo il costume è mutato - un santo del genere, anziché assurgere agli onori dell'altare, verrebbe semplicemente classificato frocio.
Avevo una via d'uscita: andare a puttane. Se in ipotesi la soluzione del rapporto mercenario filava, in pratica mi si presentava come un muro invalicabile: la paura della sifilide e di tutti gli orridi morbi che riducono l'uomo in un verminaio purulento.
In fin dei conti, l'uomo non è mai stato solo neppure in un deserto, se chiude gli occhi e fantastica. Impiegai relativamente poco a capirlo, e mi congratulai con me stesso. Un modo di vivere senza imprevisti. O meglio, gli imprevisti ce li puoi mettere e togliere a piacimento. Una strada panoramica da percorrere standosene seduti in poltrona.
Per i miei gusti era sufficiente spegnere le luci o abbassare le tapparelle e prenderlo in mano. Col tempo avrei anche tollerato la penombra. «Mio caro, oggi ti trovo irrequieto. Capisco, il lavoro, le gomitate di quei coglioni dei colleghi, le arie di merda del direttore generale. Ti ci vorrebbe un mio-rilassante. Ti andrebbe una brunetta efebo con le tette in boccio o una biondina latte miele con le poppe materne? Sulla questione dell'età non farti scrupoli: in quattro e quattr'otto apportiamo le debite modifiche al codice penale. No? Nessuna delle due? Sei difficile, vedo. Che ne diresti allora di una castana occhi verdi sorriso con fossette?».
A pensarci bene è semplicemente un fenomeno di autarchia. L'uomo-monade possiede dentro di sé, arrotolato, il papiro di tutto quanto l'universo. E' vero che la maggior parte degli uomini è pigra, non riesce a svolgere che in minima parte il proprio intimo papiro, e non trovando dentro di sé ciò che pure c'è, si rivolge all'esterno elemosinando conoscenze e sensazioni agli altri. Per non dire delle frustrazioni, quando gli altri ti rispondono con i calci in faccia.
Si dirà che le rappresentazioni del papiro sono immagini viste e non fotografate. Giusto. Ma a questo punto soccorre la tecnica. Per dare loro corpo basta prendere carta e penna e fissarle - formato tessera o cartolina, a piacere. Adesso, con la mania del grande, si usano anche i posters. E facendo questo, si fa dell'arte: dipinti, sculture, romanzi e via dicendo fino alla politica, che è l'unico modo di fare arte senza avere dell'artista neppure un pelo.
Dopo qualche tentativo in versi - naufragato per le disfunzioni biliari di un critico - mi decisi per la narrativa, raccontando per filo e per segno le vicende svolte dal papiro. La critica le definì di un impressionante verismo. Tre romanzi di successo e nove minori; una quarantina di saggi sulle questioni sociali più scottanti, quali l'ecologia e il sequestro di persona, l'alienazione e l'amore di gruppo; centinaia di corrispondenze sulla pariteticità eversiva degli opposti estremismi, la droga e la repressione poliziesca; migliaia di appelli e di risoluzioni contro il carcere preventivo, l'eliminazione dei carcerati, i codici fascisti, gli arresti arbitrari, le guerre coloniali, i governi ladri, eccetera.
Anni densi di impegni e di successi, sempre all'avanguardia, sempre sulla breccia, protagonista di primo piano - comodamente disteso nel mio guscio, senza tirare fuori neppure una punta di corno.
Sarebbe durato fino alla fine del mondo, se gli occhi verdi di una ragazza chiamata Rosy non fossero venuti a farsi guardare dentro il mio guscio.
Sto sfogliando il Corriere quando squilla il telefono… Una inchiesta di tre pagine sulle scelte di fondo (mancate) nel programma di sviluppo di una regione economicamente arretrata. Scartata l'agricoltura perché improduttiva, restava il dilemma «capitale-natura». Un dilemma formale, perché la scelta era già stata fatta e la regione in questione era già stata trasformata in una bolgia di petrolchimiche che del patrimonio-natura non aveva risparmiato neppure zanzare e gramigne. A Malapena sopravvivevano gli addetti ai cicli produttivi, tenuti su quotidianamente con speciali trattamenti serali disintossicanti. Eppure il dilemma veniva posto, polemicamente, perché in quel momento i padroni del capitale-natura, estromessi dai profitti in quella regione, volevano mettere in cattiva luce i padroni del capitale-macchina, in vista dello sfruttamento di un altro spicchio di mondo… Una seccatura, alzarsi dalla poltrona per sollevare il ricevitore. Una spina supplementare mi tornerebbe comoda.
«Sì?».
«Il professor Melas?»
«Sì».
«Scusi se disturbo a quest'ora…».
Chi diavolo glielo faceva fare, se sapeva di disturbare.
«…mi ha dato il suo numero il professor Casotti, di storia delle istituzioni…».
Guarda guarda! quel vecchio stronzo si è comprato una cattedra.
«…io sono una sua allieva, e sto preparando la tesi sulle alternative strutturali nella gestione autonomistica del potere regionale. Avrei bisogno di sentire la sua opinione in merito».
Dico: «Ho capito. Sono lusingato. Purtroppo sono oberato di lavoro. Stasera proprio non posso…»
«A suo comando, professore. Tenga conto che saranno sufficienti cinque minuti… Dimenticavo: il professor Casotti le manda i suoi saluti con le congratulazioni per la sua ultima opera».
Quel vecchio stronzo! deve averlo contagiato l'arte di leccare il culo.
Dico: «Va bene. Vedrò di accontentarla. Si faccia vedere domani sera, dopo cena. Alle nove. Si porti le domande scritte, faremo prima. Le batterò le risposte a macchina io stesso».
«Oh, certo, va benissimo. Alle nove sarò da lei. Non so come ringraziarla…».
Il modo migliore sarebbe quello di portarsi da mangiare, da bere e le sigarette. Ho brutte esperienze di visite studentesche.
Dico: «A domani, buonasera».
Pensandoci a letto - ma non ho il tempo per fare un'analisi approfondita, casco dal sonno - mi dico che sono un timido, con le donne. Se mi avesse telefonato lui, quel vecchio stronzo di Casotti, per chiedermi un favore, non avrei esitato a mandarlo garbatamente a quel paese. Con le donne, specie se giovani, è un'altra faccenda. A parte il fatto che loro, a mandarcele, ci vanno volentieri. Sono timido, con le donne. Sia ben chiaro: una timidezza controllata. Riesco ad assumere e a mantenere un comportamento sciolto, la grinta dell'uomo sicuro di sé. Dubito che loro, le donne, siano tanto intelligenti da accorgersene. Quel che conta non è ciò che è ma ciò che appare. Purtroppo, mi costa una faticaccia. Tanto vale evitarle, le donne, finché si può. E' già complicata, la vita.
Carosello sta per finire. Le nove sono trascorse da tre minuti. Se alla fine dell'ultimo sketch non arriva, «non sono in casa». Tengo molto alla puntualità. Non mi va di aspettare.
E' arrivata alle nove e venti. Si scusa. Dice che ha trovato un intoppo nel traffico.
La faccio entrare nel salotto. Lei siede nella poltrona e io di lato nel divano. Non l'ho ancora guardata in faccia - comincio sempre dal basso. Accendo intanto una sigaretta. La sua voce è calda, un po' roca, alla Claudia Cardinale. Indossa una gonna maxi a bottoni, poco sbottonata. O ha le gambe mal fatte o teme che mi butti a frugargliele - povera illusa!
Dico: «Il traffico, capisco. Non si scusi. Beve qualcosa? Un caffè?».
«Preferisco il tè, grazie».
Contenta lei! Con il tè faccio prima: apro il rubinetto dell'acqua calda, riempio la teiera, ci metto dentro due dosi, due fette di limone, due cucchiaini di zucchero e il gioco è fatto.
La sua voce mi raggiunge in cucina: «Lei vive solo?».
«Apparentemente sì… in realtà vivo con i personaggi dei miei libri… peggio della metropolitana nelle ore di punta».
«Posso darle una mano per il tè?».
Non mi ha dato neppure il tempo di dire «lasci stare, ho finito», me la vedo davanti illuminata in pieno dalla lampada. Sorride - mi pare che sorrida. L'unica cosa che vedo di lei, che io guardi o no, sono i suoi occhi verdi… Il verde cupo del mare del golfo di Oristano, poco fondo e ricco di alghe, dove si pescano gli sparlotti con la palamite.
Inciampo nel piede di una sedia. Una tazzina se n'è andata al diavolo. Dovrò raccogliere i cocci - no, non ora, davanti a quegli occhi, più tardi. Comincia a costarmi più del previsto, l'inviata di quel vecchio stronzo di Casotti. Ma come diavolo avrà fatto a ottenere quella cattedra?
«Senta - dice - beviamolo qui, il tè. Mi fa sentire a mio agio, la cucina. Sa, sono un po' emozionata, è la prima volta che vedo uno scrittore…».
Porta la tazzina bollente alle labbra. Sussulto di raccapriccio: si scotterà le labbra. Deve averle di amianto: manda giù il tè bollente a sorsi regolari. Ritorno ai suoi occhi: non bevono, loro, non ne hanno bisogno, meravigliose creature angeliche, senza peccato originale.
«Ho sentito parlare tanto di lei. Il suo ultimo libro mi ha fatto piangere. Sa, quei quattro che vanno insieme in un lungo viaggio e alla fine l'ultimo si uccide…».
«Oh, ma che brava!» dico, e penso che non ha capito nulla della simbologia attraverso cui si esprime il messaggio sociale. Come poteva suicidarsi, se era già morto? Chissà con che cosa legge, forse con la testa. Ha capelli quasi neri, aerei, vaporosi. Se avesse letto con gli occhi!… Quegli occhi cominciano a pesarmi - dove ho mai visto un verde simile? No, il mare del golfo di Oristano è diverso. E' il colore della puszta ungherese a primavera. Sono sconfinati, non mi stupirei di vederci galoppare branchi di cavalli selvatici. In testa, uno stallone bianco al rallentatore.
Mi è passata la voglia di bere il tè. Avrei preferito un caffè - mi mette subito su di tono. Mica posso mettermi a fare il caffè adesso, davanti ai suoi occhi color puszta. No, non precisamente color puszta… ne ho colto l'essenza in un riflesso… sono verdi con un sottofondo marrone e giallo - un bosco di lecci bavaresi a ottobre, un immenso tappeto di foglie morte.
«Forse sto abusando del suo tempo», dice.
Non so se sia sincera o se abbia fretta di prendere ciò che le serve per andarsene. Non ha capito che il tempo si è fermato. Eccetto gli occhi, tutto è stupido in lei. Si, non può che essere stupida: ha guardato l'orologio. E' patetica come una marionetta.
Dico: «Ha portato le domande?»
Fa per aprire la borsetta.
«No, non qui. Andiamo nello studio. Venga».
Le domande sono impertinenti. Si potrebbero ridurre a una sola, alla ipotesi di sviluppo industriale, se le scelte sono quelle giuste al tipo di impianto, al loro costo, agli investimenti, alla occupazione, al reddito e quali condizionamenti, negativi o positivi, ne derivano alle strutture socio-economiche tradizionali. Personalmente risponderei con una sola parola: merda!
Mi scruta, mentre scorro il suo questionario, compilato a mano - una calligrafia elementare, letterine piane e rotonde distese senza una spina dorsale. La carta è di un biancore fluorescente, vi si riflettono i suoi occhi, e il foglio è diventato un prato irriguo di trifoglio e ladino.
Mi siedo alla macchina da scrivere. Lei avvicina una sedia e mi si mette al fianco, sulla sinistra. La gonna è una maxi pesante a disegni scozzesi, maledettamente abbottonata. Le vedo appena le caviglie… Non la mangio mica, non sono un maniaco… La gonna è tesa sui fianchi e sulle cosce. Si capisce che è grassottella. Comunque, non è carino andare a casa del prossimo a chiedere un favore tenendosi tutta abbottonata.
Metto due fogli e la carta carbone. Conservo sempre una copia di tutto. Non si sa mai. Ciò che do è una parte di me che se ne va. Duplico, e do la copia. Mai l'originale. Anche quando faccio un regalo, ne acquisto due uguali e mi tengo quello meglio riuscito. Se sono perfettamente uguali, ci penso io stesso a renderli differenti con un graffio o con una leggera ammaccatura.
«Ho idea che cinque minuti non basteranno», dico.
«L’avevo previsto», dice.
L'ha detto col tono di chi prova gusto a starti addosso. Mi ha fatto l'effetto di una carezza in una zona erogena.
Dico: «Senti, perché non ci diamo del tu? No, non fare quella faccia, non stare a lambiccarti sul perché, te lo dico subito io, il perché. Stiamo facendo un lavoro insieme, no? dunque siamo alla pari, finché dura. Chiaro, il perché?».
Muove la testa assentendo, ma è chiaro che non ha capito. Mai avevo visto o immaginato di vedere una testa muoversi con tanta lievità. Ed è ovvio, perché mancava in tutte le teste di mia conoscenza un elemento necessario al verificarsi del fenomeno: quegli occhi verdi. No, dire che sono verdi non è esatto. Di che colore è una insenatura della Costa Smeralda? Ve ne sono alcune raggiungibili soltanto dal mare; ci si arriva in motoscafo, in due, maschio e femmina; si può stare sdraiati sulla sabbia calda senza costume da bagno, a giocare finché si vuole, tranquilli… Posso chiederlo a lei, di che colore sono. Lei dovrebbe saperlo.
«Non fare caso alle mie stranezze. Tu capisci com'è uno scrittore… Non ricordo il tuo nome. Ricordo che suona dolce. Giusi, mi pare…».
«Giusi?! questa è bella! Perché dovrei chiamarmi Giusi?»
I suoi occhi si socchiudono nel sorriso. Una eclissi parziale. Odio le eclissi quando sto in riva al mare, disteso sulla sabbia calda di una insenatura della Costa Smeralda, senza costume da bagno. Riaprili, gli occhi, Giusi o come diavolo ti chiami. Non vedi che sono senza slip. Mi abbronzano e mi inturgidiscono…
«Mi chiamo Rosy».
«Rosy, sì. Scusami, Rosy, volevo dirti… lo so che la domanda è cretina, ma ho un motivo serio per fartela. I tuoi occhi di che colore sono?».
E' piacevolmente stupita. Gongola come se le avessi fatto chissà quale complimento - non ha capito un cavolo. Scommetto che le si è stretta la vulva, dalla gioia. Ha sgranato gli occhi in modo osceno. Sono ancora più osceni, abbottonata com'è dal collo alle caviglie.
«Di che colore sono?» dice.
Li socchiude, ora, ridendo divertita. La gatta fa le fusa. Certo: che stai a ripetere, oca? Hai capito benissimo: di che colore sono i tuoi occhi.
«Stavolta ti sembrerò strana io, perché proprio non lo so. Non ci ho mai pensato. Non dico che non me li sia mai visti, ma non ho mai fatto caso al colore. Davvero, è la prima volta che qualcuno mi ci fa pensare…».
Deve avermi preso per un sorcio, la gatta! Mi sono incautamente addentrato nel suo elemento. Al diavolo il colore! - mi dico. Ma subito mordo la lingua blasfema. Ho commesso un sacrilegio: sono occhi più puri di Nostro Signore. Potrebbe non avere mai fatto un bidet in vita sua: i suoi occhi sono puliti. Non c'è sporco che possa insozzarli. Sono levigatissimi, incontaminabili. Concepiti senza peccato. Vuoi vedere che sua madre è stata visitata dall'arcangelo Gabriele?… Basta. Al lavoro, adesso. Forse si starà chiedendo se sono un affamato. Non vorrei che si mettesse grilli in testa e li andasse a far cantare in giro. Ha l'aria sorniona di chi ha in mano un poker servito - ti sbagli, cara, sono servito anche io: scala reale.
Dico: «Immagino ciò che pensi e ti assicuro che ti sbagli».
«Guarda che non mi è passato neppure per l'anticamera del cervello, criticare ciò che stai scrivendo. Per me è vangelo».
Sì; svicola pure! Si dà matta per non pagare l'osteria. Figurati se m'infinocchi così.
Dico: «Ti credo. Ho buoni motivi per crederti. No, non è presunzione, è coscienza di quel che valgo. Ma non mi riferivo alle pochezze che sto scrivendo per aiutarti a sbarcare la tesi. Mi riferivo ad altro. Osservavo le tue reazioni per utilizzarle poi in una analisi dei rapporti. Mi interessa in particolare il meccanismo della simpatia. Hai letto il mio saggio sulle Attrazioni dei complementari? No?».
«Mi dispiace di non averlo letto. Posso rimediare, se mi dici dove posso trovarlo».
«Lascia perdere. Piuttosto, dimmi, come definiresti la simpatia?».
«La simpatia?… Veramente non ci ho mai pensato».
Se non avesse gli occhi che ha, le avrei messo una mano sul sedere, avrei aperto la porta e l'avrei scaraventata fuori. Ma perché gente simile se ne viene a studiare in città invece di starsene a brucare nelle campagne? Forse non dovrei essere tanto severo, c'è posto per tutti a questo mondo. Perché prendermela con la levità della sua testa? Ha lavato i capelli di fresco, sono odorosi di shampoo Giusi all'uovo - ecco perché la chiamavo Giusi - vaporosi, aerei, un volo di libellula.
Vuole apparire intelligente. Dice: «Se proprio ci tieni che ti dia una definizione della simpatia, posso provarci…».
«Certo che ci tengo. Anzi, consideralo un test… Mi spiego: credo che saresti un personaggio ideale da romanzo. Per ciò mi interessa conoscerti. Più o meno è la storia del pittore alla ricerca della modella per lo chef d'oeuvre».
«Me l'immaginavo. Mi lusinga molto finire nella letteratura. Mi sforzerò di esserti utile…».
Si sta sforzando veramente, poverina. Si vede, le è apparsa una ruga sulla fronte. Pare che non ce la faccia, con una sola ruga, si sta aggrottando tutta. No, gli occhi no, non chiuderli! se li chiudi non mi importa più nulla di te, di conoscere la tua definizione di simpatia - neppure se sbottonassi tutti e dieci i bottoni della maxi. Dovresti spalancare le palpebre, darti due colpetti con la punta degli indici e cavarteli, senza guastarli, naturalmente, e poi metterli qui sulla scrivania e andartene dove ti pare… Li ha riaperti… Riprendo a respirare.
Dico: «Ebbene?».
«Non so, credo che la simpatia sia una specie di attrazione, fisica o di altro genere. Per esempio, curiosità, interesse. Tu - se è questo che volevi sapere - mi interessi e quindi penso che mi sia simpatico. E' così, no?».
«No, non mi pare. Potrei incuriosirti perché sono un mostro e allo stesso tempo potrei esserti tanto antipatico da costringerti a manipolarmi con la tuta antisettica e con le pinze manovrate a distanza. Pensa all'interesse dell'analista per una coltura di bacilli del colera…».
«Hai ragione, interesse e curiosità non vogliono dire simpatia. Però, nel caso tuo coincidono. Mi incuriosisci e non ti trovo scostante».
Bontà sua, non mi trova scostante. Ci mancherebbe altro… non ho alito fetido, non sudo ai piedi, non puzzo di urina. E non a caso: un uomo intelligente non può essere brutto. I caratteri somatici si plasmano sotto la pressione del lievito interiore, esprimono ciò che c'è dentro. Fatta eccezione per gli occhi, che sono creature a se stanti, di forma perfetta. Si è mai visto che diventino piramidali, cilindrici o prismatici?… Però, come mai ti è saltato in testa di aprire un discorso sulla simpatia? Un pretesto banale per appurare se lei ti trova simpatico? Bene, adesso lo sai: dice che non sei scostante. E' già qualcosa, e in più pare che sia curiosa di te. Potrei sbilanciarmi io - spetta all'uomo sbilanciarsi per primo, stando alle regole del gioco… Macché giochi d'Egitto! tu, Bruno Melas, scendere sul piano della banalità, sul suo piano, sussurrandole: Sei molto graziosa, mi fai fare pensieri piacevoli e così via. Le parole non vanno sprecate in banalità. In questo caso è ancora più stupido dirle, poiché lei è certamente convinta che io le abbia pensate.
Dico: «La simpatia, mia cara, è un fenomeno ancora poco studiato. Non la si può liquidare come una tendenza contagiata dall'emozione, come una partecipazione affettiva o atteggiamento affettuoso. Definizioni da manuale di psicologia che possono soddisfare il tuo professor Casotti. In effetti non spiegano nulla. La simpatia è la capacità naturale delle molecole di aggregarsi. Aumenta col peso specifico… mi segui? E' il meccanismo propulsore della vita, che è aggregazione. Se riesci a controllare questo meccanismo sei libero; se te ne lasci dominare, non conti più nulla, sei come la sabbia del deserto in balia dei ghibli. La simpatia si potrebbe paragonare anche alla scintilla che dà fuoco alle polveri. Tutto bene se si tratta di una carica prestabilita per lanciare un proiettile. Catastrofica, se la scintilla è dolosa, se c'è molta polvere, se la Santa Barbara non è sufficientemente blindata e custodita. Lo scoppio sfascia tutto quanto, la nave affonda o va alla deriva. Allora è il dramma. Il dramma - intendiamoci bene - non la tragedia che è un'altra cosa. Tragedia è la sciagura del Vajont, l'assassino di Sacco e Vanzetti, il colpo di stato dei colonnelli. Il dramma è una tragedia intima, che si sviluppa ed esplode nell'ambito individuale: una calvizie a trent'anni, una eiaculazione precoce, due seni cadenti… Sotto sotto c'è sempre la paura di uscire dal guscio, la paura di un'altra dimensione: le profondità marine o le immensità astrali. Capisci, perché ho usato l'immagine della scintilla che dà fuoco alle polveri? La simpatia è un processo di aggregazione - fuoco più sostanze esplosive - che produce una disgregazione. Una disgregazione che non significa morire ma modificarsi e vivere in una dimensione diversa…».
Mi rendo conto che mi sto scaldando mano mano che sviluppo il discorso. Mi ritrovo davanti un grosso gomitolo; ne acchiappo il capo e tiro; tirando viene che è una meraviglia sentirlo scorrere liscio tra le dita. Non m'importa se me ne sto avvolgendo tutto: il gomitolo è ancora grosso. Finché ce n'è, tiro. Perché non dovrei? Paura di annoiarla? Scommetto che lei non sa neppure che cosa sia la noia. E' di quelle che quando non hanno da fare - cioè sempre - si affacciano alla finestra per vedere passare la gente, e di tanto in tanto si soddisfano.
«Dov'ero rimasto?… Uscire dal guscio… si. La simpatia ha la funzione provocatrice di farci uscire dal guscio. Pensiamo subito ai trabocchetti. Possiamo rimetterci le corna, un piede, un ciuffo di capelli, il portafogli, il posto che occupiamo o magari la verginità… Ecco, siamo arrivati al punto. Tu, perché ti tieni tutta abbottonata? No, è una domanda retorica, conosco già la risposta. Bene, vedo che hai capito… No, non affrettarti a ritirare dentro il guscio quell'esile cornetto soltanto perché l'ho sfiorato col dito. Anzi, rilassati, fidati, allungalo e ingrossalo, poggialo tu stessa sul mio dito. Coraggio, hai paura che faccia male? che riceva una scarica elettrica? che ti caschi il mondo addosso? E invece non ti accadrà nulla di nulla. Prova e vedrai».
Vedo nella sua faccia una espressione sospettosa. Protende il busto pronta alla fuga.
Dico: «Scusa, non fraintendermi. Non parlavo di te, specificatamente. Perché dovrei? Parlavo a te d'accordo, ma tu rappresenti un interlocutore e basta. E se ti stessi chiedendo che cosa c'entra la questione della simpatia e del guscio con l'intervista sulle ipotesi di sviluppo industriale in una regione arretrata, ti avverto subito che c'entra, eccome! Al punto finale del tuo questionario, dove si chiede se si ritengono dannose le esperienze non sperimentate, non rapportate, non adeguate a… non scaturite da… non finalizzate in … eccetera, ho già dato una risposta. Appunto quella che si ricava da ciò che hai appena sentito e che ti spaventa: i capitalisti sono gran bagasce e i lavoratori hanno paura di perdere la verginità».
A questo punto avrei potuto congedarla per un mucchio di buone ragioni: tre ore dopo le nove è mezzanotte; ho un callo al piede in cura da cinque giorni e prima di mettermi a letto devo tenerlo a bagno caldo non so per quanto, anzi proprio stanotte dovrebbe staccarsi, secondo le avvertenze del callifugo; infine devo scrivere almeno tre cartelle, stando seduto a letto, diversamente non riesco a prendere sonno - c'è chi prende la camomilla e c'è chi vuota i testicoli: io scarico il cervello.
Avrei potuto congedarla, se non fosse stato per quegli occhi da strega.
«Rosy, pensa che se io fossi stato un inquisitore di Santa Madre Chiesa ti avrei mandato al rogo…» mi è scappato detto.
Non capisco da dove mi sia venuta fuori una frase tanto cretina. Ormai è fatta. Giuro che non volevo. La scintilla è scoccata. La miccia si è accesa. Immagino la tremenda esplosione, se arriverà fino al deposito centrale delle polveri. La mia non è semplice polvere pirica, è deterrente all'idrogeno. E non ho mica il guscio primordiale di una lumaca, a un solo strato… ho un guscio a strutture multiple, altro che cemento armato del Building! Sono diventato terreo. Una paura folle - la sento salire serpeggiando tra le gambe molli, sfiorarmi gelida i testicoli, avvolgermi le reni, scuotermi di brividi la schiena, prendermi alla gola. Vedo sfocato. Non so se mi stia guardando, se lo spettacolo la diverta o se stia pensando le solite cose che pensa una donna quando un uomo sta sotto.
Sento la voce uscirmi soffocata e non posso fare nulla per trattenerla: «Sei una deliziosa strega, Rosy. Sì, hai capito bene. I tuoi occhi verdi…».
Lei sorride gaudiosa e guarda l'orologio. Dice: «Bene, l'intervista è finita. Mi sarebbe piaciuto trattenermi ancora; peccato che si sia fatto tardi».
Ed io che avrei ritardato anche di un'ora il pediluvio risolutore!
Mi stringe la mano con piglio cameratesco: «Ciao, sei stato molto gentile. Ti ringrazio anche a nome del professor Casotti».
Quando la porta si è richiusa alle sue spalle, in sincronia con lo scattare della serratura è avvenuta l'esplosione.
Pensavo di non ritrovarmi più, dopo. Invece ci sono ancora. Debole, frastornato, ricoperto di calcinacci, ma tutto intero. Qualcosa però deve essere successo nel Building, da qualche parte, con una esplosione simile. Controllerò seguendo la via percorsa dalla miccia. Mi auguro che i danni siano di lieve entità. Comunque non c'è stata una reazione a catena. Le strutture portanti sono salve.
Cerca di ragionare, non lasciarti dominare dai sentimentalismi, smettila di comportarti come un coscritto, non avere paura… Paura di che, poi? Di non essere all'altezza? E che vuol dire non essere all'altezza? Che lei prima o poi finisca per chiudere gli occhi e aprire le cosce. E con ciò? Hai tutte le carte in regola, no? Senti, deciditi e chiedile di uscire. Ne hai una voglia matta, non pensi ad altro da tre giorni. Non riesci a combinare nulla, se non te la levi dalla testa…
Bel modo di levarsela dalla testa: chiederle di uscire! Ma se la conosci appena! Se proprio vuoi liberartene, cancellala. Comincia dagli occhi. Che hanno, in fondo, i suoi occhi? Il fatto che sono verdi? In Ungheria, lo sai, gli occhi verdi sono comuni. Vattene in Ungheria. Oppure al cinema, e fai prima: Elisabeth Taylor ha gli occhi verdi - altro che i suoi. E' in programmazione oggi all'Eden; vai e te li ammiri in tecnicolor panoramici per due ore buone… Dammi retta, sei ancora in tempo, a trent'anni le sbandate sono brutte, non sei più un ragazzino che se cade si sbuccia il ginocchio. Con il tuo macchinone complicato carrozzeria americana, se prendi male una curva succede il finimondo. E non sei neppure assicurato. Pensa, se ti saltano i circuiti dei freni. Da quanto tempo non li revisioni? Non per essere maligno: li hai provati soltanto in teoria. E i tiranti dello sterzo? Se ti si rompono nel bel meglio di una serie di tornanti con strapiombo su scogliere…
Ma no, che vuol dire?! è sufficiente andarci con prudenza, testa sul collo e occhi aperti… I suoi occhi non sono soltanto verdi, sono dolci. Anche il suo sorriso è dolce. Direi che tutto, di lei, è dolce. Caderci sopra non può far male, è soffice come latte di gomma - gli scogli sotto lo strapiombo sono decisamente fuori luogo. Che male può farmi? Non voglio essere presuntuoso: sono certo che non mi dirà di no se le chiedo di uscire stasera. Potrei proporle un programma innocente, cenare insieme in un localino tranquillo fuori città. Al rientro si potrebbe fare una puntata da qualche parte - fuori programma. Dovrei conoscere i suoi gusti: spiaggia, pineta, ruderi di antichità, campagna coi grilli, sentiero di montagna con macchioni di corbezzolo. Un posticino romantico, comunque… parlerei, ascolterei la sua voce, le prenderei una mano nella mia mano, la guarderei in viso, vedrei i suoi occhi verdi farsi languidi…
Piantala! E' chiaro che ti prenderesti una sbandata. Anzi, direi che te la sei già presa. Se proprio vuoi uscire con lei, se il farlo è necessario per dimostrare a te stesso che puoi farcela, che puoi uscire dal guscio senza rimetterci le corna, bene, portala al cinema, falle fare una passeggiata sotto i portici, falle vedere le vetrine - le ragazze vanno matte per le vetrine… Tu e la tua mania delle spiaggette notturne col chiaro di luna! Te le sei sempre soltanto immaginate per rendere più eccitanti le tue masturbazioni - a questo proposito, non riesco a capire quale rapporto ci sia tra il chiaro di luna e le contrazioni eiaculatorie del tuo apparato; io dico che sei un caso patologico da aggiungere al trattato del Kraft-Ebing: giuro che ci sono componenti licantropiche… Stavolta è diverso, non te la stai inventando, c'è, in carne ossa e spirito. Non puoi farla sparire spegnendo il proiettore. Sarà lei ad accenderti la luce, se lasci che ti entri dentro. L'accenderà quando vorrà lei, e tu dovrai subirla. Ti farà ridere e piangere a suo piacimento. Capisci quali pericoli corri? Dammi retta, chiudi porte e finestre finché sei in tempo…
Capisco, e fino a un certo punto ti do ragione. E' chiaro che dappertutto ci sono pericoli. Ma tu esageri per eccesso di prudenza. E nella prudenza c'è sempre un tanto di vigliaccheria. Rinunciare per vigliaccheria, no. Ci vorrebbero motivi più fondati, più razionali. Non posso rinunciare così, per contrazioni viscerali… Fosse un'altra, magari. Con le altre donne è stato diverso, il problema non si è neppure posto: puzzavano di fregatura a prima vista. Questa è diversa, ha due occhi mai visti, odorano di violette… So bene che corro dei pericoli. Ma c'è la marcia indietro, no? Appena il traffico si farà caotico, innesterò la retromarcia, e chi si è visto si è visto. Provare non costa nulla…
Va bene, provaci. D'altro canto, potrebbe dirti subito di no. Chi ti assicura che accetterà di uscire con te? Perché sei un uomo intelligente? Le donne se ne fregano dell'intelligenza, guardano l'uccello; e non hanno tutti i torti: seguono la natura. Tu dici che conta anche il resto. Provaci, fai la verifica. Ci fai una figuraccia e ti sbollisce la fregola. Vai, vai pure, prendi il telefono e chiamala: dieci a uno che ti trova una scusa per non uscire. La tesi, le amiche, impegni già presi o qualche altra frottola di circostanza. Vorrò vedere la tua faccia di uomo importante e intelligente snobbato da una fringuella…
Non accetto provocazioni neppure da me stesso. Mi alzo e vado difilato al telefono. Il numero è segnato sull'agenda aperta ed è lì da tre giorni in evidenza. Sollevo il ricevitore e attacco con le cifre.
Devo rifare il numero quattro volte, prima di azzeccarlo. Che diavolo ti prende? C'è bisogno di emozionarti fino al punto da farti venire un collasso? Stai attento al cuore… Crepi l'astrologo! capita a tutti un po' di emozione, in certe circostanze. Appena pronunciata la prima parola, appena agganciata la navicella, l'emozione passa, e il rendez-vous fila liscio come un olio.
Dall'altra parte del filo, una voce: «Pronto? Pronto??!! Pronto!!!!!»
Potrebbe essere lei, non ne sono certo - il telefono falsa i moduli sonori. Dico: «Vorrei parlare con la signorina Rosy, per favore».
«Sono io».
«Ah, sei tu? Ciao, sono io…» - qui, la mia voce roca in partenza si è affievolita tanto che stento a percepirla io stesso.
Lei mi ha riconosciuto - un dato favorevole. Dice: «Ciao, come stai?».
Ho aperto la bocca con l'intenzione di dirle in tono disinvolto: Bene, cara, e i tuoi occhioni verdi? - Invece non è venuto fuori alcun suono. E' quindi lei a tenere banco: «Immagino che tu sia alle prese con qualcuno di quei grossi problemi che assillano l'umanità».
Tiene banco e si permette anche di sfottere. E con disinvoltura. Ciò che mi fa più rabbia è che sia disinvolta - sentire la sua voce fluire chiara limpida. Io ho i muscoli della faccia duri e tesi; se mi provo a muoverli per abbozzare un sorriso mi si frantumano come vetro.
«Senti Rosy…» - meno male, roca sì ma è uscita, la voce; devo trovare un pretesto per mascherare l'emozione, se si accorge che mi provoca simili reazioni può provarci gusto; chi ha detto che le donne sono tendenzialmente masochiste? mi ritroverei a girare come una trottola seduto sulla punta del suo indice - «…non stupirti per la mia voce, un colpo d'aria, probabilmente, un abbassamento di tono, capisci? in più ho fumato come un turco tutto il giorno… Volevo dirti qualcosa, Rosy, ma non vorrei essere inopportuno…» - piantala di tergiversare; diglielo e buonanotte. Se ci sta, bene; se non ci sta, vaffanculo! Vedi, non ci sai fare con le donne. Devi mostrarti sicuro di te, autoritario, virile. Così: Rosy mi piaci e voglio uscire con te stasera. No, non dire nulla, è deciso. Va, preparati fatti bella, tra mezz'ora passo a prenderti…
Nella pausa si inserisce la sua voce, fresca argentina: «Non sei per niente inopportuno, dimmi pure, ti ascolto…»
«Ecco, non vorrei sembrarti sfacciato… ho pensato di chiederti se stasera hai da fare… capito?».
«Da fare, non ne ho, stasera; però non ho capito perché me lo chiedi».
Sì, fai finta di non capire. Hai capito benissimo, vuoi che mi sbottoni tutto, che mi umili ben bene prima di darmi la stoccata.
«Ecco, vedi, stasera ho pensato di chiederti se te la senti di uscire…».
«Uscire con me? Tu? stasera? come mai?».
Accidenti agli interrogativi! Che bisogno ha di complicarmi una faccenda già complicata? Sento il sudore stillarmi giù dalla fronte. Conviene che mi apra una ritirata onorevole: «Ho capito, scusami, se non vuoi uscire, come non detto».
Un risolino precede la sua voce: «Non ho detto di no. Mi stavo solo chiedendo come mai un uomo come te, uso a frequentare ben altre compagnie… capisci? Io sono una ragazza qualunque, non so cosa può trovarci un uomo della tua levatura».
«Non è come pensi, Rosy», - la voce mi si sta sciogliendo, mi sento sul mio terreno, adesso il banco me lo prendo io - «in questo momento ciò che puoi darmi tu non può darmelo neppure il critico letterario del Mondo» - lo credo bene! se avesse due occhi verdi e tutto il resto così non farebbe il critico - «No, non pensare a chissà che cosa… il fatto è che sono depresso, capisci? Travaglio interiore, grumi esistenziali. Tu puoi essermi di grande aiuto per scioglierli. Ma c'è di più. Nel mio ultimo romanzo mi ritrovo un personaggio che non riesco a mettere a fuoco: è una ragazza della tua età e condizione. Conoscerti mi tornerebbe molto utile. Te ne sarò molto grato, se verrai».
Mi compiaccio con me stesso: è andata bene. Vediamo ora come se la cava lei.
L'ho stesa. Dice: «Mi hai convinta… per amore dell'arte». Cerca di rimettersi in piedi e di ricoprirsi: «Però, la faccenda dei grumi esistenziali da sciogliere… non ci vedo chiaro. Ne parleremo. A che ora vuoi?».
«Non so, diciamo alle otto, prima di cena. Ti va bene per le otto? ».
«D’accordo per le otto. Ti aspetterò giù di casa».
«Sarò puntuale. Alle otto a casa tua… ehi, un momento, via? in che via abiti?».
«Oh, scusami, dimenticavo. Via dei Giudici 18…».
Hai visto? ha detto di sì. E tu la facevi difficile. Non capisco questa tua tendenza all'autolesionismo. E' vero, non sei quel che si dice un fusto, però hai un viso intelligente espressivo. Le donne guardano il viso - dico quelle perbene - non vanno a sbottonarti i calzoni… Se poi fosse una di quelle, che sbottoni pure, non hai nulla da nascondere, è tutto in regola. Anzi, sulla base del rapporto Kinsey, ci scappano due centimetri in più… Mi fai dire cose che non vorrei. Mi ripugna metterla sul piano della volgarità. Ha occhi troppo limpidi, per essere una di quelle. Non è possibile, ho un intuito speciale, io. Se ci sta non è perché è la solita zoccoletta, ha capito chi sono e accettare il mio invito la lusinga…
Ho visto, ma resto scettico. Ti faccio una domanda breve breve: Che cos'ha una ragazza da suscitare tanto interesse in un uomo di trent'anni? Due meravigliosi occhi verdi? Sì, fai pure la faccia sorniona. Il punto della questione è un altro. A che serve mascherare un «buco» con trine pizzi merletti? Ti rendi conto che tutto ciò che è mascherato nasconde una trappola? Ci caschi dentro e non ne esci più - e quel che è peggio, troverai comodo e piacevole starci dentro…
Capisco ciò che dici. Ma non puoi mettere tutto sul piano del sesso. In effetti non so neppure come è fatta, sotto quell'aspetto. Che tu ci creda o no sono i suoi occhi che mi attraggono. E poi, perché definire «trappola» il sesso? Una trappola per chi? A conti fatti è sempre la donna che resta fottuta. Capisco la tua preoccupazione, tu pensi che lei possa legarmi. Ma con che cosa? Ha poco o nulla. Diciamo che ha un'aria fresca da ragazzina, un sorriso dolce, occhi verdi. Non ci ho badato, ma suppongo che abbia un corpo morbido e sodo insieme, piacevole da vedere e da accarezzare - carezze sapienti lungo i fianchi, tra la vita e le reni… Chissà di quali meravigliosi riflessi si illuminano i suoi occhi verdi eccitati dalle carezze!
Vedi, ti ha già cotto al punto tale da non riuscire a salvare le apparenze. Non ti è rimasta neppure la dignità di poetizzare - non dico sublimare - il «buco» con trine merletti pizzi per crearti l'alibi morale d'esserci cascato con l'inganno. No - parliamoci chiaro - tu vuoi il «buco» bello comodo scoperto da infilartici dentro a capofitto. D'accordo, sono affari tuoi. Però è mio dovere avvertirti di certe mie paure, che non sono paure irrazionali. Facciamo alcune ipotesi. Prima: se non ci sta. Seconda: se ci sta. Terza: se ci sta e tu non ce la fai. Andiamo per ordine. Se non ci sta. Significa che porterà avanti il gioco del tira e molla, che è il gioco comune delle donne che non ci stanno fingendo di starci - infatti, ha accettato di uscire con te, non può dire che tu non le interessi. Come si comporterà? Chiaro: dirà di no alle tue profferte con sorrisetti e moine, sapendo così di esasperare le tue voglie a ogni rinvio. Metterà in moto il meccanismo dell'escalation. Durerà mesi e anni, ti sfinirà, attenderà che tu sia sfinito per sferrare l'ultimo attacco - i DC9 coi fiori d'arancio a tappeto: se vuoi la mia fica devi prima sposarmi. A quel punto tu sarai tanto rincitrullito dalla smania da ritrovarti legato mani e piedi… Pensaci, un uomo come te al guinzaglio! Ti userebbe per soddisfare la sua vanità, ti esibirebbe come un bassotto di razza, sarebbe capace di fornicare coi critici per farti assegnare un premio letterario da sfoggiare con le amiche… Seconda ipotesi: se lei ci sta. Beh, puoi toglierti dalla faccia quel sorrisetto soddisfatto: saresti fregato ugualmente. Piangerà, dopo. Reciterà il dramma della fanciulla ignara sedotta dall'uomo esperto. Piangerà, si macererà, dimagrirà, tenterà magari il suicidio per farti sentire un verme. Dovrai fare il buffone per farle tornare il sorriso. Ti farà venire complessi di colpa, ti sentirai un Jack lo sventratore, e ti sveglierai ogni mattina recitando l'atto di contrizione. Mentre la storia nuda e cruda sarà quella di una puttanella che non ha saputo dire di no, che è crollata a cosce aperte davanti al primo… Terza ipotesi: se ci sta e tu non ce la fai. Sarò breve: ne uscirai completamente distrutto. Cerca di ragionare: certe esperienze non si possono fare così di punto in bianco a trent'anni. Sei vergine - no, non fare la faccia allarmata, non vado a spifferarlo in giro… non c'è da vergognarsene, anzi, sei un caso eccezionale anche in questo. Pensaci, non puoi andare allo sbaraglio, ci vuole un certo rodaggio prima di trovare un ritmo di marcia soddisfacente. Dovresti assoldare una prostituta per un mesetto e fare un corso accelerato. Capisci? se lei ha già fatto esperienze si accorgerà subito di avere a che fare con un uomo vergine. Quando vi rivestirete, ti accorgerai che i tuoi calzoni li ha indossati lei. Ma l'ipotesi è che tu potresti non farcela. Sai molto bene che sulla efficienza di un apparato - specialmente di quello - gioca non soltanto l'allenamento ma lo stato d'animo. Tu, ti troveresti nello stato d'animo del frocio - senza esserlo realmente, non fraintendermi. Le prime esperienze sono quelle che contano, vanno fatte a sedici anni, alla bersagliera, quando non si ha ancora una complessa struttura caratteriale ma soltanto la semplice rigidità della mazza. Riflettici e vedrai che ho ragione. Comunque la giri ne esci male. Sei sempre in tempo a tirarti indietro. No, non dirmi che puoi stare una sera con lei senza scivolare sul sesso. Dai retta a me, trova una scusa. Datti malato. Le telefoni di nuovo e le dici che ti dispiace molto, che ti è venuto un improvviso mal di qualcosa.
Sì, un mal di pancia… Ti rendi conto? sarebbe volgare, mi declasserebbe. Un mal di testa, magari, sarebbe più consono. Ma troppo poco per disdire un appuntamento. Ormai il dado è tratto. Ci andrò, coi piedi di piombo. Studierò attentamente ogni mossa, stai tranquillo… Accidenti, le otto meno un quarto! Devo ancora prepararmi, farmi la barba, mettere il dopo-barba - che abito indosso? Ci vuole qualcosa di sportivo, calzoni e maglione. Devo comprare le sigarette. Comprerò la sua marca, per stasera… a proposito, sarà bene portarle dei fiori? No, vecchi moduli romantici. E' una ragazza moderna. Se mai una scatola di baci Perugina, creano l'atmosfera. No, meglio un libro. Il mio ultimo romanzo, magari. Ha una bella rilegatura e fa la sua figura in uno scaffale.
Alle otto precise, io parcheggio e lei esce dal portone. Apro il vetro e le faccio un cenno di richiamo con la mano. Mi vede e si avvicina. Le apro lo sportello. Sale, si siede, dice «Ciao» e richiude lo sportello con un colpaccio. Deve essere abituata con le Fiat 500. Il suo profumo si diffonde nell'abitacolo. Se ne deve essere cosparsa senza risparmio. Buon segno, vuole fare colpo.
Tento inutilmente di vederla sbirciando con la coda dell'occhio. Lei deve essere voltata sfacciatamente, per scrutarmi a suo agio - ho intravisto il luminoso riflesso dei suoi occhi verdi. Mi sento emozionato. Dico: «Ciao, Rosy, contento di rivederti». Il saluto è un pretesto per guardarla. Ha il viso disteso sorridente, fresco come una rosa. Possibile che sia così tranquilla anche dentro?
Avvio il motore, ingrano la prima e partiamo.
Dico: «Scusa, una domanda cretina: come ti senti?»
«Come mi sento? benissimo direi».
«Non mi sono spiegato. Voglio dire se ti senti emozionata».
«Emozionata? E perché dovrei esserlo?».
«Beh, così… per il fatto che siamo insieme, io e tu, soli…»
«No, guarda, meglio parlarci chiaro subito: sono venuta perché ho pensato che sei una persona a modo, uno che non ha in testa idee sbagliate. Tu mi capisci».
Ho capito benissimo e mi sono affrettato a rassicurarla.
«Infatti, sono un gentiluomo. Non chiedo mai nulla a una donna che lei non sia disposta a darmi».
Sono stato in gamba. Ho salvato capra e cavoli: se non ci sta, ne esco bene, lei è salva perché mi sono comportato da gentiluomo; se ci sta, l'ha voluto lei, in tal caso un gentiluomo resta tale anche se non si tira indietro.
«Hai un programma?» chiedo.
«No, lascio fare a te, mi metto nelle tue mani».
Difficile capire se si tratti di disponibilità o di quel vezzo donnesco di farsi sempre pilotare dal maschio, lasciargli l'iniziativa per avere l'alibi morale in caso di incidenti: ha fatto tutto lui, ergo è tutta colpa sua.
Dico: «In ottime mani. Sicure, soprattutto. Bene. Per prima cosa si va a cena. Meglio fuori città, è più distensivo. Conosco un posticino tranquillo a venti chilometri, ci si mangia bene. Poi, si potrebbe fare una corsa fino al mare. Due passi sulla spiaggia, una boccata d'aria… Ti va?».
Fa cenno di sì con la testa. Chissà dove l'ho io, la testa - mi ritrovo incastrato nella marea delle auto incanalate verso il centro della città. Avrei dovuto prendere esattamente la direzione opposta: stavo a due passi dalla circonvallazione. Ora sono in piazza del Duomo - vorrei sapere come farà la gente ad ascoltare la messa, senza un buco per parcheggiare.
Sono quasi le nove quando riesco a svicolare sganciandomi dal traffico - per fortuna ho fatto il pieno stamattina, la lancetta segna ancora metà serbatoio.
Dico: «Ce l'abbiamo fatta. Tra dieci minuti saremo seduti a cena. Un localino grazioso, vedrai, ti piacerà».
Non parla. La scruto con la coda dell'occhio. La strada è ancora stretta, trafficata, non posso distrarmi dalla guida. Che cosa ha lei di tanto importante - fiumi, verdi pascoli, bisonti? - da spingermi a dissotterrare l'ascia, uscire dalla riserva, dipinto come un sioux, infilare il sentiero di guerra? E lei, che cosa l'ha spinta? Mi scappa detto: «Ti sei fatta bella per uscire con me, ciò significa che non ti sono indifferente».
Dice: «Ma che strane riflessioni fai?». La sua voce suona aspra - ha i cornetti sensibili, la lumachina. Ho fatto male ad acchiapparglieli appena li ha tirati fuori dal guscio. Sei stato maldestro, vacci piano: che razza di psicologo sei?
Siamo sull'autostrada. Posso accelerare e distrarmi dalla guida.
«Vuoi che andiamo più forte? Ti fidi di me?»
«Sì, corri pure. Mi piace correre. Non ho paura».
«Vuoi parlarmi di te, intanto? Ti conosco appena».
«Che dirti? La mia vita non è un granché. Ho ventidue anni, frequento il quarto anno di lettere, sto per laurearmi. Soltanto da un anno vivo in città. Vivo abbastanza sola. Mi piace leggere, ascoltare musica e andare al cinema. Vengo da un paesino agricolo, Zirale - forse non lo conosci neppure di nome».
«Zirale?! come no?! Ci sono anche stato, alcuni anni fa, con una équipe dell'ufficio di programmazione. Posso dirti che è ricco di vigneti che danno un ottimo vino da dessert. Rientra nella zona di sviluppo agricolo. Vi sono in atto trasformazioni fondiarie. Nelle aree irrigue sono stati impiantati con successo numerosi carciofai. Il prodotto viene esportato nei mercati del Lazio…».
«Non mi sono ambientata, non so se ce la farò mai. La città è dispersiva, ti isola. Credo sia questo il mio problema più grosso. Non è facile inserirsi, creare rapporti…».
Dico: «Beh, sì, la città, l'alienazione, la nevrosi… non hai letto i miei saggi sulla questione…?» - Alienazione del cavolo! Coi suoi occhi e con tutto il resto a sua disposizione, se fa un fischio si ritrova intorno una muta famelica di rapporti. «E i tuoi colleghi di facoltà? Se non hai occasione tu di fare amicizia…».
«I compagni di studio? Non li conosci. L'amicizia, gli affetti sono sovrastrutture borghesi - dicono. Pensano alla politica, alle assemblee, al volantinaggio, alla rivoluzione. Nei ritagli di tempo, studiano. In paese era diverso».
«Raccontami ciò che facevi in paese».
«Tante cose. Ero più ragazzina, forse, certo più spontanea, più serena. Mi divertivo molto con le amiche. Studiavamo in gruppo, tre o quattro. Ci chiudevamo in camera con una scorta di panini, affettato, frutta e liquori. Di sera, sul tardi, quando eravamo stanche di studiare, mettevamo dischi e ci sbronzavamo. Facevamo delle recite buffe, dopo bevuto. Una volta Anna aveva esagerato col gin, era scivolata dal letto sul pavimento, ci guardava con occhi umidi. Diventava triste, con l'alcool; diceva: "Oh, Dio, che mi succede? Nessuno mi vuole perché ho le gambe storte. Perché non mi volete bene? Come sono infelice. Vorrei essere un uccellino e volare…" Si alzava barcollante e cominciava a scuotere e braccia saltellando, facendo cip cip finché inciampava da qualche parte e stramazzava sul pavimento. Quindi attaccava a piangere e ricominciava la cantilena… C'era di mezzo un ragazzo, un presuntuoso, lei si era presa una brutta cotta e lui la snobbava… Ci divertivamo un mondo. Una notte avevamo molto da studiare, le interrogazioni dell'ultimo trimestre. Eravamo rimaste a dormire insieme. Faceva un caldo matto, il sonno non ci veniva. Avevamo saltato la finestra a pianterreno sulla strada, in camicia da notte; ci eravamo sedute sul marciapiede, a raccontare barzellette, quand'ecco apparire le luci di un'auto in fondo alla strada. Non passava mai nessuno - doveva essere qualche studente motorizzato informato delle nostre abitudini, in vena di scherzi balordi. Eravamo mezze nude - puoi capire, a quell'ora di notte, si poteva pensare male di noi. Fuggimmo risaltando la finestra. Rosa prese lo slancio, era grassottella, forse l'emozione, non ce la fece e restò a metà sul davanzale, col sedere fuori esposto illuminato dai fari dell'auto… Restammo tutta la notte a parlare e a ridere del sedere di Rosa…».
Beata lei che si diverte con così poco. La scena sarebbe stata più divertente se l'autista dell'auto, fermatosi coi fanali puntati sul sedere di Rosa, fosse sceso e l'avesse inchiappettata; se intanto per un improvviso contatto il clacson avesse preso a suonare e tutto il vicinato si fosse affacciato alle finestre. Dico: «Una scena davvero comica, Rosa col sedere per aria. Mi sarebbe piaciuto far parte della tua combriccola».
Deve avere pensato storto. «Ma che ti credi? Non avremmo mai permesso a un ragazzo di stare con noi, in intimità».
«Non fraintendermi, era una ipotesi. In una ipotesi tutto è possibile: sarei potuto essere una ragazza anche io. D'altro canto, i tempi sono mutati, non ci vedo nulla di sconveniente se anche dei ragazzi avessero partecipato alle vostre riunioni serali. In fondo, i vostri passatempi, a quel che ho capito, erano più che innocenti».
«Innocenti, perché eravamo soltanto ragazze. Tu scherzi, inserire dei ragazzi. In situazioni del genere, figurati poi bevendo, ne approfittano subito. E tu lo sai bene…».
«Preferisco non parlare di certe cose. Non voglio che tu ti faccia idee sbagliate sul mio conto. So bene che si comincia col parlarne, e poi… Però, voglio fidarmi, con te sarò sincera: non l'ho mai provato. Sono uscita sì, diverse volte, con ragazzi, ma niente intimità».
«Non te la prendere, Rosy, accettalo come un complimento: ho pensato che sei una bestia rara, alla tua età. Se può farti piacere, ti preferisco così, sotto quell'aspetto».
Siamo arrivati più tardi del previsto. Lei dice che non ha preoccupazioni d'orario - prima stava in una pensione dove la signora si credeva in diritto di farle la predica ogni volta che rientrava dieci minuti dopo il tramonto.
Il locale è quasi deserto. Lei ha voluto sedere a un tavolo d'angolo, vicina alla vetrata che dà sulla campagna. Ha gusti romantici, ma è di buon appetito. Va matta come me per i frutti di mare - cozze alla marinara, datteri in salsa piccante, murici bolliti e gamberoni arrosto. Ha dita affusolate, morbide, grassocce.
Dico: «Stavamo parlando di esperienze, ricordi? Esperienze di un certo tipo. Hai detto di non averne mai fatte. No? Ora, l'abbiamo messa sul piano della sincerità… vorrei farti una domanda- sei libera di non rispondere, se credi. Ecco, hai pensato di farne, almeno qualche volta?».
Ci hanno servito dell'ottimo vino bianco - mi sento più sciolto; anche lei, mi pare: mi guarda in modo quasi sfacciato e non smette mai di sorridere.
Dice: «Beh, pensato sì. Se devo essere sincera, ci penso. Cerco anche di immaginarmi… credo di immaginare con sufficiente approssimazione al vero».
«Vuoi dire che in teoria sai bene come si fa, cosa si prova e tutto quanto?».
«Esatto. Ho letto molti libri. Credo sia giusto conoscere certe cose. Farle è un altro discorso. Ognuno ha le sue idee. Da questo lato sono una ragazza all'antica… Ti scoccia se ti racconto un fatto spassoso? Sai, ho un'amica carissima, Zaira, stiamo insieme a pensione, abbiamo fatto gli stessi studi e parliamo delle nostre cose senza nasconderci nulla. Lei ha già fatto qualche esperienza - no, non pensare chissà che cosa; niente di irreparabile, soltanto petting un po' spinto col fidanzato. L'ha piantato quando si è fatto troppo intraprendente, tu capisci ciò che voglio dire… Dunque, una sera, rientrando a casa dopo essere stata fuori con il ragazzo, le ho raccontato di avere avuto il mio primo rapporto. Avessi visto la faccia di Zaira! Ti racconto dall'inizio. Ho preparato a puntino tutta la scena. Ho tardato a rientrare, più del solito, per creare il clima - sai, lei mi aspetta sempre sveglia. Prima di entrare in casa, mi sono sgualcita la gonna, ho strappato un bottone della camicetta, mi sono graffiata le guance e una spalla e ho fatto un'altra cosa, intima, tu capisci, vero? per darle una prova concreta… Non hai capito?… insomma, mi sono punta un dito con uno spillo per farne gocciolare il sangue… adesso è chiaro, no? Mi sono scarmigliata, ed entrando ho fatto la faccia stravolta. Mi sono gettata sul letto singhiozzando. Lei, Zaira, nel vedermi in quello stato è rimasta esterrefatta. Mi si è avvicinata, e "Oh, Rosy, tesoro mio, cos'hai?" E io, scuotendo la testa: "No, no, non è nulla, non farmi domande, passerà…" La mia reticenza, come previsto, l'ha incuriosita maggiormente. Dice: "Dai, parla, a me puoi dire tutto, lo sai, sono o no la tua più cara amica?" E io: " Sono stordita ma felice, da un lato; da un altro lato vorrei morire, mi faccio schifo". Zaira, a quel punto, comincia a fiutare di che si tratta, anche se non immagina ancora la storiella che sto per rifilarle. Dice: "Ho capito, non vuoi confidarti, non ti fidi di me. E io che ti ho sempre raccontato tutto, di me". Allora decido di affrettare i tempi del gioco, e sillabando le parole dico: "Zaira, stasera ho fatto la mia prima esperienza". Stava per venirle un colpo. Dice: "No, non ci credo, tu!? No, non è possibile. Ma come può essere accaduto, Vergine Santa del Rimedio! Quel mascalzone di Carlo… eh, te lo dicevo io di non fidarti troppo". La situazione era molto buffa, dovevo controllarmi per non scoppiare a ridere. Dico: "Zaira, ti prego, non giudicarmi male, se non riesco a parlartene; vedi, mi vergogno a morte… che schifo!" E lei: "No, parla, parla pure, dimmi tutto, giudicarti io? Figurati! sono disgrazie che prima o poi succedono. purtroppo". Dovevi vedere la sua faccia, moriva dalla voglia di sapere, poverina - pensi che io sia un po' cattiva, vero?… Attacco a raccontare: "Dovevamo andare al cinema, stasera, io e Carlo; te ne avevo parlato prima di uscire, davano quel film che abbiamo visto insieme, Anonimo Veneziano, volevo rivederlo per la musica. A un certo punto, lui si alza e dice: "Senti, mi sono scocciato di stare qui a vedere questa barba, dai che usciamo a prendere una boccata d'aria". Lì per lì non ho saputo dirgli di no, prima di tutto non immaginavo le sue intenzioni e in secondo luogo perché mi ha colto di sorpresa. Abbiamo preso il filobus della circonvallazione e siamo scesi all'ultima fermata, dietro il Luna Park. In campagna, praticamente. Un passo dietro l'altro, chiacchierando, siamo arrivati alla pineta che dà sul mare - dove siamo state l'altra domenica, ricordi? C'erano altre coppie, le intravvedevo dietro i cespugli; lui, tenendomi per mano, mi ha portato sempre più nel fitto. La presenza di altra gente mi dava una certa tranquillità. O meglio, ero sì in allarme ma non in allarme totale. Mi ha fatto sedere per terra, aveva i piedi stanchi, e si è seduto anche lui, con le spalle appoggiate a un tronco - dopo ci abbiamo inciso le nostre iniziali con la data, io ci avrei messo una croce al posto del mio cuore… Mi ha preso la mano e se l'è messa sul grembo, come fa d'abitudine, e io l'ho lasciato fare. Siamo rimasti così finché non ho sentito dei brividi di freddo. L'aria era umida. Lui per riscaldarmi mi ha abbracciato. Devo essermi distratta, nell'abbraccio, perché mi sono ritrovata distesa con lui sopra che mi baciava e mi frugava sotto la camicetta. Era un bacio che non finiva mai - non ha smesso neppure per sbottonarmi la camicetta. Io ho perfino puntato i gomiti, facendo resistenza, col risultato di rimetterci un bottone - vedi, questo che manca… Non ti dico la vergogna quando mi ha scoperto i seni! Ho cercato di dare calci, di fermargli le mani… accidenti, quanto è forte! Non sembrerebbe, vero? mingherlino com'è, Carlo… Io bloccavo una mano e saltava fuori l'altra mano; gliele bloccavo tutte e due e lui usava la faccia… mi si stropicciava addosso col naso, con le guance, con le labbra… cercava di mordere. Un leone, ti dico… Quando è riuscito ad acchiapparmene una con la bocca, non ce l'ho fatta più a resistere, mi sono lasciata andare… Però, sai che piacere farsi strizzare e succhiare i capezzoli…».
Si interrompe. Mi pare che stia scrutando le mie reazioni, protesa in avanti, coi gomiti sopra il tavolo e il mento sui pugni. Dico, vuoi vedere che la storiella raccontata all'amica è una balla e che la stai rifilando a me fresca fresca? Se voleva eccitarmi, c'è riuscita, la porcacciona. Sarà vergine quanto vuole, ma a livello psicologico è una gran bagascia. Scommetto che se la fa così, lei, parlandone. Sentiamo il resto della storiella. Ormai è lanciata… Dico: «Devo riconoscere, cara Rosy, che la fantasia non ti manca. E poi, come è andata a finire con Carlo?».
«Con Carlo? Scherzi?! Se ne è rimasto buono per tutta la durata del film, poi ci siamo seduti a un tavolino di un bar sotto i portici, abbiamo bevuto un caffè, chiacchierando di esami e fumato».
«Volevo dire: Carlo nel racconto a Zaira. Sei rimasta ai seni. E dopo, com'è finita?».
Scoppia a ridere divertita. Dice: «Le ho raccontato tutto, nei minimi particolari. Ovviamente non posso ripeterti testualmente, tu non sei una ragazza… Ti garantisco che gliela ho raccontata con sufficiente verismo. Quando sono arrivata al momento… tu mi capisci… Zaira è crollata sul letto, ansimava e boccheggiava come un pesce fuori dall'acqua. Doveva essersi immedesimata un po' troppo… capisci? Appena si è riavuta ha cominciato a farmi un mucchio di domande sui particolari che le erano sfuggiti: se ha fatto molto male, che genere di piacere si prova, quanto è grosso, eccetera… Sulla questione delle misure, sinceramente, non sapevo come cavarmela; c'era sul comodino una bottiglia di vermouth e ho indicato quella. Zaira ha sgranato gli occhi esterrefatta, è impallidita mormorando "oohhhdddio"!».
Siamo alla frutta. Rosy è alle prese con una banana. Non so se voglia che io attribuisca alla banana un certo significato: la tiene in mano tutta intera sbucciata e più che morderla se la succhia. Dico: «Capisco una banana, ma una bottiglia di Vermouth! Resterà delusa, il giorno che farà l'esperienza, povera Zaira…»
«Perché delusa? Il tuo è il punto di vista del maschio, del fallocrate. Non pensate ad altro, voi uomini, convinti che tutto l'universo ruoti intorno al vostro coso… Anziché delusa, ne uscirà rinfrancata… e il maschio dissacrato».
«Non ti supponevo femminista… Sai, stavo pensando che tutta questa storia deve pur avere un significato. Sincerità per sincerità: io credo che più o meno consciamente tu desideri fare ciò che ti sei inventata…».
«Ti sbagli di grosso, figurati! E' vero, la tua amicizia mi interessa, sei un tipo in gamba, hai successo, mi piaci anche… ma sei pregato di non metterti grilli in testa. Io sono una di quelle che vanno a letto con un uomo soltanto dopo il matrimonio. Puoi giudicarmi arretrata e stupida quanto ti pare: so bene che valore ha per voi uomini - sì, anche per quelli come te che si reputano moderni, di mentalità aperta - la verginità…».
«Quindi la conservi per usarla come merce di scambio».
«Certo. Il mercato dei valori non l'ho inventato io. Voi l'avete inventato, voi uomini».
Ricasca sul tasto femminista. Devo evitare che si tocchi quel tasto. Si scatenerebbero rancori ancestrali e finiremmo per accapigliarci. Mettiamola su un piano romantico: l'amore. Dico: «Tu parli così perché ancora non hai incontrato l'uomo giusto, il tuo uomo. Quando si ama, ci si dà senza timori e senza riserve. Non si pensa più al mercato dei valori». Mentre parlo la scruto con un sorrisetto ironico, e penso che quell'uomo potrei essere io - se soltanto volessi. Ma perché dovrei? Non è che non mi piaccia - mi eccita soltanto a guardarla negli occhi - sto bene così, ecco tutto. Prevedo le complicazioni del dopo: uno si attacca e non si stacca più. Amo troppo la libertà.
Rosy ha finito la frutta, ha fumato, ha rimesso tutti i suoi ammennicoli in borsetta e mormora: «Sarà…» poi, alzandosi dice: «Io direi di andare, se tu vuoi, naturalmente».
Sulla litoranea ho scovato un sentiero e siamo finiti ai margini di una spiaggia deserta. Ho parcheggiato l'auto col muso verso il mare. La notte è tiepida, senza una increspatura, è appena svelata da un corno di luna.
Dico: Gobba a levante, luna crescente».
«Vuoi dire: gobba a levante, luna calante», corregge garbatamente.
Ha ragione. E' uno scenario così romantico da far calare anche le mutande - chissà che cosa pensa lei, che sensazione prova… Se si aspetta che io mi volti e la baci, si sbaglia di grosso. Non commetterei mai un simile errore. Se porti una ragazza a fare un giretto in auto e parcheggi in riva al mare, la prima e unica cosa che lei si aspetta è che ti butti a baciarla. Se l'aspetta e lo vuole per poterti dare uno schiaffo, dopo, e dirti che sei il solito mascalzone che approfitta di un momento di debolezza romantica. Me la immagino, la sua delusione! Penserà che sono un uomo al di sopra delle comuni regole oppure che non m'importa nulla di lei, che non mi piace. In tutti e due i casi, si troverà nella situazione psicologica di prendersi la cotta. Finirà per chiedersi se ho scoperto i suoi difetti, e quali; e il suo orgoglio finirà in pezzi. Al limite, potrebbe anche giudicarmi frocio… ma non credo, non è stupida, ha occhi rotondi, sa che anche i froci baciano; anzi, sono proprio i froci che non perdono mai l'occasione di sbaciucchiarsi una donna, per farsi in società la fama di don Giovanni.
Apro lo sportello e dico: «Facciamo due passi in riva al mare. Ti va?».
Annuisce assorta. Cammina sulla sabbia davanti a me, ancheggiando - è chiaro che vuole sbilanciarmi.
Sediamo vicino sulla pancia di uno scafo di plastica rovesciato.
Dico: «Che quiete, che sensazione rilassante, qui, lontano dal frastuono della città».
«E' davvero rilassante. Non ridere di me, ti prego: sapessi che sensazione mi danno il mare, la spiaggia, la luna, la penombra, il silenzio. Mi riportano ai giorni lontani della mia infanzia…».
«Perché non provi a tradurre in parole, in immagini, in fatti, queste tue sensazioni? No, non per una banale curiosità. Uno scrittore ha sete di conoscenza - conoscere gli altri, altre dimensioni di vita. Capisci?».
«Capisco. Vorresti usarmi. Conoscermi per collocarmi nel tuo museo delle cere. Mi ripugna l'idea di diventare una statua di cera…».
«Scusa, non è così. Sono le esperienze che mi interessano, le sensazioni, i fatti, non le persone…».
«Beh, se la metti su questo piano, diciamo su un piano generalizzato, mi sento più a mio agio, più aperta. Ma tu tiri sempre a parlare di me. Anche io desidero conoscerti. Parlami di te. Chissà quante ragazze ti sei portato qui, su questa spiaggetta… Toglimi una curiosità, come ti comporti con le altre? E le altre, come si comportano? Ne avrai di belle da raccontare».
Credo di capire dove vuole puntare. E se è così, bisogna dire che a livello psicologico è davvero una gran bagascia. Se sapesse che neppure io… riderebbe di me per tutta la vita. Non andrò certo a dirglielo. Da questo lato, noi uomini siamo avvantaggiati. Mica si vede… ammesso che lei lo prenda in mano e lo controlli alla luce del sole. Sesso-cultura e fantasia, modestamente, non fanno difetto neppure a me. E se ti prude, sta tranquilla che la storiella per grattartela te la so rifilare.
Dico: «Non è da gentiluomini parlare di certe cose. La riservatezza è la prima dote. Saresti tu la prima a giudicarmi male».
«D'accordo. Ci mancherebbe altro che un uomo andasse a spifferare in giro nomi e cognomi - so di molti che lo fanno, che se ne vantano, dopo. Lo so, tu non sei di quelli. Io alludevo ai fatti - le persone non interessano: l'hai detto anche tu, no? Mi chiedo se tutta questa questione della riservatezza non sia un pretesto per non parlarmi di te…».
«Ma no, che vai a pensare. Sì, è vero, sono stato altre volte qui, in compagnia…».
Si è fatta attenta, la porcacciona. Scommetto che si sta lubrificando per godersi un buon rapporto psicologico. Non ti deluderò, sta' tranquilla.
«Sai, le solite cose. Devo dire che c'era una forte attrazione fisica da parte di tutti e due. Bionda, sui venti anni…».
«Ti piacciono di più le bionde?».
Ho capito, vuole potersi identificare più facilmente: lei è bruna e la vuole bruna.
Dico: «No, anzi, mi piacciono di più le brune. Godono di più e fanno godere di più».
Ha perso ogni ritegno. Mi fa una moina e con voce roca sussurra: «Dai, raccontami con una bruna… ma senza troppi particolari scabrosi, mi vergognerei».
Gliel'ho raccontata tutta - ho preso lei come modella, mi veniva più facile. Raccontando le ho preso la mano - di volta in volta la sentivo tendersi, irrigidirsi, tremare. Credo di essermi lasciato prendere anche io dal racconto. Quando dopo mezz'ora sono arrivato al punto - «…allora non ho potuto più trattenermi. Lei ansimava e gemeva il mio nome. L'ho tirato fuori tutto duro e gliel'ho premuto sulle cosce e sul pube. Poi le ho spostato le mutandine e gliel'ho strofinato fra le labbra umide. Lei a quel contatto ha stretto le cosce pregandomi di non farle male. Le ho detto di baciarmi, per distrarla. E mentre mi baciava dolcemente, con un colpo di reni gliel'ho infilato tutto fino in fondo…» - la sua mano ha stretto la mia convulsamente, si è messa a tremare tutta e le è sfuggito un gemito. In quello stesso momento sono venuto anche io, gemendo: «Oh, Rosy, Rosy».
Ci siamo ricomposti subito. E' seguita una pausa.
«Però, che mascalzoni, voi uomini!» dice alzandosi. «Si è fatto tardi davvero? E' ora di rientrare, per me».
Rientrando, abbiamo detto poche parole.
«E' stata una bella serata», dice.
E io: «Sì, davvero una bella serata».
La seconda volta sono stato io a parlare. «Credi che sia il caso di rivederci?».
E lei: «No, ti prego. Dopo ciò che c'è stato fra noi, è meglio di no».
Le ultime battute le ha mosse lei: «Non mi disprezzi, ora? Conserverai di me un certo ricordo?».
E io: «Cara, sei stata meravigliosa, non ti dimenticherò mai».
3 - Sfogliando le margherite
Ci stiamo struggendo in attesa della rivoluzione. Non trovo il tempo neppure per lavare l'auto. In questi ultimi anni abbiamo messo a punto non meno di sette ottime teorie rivoluzionarie, sacrificando tutto il resto. Il sistema se ne impadronisce, apporta le modifiche idonee a renderle inoffensive, le confeziona in serie col cellofan e le immette nel mercato con proprio copyright. Dovremmo brevettarle.
La mia compagna si è fatta il seno cadente col lavoro dei ciclostilati. E' un trantran che dura da molti mesi. Di mattina fa il giro delle sedi politiche per leggere i quotidiani borghesi: c'è sempre un giro di vite repressivo e un anelito libertario che trapelano tra le righe delle cronache addomesticate. All'ora di pranzo, torna a casa e prepara la matrice. Per risparmiare sui fondi del Comitato ha tentato più volte di riutilizzare una stessa matrice cancellando con l'acetone la precedente battuta, senza ottenere finora risultati apprezzabili. Di pomeriggio, va a ciclostilare nella sede del disciolto Psiup e più tardi a distribuire in facoltà di lettere. Di notte, a letto, riusciamo a malapena a tirare il consuntivo rivoluzionario della giornata.
In queste ultime notti abbiamo dato fondo al flaconcino di metedryne, per esaminare con più lucidità una recente teoria rivoluzionaria psico-radicale. E' emerso un punto che crediamo di dovere approfondire. L'enunciato è il seguente: «Le masse saranno pronte alla rivoluzione quando tra i lavoratori si instaureranno rapporti interpersonali soddisfacenti, tali da produrre in ciascuno la sicurezza pari al quoziente medio di equilibrio psicodinamico». Alla teoria è allegata la tabella dei quozienti, per una verifica scientifica dell'attuale livello rivoluzionario nelle masse.
Il punto da approfondire è questo: «Ogni proletario deve trovare almeno una parola rivoluzionaria che tutti i proletari siano in grado di comprendere». Ne deriva che moltiplicando una parola rivoluzionaria per il numero dei proletari si ottiene un prodotto di milioni di parole tutte diverse e tutte rivoluzionarie «comprensibili». Secondo la mia compagna il difficile è trovare in ciascuno questa parola che valga per tutti. Io sono convinto che vale la pena cercarla, ciascuno dentro di sé, data la sua importanza teorica. Ho letto nella presentazione che tale ricerca sta alla base di una nuova fratellanza proletaria.
Il ventuno marzo, con l'equinozio di primavera, ho deciso di lavare l'auto. Una operazione che sto rimandando di stagione in stagione da almeno sei anni, diciamo, all'incirca, dal maggio francese. Non si tratta di civetteria borghese - tengo a precisarlo. Per fortuna, le articolazioni non hanno punti di ingrassaggio e non c'è pericolo che qualche snodo si ingrippi. Siamo giunti ormai a livelli tecnologici che sfiorano la perfezione - se il proletariato gestisse direttamente il potere è facile dedurne quanto più benessere ne trarremmo tutti quanti.
Il giorno stabilito ho dovuto rinviare il lavaggio. I gruppi anarchici dissidenti mi hanno convocato d'urgenza per l'esame della situazione che nel giro di poche ore si è fatta esplosiva. La scintilla è scoccata all'auditorium. I compagni di Scena libertaria vi hanno rappresentato questo pomeriggio «L'odore dei tartufi», un'opera del compagno Ryasick, eretico lituano del XVI secolo. C'erano tutti, per l'occasione. Il dott. Nardi, quello dellufficio politico, alla fine dello spettacolo ha denunciato il compagno Ryasick per vilipendio alla religione di stato.
Bisogna dare una risposta immediata a questa ennesima provocazione. La polizia, a lasciarla fare, è capace di disseppellire i morti pur di avere qualcuno da incriminare. A sera, sul tardi, ottomila ciclostilati in edizione straordinaria circolano nelle varie facoltà. I questurini sono stati presi in contropiede: sono arrivati tardi e hanno sequestrato rimasugli.
Un'ora più tardi è giunta notizia della denuncia inoltrata dal solerte commissario contro due compagni distributori per alcune frasi contenute nel testo - notizie false e tendenziose, secondo lui.
Al nuovo colpo repressivo abbiamo replicato subito con un altro colpo, anzi, con due contemporaneamente. Si dà il caso che i compagni incriminati siano di diversa estrazione ideologica, per cui il giorno dopo sono stati diffusi due distinti ciclostilati: uno degli anarchici individualisti e uno dei comunisti dissidenti.
Davanti all'incalzare della repressione, qualche volta il proletariato riesce a costituire un fronte di lotta unitario.
Nei momenti di minore impegno rivoluzionario, sto cercando di sensibilizzare i compagni ideologicamente più vicini sulla questione del lavaggio dell'auto. Sono convinto della sua importanza strumentale. Sarebbe l'occasione buona per dare una controllatina alla bulloneria - a livello di trazione saltano fuori rumorini che non mi piacciono. Prima o poi dovremmo trovare il tempo. Senza l'auto sarebbe un guaio. Per noi non è un lusso borghese, la gita domenicale o la ragazza da spupazzare in campagna. E' indispensabile per i collegamenti rivoluzionari con le zone interne, per il raccordo leninista tra proletariato urbano e masse contadine periferiche. Il telefono è pericoloso, siamo controllati, la polizia potrebbe registrare in anticipo i testi dei ciclostilati diretti alla base periferica. I costi delle matrici e della stampa qui in città sono nettamente inferiori rispetto alle zone interne. Lì si perde un mucchio di tempo e di carta, l'inchiostratura viene male e il testo risulta illeggibile. Siamo tecnologicamente più avanzati, noi proletariato urbano. Conviene far qui i ciclostilati e portarli lì con l'auto. Il compagno Marx aveva visto giusto.
Nella riunione di oggi sono riuscito a far mettere la questione del lavaggio fra i punti all'ordine del giorno. Stavolta la maggioranza si è pronunciata favorevolmente ed è stata fissata la data del quindici ottobre. Giustamente un compagno di Servire il popolo ha ribadito che non basta metterci benzina e mezzo litro di olio al mese. Per non parlare dell'olio al cambio e al differenziale che - a detta di un compagno di Lotta continua - dovrebbe esserci, e che io non ricordo di averci mai messo.
Rientrando a casa, il compagno Serra di Avanguardia proletaria, proveniente dai comunisti anarchici, mi ha preso a braccetto e mi ha fraternamente suggerito di non portare più questioni di carattere personale in sede di dibattito politico. Ci sono rimasto male: so bene che non è proletariamente corretto. Però - dice lui - certe esigenze individualistiche si possono capire. Per esempio, lui ha una sorella magistralina quasi compagna e se un compagno dovesse entrare in crisi ideologicamente per mancanza di quella cosa lì, sarebbe pronto a dargliela. Quella della sorella, si capisce. Però, senza compiacimenti sentimentali. Quando la rivoluzione bussa alla porta, non è il momento di starsene in contemplazione del proprio ombelico.
Il compagno Serra abita in una di quelle vecchie case periferiche sempre più rare, con un cortile che può ospitare un'auto. Dice che mi aiuterà a risolvere il problema - ricorda di aver visto da qualche parte nel cortile una presa d'acqua e uno spezzone di tubo che un tempo doveva servire a innaffiare qualche cosa. Mi propone di portare l'auto da lui, il quindici ottobre. Coi soldi risparmiati si potrebbero acquistare tre matrici e una risma di carta da ciclostile.
Il quindici ottobre è una data che dovrebbe restare nella storia della rivoluzione proletaria. E' stato arrestato a Parigi il compagno André durante la manifestazione di protesta studentesca per il fermo di dieci compagni operai, accusati di violenza privata e danneggiamento. Il compagno André, membro del Comitato di agitazione del M.S.F., è stato selvaggiamente picchiato prima dell'arresto e pare anche dopo, alla Sûreté.
Alle dieci del mattino c'è un mare di compagni sparsi sulle gradinate della facoltà di lettere. La mia compagna ha trascorso la notte in bianco ciclostilando con altri cinque compagni nella sede del disciolto Mpl.
Poco dopo le dieci i volantini hanno cominciato a circolare. Non se ne era mai visti tanti e diversi tutti insieme. Altro fatto che ci riempie di orgoglio è che una volta di più il movimento rivoluzionario ha battuto in tempismo la polizia.
Verso le undici si sono sentite le sirene delle pantere che hanno bloccato i cancelli della facoltà. Noi ci siamo sparpagliati all'interno. L'avanguardia studentesca si è riunita in assemblea permanente nell'aula magna. La polizia ha dovuto accontentarsi di raccattare qualche ciclostilato spiegazzato.
Sappiamo che ci scapperà la solita denuncia, ma sappiamo anche che qualche poliziotto leggerà i ciclostilati prima di consegnarli ai capi dell'ufficio politico. Leggi oggi, leggi domani non è possibile che non riemerga da sotto la divisa la natura proletaria che c'è sotto.
Sulla questione abbiamo organizzato alcuni dibattiti. Qualcuno sostiene che le tecniche di lavaggio del cervello usate nei centri di addestramento alla repressione diano esiti irreversibili, paragonabili a una operazione di lobotomia. Il compagno Rinaldo di Bandiere rosse al vento, iscritto in medicina, dice che comunque gli esiti sono superiori - in senso di lavaggio - a quelli che si ottengono nelle cliniche psichiatriche con le terapie convulsivanti tipo l'elettroshock.
Io e altri, al contrario, sosteniamo che - fatta eccezione per i gradi intermedi sottoposti, pare, a decerebralizzazione - tutti i casi di lavaggio del cervello con procedimenti psicodinamici perdono efficacia col tempo. Nel soggetto lavato tende cioè a ricostituirsi la natura proletaria. Ne deriva che quanto più si eserciteranno in tale soggetto sollecitazioni uguali e contrarie a quelle candeggianti, tanto prima riaffiorerà in lui l'originaria natura proletaria. Il fenomeno si potrebbe dimostrare in pratica con la formula del principio di Archimede.
Da qui la tesi operativa - condivisa ormai dai più - di allargare la diffusione dei ciclostilati alle caserme e ai commissariati. Un incoraggiamento a battere questa pista ce lo danno gli stessi carabinieri e poliziotti che in gran numero scrivono ai direttori dei giornali revisionisti, lamentandosi del basso coefficiente di stipendio - indubbiamente è un primo passo verso la maturazione di una coscienza di classe.
Ho dovuto rinviare il lavaggio a tempo indeterminato. Negli animali di specie inferiore allo stimolo segue immediatamente la reazione. Nell'uomo, che è un animale politico, allo stimolo seguono complicati processi di mediazione che possono allontanare sine die la reazione. Ci mancherebbe altro che in un momento storico favorevole alla rivoluzione dovessimo indulgere agli stimoli sensoriali! Mangiare, fottere, ripararsi dalle intemperie e lavare l'auto diventano un perditempo borghese. Quando muove il vento nell'aia, quello è il preciso momento di ventilare il grano - dicevano i nostri padri rivoluzionari.
So per esperienza che per tutto l'autunno e parte dell'inverno - fino alla tregua natalizia - non ci sarà spazio per i processi immediati; e non sto facendo riferimento ai soliti processi agli anarchici che non si fanno mai, perché tanto i compagni sono già in galera. Dico delle lotte operaie per i nuovi contratti di lavoro, che per giungere in porto prevedono laboriosissime mediazioni e contrattazioni tra sindacati e padronato. E se gli autunni sono caldi, noi dobbiamo arroventarli.
A proposito, dovremmo riflettere sul fatto che in questo periodo si parli di sindacati e di padronato e non di sindacato e padronati. E' sintomatico, mi pare: loro uniti e noi divisi. E poi mi chiedo come mai i compagni lavoratori non scavalchino mai i sindacati. Chiunque difende il prossimo per mestiere, cioè per la pagnotta, ha un'anima mercenaria. Non siamo tutti d'accordo sulla funzione rivoluzionaria dei sindacati. Per me sono giani bifronte, da una parte mostrano la grinta proletaria e minacciano il quarantotto e dall'altra parte vestono il doppiopetto grigio prendendo la bustarella del padrone.
Il fatto è che il sistema è un macro-paperone che trasforma in dollari ogni cosa che tocca. I canali per la produzione a getto continuo sono sacri - e guai a chi li tocca. Istituzionalizza tutto ciò che frutta. Il sistema produce e controlla i cavi della corrente positiva e negativa; chiudendoli in circuito ti accende le lampadine e ti fa pagare le bollette della luce. Ma il gioco è più complesso: sfrutta i lavoratori e ne ricava dollari. Nel contempo, sfruttando, provoca reazioni eversive negli sfruttati; queste reazioni le ingloba, le manipola, le organizza in movimento istituzionalizzato e utilizza la carica rivoluzionaria per aumentare la produzione capitalistica. Abbiamo saputo di un grosso editore borghese che ha realizzato miliardi vendendo i pensieri di Mao in libretti rossi cellofanati. Insomma, la teoria dei circuiti chiusi transistorizzati applicata all'ordinamento sociale.
So che non è facile essere un compagno. Credo di poter dire che lo sto diventando perché sono uscito dalla dimensione del bambino che ruba la marmellata e dice bugie per paura delle botte. Oggi, la marmellata la prendo apertamente e insieme prendo le botte senza battere ciglio. Chi la dura la vince.
Credo nelle analisi. La demistificazione dei giochi del sistema è una applicazione rivoluzionaria teorica che mi appassiona moltissimo. Stanotte ho discusso a lungo con la mia compagna sulla utilità di tale applicazione. Siamo giunti alla conclusione che bisogna aprire un dibattito allargato ai compagni del Manifesto sono i più sensibili all'argomento; ma anche Giulio e Andreina, del disciolto Mpl, hanno mostrato un profondo interesse - d'altro canto, nessuno meglio dei cattolici dissidenti, che vengono dall'occhio del tifone borghese, può gettare in piazza i panni sporchi del sistema.
Mercoledì siamo usciti con un ciclostilato poderoso. Abbiamo deciso di diffonderlo nella casa dello studente dato il tipo di problematica che vi è trattato: militari e caserme. Contemporaneamente abbiamo tenuto una serie di incontri con i compagni di Lotta continua e di Servire il popolo. Costituiremo un nuovo gruppo con lo scopo di diffondere l'obiezione di coscienza insieme ai compagni di Signornò.
Abbiamo scelto il mercoledì non a caso. Oggi, appunto, inizia a Montecitorio il dibattito sul bilancio della difesa. Non è che ci freghi qualcosa di quel mistofritto clerico-fascista al governo; è l'occasione giusta per dare un colpetto ai signori della guerra.
Riesce difficile capire come facciano questi signori a far bollire tanta roba nel loro ermetico pentolone. Mi fa pensare alle pentole a pressione che con la mia compagna abbiamo visto all'Upim - ne vorrebbe una, lei: risparmierebbe tempo cucinando, a pro del lavoro politico - purtroppo costano un'ira di dio…
Ultimamente abbiamo fatto una inchiesta di sensibilizzazione nel rione ghetto. Orbene, soltanto lo zero virgola tre per cento delle casalinghe sapeva che la somma delle spese statali per le cosiddette forze armate supera di gran lunga la somma che occorrerebbe a tutto il proletariato per satollarsi con primo, secondo, contorno, frutta, dolce e liquorino digestivo.
Sulla eziologia del militarismo - dobbiamo confessarlo - non abbiamo fatto ancora delle analisi serie e approfondite. Il pressapochismo sulla materia è in gran parte dovuto ai partiti revisionisti, che si mantengono nell'equivoco distinguendo il militarismo in due forme tipiche: una a decorso benigno e un'altra a decorso letale. Il primo a carattere popolare e il secondo a carattere capitalistico.
Gli studi più recenti - che ho visto nell'ultimo numero si Psichiatria alternativa - giungono alla conclusione che il militarismo non è altro che una forma atipica di schizofrenia, che alterna fasi di catatonia (pre-bellica), di mania ossessiva (corsa agli armamenti) e di ebefrenia (bellica). Queste tre fasi del decorso sono state definite per altre forme di schizofrenia dal celebre psichiatra Kraepelin, e non c'è motivo di non credergli dato che gli hanno creduto tanti direttori di manicomio.
Da quel che si capisce, il quadro clinico della schizofrenia militare non si discosta molto da quello della schizofrenia mistica. Infatti, l'opinione più diffusa è che le cause dell'insorgere di ambedue i mali siano le stesse. E' difficile dire chi siano nati prima, i militari o i preti.
Comunque, sulle cause si fanno un mucchio di analisi e controanalisi. Personalmente non sono d'accordo con le teorie genetiche, secondo le quali militari, preti, pazzi e criminali si nasce. Io credo che lo si diventi. Hanno voglia i vari Kallman a fornire dati statistici sulla diffusione del male militare tra parenti consanguinei e specialmente tra gemelli dizigoti e monozigoti.
Da parte genetica si sostiene che un padre militare costituisce una probabilità del 47,3 per cento che i figli diventino anche essi militari; per i fratelli, la percentuale di probabilità scende al 24,9 per cento; mentre risale per i gemelli dizigoti al 64 e rotti per cento, fino a raggiungere il 91 per cento tondi nei monozigoti, ossia i nati dallo stesso ovulo.
Tutti questi dati possono intimidire lo sprovveduto, in effetti non dimostrano per niente l'ereditarietà del male militare: si tratta di gente che vive insieme, che si condiziona l'una con l'altra e finisce per avere stesse idee, stessi gusti, stessi pruriti e stesse manie. I sostenitori della teoria genetica dovrebbero studiare i gemelli separati al momento del concepimento, anzi cresciuti in due uteri diversi - per esempio di una suora paolina e di una attivista dell'Mld - e poi in due ambienti diversi - per esempio al Pentagono e nell'isola di Bora Bora.
Sulla teoria genetica nutro ulteriori dubbi dopo gli studi fatti dal compagno Pirastu, operaio tornitore che si occupa della materia per hobby. Il compagno Pirastu ha rilevato che nella famiglia del maresciallo Serra, soggetto affetto da una forma cronica di militarismo paranoico, era insorta una psicopatia militare nel figlio Giorgio di 18 anni. Giorgio aveva abbandonato gli studi, era diventato uno sfaticato, si era iscritto a Ordine nuovo, trascorreva tutto il tempo chiuso in un poligono di tiro e voleva a tutti i costi partire nel Vietnam. Ora, il compagno Pirastu ha appurato (ma in paese era noto a tutti, escluso il padre maresciallo Serra e i sostenitori della teoria genetica) che l'infelice giovane era figlio naturale di un rappresentante di commercio, certo Crisponi, un pacifista condannato durante la seconda guerra mondiale per obiezione di coscienza.
Beati i possessori di idranti, di cortili e di tutto il resto necessario per un buon lavaggio a un'auto. C'è da incavolarsi come belve pensando agli autocentri militari, forniti di tutti i servizi logistici, di manutenzione e di rifornimento. Nell'ultima riunione di quartiere ho cercato di convincere alcuni compagni a costituire un comitato di studio e di denuncia della questione. Purtroppo al proletariato interessano soltanto certi aspetti della ingiustizia, per esempio i terreni espropriati e le famiglie deportate per fare posto alle basi dei militari. E ai compagni, giustamente, interessa quello che interessa alle masse.
Io andrei più avanti, se mi si lasciasse fare. Gli interessi si possono fare nascere nelle masse, anche se non ci sono. Purché siano interessi rivoluzionari - non fasulli, come quelli che gli rifila il sistema coi caroselli.
A costo di passare per un cane sciolto, nel mio intervento mi sono soffermato sulla funzione reazionaria della gerarchia, della divisa e del top-secret. Si capisce che i militari li ho sullo stomaco. Militari e preti li manderei tutti a spietrare costoni nelle zone interne e a dissodare terre incolte.
Sul top-secret si è aperta una discussione che ha messo in luce, demistificandoli, certi aspetti mitico-religiosi del rituale riservato agli adepti: pugnali branditi, teschi, eja eja alalà…
Le analisi sono come le ciliegie, una tira l'altra - come diceva Croce. Abbiamo così appurato che il top-secret è a sua volta protetto dall'off-limits. In termini psichiatrici il top-secret è uno stato di allucinazione - visiva e auditiva - sintomatico della schizofrenia militare che i pazienti proteggono con l'off-limits, un complicato meccanismo di difesa. Lo scopo, si sa, è quello di nascondere porcherie dietro un paravento a fiori. Fra gli altri disturbi della sfera emotiva del militare vi sono le cosiddette psicopatie sessuali - ammosciamenti, più che altro - con una forte carica aggressiva, che lo portano al parossismo maniacale di copulare il prossimo mediante un sostitutivo: il missile eretto a testata nucleare.
Come conseguenza a sempre più approfonditi dibattiti è sorta una difficoltà inerente alla prassi: non è facile far stare tutta una analisi in una sintesi che occupi lo spazio di una cartella ciclostilata.
Sta diventando un lavoro improbo, una specie di quadratura del cerchio, condensare il frutto di una lunga serata di dibattito. Nel tentativo di ridurre ai minimi termini i concetti, siamo costretti a esprimerci soltanto con sostantivi e verbi, pur sapendo che ai compagni di base piacciono molto gli aggettivi. Inoltre dobbiamo usare continuamente abbreviazioni e sigle.
Qualcuno ha affacciato il dubbio che a certi livelli proletari non si possiedano sufficienti strumenti culturali per comprendere un discorso ridotto a scheda traforata Ibm. Il dubbio viene fugato, da qualche tempo, con la immissione nel testo di slogans in grassetto, facilmente recepibili, densi di significato ideologico e con una forte carica rivoluzionaria.
Ci sono ancora compagni che non si rendono conto del perché il novanta per cento degli arresti politici avvenga nei mesi estivi, con le punte massime ad agosto. Il fenomeno non si spiega - come vorrebbe qualche provocatore - con un tratto umanitario dell'apparato repressivo: mettere al fresco nel periodo caldo. Neppure attendibile è l'opinione secondo la quale gli arresti aumenterebbero nel periodo ferragostano per dimostrare che le forze dell'ordine e la giustizia sono all'erta anche nel momento in cui tutto il paese dorme sbracato. Io sono dell'avviso che si tratti di una delle centomila malizie del sistema: la pula fatica di meno e non corre il pericolo di tumulti ad arrestare la gente in un momento di generale disattenzione e rilassatezza rivoluzionaria. Il vecchio trucco usato dai virus, che attaccano l'organismo nel suo momento di maggiore debolezza.
E' sempre più difficile districare il filo della verità nella matassa ingarbugliata dagli esperti manipolatori del sistema. Non so proprio come una analisi del genere possa contenersi in una cartella ciclostilata. Bisognerebbe fare i ciclostilati a puntate. Un'idea che proporrò domani stesso nella riunione del pomeriggio o al più tardi in quella della sera.
Per quel che mi riguarda, da questa analisi ne ho tratto una indicazione operativa: laverò l'auto in questi giorni di agosto, nel periodo morto. Qualche malizia del sistema dovremmo pure utilizzarla anche noi… A questo proposito, devo segnarmi di fare un intervento, alla prima occasione, sulla utilità rivoluzionaria di combattere il nemico di classe utilizzando i suoi stessi strumenti.
A metà agosto l'acqua abbonda nei rubinetti per mancanza di utenti. La città comincia a spopolare dal dieci. Se continua di questo passo, per ferragosto resteranno solamente gli addetti ai lavori di manutenzione e sorveglianza: telefono, acqua, luce, gas, polizia e carabinieri.
L'undici, il compagno Benigno di Servire il Popolo ha avuto una intuizione politica e si è precipitato in sede per sottoporla ai compagni del comitato permanente di lotta. Per l'occasione il comitato si è allargato a compagni di altri gruppi. Nella stessa serata, l'idea è stata vagliata, approvata e tradotta in termini operativi. Si tratta di proclamare uno sciopero di categoria per il quattordici, quindici e sedici, che col diciassette domenica significheranno quattro giorni di paralisi dei servizi. Gli scioperanti, liberi da impegni lavorativi, trascorreranno anche essi questi giorni in vacanza come tutto il resto della popolazione.
Nella successiva riunione del comitato sono state date anche indicazioni agli scioperanti sulle diverse località turistiche accessibili alle tasche proletarie, con l'elenco delle pensioni convenzionate con le centrali sindacali. Le località campestri e palustri risultano le meno dispendiose, in particolare la zona dell'Oristanese che, a parte le zanzare, è seminata a granoturco, pomodori e angurie. Ci si può risparmiare la spesa di un pasto al giorno, sempre che non si trovino compagni contadini suscettibili ed egoisti.
Il ciclostile del disciolto Psiup ha lavorato tutta la notte a pieno ritmo. Sono state tirate settemila copie, tante quanti sono gli addetti ai servizi pubblici - esclusi naturalmente poliziotti e carabinieri.
E' stata una grande vittoria proletaria. La città è rimasta paralizzata per quattro giorni - senza per altro avere creato alcuna situazione di disagio alla cittadinanza già sfollata per le vacanze di ferragosto.
Purtroppo ho dovuto rinviare ancora una volta il lavaggio dell'auto - neppure una goccia d'acqua stillava dai rubinetti. A sciopero proclamato, i compagni addetti avevano provveduto a chiudere coscienziosamente tutte le saracinesche prima di partire in campagna.
Sono partito anche io. Ho raggiunto la mia compagna al campeggio allestito tra i dirupi del Supramonte dai compagni del Movimento separatista. Questi, per fare un dispetto ai servizi informatori della Cia, stanno portando avanti una serie articolata di contatti coi quotati latitanti di Orgosolo, allo scopo di organizzare nelle zone interne un fronte di liberazione regionale, accendere focolai di guerriglia e far saltare una dietro l'altra le basi Nato.
Nel Supramonte spira un'arietta da Sierra, secca frizzantina tonificante. Fa proprio piacere dormire nei sacchi a pelo… A proposito devo dire che da molto tempo non riuscivo ad avere rapporti sessuali tanto soddisfacenti, con orgasmi così esplosivi. Peccato che il campeggio sia durato appena una settimana e che l'effetto si sia manifestato soltanto dopo il quarto giorno.
Abbiamo sciolto il campeggio perché ormai tutta la zona pullulava di finti capelloni - agenti dei servizi segreti. Pare che vengano addestrati in speciali scuole, dove studiano minuziosamente i nostri ciclostilati, imparano a farsi crescere barba e capelli, fanno esercizi quotidiani di semantica rivoluzionaria, per meglio infiltrarsi nei nostri gruppi.
Noi li riconosciamo a naso: puzzano di profumo da barbiere e hanno uno sviluppo toracico superiore alla media - diversamente non li avrebbero arruolati. Uno di questi si è dimostrato un caso veramente patetico. Si tratta di un ex commissario di ps, un certo Giuliano da Napoli, affetto da tricotillomia. A quanto si dice, da giovane trascorreva tutto il suo tempo a strapparsi uno a uno i peli che ricoprivano il suo corpo di gorilla. Era evidentemente un soggetto introverso, ma dato che la vocazione c'era venne arruolato e mandato alla scuola del controspionaggio. Qui, attraverso un delicato procedimento a base di ormoni misti a lavaggi, è stato modificato in soggetto estroverso. E' rimasto ugualmente un tricotillomo, ma anziché strappare i propri peli ha la mania di strappare peli altrui. Quando ebbe la nomina di commissario di ps - non ricordo dove, mi pare a Sassari - riusciva a fare confessare gli indiziati di reato con la tecnica del pelo strappato. Coglieva così due piccioni con una fava: soddisfaceva la sua passione tricotillomica e assolveva nel migliore dei modi il compito di assicurare alla giustizia i presunti criminali.
Nei pressi del campeggio c'è una sorgente a cui si abbeverano le pecore. Purtroppo l'auto non può giungere fin lassù, neanche la jeep della polizia. Con un secchio e una spugna avrei potuto risolvere il problema del lavaggio, e a vederla pulita di fuori mi sarebbe venuto l'estro di aprire il cofano, controllare candele e spinterogeno, livello dell'olio, acqua nel radiatore e tutto il resto. A parte le riunioni, avrei avuto il tempo di farlo.
E' un dato periodico fisso. Ai primi di ottobre la vita riprende. L'industria rilancia i suoi prodotti sul mercato; il parlamento riattacca il suo blablabla; la classe operaia rientra in agitazione. Non credo che il fenomeno sia dovuto a una programmata ripresa della vita economico-politica. Credo che sia un vero e proprio dato biologico dopo il periodo di letargo estivo. Infatti a ottobre si risvegliano anche gli uccelli, e tra una riunione e l'altra alla casa dello studente è tutto un via vai di compagne lungo le scale.
Ogni risveglio comporta una crisi di riadattamento. Si spiega così come alla riapertura del blablabla parlamentare il governo entri in crisi. Probabilmente si tratta di squilibri da tossicosi endogena, frequente negli stati letargici.
Stavolta la causa ufficiale della crisi sono le pensioni. Il governo è caduto come suol dirsi su una buccia di banana. Qualche volta, almeno per quanto riguarda i governi, c'è da credere nella teoria genetica sulla eziologia dei malanni, visto che tutti senza eccezione ereditano una irrefrenabile predisposizione alla crisi.
Dalla relazione che ci ha fatto il compagno Martino, che segue attentamente le vicende parlamentari alla tivù, pare che i fatti siano andati così. Il governo ha annunciato l'intenzione di ritoccare le pensioni. Trattandosi di una bella notizia, è stata diffusa attraverso tutti i canali a tutte le ore per una quindicina di giorni. I governativi si erano però dimenticati di dire che aumentando le pensioni di millesettecentocinquanta lire sarebbero diminuite di milleottocentoquindici le indennità integrative. A diffondere la notizia della diminuzione hanno pensato i partiti della opposizione.
Se si considera che da noi ci sono oltre ventitré milioni di pensionati, è facile capire quale pandemonio scoppierà se non saranno garantite almeno le attuali quindicimila mensili.
Grandi manifestazioni di massa si stanno svolgendo in tutto il paese, organizzate dai revisionisti. I governativi sono passati al contrattacco tirando fuori le tabelle delle pensioni nei paesi a regime comunista.
La situazione si va facendo densa di prospettive rivoluzionarie. Giungono da ogni dove notizie contraddittorie ma stimolanti. I quotidiani padronali minimizzano e minacciano. Il telegiornale tace.
Siamo giunti evidentemente al punto in cui da un momento all'altro potrebbe scoccare la scintilla della rivolta proletaria. Il compito storico della scintilla è nostro. Sediamo tutti in assemblea permanente, chi nell'atrio della casa dello studente, chi sui gradini della facoltà di lettere in attesa degli sviluppi.
L'attesa è convulsa. Non dobbiamo perdere il sangue freddo rivoluzionario. Abbiamo pronto un buon numero di matrici, alcune già battute, una ventina di risme di carta e tre ciclostili con la spina inserita…
La scintilla è scoccata.
Il primo tumulto è scoppiato a Siapiccia, paesino agricolo dell'interno. L'esempio rivoluzionario ancora una volta è venuto dal basso confermando la teoria. I compagni pensionati hanno preso d'assalto l'ufficio postale, vi si sono trincerati dentro reclamando i loro sacrosanti diritti: quindicimila tonde.
Esaminata rapidamente la situazione, abbiamo deciso alla unanimità di accorrere a Siapiccia per sostenervi la rivolta popolare, incanalarla verso più specifici obiettivi rivoluzionari e, partendo da lì, diffonderla a macchia d'olio in tutto il paese.
I compagni marxisti-leninisti hanno ciclostilato un appello rivolto a tutti i proletari affinché si uniscano ai compagni pensionati nella giusta lotta fino alla totale sconfitta del capitalismo. I compagni del Movimento separatista hanno invece stampato un proclama da affiggere a Siapiccia e nel circondario, in cui essi partendo dagli editi delle Chiudende rivendicano l'uso comunitario della terra. I compagni radicali, con tempestività rivoluzionaria, sono già in loco col tavolo a raccogliere firme per l'abrogazione del concordato.
Noi partiremo domani mattina all'alba. Per tutta la notte si lavora al ciclostile. L'auto è parcheggiata fuori, col portabagagli sgombro, pronto a ricevere i ciclostilati. C'è aria di vigilia rivoluzionaria - a malapena siamo riusciti a mandare giù una pizzetta.
Siamo partiti stracarichi, cantando bandiera rossa. E' ancora buio. L'ora migliore per evitare i posti di blocco della polizia. Comunque abbiamo organizzato la vigilanza militante per non farci sorprendere e sequestrare il materiale - ci ritroveremmo disarmati. Una staffetta in motorino apre la strada per comunicarci tempestivamente intoppi repressivi.
Dopo una decina di chilometri, ai primi tornanti in salita, l'auto si è fermata. Già alla partenza sentivo strani rumori sotto. Ho pensato subito al differenziale e alle parole del compagno meccanico che una volta mi aveva detto che anche nel differenziale c'è una scatola che va riempita di olio. I compagni mi hanno zittito dicendo che io sento rumori preoccupanti dappertutto, e si sono messi a cantare l'internazionale. E adesso - accidenti - siamo fermi.
Abbiamo spinto l'auto fino alla prima discesa. Ha camminato per un altro chilometro, poi si è rifermata. Qualcuno ha ancora la speranza che si tratti di fili di candela che facciano cattivo contatto. La benzina c'è, quindi dovrebbe andare. Invece non va proprio. Abbiamo perfino scaricato la batteria a furia di far girare il motorino di avviamento.
Superati a spinta due o tre tornanti in salita, siamo risaliti tutti a bordo e l'abbiamo mandata giù in folle. Ora non entrano più le marce. Neppure la terza e la quarta. Appena sposto la leva si sente un rumore di frantoio che macina ghiaia.
L'auto si è definitivamente fermata. Non va più neppure a spinta. Penso che avremmo potuto evitare la catastrofe con un periodico lavaggio e un po' di manutenzione. L'ho pensato ma non lo ho detto ai compagni per non avvilirli di più.
Due sono tornati a piedi in città. Tre si sono avviati con l'intenzione di proseguire facendo l'autostop. Io sono rimasto lì, con l'auto piena di tutto quel ben di dio rivoluzionario ormai inutile.
4 - L'eversore
Il professor Ubaldo Fioravanti non aveva alcuna memoria per le date, indipendentemente dal processo di degradazione dovuto all'età e alle sostanze inquinanti.
Dieci anni prima, a trentacinque anni, era vispo come un passero, percepiva il modulare di uno zufolo nell'area di una vallata o gli umori di Concetta quando lei trafficava nel cortile della casa di fronte. Non respirava allora ossido di carbonio e non era frastornato dalla babilonia di motorette, lavatrici, turboreattori, radioline e «palle di Mao»; viveva in un villaggio dell'interno, dove la gente nasceva, campava e se ne andava in silenzio. Tuttavia, neppure allora ricordava alcunché in cifre, neppure la data gloriosa del compimento dell'unità d'Italia.
Aveva esaminato scientificamente il fenomeno della smemoraggine, consultando l'enciclopedia della scuola e discutendone coi colleghi durante l'ora della ricreazione. Poteva essere una idiosincrasia congenita per i numeri. Congenita o acquisita? L'idea di essere nato coi cromosomi sbagliati lo faceva sentire un mostro - molto meglio pensare di esserseli scassati con l'uso, magari per colpa di altri. Finì per consultare un luminare, il professor Annibale Manconi, il quale per venticinquemila lire diagnosticò una amnesia dovuta a una forma acquisita di rigetto di ogni genere di simboli, probabilmente insorta per indigestione, in cinque anni di seminario.
Ciononostante, il professor Ubaldo Fioravanti, attualmente dimesso dall'istituto psichiatrico, ricorda benissimo il tredici agosto millenovecentosessantotto.
Qualche anno prima, precisamente nel sessantacinque, aveva ottenuto il trasferimento con l'assegnazione provvisoria in una scuola della città. La delicata operazione era stata manovrata dall'onorevole De Pisis.
Si era voluto trasferire nella metropoli perché - aveva sentito dire - la provincia arricchisce di esperienze e di sensibilità, ma è la città che consente di metterle a frutto. In sostanza, l'antica e mai disusata prassi morale di irrobustire il carattere digiunando e contemplando, prima di creare rapporti competitivi e fottere. O se si vuole, la dinamica commerciale degli ortofrutticoli: coltivare lattughe, cetrioli e ravanelli in campagna, poi caricarli in una carriola, portarli in città, esporli sul marciapiede e fare un mucchio di quattrini.
La città era piena di terroni che trascinavano la carriola coi ravanelli avvizziti; illusi di cambiare la tenuta di fustagno col doppiopetto pura lana vergine, avevano finito per consumare il fustagno fino a mostrare le zacchere del culo.
Il professor Ubaldo Fioravanti non era un terrone, aveva una dignità sociale da salvaguardare. Ci sono zacchere che a mostrarle in pubblico menomano il prestigio delle istituzioni. Tuttavia, non avendo la tempra del lottatore, fatto salvo il decoro, era sgattaiolato da quel maledetto ring dopo i primi colpi di assaggio. Si era chiesto perché mai ci si dovesse battere e farsi rompere le ossa per guadagnarsi la considerazione del prossimo. Si era chiuso nella sua tana di cemento armato al settimo piano; aveva tappato le finestre; sulla parete del soggiorno aveva inchiodato un telo bianco di lino - eredità della povera mamma - e vi proiettava filmini a colori: scene di vita campagnola, campi di grano con papaveri, nuvolette bianche simili a greggi sparse sul dorso di un colle, e più avanti orge svedesi di contrabbando.
Era fondamentalmente ottimista. Credeva nella provvidenza divina e nella giustizia dei tribunali. Per ottimismo si era tagliato, come suol dirsi, i ponti dietro le spalle, vendendo tutto ciò che possedeva in paese ricavandone una somma irrisoria. Quindi, per sistemarsi in città aveva contratto il prestito Enpas del «doppio quinto» e aveva acquistato l'appartamento. Dodici milioni, un terzo in contanti e i rimanenti due terzi, cioè gli otto milioni diventati sedici con gli interessi, da pagarsi in trent'anni. La rata mensile era più alta di ciò che avrebbe pagato come affitto, ma c'era la soddisfazione di sacrificarsi per una casa che alla fine sarebbe rimasta di sua proprietà.
Alle quattordici e trentacinque di quel tredici agosto, il professor Ubaldo Fioravanti dormiva. Aveva diversi e buoni motivi per dormire di pomeriggio: era insegnante, scapolo e di temperamento meridionale; rientrava a casa poco prima dell'una stanco morto. Il cranio gli ronzava come un alveare, dopo tre ore e mezza di scuola. Due uova al tegamino, una scatoletta di manzo in gelatina, una mela lustrata accuratamente col tovagliolo. Mangiava, quindi si stendeva vestito sul letto e dormiva.
All'imbrunire faceva toeletta e usciva a prendere una boccata d'aria. Con la «Cinquecento» aveva preso l'abitudine di fare una puntata al centro. Si fermava all'edicola di fronte alla stazione e vi girava attorno guardando tutta quanta l'esposizione; comprava una rivista e si sedeva a un tavolino del bar sotto i portici. Leggeva dalla prima all'ultima le inserzioni della rubrica «cuori solitari» e trascriveva nel taccuino le «ventenni di modeste condizioni, errore di gioventù, disposte rifarsi vita serena con impiegato di mezza età».
Dal suo posto poteva seguire la passeggiata sotto i portici. La moda femminile si andava facendo sempre più spregiudicata. Dalle minigonne a campanula alle maxi con gli spacchi ai calzoncini di maglia, le belle figliole facevano a gara a mostrare le loro grazie. Gli si rafforzava la speranza che insieme alla liberalizzazione del costume gli sarebbe caduta prima o poi una briciola di tutto quel ben di dio. Più precisamente: una affettuosa compagna che addolcisca la tristezza della solitudine e che badi alla casa.
Alle quattordici e trentacinque del tredici agosto, dunque, il professor Ubaldo Fioravanti dormiva, ignaro del temporale che si stava addensando sul suo capo. Dormiva sognando una delle varianti della solita vicenda. La protagonista era la sua ultima corrispondente epistolare, la signorina Grazia Crisafulli, di anni trenta. Se la figurava ancora fresca coi tratti infantili e le poppe candide venate d'azzurro - proprie di chi vive in astinenza meditando l'assoluto esistenziale. Tutto gli faceva supporre che fosse di floride condizioni economiche, la classica ragazza di buona famiglia cresciuta nella bambagia, l'errore di gioventù, lo smarrimento di un attimo, le amarissime lacrime del pentimento, il farabutto che abusa dell'innocenza di una fanciulla. Era stata violata e, purtroppo, ingravidata. I suoi erano stati inflessibili. Il padre, ufficiale in SPE pluridecorato tutto d'un pezzo. La madre, integerrima di costumi educata dalle Orsoline. Per fortuna erano ricchi sfondati. Le avevano fissato una cospicua rendita depositando non si sa quanti milioni in una banca svizzera e avevano provveduto ad allevare il figlio del peccato in un collegio inglese. A patto che lei non si fosse più fatta viva. Infatti, da Palermo, sua città natale, si era trasferita a Trento, dove, dopo alcuni anni di clausura e di cilicio si era riaffacciata sul mondo iscrivendosi alla facoltà di sociologia.
Il professor Ubaldo Fioravanti aveva letto l'inserzione nei «cuori solitari» aveva risposto ed era stato prescelto fra settecentoventi concorrenti. Erano già alla settima lettera, abbastanza intimi quindi. Nella quinta lui le aveva mandato un bacio e lei glielo aveva ricambiato non senza titubanza nella sesta. Ora ritenevano ambedue che fosse arrivato il momento di incontrarsi. Stavolta non ci sarebbero state delusioni. Purtroppo non era riuscito a mettere insieme la somma necessaria per il viaggio. Per non fare la figura del pidocchioso, aveva addotto il pretesto del tesserino ferroviario scaduto, che quegli sfaticati del provveditorato non si decidevano a rinnovargli. Aveva preso lei l'iniziativa. Aveva indossato un tailleur blu di lino ed era salita sul primo aereo per il Sud. Portava nel cuore un sogno dolcissimo: costruirsi il nido e insieme iniziare una nuova vita. Era arrivata, finalmente. Stava dietro la porta e suonava con impazienza il campanello…
Il professor Ubaldo Fioravanti saltò giù dal letto e corse ad aprire col cuore in tumulto.
Si trovò davanti la faccia del postino - una faccia antipatica, labbra grosse volgari atteggiate a un sorriso sfottente.
«Ce ne ha messo ad aprire!» disse la faccia antipatica, sventolando una busta rossa tipo ministeriale piena di timbri senza francobolli. «Duecento di tassa».
Il professor Ubaldo Fioravanti impallidì. Fuori dalla stagione delle nomine, quelle buste rosse erano di solito foriere di tragici eventi. Si ricompose, frugò nel portamonete, pagò e allungò la mano.
«Prima deve firmare qui», lo fermò la faccia antipatica porgendogli il libretto delle ricevute e un mozzicone di matita copiativa.
Richiusa la porta vi si appoggiò tremante e aprì la missiva del malaugurio. Sfilò il foglio, uno stampato mezzo protocollo e lesse. «Prot. 13 Riservato - 7 agosto 1968. Oggetto: Convocazione. Invito la S/V a presentarsi a questo Ufficio il giorno 24 p.v. alle ore 11,30 per urgenti comunicazioni che La riguardano. La Direttrice dott. Giovannella Carta».
Il professor Ubaldo Fioravanti entrò in breve tempo in una dimensione popolata da mostri burocratici, simili agli orridi aggrovigliati parti della schizofrenia policroma del Bosch. L'immagine della sua Grazia Crisafulli era sfumata, lieve come ricordo d'un sogno lontano.
Divenne stitico e orinava a stillicidio. Le ghiandole salivari gli si inaridirono e deglutiva a fatica. Le ghiandole sudorifere, al contrario, aumentarono l'attività secretoria, specie sotto le ascelle e nella regione sacrale. Nel giro di una settimana gli si ulcerò lo stomaco.
Si mise a dieta - riso in bianco e mele cotte. Il quinto giorno, dopo un clistere d'olio di semi vari emulsionato in acqua tiepida riuscì a evacuare. Lo stomaco gli restava acido bruciante, quasi vi stillasse vetriolo. Dovette smettere di fumare e di bere caffè.
Divenne afono. Faceva uno sforzo sovrumano per farsi capire dal bottegaio - il quale, beato lui, aveva una voce piena reboante, poteva commentare i risultati delle partite di calcio, e guardava dall'alto in basso quell'uomo senza voce incapace di arrabbiarsi per le ingiustizie dell'arbitro. In sette giorni perse cinque chili - controllati nelle bilance di due diverse farmacie.
Il giorno della evacuazione intestinale era venerdì, il giorno della settimana dedicato da anni alla eiaculazione. Sulla questione, il professor Ubaldo Fioravanti aveva i suoi principi, e non transigeva. Si potevano riassumere in due fondamentali. Il primo, che l'uomo non deve perdere per scopi contingenti troppe energie vitali: giusti gli ammonimenti dell'antica morale, aveva fatto la media aritmetica delle frequenze suggerite da Platone, San Paolo e Paracelso, stabilendo in una eiaculazione settimanale la giusta regola. Il secondo, che l'uomo deve soddisfare i bisogni materiali nel modo più semplice, senza compiacimenti. Abbassava gli scuri del soggiorno, sbottonava i calzoni e si stendeva sulla poltrona. Alla luce della lampada col paralume rosa sfogliava gli ultimi numeri di una rivista per uomini con sole donne. Osservava, soppesava e sceglieva infine quella che sarebbe stata la partner del giorno - raramente concedeva i suoi favori due volte alla stessa: considerava il rapporto sessuale un mero sfogo fisico, staccato da qualsiasi rapporto affettivo: la femmina da usarsi e gettar via come i Kleenex. Normalmente, dopo qualche minuto di contemplazione gli si gonfiava. Aspettava di sentirlo palpitare; allora lo prendeva tra l'indice e il pollice tirandolo per circa due minuti, quindi accelerava fino a raggiungere un su e giù frenetico, lo puntava sulla partner protendendo il bacino, stirava le gambe e il collo e con un gridolino soffocato le spruzzava il ventre.
Quel venerdì, il meccanismo si inceppò. Eppure, la partner selezionata aveva tutti i numeri - cosce divaricate, abbassava coi pollici lo slip scoprendo una incantevole pelliccetta bruna. A malapena, dopo lunghe laboriose manipolazioni accompagnate da eccezionali fantasie, poté erigerlo. Restava però distratto, e per quanto lo richiamasse, blandendolo o strapazzandolo, non eiaculò.
A quel punto, il professor Ubaldo Fioravanti se ne uscì affranto, col disperato bisogno di creare un rapporto qualunque, purché morbido,con la realtà che gli si stava facendo sempre più dura. Per uscire dal parcheggio dovette usare la retromarcia e compiere una manovra difficile - il solito stronzo che se ne frega del prossimo gli aveva piazzato un macchinone davanti in diagonale. Gli scappò la frizione e ammaccò paraurti e fascione - quarantamila lire, a occhio e croce. Al bar, pagando un latte freddo dimenticò il resto delle cinquantamila e quando lo richiese cinque minuti dopo, il cassiere gli diede del truffatore. All'incrocio con via dei Ministeri non si fermò «abbastanza» allo stop e il vigile appostato dietro l'angolo gli appioppò una multa di grosso calibro.
Si affrettò a rientrare e si tappò in casa colmo di amarezza. Sperava di trovare conforto nell'interno levigato del suo guscio di cemento armato, ma gli occhi gli andarono subito sulla busta rossa tipo ministeriale… «presentarsi a questo Ufficio… per urgenti comunicazioni che La riguardano».
Se erano urgenti comunicazioni - e tali apparivano anche dalla sottolineatura - perché mai non veniva convocato subito? Un dente che duole si strappa subito… Se ne sarebbe cavati tre, i più sani, e senza iniezione, pur di conoscere immediatamente le urgenti comunicazioni in Oggetto.
Si sentiva come una mosca in una trappola di vischio. La carta moschicida, una strada sospesa nel vuoto, si snodava in tornanti, a spirale, all'infinito. Ronzava, dibattendosi, invischiandosi sempre più. Il terrore gli attanagliava la gola e i testicoli.
Si immobilizzò e si acquietò raggomitolato in un angolo del divano. Raccolse i pensieri. Si sforzò di ricordare se e come avesse potuto, anche involontariamente, offendere un Superiore, venire meno a un Dovere, violare qualche Articolo del Regolamento.
Nulla. La sua coscienza era immacolata. Ma il fatto che la sua coscienza fosse a posto non significava nulla: il buon funzionario deve essere a posto col Regolamento; la coscienza è un dato soggettivo non contemplato dalla legge.
Non aveva precedenti disciplinari di sorta - meno male. Gli sarebbero state concesse le attenuanti per precedente Buona Condotta: errare una sola volta humanum est. In venti anni di Servizio, non una Censura, neppure un Avvertimento Formale. Una Carriera impostata sul Buono, maturata col Distinto, aperta all'Ottimo. Che spulciassero pure nel suo fascicolo Personale! Mai un giorno di assenza per malattia fasulla, diversamente da certi suoi colleghi, dei quali non stava lì a fare il nome. Si potevano contare sulle dita di una mano, le domande di Congedo per malattia… Le enumerò a ritroso: l'anno dell'attacco di artrite cervicale che lo tenne immobilizzato per una settimana, ed era il sessantaquattro; l'anno che si buscò il paratifo per aver mangiato frutti di mare, ed era il cinquantotto; infine, agli inizi della Carriera, l'anno che si era preso lo scolo, nel cinquanta.
E neppure lo si poteva accusare di tendenze particolari verso gli alunni. Un male diffuso nella scuola, purtroppo, e ne conosceva più d'uno che se la faceva coi ragazzini… Sotto quell'aspetto si sentiva in una botte di ferro. Con le scolaresche si era sempre comportato affabilmente, ma come il più severo dei padri - lodare e punire senza compiacimenti di sorta, col cuore ilare o triste in un volto di impenetrabile distacco. A parte le simpatie puramente platoniche per qualche scolaro - meritate d'altro canto per lodevole profitto - non aveva mai allungato una sola mano ad accarezzare bambini. Quando aveva ritenuto educativo rafforzare una lode con un gesto affettuoso, aveva usato il buffetto sulla guancia. Si guardava bene dagli impulsi di tenerezza, per non ingenerare equivoci… No, nessuno avrebbe potuto incastrarlo da quel lato. Anche se - bisognava ammetterlo - certi ragazzini, con il loro visetto femmineo e il loro modo di fare vezzoso, erano una vera provocazione.
I nervi del professor Ubaldo Fioravanti erano tesi fino allo spasimo. Trascorse la sesta notte completamente insonne. Nel buio della prostrazione balenò una reazione. Doveva sapere.
Decise di fare una capatina in Direzione, tentare di aprire uno spiraglio. Erano trascorsi sei giorni e ne restavano ancora cinque. Un'attesa intollerabile.
La scuola era deserta. Le porte delle aule chiuse in fila nel corridoio. L'ultima porta sul fondo, la segreteria, era aperta. Trasse un sospiro di sollievo. La vecchia segretaria - uno scheletro dentro un lungo vestito nero - trafficava spostando pile di cartelle da un tavolo a uno scaffale. Non smise i suoi via vai neppure per ascoltarlo, e respinse sdegnosamente la tremula preghiera di anticipare i tempi con una indiscrezione. «La Direttrice non c'è. Se l'ha convocato per il ventiquattro del corrente mese alle ore undici, torni per quella data e a quell'ora…».
Certo sapeva, la vecchia bigotta dalla faccia cavallina: infilava il naso dappertutto; si diceva che osasse frugare perfino nelle Note Informative Riservate dei Fascicoli Personali.
Riprese la via del ritorno. Aveva ginocchia molli e l'addome gonfio teso. Le spalle e la nuca gli dolevano. Camminò meccanicamente trascinandosi, seguendo senza vederlo l'orlo del marciapiede. C'erano, e non c'erano più le vetrine, né folla, né tumultuare, né sole cocente a picco sulla sua testa… «Invito la S/V a presentarsi a questo Ufficio per urgenti comunicazioni che La riguardano…».
Aveva lasciato il paese per la città, tagliandosi i ponti alle spalle. Gli si dissolveva ora davanti dolorosamente una radiosa prospettiva… l'appartamento, la tivù, l'auto, le vetrine, le edicole e la folla che scorreva continua per le strade. Se avesse perso il posto, avrebbe perso tutto… Come avrebbe pagato le venti rate dell'auto? e le rate del Mutuo Trentennale?… Il terreno gli franava sotto i piedi, e davanti a lui si apriva l'abisso.
Arrivò in una piazza con statua di Madonna sopra monumentale basamento. Tutt'intorno panchine, alberi, frotte di bambini che correvano e vociavano e mamme sedute a chiacchierare e qualche vecchio intento a ruminare antichi assilli. Dal fogliame verde pallido veniva uno stanco pigolio di passeri…
Il ruscello era appena fuori del paese, tra due filari di pioppi bene allineati, e alla prima ansa si stendeva una radura erbosa sempre verde. Aveva pensato di costruirsi lì una casetta, con il loggiato a vista sui pioppi e un soggiorno col caminetto. C'era il problema delle zanzare, che nei luoghi umidi sciamano ogni sera e diventano fastidiose per chi ha la pelle delicata e il sangue dolce. Avrebbe messo le zanzariere. Ne aveva parlato col falegname: se la sarebbe cavata con trentamila lire, in rete di nylon su telaio di legno bianco… Bisognava stare attenti alle sigarette, però: basta una scintilla e quell'accidente di plastica si buca irrimediabilmente. Andavano meglio le antiche, quelle di filo di rame che adesso purtroppo non si trovavano più… Amava il ruscello, cui era legato da dolci sensazioni. Vi andava bambino coi compagni. Facevano sbarramenti coi sassi e fiocinavano le carpe con canne appuntite. Si potevano prendere anche anguille, con un corno di bue ancora fresco di midollo e di sangue. Lo mettevano sul fondo e aspettavano. Le golose vi si infilavano dentro a piluccare e poi vi si appisolavano… Era un bel bambino, lo dicevano tutti, in paese, e veniva portato a esempio. Morbido roseo di carnagione, un visetto d'angelo incorniciato da capelli biondi riccioluti. Bello e dolce come una femminuccia, nelle processioni di Santa Maria precedeva il cocchio vestito della tunica di organdi rosa con le alucce. I compagni lo prendevano in giro chiedendogli se fosse maschio o femmina - era tutta invidia, si sentiva sicuro perché la maestra zittiva i pettegoli. Non amava i giochi violenti; l'avvinghiarsi ansante nella lotta gli provocava un turbamento inesplicabile. Aborriva la vista del sangue; soffriva nel veder soffrire gli animali. I suoi compagni usavano andare a caccia di rospi, lucertole, passeri e se li trascinavano dietro come trenini, legati a un filo - lui li barattava con fionde, palline di vetro, trottole e monete per liberarli dal tormento e restituirli al sorriso. Si aggregava al gruppo dei coetanei, ma non aveva amici, eccettuata la parentesi di Peppino - grosso di spalle e di braccia con la testa nera scarruffata. Peppino lo capiva e lo proteggeva. Stava bene con lui, e nessuno si azzardava a chiamarlo femminuccia. Un pomeriggio d'estate Peppino era passato a casa sua, come altre volte, per uscirsene insieme fuori paese. Erano scesi al ruscello, a rinfrescarsi. Dopo il bagno, in mutandine, si erano stesi sulla proda erbosa, con la testa all'ombra di un cespuglio di ginepro e il resto del corpo ad abbrustolire al sole. Stavano a contatto di gomito - era piacevole la carezza sulla pelle scura di Peppino e conturbante il gonfiore che pulsava attraverso le mutandine tese. Peppino gli aveva preso la mano e l'aveva premuta su quel palpitare. Era accaduto ciò che non avrebbe mai voluto. Era stato affettuoso e dolce, Peppino. Era stato anche buono e giusto: l'aveva accarezzato e gli aveva asciugato le lacrime e gli aveva proposto di farlo anche lui - sarebbero stati alla pari. Non aveva accettato; si era però lasciato accarezzare e il piacere aveva sciolto i grumi. Da quel giorno aveva fuggito ogni occasione. Non usciva più, come prima. Se ne stava in casa, a curiosare dietro la sorella o sdraiato a letto a leggere. Più che leggere, fantasticava seguendo la torbida rete di desideri che immancabilmente lo conducevano al biancore rotondo della sorella Maria, all'oscuro mistero del suo grembo. Aveva preso a spiarla dalla porta socchiusa, ogni pomeriggio, quando lei si metteva a letto in sottoveste. Provava insieme un acuto piacere e un lacerante rimorso. Di sera, sul tardi, dopo la novena, entrava in chiesa furtivo, si inginocchiava davanti alla Vergine e implorava perdono. Dall'altare fiorito di garofani bianchi, lei lo rasserenava con un dolce sorriso - rassomigliava alla sorella, le stesse misteriose rotondità intuite tra le pieghe seriche del vestito, gli stessi seni turgidi di madre…
Risentì il vociare dei bambini; rivide le mamme sedute nelle panchine e ritrovò il dolce sorriso della Madonna col volto chino su di lui dall'alto del basamento di granito. Era la stessa della chiesetta del suo paese, la Vergine Maria davanti alla quale tante sere si era inginocchiato implorante. Sua sorella Maria, sdraiata sul letto in sottoveste… Cadde in ginocchio e pianse…
Qualcuno gli si avvicinò premuroso. Il professor Ubaldo Fioravanti si scosse, vide la folla che si raccoglieva intorno a lui e fuggì. Ebbe paura di essere violentato. Corse a chiudersi in casa.
La notte della vigilia non chiuse occhio. Alle quattro del mattino si alzò, stanco di rivoltarsi nel letto. Bene o male il tempo trascorreva, era onesto. Mancavano ormai soltanto sette ore. Le avrebbe occupate a mettere ordine nell'appartamento e a prepararsi.
Ebbe il presentimento che non sarebbe tornato più, che il suo sarebbe stato un viaggio senza ritorno. Che valeva, allora, lasciare tutto in ordine e mettersi in ghingheri? Una questione di dignità - si disse. Non si va forse all'estrema dimora vestiti con l'abito migliore, in una carrozza fiorita?
La busta rossa tipo ministeriale era ancora lì, in vista sopra il tavolo. Non l'avrebbe dimenticata. Era necessario portarsela appresso come lasciapassare per l'aldilà…
Non aveva dormito, ma doveva aver sognato, quella notte… Camminava in un viottolo fra gli ulivi, e il cielo cominciava a tingersi di rosa. Ma l'alba era ancora lontana, e lontana era la cima del colle verso cui il sentiero si inerpicava.
Aveva lasciato l'auto in basso dove finiva l'asfalto; ora, tra quei sassi, si sentiva nudo come un verme. Ne provò vergogna. Tremò fin nelle ossa e prese a sudare. Forse era paura, paura del buio, della solitudine, di ciò che deve accadere. Doveva salire in cima al colle, comunque. La cima era la sua meta e la sua croce. Lì avrebbe sciolto l'enigma di Edipo. La Direttrice-Sibilla avrebbe parlato e avrebbe svelato le urgenti comunicazioni della Raccomandata-Rebus; avrebbe ritrovata la Vergine Maria e capito finalmente il mistero della Fessura-Abisso.
Il sentiero proseguiva con lui sul dorso del colle spoglio e aspro. Gli ulivi si erano diradati fino a scomparire, e affioravano ora rocce che si frantumavano in una sassaia tagliente. L'alba era vicina, e il suo chiarore grigiastro svelava la vetta appena più avanti quasi raggiunta.
Il primo volto che vide fu quello del padre - immobile corrucciato. Sedeva sopra un masso scolpito, ammantato di porpora. Dal suo trono di pietra gli ordinò di avanzare.
Egli si ricordò di essere nudo, e con la palma di una mano coprì la sua vergogna. Vide allora ai piedi del tronco di pietra sua sorella Maria. Giaceva sdraiata sul fianco, in sottoveste, col busto sollevato sopra il gomito, intenta nella lettura. Non osò guardarla oltre, per paura del padre, perché la Vergine nel muoversi aveva scoperto le cosce.
Cadde sulle ginocchia, e sentì l'urlo del sangue zampillare dalle ferite aperte dai sassi scheggiati. Storse nel dolore la bocca, chinò fino a terra la fronte e mormorò: «Miserere Signore, miserere di me».
Il padre sfilò un fascicolo dal mantello di porpora - a matita rossa risaltava la scritta «Note Informative Riservato Personale U. F. 47/3». L'aprì e prese a sfogliare le carte che vi erano raccolte. Poi levò il capo e parlò: «Hai infranto la Legge di Dio e degli uomini. Che cosa hai da dire in tua discolpa?»
Nascose la faccia tra le mani, tremante. Strinse forte le palpebre per vedersi meglio dentro. Disse: «Di fronte a Dio il mio amore è in catene. Chi ti ha reso così feroce da smembrare al vento le parti più delicate di me, nudo? Chi ti ha reso feroce, Padre, se non io col mio indice alzato contro la Vergine, con l'orgoglio acuminato del mio delirio? Ero felice, quando salivo una strada di giovani passi: un'aia seminata di fiori bianchi, e la terra gareggiava col cielo nel nutrire i miei sogni; facevano a gara la Terra Madre e Dio. Uscivo da un latte tiepido di dolcezza e di amore: perché ti ho ucciso, Dio mio? Così tu moristi in me. Tutte le cose muoiono, perfino tu che non hai creatore, perfino tu… Tutto divenne buio e incubo, e il mondo senza catene e senza Dio cominciò a tremare. E nacque Satana…».
Disse, e levando la faccia vide la sorella Maria che si era addormentata. Le labbra socchiuse sfioravano in un bacio le immagini del giornale, il rosa erto dei capezzoli si stampava nel respirare sulla trasparenza della sottoveste e l'ombra misteriosa del pube pulsava tra le cosce socchiuse. Mormorò, gemendo: «Io non sapevo, io non volevo», e mise le braccia in croce sul petto supplicando: «Padre, Padre non abbandonarmi. Anche nell'Inferno, nella privazione eterna del Bene regnano la giustizia e l'amore del Padre…».
Dal suo trono di pietra, il padre levò su di lui la mano e disse: «E' giunto il momento tanto atteso, figliolo. Molto hai amato e molto hai sofferto. Hai meritato il perdono e conquistato la vita. Chiedi e riceverai. Questo è il colle del mistero dove si scioglierà l'enigma. Oltre questo colle troverai la vallata verde, il prato fiorito, il ruscello coi pioppi».
Egli levò la faccia da terra, rincuorato. Guardò e vide Maria risvegliarsi e sorridergli - si era mossa sul fianco adagiandosi sulla schiena, arcuando le ginocchia. L'orlo del pizzo della sottoveste le era scivolato sulle cosce scoprendo la fessura bruna. Egli si mosse verso il palpitante mistero, trascinandosi sulla pietraia tagliente, lacerandosi le palme delle mani e il ventre, scheggiandosi i gomiti e le ginocchia, piangendo e ridendo. La fessura si apriva, per riceverlo, pulsando al ritmo del suo cuore agitato, e l'infinito si era aperto da due lati e le cose erano gigli e cantavano con gli angeli…
Le immagini finivano a questo punto nella memoria del professor Ubaldo Fioravanti. Sarebbe stato un sogno, se avesse potuto dire di aver dormito. Ma se non era un sogno, che bizzarre fantasticherie andava facendo?
La Raccomandata sopra il tavolo richiamò tutta la sua attenzione. Il tempo stringeva. Finì di vestirsi. Andò nel bagno per controllarsi allo specchio - è molto importante presentarsi in ordine al Superiore.
Alle dieci in punto, con un'ora di anticipo, uscì di casa. Chiuse a doppia mandata la porta, non senza avere prima infilato una mano nella tasca per palpare il Lasciapassare.
La direttrice dottoressa Giovannella Carta arrivò in ufficio a mezzogiorno.
Un'ora e mezza prima, lo scheletro-segretaria aveva fatto passare il professor Fioravanti in uno stanzino arredato con due sedie, dicendogli di attendere. Doveva saperla lunga, la vecchia strega… un sorriso maligno storceva la sua bocca e i suoi occhietti infossati lampeggiavano satanici.
Si era seduto, disponendosi ad attendere pazientemente. A un certo punto sentì filtrare una voce dalla porticina che comunicava con la segreteria. La voce era senza dubbio quella della signorina Adelaide Crobe, la collega che si occupava del catechismo. La voce divenne parlottare - giungeva frammentario ma comprensibile, e si riferiva inequivocabilmente a lui, Fioravanti, quel poco di buono…
Impallidì e si sentì mancare, alla velenosa requisitoria. Reagì stringendo i denti e i pugni; si alzò e prese a muoversi agitato andando da una parete all'altra. Finalmente sapeva chi muoveva le fila del complotto e in quale punto vulnerabile lo si volesse colpire. Si vide sulla guglia di un monte e tutt'intorno il baratro. Si sentì perduto. Si immobilizzò, per paura di precipitare. Si aggrappò terrorizzato alla guglia…
Lo scosse la vista dello scheletro in nero affacciatosi alla porta per dirgli che la Direttrice era arrivata e lo attendeva. Si staccò dalla spalliera della sedia e si avviò barcollante. Lucidamente si vide e con immenso dolore si sforzò di assumere un aspetto dignitoso - faccia alta e incedere eretto.
La direttrice dottoressa Giovannella Carta stava seduta alla scrivania. Disse: «Venga avanti e si sieda, Fioravanti». Il tono della voce grigio, l'espressione della faccia severa, il gesto della mano pareva volessero inchiodarlo alla sedia. Fioravanti aprì docile le braccia, affinché i chiodi potessero penetrare le palme. «Il signor Ispettore ha da farle alcune domande, dopo sbrigate le formalità di mia competenza».
Fioravanti girò timidamente lo sguardo e lo vide, vestito di grigio, capelli grigi a spazzola, dietro l'altra scrivania. Si alzò in piedi e salutò con un inchino.
L'Ispettore lo rimise a sedere. «Stia seduto, Fioravanti, stia seduto. Tra me e lei ce la vedremo dopo. Adesso segua la Direttrice».
La Direttrice annuì e aprì la cartella Riservata Personale. Disse: «Lei Fioravanti è stato convocato per la notifica di un decreto del signor Provveditore che la riguarda. Si avvicini e firmi qui sotto».
Fioravanti non capì ma gli parve poco rispettoso chiedere spiegazioni. Si avvicinò alla scrivania e prese la penna che la Direttrice gli porgeva.
«Firmi qui, metta anche la data, quella di oggi… E' il decreto di sospensione… e qui scriva per ricevuta». Trattenne il foglio e gliene consegnò un altro. «Questa è la sua copia. Si sieda».
Fioravanti indietreggiò col foglio in mano fino all'altra sedia di fronte all'Ispettore e sedette aspettando. Continuava a non capire che cosa gli fosse stato notificato. Gli pareva di aver sentito la parola «sospensione», ma certamente aveva sentito male… Scrutò con discrezione Lui e Lei… Che stupido! Come aveva fatto a non accorgersene prima? Quasi c'era cascato. Suo padre si era camuffato da Ispettore . Ricordò il sogno e nella sua coscienza buia si accese una scintilla. Un padre è severo, ma sa perdonare. Dopo il castigo, giustamente. Ma allora, la Direttrice… anche lei? Sì, nonostante il travestimento, non si lasciava trarre in inganno, era Maria vergine. A svelarla era sufficiente il rotondo biancore sotto la scrivania. Le sorrise, con un gesto di intesa.
L'Ispettore lisciò con la mano la spazzola del suo cranio e disse: «Evidentemente lei, Fioravanti, ha capito tutto, non ha bisogno di leggere quanto le è stato notificato, tanto meglio, mi risparmia tempo. Ora si alzi e si avvicini… ma che diavolo ha da guardarsi con quel sorriso sciocco? Senta, si sieda e risponda alle mie domande».
Fioravanti accennò di sì col capo e si compose in atteggiamento filiale - dentro di sé tremava, l'aveva fatta grossa e aspettava le rituali cinghiate.
«Dunque, Fioravanti, come lei sa, è stata aperta un'inchiesta; risulta che lei tiene una condotta a dir poco riprovevole, tale da menomare gravemente il prestigio della scuola. A seguito delle risultanze lei è stato sospeso dall'insegnamento a tempo indeterminato, con privazione dello stipendio, giusta la Legge…»
Fioravanti mosse le labbra ripetendo la formula liberatoria: «Padre, Padre, non abbandonarmi. Anche nell'Inferno, nella privazione eterna del Bene, regnano la Giustizia e l'Amore del Padre», disse o credette di dire o disse altre parole con lo stesso significato.
L'Ispettore ebbe uno scatto d'ira: «Ma la smetta una buona volta di farfugliare… Si rende conto o no della gravità della sua situazione? Perfino in questo momento e alla presenza dei suoi Superiori, lei denota un comportamento riprovevole, non è capace di esprimere un briciolo di pentimento…».
Fioravanti si compiacque del Padre-Ispettore che si era messo a suonare col violino un valzer di Strauss, e prese a danzare sul prato all'ombra dei pioppi, ai margini del ruscello. Poi smise e seguì il galleggiare incerto della barchetta di carta che aveva posato sull'acqua. Quindi si sdraiò al sole sulla proda erbosa, accanto a Peppino in mutandine da bagno. Lui gli aveva preso la mano e se l'era poggiata sul pube. Ebbe un largo sorriso e fischiettò: il pube era liscio, senza pene e senza peccato…
«Fischi, fischi pure… le passerà quell'aria strafottente quando sentirà la gravità degli addebiti che le vengono contestati… La S/V nella mattina del 12 aprile del c.a. alle ore 10,15 circa, durante l'ora di ricreazione nel cortile scolastico sdraiandosi accanto a un cespuglio dove compiva l'osceno atto di Onan alla presenza di detti scolari, i quali ne riportavano inguaribile trauma… L'inqualificabile atto che degrada e menoma il prestigio…»
Fioravanti aveva adocchiato una macchiolina sul muro, dietro la scrivania e l'aveva centrata col laser che teneva sempre nel taschino della giacca camuffata da penna stilografica; fuse intonaco e mattoni aprendosi una breccia verso l'azzurro del cielo. Quindi aveva proceduto, con un metodo semplicissimo, ad allargare gli spazi intermolecolari del proprio corpo fino a diventare leggero come una nuvola e se ne era volato via a fare un giretto.
«L'avverto che col suo comportamento da incosciente sta peggiorando la sua situazione. Si ricomponga - un po' di dignità, perbacco! - e mi racconti la sua versione senza particolari scabrosi. Tenga presente che una piena confessione potrà evitarle, salvo querela da parte dei genitori, una denuncia…» disse l'Ispettore facendo un cenno alla Direttrice, che uscì.
Fioravanti nel frattempo si era tramutato da nuvoletta in farfalla variopinta, e con un leggero battito dei piedi si era lanciato in aria. Lasciandosi trasportare dalla brezza, scoprì un grazioso praticello di margherite bianche e gialle, giaggioli, papaveri e tuberose e si era messo a svolazzare per diletto da un colore all'altro. Per tanto, quando l'Ispettore spazientito per la confessione che non arrivava prese a urlargli in faccia, riportandolo in quella desolata pietraia, Fioravanti vide le corna caprine spuntare tra i capelli a spazzola e sentì la zaffata di zolfo da mozzargli il fiato. Il terrore gli tese i muscoli e urlando vade retro Satana! scattò in avanti.
Per sua fortuna l'Ispettore svenne alla prima mazzata sul cranio e crollando sul pavimento non batté la tempia nello spigolo della scrivania.
All'undicesimo elettroshock Ubaldo Fioravanti si risvegliò leggero pulito col «buongiorno» dell'infermiera che gli portava la colazione del mattino.
Si sentiva effervescente come una bottiglia d'acqua trattata con tre dosi di polveri Idriz. Rispose «buongiorno» col tono di chi ha appena fatto la Comunione e sedette in pigiama sull'orlo del letto. Sfilò i piedi dalle pantofole, prese ad articolare gli alluci seguendone attentamente i movimenti. Poi si distrasse, si diede una grattatina sulla nuca e si guardò attorno.
Non si chiese dove fosse. Era un posto tranquillo e ci stava bene. I muri erano bianchi e bianchi erano il lettino, l'armadio, il tavolino e il vassoio con la colazione. Sentì le visceri contrarsi, si alzò e andò a sedersi davanti al tavolino.
Soltanto quando ebbe divorato tutto si accorse della finestra aperta su uno scorcio di verde e di cielo. La sua mente era sgombra di ricordi e di pensieri; affacciandosi sul giardino provò la sensazione di nascere in quel momento, scoprì i sensi e il gusto del percepire.
Era satollo e beato. Arcuò le scapole e la schiena sbadigliando rumorosamente. Dilatò i polmoni inondandoli d'aria profondamente. Gli occhi gli si schiarivano riempiendosi di luce e di colori, di forme animate. Un brusio crescendo di voci e di sfarfalleggiare di insetti gli penetrò piacevolmente nel cranio. Rimase a lungo estatico affacciato sul giardino soleggiato, seguendo il via vai della gente nei vialetti alberati.
Si stava allontanando dalla finestra, sazio, quando rientrò l'infermiera. Ubaldo Fioravanti si fermò a mezza stanza, estatico, le mani tremule tese, gli occhi lucidi, il viso e l'anima sorridenti. Era vestita di bianco ed era bionda, gli occhi avevano il colore del cielo, le labbra erano ciliegie, pesche vellutate erano le guance. Aveva movenze lievi armoniose quasi di danza, sparecchiando.
«Bella giornata, oggi», sorrise la ragazza.
«E' tutto molto bello», rispose sorridendo Ubaldo Fioravanti.
«Non se ne stia qui in camera, se ne esca, si faccia una passeggiata in giardino, le farà bene. Settembre se ne sta andando».
«Sì, esco. E' tutto molto bello».
«Si vesta e se ne esca. La sua roba è là nell'armadio. Spero abbia appetito, oggi. Abbiamo lasagne al forno e polpette. Le piacciono le polpette?».
«Oh, sì, mi piacciono, è tutto molto bello, anche lei… Come si chiama, lei?».
«Lei scherza. Mi chiamo Maria, lo sa bene…».
«Maria. Molto bello, Maria…».
Ubaldo Fioravanti aprì l'armadio e dalla gruccia tolse l'abito estivo di canapa color crema. Indossò calzoni e giacca sopra il pigiama, rimise i piedi nelle pantofole e uscì.
…La campana della ricreazione aveva suonato e gli scolari in frotta erano corsi fuori dall'aula. li aveva raggiunti a metà cortile e aveva dato loro una voce per radunarli e impartire le raccomandazioni quotidiane… Era primavera. Il sole era tiepido. L'erbetta nuova tappezzava l'angolo non calpestato dai giochi dei ragazzi. Si era diretto verso quell'angolo e si era seduto sull'erba, a ridosso di un cespuglio di oleandro. Da quel punto dominava il cortile e poteva seguire la scolaresca. Compenetrato dal piacere di quel solicello tiepido, si era lasciato scivolare col dorso sulla terra lungo disteso con le braccia e le gambe aperte… Aveva dimenticato i calzoni sbottonati, come sempre - il tepore sul pube lo aveva avvertito della distrazione e subito aveva portato una mano sui calzoni per abbottonarli…
Ubaldo Fioravanti si inoltrò nel giardino, vide all'interno di una aiuola un tratto erboso soleggiato. Vi si sdraiò beato. Sentì la carezza tiepida sul pube e un fremito di piacere gli aggricciò la pelle. Portò una mano ai calzoni sbottonati e tolse dall'asola anche il bottone della cintura. Poi socchiuse gli occhi e si appisolò.
Il medico di guardia, che lo aveva osservato stando dietro la vetrata, scosse malinconicamente la testa e sedutosi a tavolino annotò: «Residuano sintomi schizofrenici. Ricorrenti manie esibizionistiche. Necessario proseguimento terapia convulsivante».
5 - La superstrada
Isabella, nubile di trentadue anni, è stata ritrovata stamattina all’alba - la testa sfracellata sulla striscia gialla continua e i piedi penzoloni sull’orlo della cunetta.
La gente è in fermento. Dice che senza la superstrada non sarebbe successo. Il sindaco ha mandato in giro il banditore per avvisare la popolazione che verrà quanto prima uno di fuori per spiegare quali saranno gli utili della superstrada in futuro, intanto di stare tutti calmi. La guardia ha avuto l’ordine di scopare l’acciottolato della piazza e di innaffiare i gerani del sagrato.
Il processo si è svolto nella bettola di zio Crisantemo.
Ziu Massiminu, in apertura di seduta, dice: «Quello che frega noi è la legge. Colpa del non saper leggere e scrivere. Dovremmo metterci a scriverle, le nostre leggi; diversamente ci portano quelle di fuori.».
Ziu Massiminu ha fatto il minatore, ha partecipato agli scioperi del ‘21, perciò parla difficile e gira tutto in politica.
Il gruppo di ziu Antiogu non è d’accordo: «Abbiamo già tante complicazioni di lavoro fame pestilenze; ci mancherebbe altro perdere tempo a imparare a leggere e a scrivere come ragazzi di scuola.».
In paese non ci sono leggi scritte. Bisogna cercarsele dentro, caso per caso, e adattarle alla circostanza. Le tradizioni sono le fondamenta - e sono sacre anche se si tratta, a parere dei civilizzati, di fondamenta vecchie e malandate. Eppure reggono. Quando un contadino semina barbabietole anziché fave è scostumato. Gli altri contadini gli levano il saluto, i bottegai non gli fanno più credito e il prete non gli dà l’assoluzione. Allora, la produzione delle fave si intensifica, la morale si irrigidisce e si allungano le gonne. Se poi chi ha seminato le barbabietole guadagna bene, mette su casa di pietra e veste camicie che non si stirano, in tal caso il saluto, il credito e l’assoluzione gli vengono restituiti - ma sempre scostumato resta. E chiunque potrà mettere la mano sul fuoco che la moglie lo cornifica e che le figlie corrono la cavallina, tanto poi si sposeranno con un brigadiere del Continente.
E’ stato come per le cavallette e per le alluvioni: quando te ne accorgi è troppo tardi. La superstrada è arrivata tre mesi fa dalla parte del vidazzone comunale, dove pascolano le pecore di basso rango. Larga come un’aia, grigia a strisce bianche e gialle, due fette per le auto che vengono e due per quelle che vanno - tutte e quattro a casa del diavolo. Passa giusta dietro il cimitero, a nord, facendo una gobba intorno al paese.
«Non sono mica tonti, i forestieri», dice ziu Gesuinu, reduce della brigata Sassari, «quella è una trappola tipo le trincee che ci scavavano attorno i tedeschi per fregarci quando meno ce l’aspettavamo.».
Il paese è rimasto aperto soltanto da un lato, verso le paludi. I pescatori, sfaticati che non sanno tenere una zappa in mano, sogghignano maliziosi - di nascosto però dai contadini e dai pastori che devono attraversare quella “trincea” maledetta sotto il tiro di sbarramento almeno due volte al giorno col bestiame, i carri, gli attrezzi e tutto il resto.
Oggi, neppure il pomeriggio ha smosso gli uomini dalla bettola. Vi si sono aggiunte numerose donne, che hanno portato pane e formaggio e sono rimaste ad ascoltare. In paese, tutti usano meriggiare. Anche le pecore. I pastori sono comprensivi per questa umana esigenza delle greggi, e costruiscono apposite tettoie di frasche per ombreggiare le meriggiate. Alcuni istruiti visitatori del Continente, che vengono a studiare usi e costumi e se ne ripartono con le valigie cariche di cianfrusaglie antiche e pecorino, dicono che il fenomeno del meriggiare deriva da “fattori ben precisi” e cioè il clima caldo umido, i postumi della malaria, il vino nero denso e la religione cattolica.
L’interesse dei civilizzati rende sospettoso ziu Massiminu. «Quelli, se vengono qui a frugare non è per nulla», dice.
I più scuotono la testa, scettici: «E che diavolo vuoi che trovino qui? Pietre e pidocchi…».
«A quelli», interviene Peppino che ha fatto l’emigrato, «interessano le storie antiche, quando gli uomini mangiavano carne cruda strappandola dagli ossi coi denti e le donne se le mettevano sotto e le sfondavano davanti a tutti. Ci vanno matti, loro, per storie così. L’ho letto anche nei loro giornali. Dovete sapere che la gente civile fa e legge giornali per poter sapere i fatti degli altri. Al posto delle tradizioni, non fidandosi della parola, hanno leggi scritte in libroni, che sono tanti da non starci nel monte granatico. Per non farsi fregare o per fregare il prossimo devono conoscerle tutte oppure avere abbastanza soldi da pagare qualcuno che le conosca al posto loro.».
La mia gente non fa, non compra e non legge giornali. Qualche volta li usano i bottegai e i pescivendoli per avvolgere la merce o qualche raffinato per pulirsi il culo. Se un marito accoltella la moglie per faccende sue private, tutti corrono alle grida e assistono di persona. I ritardatari - gli obesi, gli sciancati e le donne gravide - si fanno raccontare dai presenti le prime sequenze. I vicini di casa hanno il compito di raccontare gli antefatti, gli annessi e i connessi. A spettacolo finito arrivano i carabinieri col pretore. A loro nessuno racconta mai nulla, perché non chiedono per legittima curiosità ma per scrivere. E le cose scritte sono sempre una fregatura - a parte il fatto che tu dici una cosa e loro ne scrivono un’altra.
Una volta Efisino il matto parlò e quelli della giustizia scrissero. Passati tre o quattro anni, qualche giorno prima del dibattimento, quelli della giustizia tornarono da Efisino e gli ordinarono di ripetere per filo e per segno tutto quanto. Efisino, seppure matto, ha una memoria di ferro: ripeté la storia nei minimi particolari. Intanto che lui parlava, loro leggevano per controllare se tornava giusto. Efisino differì in un dettaglio: la seconda volta, il coltello era penetrato “sotto la terza” costola e non “sopra la quarta”. Efisino si ebbe sei mesi giusti di galera per falsa testimonianza aggravata, e da quel lato rinsavì tutto.
Qualche coltivatore di barbabietola ha portato il televisore. Ogni tanto la gente va, lo guarda e lo ascolta, ma dice che non è vero per niente, che è tutta una invenzione come il cinema per divertire e commuovere nei giorni di festa. I civilizzati che fabbricano e vendono televisori dicono che non sta bene che ci sia gente tanto arretrata, che bisogna istruirla a tutti i costi, diversamente è una vergogna per tutto il genere umano.
Quando Peppino l’emigrante descrive il modo di vivere dei civilizzati, nessuno gli crede. Dicono che non è possibile, oppure che sono matti da legare.
Prima c’erano più guerre. Ogni volta ne partivano quindici o venti. I due o tre che ritornavano si provavano a descrivere le stranezze che avevano visto, ma ci rinunciavano presto per non passare da svitati. Ziu Gesuinu, reduce brigatista, ha accettato il ruolo di svitato e vive raccontando le sue memorie di guerra. E’ rimasto otto anni fuori - neppure lui sa precisamente dove. Appostato in un canalone a sparare sui nemici che gli passavano a tiro - dice. Al rientro non aveva più i calli della zappa; l’odore delle pecore gli dava svenimenti e l’aria dei campi coltivati gli gonfiava la milza.
Ziu Gesuinu il brigatista se ne sta tutto il giorno in giro per le bettole in cerca di uditorio. Appena l’ha trovato, comincia: «Un giorno ero di sentinella e sai chi ti vedo? Il re in persona, venuto a ispezionare insieme ai generali. Mi vede e subito mi riconosce. Si avvicina. Mi mette una mano sulla spalla e mi dice: “E che cos’hai tutto triste e nero, o Gesuinu?”. Io gli dico: “Eh, già non lo saprai tu Vittoriu, otto lunghi anni fuori di casa!”. E Vittoriu allora: “Ci hai ragione, Gesuinu, bravo! Domani si va in licenza.”».
Se l’uditorio è prodigo, prosegue: «Piano piano siamo entrati in confidenza. Una domenica - mi venga un colpo se non era la Domenica delle Palme! - Vittoriu è venuto a prendermi in macchina per andare a pranzo insieme. Mi ha portato in una reggia che ci aveva da quelle parti in mezzo a un boschetto. C’era ogni ben di Dio. Le mogli dei generali avevano preparato tutto loro, insieme alle serve. Vittoriu si era puntato subito sulle serve - tutta roba fresca. Si sfregava le mani dalla contentezza. Dice: “Forza paris, Gesuinu! Dobbiamo fare onore all’esercito.”. C’era una tavolata grande come la piazza di chiesa; da bere avevano portato diverse botti di malvasia, nieddera e vernaccia; da mangiare, un gregge di pecore arrosto con tutti gli intestini fatti a treccia in padella con le frattaglie e i piselli. Alla fine, gli attendenti hanno portato anche la frutta. E non ti portano le ciliegie? Non ci crederete: una cesta da vendemmia piena ne hanno portato, ricoperta di foglie di finocchio. Dapprima mangiavo tutto alla pari; ma quando la pancia mi si è tesa come un tamburo ho cominciato a sputare i noccioli. Gli altri commensali erano tutti seri composti svogliati: una ciliegia se la mangiavano in cinque morsi. Io allora per rallegrare la compagnia ho preso a lanciare noccioli, così, strizzandoli tra due dita… Uno è andato dritto sul naso della regina. Quando ha visto che ero stato io, mi ha guardato ridendo e muovendo un dito mi ha detto: “Eh, Gesuinu, birbaccione!”. Ed è entrata in gioco pure lei, lanciando noccioli sulla pelata dei generali… Vittoriu rideva come un matto… Eravamo diventati come fratelli, con Vittoriu. Non fa a crederlo, gli scherzi che ci facevamo l’uno con l’altro! Io ho sempre pensato che fosse della nostra razza: piccoletto, figlio di buona mamma e col naso sempre in tiraggio.».
Nella bettola di ziu Crisantemu la calura pomeridiana si fa sentire. L’adunata si è accosciata sul pavimento di cemento per rinfrescarsi almeno di sotto. Soltanto ziu Anselmu, che ha le chiappe legnose, è rimasto seduto sullo scanno di paglia e brontola: «E quale demonio aspettiamo, parlottando parlottando? Andiamo, mettiamo un tronco in mezzo e il primo che si ferma gli tagliamo il collo a roncolate.».
Ziu Anselmu rappresenta l’ala massimalista. E’ guardato con rispetto ma tenuto a debita distanza. Alla gente non piacciono le cose fatte in fretta. Specialmente se sono importanti come il mangiare, il dormire e lo scopare. E il vendicarsi non è meno importante.
Ziu Antiogu il saggio dice che per andare liscio il boccone che mandi nello stomaco, deve essere già digerito quello precedente. Tale la teoria tale la pratica. Infatti, egli non ha bisogno di mettersi a cacare in un vaso di maiolica. Si accoccola ai margini del cortile, davanti al formicaio, e segue per ore il via vai dei laboriosi animaletti. Ne ha appreso così dopo lunghe sedute le malizie economiche politiche e sociali e le trasmette alle nuove generazioni. Ziu Antiogu, assumendo l’aspetto grave che la circostanza impone, dice: «La minestra si mangia più spesso fredda che calda.».
La frase è piaciuta. Tutti hanno assentito muovendo la testa. Ziu Anselmu abbassa la cresta.
Ziu Anselmu ha le chiappe legnose, è scorbutico ed è massimalista perché soffre di bile e non assimila. E’ in lite da dieci anni con don Piero, il vicario di curia, per una questione di confine tra due chiusi. Si accusano l’un l’altro di indebita appropriazione di un metro buono di terreno. Dalle testimonianze lasciate a terzi dai rispettivi avi, è venuto fuori che anticamente i due chiusi erano delimitati da una siepe di ficodindia. Tale siepe - come è noto - può avere e può non avere un fossato ai lati. Se ha il fossato dal lato destro, significa che la siepe appartiene al padrone del chiuso di sinistra. Se invece il fossato è a sinistra, la siepe appartiene al chiuso di destra. Se non c’è fossato, i ceppi della siepe indicano il confine esatto tra i due chiusi. In questa controversia non si ha più traccia di siepe o di fossati. Ma i testimoni sostengono che la siepe c’era e che c’era anche un fossato - una metà dice che era a sinistra e una metà dice che era a destra.
Quando tra due litiganti la ragione è incerta, non è consentito dalla tradizione adottare rappresaglie, ma se si vuole e se si ha tempo da buttare si fa ricorso alla giustizia cosiddetta civile - che sta ancora ponderando la controversia del ficodindia in attesa di pronunciarsi.
Quando invece la ragione è certa, si applica la legge del taglione. Tu rubi una pecora a me, io rubo due pecore a te - una in più per gli interessi, le spese operative e i danni morali. Se non hai pecore, ti appicco il fuoco al grano, e siamo ugualmente pari e patta.
Ziu Antoni: «Isabella è morta, non sappiamo come. I conti non tornano. Chiamiamo Franziscu e Cristina e ci diranno loro cosa diavolo è successo.».
Ziu Antoni fa parte del consiglio degli anziani, che nella comunità godono di speciali privilegi: possono dare ogni genere di suggerimento ai giovani senza essere mai mandati al diavolo; hanno il posto riservato nel muraglione del sagrato; fanno ballare sulle ginocchia le nipotine fino a tredici anni e anche oltre per stimolarne la crescita.
Non è necessario mandare a chiamare i vecchi genitori dell’infelice Isabella: ziu Franziscu è lì appartato in un angolo e zia Cristina sta seduta sui gradini dell’uscio con altre donne, in attesa degli eventi.
Un silenzio teso ristagna nella bettola, mentre il vecchio padre rievoca: «Ventitré giorni or sono, il sei di maggio è stato. Rientravo dalla terra di Cruccuri… Un tempo disastroso. Il cielo era nero come la pece e i lampi e i tuoni rotolavano col carro di Nannai. Me la sentivo nel sangue, la malasorte mia…».
Sto per interromperlo e fargli notare che nel mese di maggio, dalle nostre parti, non si verificano temporali neppure per eccezione; poi ci rinuncio, ricordando che alla mia gente piace il clima tragico globale.
«… In casa era tutto buio. Il presentimento è diventato certezza appena sono entrato con l’asino in cucina. Dallo sportello aperto sul cortile entrava un chiarore da fantasmi; il camino era spento e non c’era pentola sul trespide. Disgrazia grande sentivo nella bocca dello stomaco. Cristina e Isabella sedevano una di faccia all’altra a testa bassa, con le mani sul grembo. Non ho avuto neppure la forza di aprire bocca, mi sono lasciato cadere sulla stuoia…».
L’adunanza pende dalle labbra del vecchio. Qualcuno gli porge un bicchiere di vernaccia scura per rianimarlo. Ma è inutile sollecitarlo a proseguire: il pover’uomo è in preda alle convulsioni.
Sospinta dalle mani delle donne, si leva e avanza di un passo, controluce nel riquadro dell’uscio, la vecchia madre. Le donne non hanno diritto alla parola nel consiglio degli anziani, possono eccezionalmente sostituire un maschio, nel caso che costui sia mutolo di nascita o lo diventi occasionalmente. La vecchia dice: «Il disonore in casa mia. Isabella, fiore mio bello sfortunato!».
L’uditorio si assesta, arrotando l’occhio e tende l’orecchio.
«Tutto mi confessò nei minimi particolari. Il sei di maggio era, giorno di Santa Giuditta, la Gloriosa - diverso ritorno aveva fatto, pimpante, dal bosco di Oloferne a casa sua… Avevo acceso il forno per il pane. “Isabella, figlia mia - le avevo detto, e mi si fosse seccata la lingua in quel momento! - Vai e corri a prendermi un fascio di erbe per fare scope da forno, e non andare lontano!”. E lei ubbidiente: “Subito - aveva risposto - all’oliveto di don Adriano vado, dietro casa di madrina, andando e tornando sto.”. E se ne era uscita di fretta col sacco. Quando l’ho vista uscire, il cuore di gelo mi si è fatto e mi è tornato il sogno alla mente…».
La gente civile non dà importanza ai sogni nell’analisi delle componenti di un fatto - li ritengono fantasie o allucinazioni prodotte da cattiva digestione. Non così la pensava Putifarre, ministro d’Egitto, e lo stesso Faraone. Non così la pensa la mia gente, per la quale i sogni sono avvisaglie di eventi straordinari, per lo più funesti. Le anime morte, con l’autorizzazione della Madonna o di Santi importanti, scendono nottetempo sulla terra, si avvicinano al capezzale dei dormienti e sussurrano loro notizie allarmistiche. Quando qualcuno muore in paese, specialmente se di morte violenta, ci sono almeno dieci persone che già lo sapevano per averlo sognato.
Non sempre i sogni sono confidenze di Santi su ciò che accadrà - assassini, disgrazie, cataclismi e pestilenze varie. Più spesso si tratta di attacchi demoniaci. Il demonio addetto a disturbare il quieto sonno dei mortali è Coda Lunga, astutissimo e gran puttaniere. La mia gente lo chiama confidenzialmente Cielle. Si traveste in centomila modi e mette in opera centomila astuzie per adescare i cristiani.
Di regola Cielle risparmia gli adolescenti - si dice che tema i sermoni morali dell’Angelo custode addetto alla guardia delle vergini fino al compimento del quattordicesimo anno. Dopo questa età entra in vigore il libero arbitrio, e ciascuno deve cavarsela da sé.
Cielle è il corruttore notturno, e anche pomeridiano, delle giovinette coi bruffoletti, delle vedove inconsolabili e delle spose male amministrate. Alle giovani, Ciele si presenta in abito di velluto blu, aitante, coi baffetti rossicci e un sorriso sfacciato. La fanciulla irretita vorrebbe scappare per una questione di principio, ma non può. Teme che voltandosi venga acchiappata di dietro.
Cielle ammalia la preda con occhi di basilico intanto che si accosta sempre più. Ormai a contatto, snoda la lunga coda che teneva nascosta e l’avvolge attorno alle reni della vittima. La quale finalmente si sveglia in orgasmo e urla. Per scongiurare i pericoli di ulteriori visite di Cielle, la tradizione suggerisce tre Pater, tre Ave e tre Gloria abluzioni gelate purificatrici. Una terapia più antica, tutt’ora diffusa, è quella di dormire in compagnia.
Cielle assume le sembianze di amico, parente e perfino di confessore per portare a compimento i suoi turpi disegni. La vittima, convinta che si tratti di apparizione santa, sta al gioco, in attesa di ricevere anticipazioni sul futuro. Si lascia avvicinare e accetta senza malizia le carezze fraterne. Quando il gioco si è ormai spinto fino al punto da cui è impossibile tirarsi indietro, il diabolico corruttore getta la maschera e ogni ritegno, estraendo fulmineo la lunga coda. Il resto vien da sé.
Io ho vissuto e studiato tra i civilizzati e nutro forti dubbi sulla importanza dei sogni. Sono considerato un “sangue misto”, tuttavia ho il diritto di sedere nel consiglio degli anziani a patto però che parli il meno possibile. E’ stato più forte di me interrompere la vecchia: «I sogni non sono pertinenti nella attribuzione delle responsabilità…».
Il consiglio degli anziani emette un sordo brontolio, accentuato dal fischio a due dita modulato da un pastore. Le donne accoccolate sull’uscio, non potendo aprire bocca, levano in alto le mani scuotendole in segno di dura disapprovazione.
Nel mio paese la giustizia si amministra diversamente che tra i civilizzati, dove i giudici sono di mestiere e possono fare tutto ciò che vogliono purché non dimentichino di pronunciare la formula rituale “In nome del popolo”. Se durante un dibattimento qualcuno del popolo si azzarda ad aprire bocca per sbadigliare o porta la camicia sbottonata, i giudici si arrabbiano e ordinano alle guardie di cacciarlo via “in nome del popolo”. Non di rado, col pretesto che uno ha fatto da cattivo, cacciano via tutto il popolo e il processo se lo fanno da soli, “in nome del popolo”. Se devono giudicare un caso copulatorio, il popolo - in nome del quale amministrano la giustizia - non può assistere. I giudici se li ascoltano da soli, i casi porcaccioni. Dal che si può dedurre: primo, che i civilizzati siano di moralità tanto fragile da bastare una immagine erotica per scatenare in essi Sodoma e Gomorra; secondo, che i giudici abbiano i lombi protetti da una cintura di castità o che non abbiano capacità erettiva; terzo, che viga la divisione in giudici e giudicanti, ovvero in fottitori e fottuti.
Sotto questo aspetto, la mia gente è sovrana. Non c’è grinta autoritaria che riesca a far sgombrare la piazza durante un processo. Non molti anni fa ci fu in paese un podestà cultore delle teorie del Nietzsche. Nei ritagli di tempo aveva anche scritto un Sein Kampf, ne aveva fatto stampare alcune copie e le aveva distribuite ai maestri di scuola. Un giorno riunì in una bettola di periferia il parroco, la guardia, il direttore della scuola e la congrega delle Dame di Carità. Tutti insieme decisero di stabilire un ordine nuovo. Durante un processo in piazza, dato il tema scabroso, il sindaco ordinò alla guardia di far sgombrare il popolo. E per sacralizzare l’ordine lo accompagnò con tre scampanellate di tintinnabulum, quell’aggeggio che usa il chierichetto durante l’elevazione del Santissimo. La gente esplose in una fragorosa risata, pensando che fosse una barzelletta forestiera. Alcuni si arrotolavano sull’acciottolato scompisciandosi dal ridere. D’altro canto era spassoso anche il tema di cui si dibatteva: un manipolo di giovanotti in vena di scherzi aveva irretito ed evirato il vice parroco, don Giuliano, un bel ragazzo venuto da fuori, occhi verdi, pupilla del vescovo. La faccenda era andata grosso modo così: impegnati nei lavori agricoli, i maschi avevano dovuto allentare le cure e la sorveglianza alle fanciulle. Ne aveva subito approfittato don Giuliano. Ai maschi era sembrata una concorrenza sleale e avevano deciso di passare al contrattacco. Stilarono una missiva amorosa con appuntamento vespertino, dopo la funzione, dietro il nuraghe vecchio; lo firmarono col più bel nome di Figlia di Maria e la fecero recapitare all’intraprendete vice.
Dunque, mentre i giovanotti si apprestavano coram populo a raccontare i particolari della operazione, il sindaco aveva dato l’ordine di far sgombrare la piazza, adombrando una turbativa dell’ordine costituito. Dopo le tre scampanellate, la guardia, secondo le disposizioni ricevute, sfoderò un manganello di ferro gommato e prese a menare botte da orbi sulle teste che gli capitavano a tiro. La gente ci rimase molto male. Superato il primo momento di sconcertamento, si levò con un urlo e passò a vie di fatto. La guardia non fu più ritrovata. Il manganello fu ritrovato dentro il podestà dai dottori forestieri venuti per fargli l’autopsia. Il parroco venne legato in groppa a un asino e cacciato a sassate - il vescovo si tenne l’asino e ne mandò uno nuovo. Di parroco, si capisce. Le scuole rimasero chiuse per un anno. E i podestà che vennero dopo non lessero più Nietzsche - o se lo lessero si guardarono bene dal tradurlo.
La mia gente è buona con gli umili. “Errare humanum est” - dice. E’ comprensiva con chi sbaglia e diffida sempre di coloro che non sbagliano mai. Rivolto agli anziani, dico: «Chiedo scusa per il lapsus» - e chiedo scusa anche a zia Cristina per aver messo in dubbio la pertinenza del sogno. Dal consiglio mi giunge uno sguardo affettuoso e una sigaretta accesa che prendo al volo.
La vecchia madre di Isabella riprende: «… Il sogno nella mente mi è ritornato. La notte prima mi era apparsa la buonanima di Antioga, e dietro di lei c’era la Madonna del Rimedio col rosario di madreperla. Antioga mi si è avvicinata con faccia triste come per avvertirmi di un pericolo. Parlava parlava ma non sentivo la voce; mentre vedevo la Madonna fare di sì con la testa e i grani del rosario sgocciolare sangue. Allora ho gettato un urlo e mi sono svegliata in un bagno di sudore… Subito nella mente mi è tornato il sogno, quando Isabella è uscita di casa a fare scope da forno. Non potevo stare più in me dalla pena, così ho lasciato casa forno pane e sono corsa all’oliveto, fin dove costeggia la superstrada del corno della forca… Quello che ho visto non mi regge il cuore a dirlo…».
La vecchia madre si interrompe per lasciare libero sfogo alle lacrime. Piange da mezz’ora e non accenna a riprendere il racconto. Nelle facce dei presenti appare delusione, quindi irritazione. Una voce borbotta: «Già non sarà il segreto dei cento diavoli, che non fa a dirlo!».
Ziu Massiminu interviene con tatto: «Coraggio, dillo, dillo pure liberamente, Cristina, siamo qui per fare giustizia e dobbiamo sapere tutto per filo e per segno.».
Gli anziani fanno cenni di assenso. Tra loro si leva una voce suadente: «Dai, Cristina, parla che ti sfoghi.».
La vecchia tampona le lacrime con la cocca del grembiule e riprende tra i singhiozzi: «Isabella, creatura innocente! Trentadue anni avevi e mai un uomo in faccia avevi guardato, sempre cuocendo e ricamando. Già non si potrà dire che fossi di gamba lunga, sempre tappata in casa… L’ho trovata gettata nel fosso della superstrada, e sopra ci aveva uno di quei forestieri che passano indemoniati con le macchine…».
Una voce la interrompe: «E visto in faccia lo hai, il bellimbusto?».
La vecchia salta su irosa: «Se era un bellimbusto lo saprà la bagascia che lo ha cacato! Uno di quelli che passano nella strada nuova era, la faccia di Giuda aveva. Quando ha sentito le mie grida è fuggito come un malfattore, è entrato nella macchina ed è sparito in un lampo. Ah, se mi cadeva nelle unghie!».
«E Isabella?», chiedono.
«La mia creatura innocente! Non era in sensi, tutta stracciata, con gli occhi bianchi, in un mare di sangue…».
La folla ammassata dentro e fuori la bettola non sa frenare un’esplosione d’ira. Gli uomini si levano in piedi uno dopo l’altro e prendono a battere per terra in cadenza le scarpe chiodate. Gli animi sono esasperati. Può scoppiare un tumulto da un momento all’altro.
Ziu Antiogu il saggio leva in alto le mani assumendo il ruolo del moderatore. Dice: «Calma, calma, giustizia sarà fatta!».
«Subito, subito!», gridarono i più accesi.
Ziu Antiogu allora getta un urlo ,agitando il bastone di olivastro per zittire il pubblico. Quando si è fatto silenzio scandisce la frase rituale dilatoria: «La minestra si mangia più spesso fredda che calda.».
Ziu Massiminu spalleggiato dall’ala massimalista si fa avanti e propone di interrompere la riunione, di andare a prendere picconi e dinamite e di far saltare almeno il pezzo che costeggia l’oliveto di don Adriano.
Don Adriano - presente per caso - non osa opporsi. Dice: «Pazienza se mi salta per aria qualche olivo, prima di tutto l’onore del paese. Non mettetene molta, però: l’annata promette bene, e il minestrone poi con che cosa ce lo condiamo?».
Uno chiede: «E la dinamite?».
Gesumino il bombardiere si avvicina e dice: «Pronta. A quella ci penso io.».
La mia gente ha un debole per tutto ciò che fa rumore. Qualunque sentimento provi, ama esprimerlo rumorosamente. L’odio e l’amore non hanno sugo, se non esplodono. Urla di dolore e urla di piacere. Canta a gola spianata la vita e la morte.
Diversi anni fa, durante l’ultima guerra della serie, quelli del municipio, che sapevano leggere e scrivere, facevano mille magagne: intascavano i sussidi dei combattenti invece di darli alle famiglie. O se qualche briciola davano, chiedevano in cambio pelo giovane.
C’era in giro una fame da tagliarsi a fette, e la gente non sapeva come uscirne. Si riunì allora il consiglio degli anziani e si fece un dibattimento clandestino di notte, nell’aia di S’Arrideli. Fu deciso all’unanimità di fare ricorso alla dinamite, ed ebbe il mandato esecutivo Gesumino il bombardiere - che prende più pesci lui con un chilo di dinamite di una intera flottiglia di algheresi. Dieci cariche da collocare alle finestre delle camere da letto dei sette consiglieri municipali. Una carica al giorno, cominciando dal lunedì fino al sabato. Le restanti quattro cariche, tutte insieme la domenica a casa del podestà.
Ogni notte, allo scoppio, la gente accorreva nel punto programmato, e controllati gli effetti se ne tornava a letto. La quadruplice carica domenicale si dimostrò un capolavoro d’ingegneria. Sembrava il finale dei fuochi d’artificio della festa della patrona Santa Maria l’Assunta. Le esplosioni si susseguirono con un intervallo di un minuto e mezzo preciso. Negli intervalli, dal colmo del tetto partiva a parabola una girandola multicolore che si dissolveva sfavillante sulle teste degli spettatori. Alla seconda esplosione, tutto il paese si trovava radunato in piazza, davanti alla casa del podestà. Molti si erano portati lo scanno da casa, per assistere più comodamente. Il gran finale si ebbe con l’incendio della legnaia, almeno cinquanta carri di ceppi e fascine. Meglio del falò di San Giovanni. La gioventù si prese per mano e fece il ballo tondo, quando Romoletto arrivò con la fisarmonica e attaccò un indiavolato mi e la. Chiccheddu il torronaio e ziu Nicodemu il sorbettiere non piazzarono i loro tavoli per mancanza di materia prima requisita per il fronte, ma per baldoria, danze, canti, scoppi e allegria quella domenica è ricordata come la festa meglio riuscita in tempo di guerra.
Da quel giorno i sussidi cominciarono a essere distribuiti con una certa regolarità. Una nuova assemblea clandestina fu convocata - stavolta nell’aia di Cuccuru Mannu - per un esame approfondito dei risultati conseguiti. Si constatò che la dinamite aveva sbloccato ma non risolto la situazione, ancora precaria a causa della esiguità degli assegni in circolazione. Si decise di aumentare il volume delle cariche esplosive, giusta la legge dei valori direttamente proporzionali.
Purtroppo si dovette lamentare scarsezza di materia prima nel mercato: i minatori del paese vicino erano in sciopero da oltre sei mesi, e la dinamite serviva loro per dirimere la complessa vertenza sindacale. Per fortuna lungo la costa c’era una fascia minata - riservata ai nemici, caso mai gli fosse saltato in testa di sbarcare lì. Si demandò l’incarico di dissotterrarne due o tre a un reduce artificiere della precedente guerra. Al resto avrebbe pensato Gesumino il bombardiere. Tre giorni dopo, a mezzanotte in punto, saltò per aria il municipio: muri, tetto, mobili, scartoffie e tutto quanto. Fu così che i sussidi, mancando gli intermediari, arrivarono direttamente agli interessati.
L’idea di raccogliere il suggerimento dinamitardo sorride chiaramente a molti. Anche a ziu Crisantemu, il padrone della bettola, il quale pur senza distrarsi dalle sue funzioni di mescitore, chiede la parola da dietro il bancone. Dice: «D’altro canto, quali altre rappresaglie possiamo compiere nei confronti di una superstrada? Non ha pecore da prenderle, non ha parenti ricchi da sequestrarle, non ha messi né pascoli da incendiarle…».
E non ha torto. Gli unici accessori vulnerabili - i cartelli di segnaletica e i vetrini fosforescenti - li hanno fatti sparire da tempo i ragazzi. Una sottrazione che purtroppo non ha debilitato la funzionalità della sua struttura.
Il parroco ha letto le intenzioni esplosive negli occhi lustri della gente che assiste fuori. Si fa largo a spintoni, entra nella bettola e si avvicina al consiglio degli anziani. Far saltare strade civili, nuove e trafficate - egli dice - è un reato gravissimo. Un altro conto sono le strade paesane, che potrebbero anche non esistere. Bisogna ricordare - ammonisce - che ci sono leggi civili alle quali siamo sottoposti, volenti o nolenti, che puniscono non soltanto il danneggiamento, ma anche l’occupazione temporanea in tempo statico di una strada.».
Gli anziani mi rivolgono uno sguardo interrogativo. «Tu che hai studiato», dice ziu Antiogu, «ci devi dire come stanno queste cose.».
«Sì», dico io, «le strade vengono costruite con lo scopo di mettere in moto il cosiddetto ritmo circolatorio - su questo non vi è dubbio. Più si circola e più si consumano macchine, benzina, olio, gomme e tutto il resto. Circolando chiusi al caldo, si suda e si beve di più. Per ristabilire l’equilibrio benzoidrico ci si deve spostare da una parte all’altra secondo una ben congegnata rete di punti di riferimento di benzina e di bibite. Stare fermi in una superstrada è severamente proibito. Infatti, appena si ferma un crocchio per strada - magari per guardare il buco che una talpa è riuscita a fare nell’asfalto - arrivano i tutori dell’Ordine Motorizzato, i quali ordinano di circolare seduta stante, prendendo una gavetta di cemento a presa rapida, arrestando la talpa e turando il buco.».
Il consiglio degli anziani delibera dieci minuti di riflessione per trovare il modo di darsi matti per non pagare all’osteria.
Nel silenzio che segue, si leva una voce acuta melodiosa: «Al sorgere dell’alba - ventitré giorni dopo il vile affronto”, canta ispirato Mimmino il vate cieco che registra le cronache, «Isabella Corrias, nubile di anni trentadue - di buona condotta pubblica e privata - figlia unica conforto della casa - per lavare l’onta patita - la vita si tolse. - Impavida sul ciglio della strada - col piede destro sulla striscia gialla - col cuore sanguinante - attese il passaggio della macchina verde - guidata dal vile barbuto - e proprio sotto quella si gettò.».
Zia Cristina gettò un urlo straziante, e le donne le fanno coro strappandosi i capelli.
Il consiglio degli anziani decide di rompere gli indugi. Uno si alza e guardando il parroco dice: «Voce del popolo voce di Dio!». E aggiunge in tono minaccioso: «E Dio vede, sente ma non parla.».
Gesumino il bombardiere capisce che è giunto il suo momento. Dice: «E’ vero, gli anni cominciano a pesarmi, ma guardate, ho mani ancora ferme».
«La minestra si mangia più spesso fredda che calda. E’ vero. Ma qualche volta la minestra bisogna mangiarla calda. » Dice ziu Antiogu il saggio. E levandosi dichiara chiusa la seduta.
6 - Eva
La conobbi quand'era ancora una ragazzina lunga ossuta, con la faccia piena di pustoline, tutte moine e prurigine. Mi avevano interessato i suoi occhi, di un colore indefinibile tra il grigio e il verde, languidi come quelli di un cucciolo, e l'espressione delle sue labbra che socchiudeva e inumidiva con la punta della lingua in modo osceno.
Era venuta a pensione in città per frequentare le scuole superiori. I suoi genitori, accompagnandola a scuola, me l'avevano affidata - non ho mai capito su quali basi mutualistiche.
«Gliela raccomandiamo, per il profitto e anche per il resto».
Feci il grugno severo rassicurante - intuivo a che cosa alludessero con «il resto».
La madre si sentì in dovere di essere più esplicita: «Le ragazze d'oggi sono senza giudizio, e in una città ci sono tanti pericoli».
La mia faccia manifestò un pudibondo terrore - chissà quanto peccaminosi se li immaginavano, loro, «i pericoli in una città».
Il padre finì di mettere a fuoco l'oggetto della loro preoccupazione: «Il pericolo maggiore sono gli stessi compagni. Lei sa come sono gli studenti, scapigliati, senza freno».
Non era il solo a ritenere gli studenti indefessi violatori di fanciulle. Forse non aveva tutti i torti: lo studio gioca brutti scherzi alla morale costituita, talvolta.
«Sappiamo che lei è un grand'uomo, lo dicono tutti, ci rimettiamo a lei», concluse la madre.
La ragazzina mi guardava con l'espressione del cucciolo in attesa dell'osso.
Per levarmeli dai piedi finsi di condividere in blocco i loro scrupoli, e sedutomi sul fondo della ipocrisia esclamai: «Sarò per lei come un padre!».
I genitori sorrisero rinfrancati. Gli occhi del cucciolo si accesero come due fanalini. Feci allora un gesto oscenamente paterno: allungai la mano e le diedi un buffetto sulla guancia.
Il gesto - lo sapevo benissimo - piacque, soddisfece e tranquillizzò i suoi. Mi strinsero ambedue le mani, e mi avrebbero abbracciato se la gravità del mio portamento non li avesse trattenuti. Il gesto piacque anche al cucciolo, che arrossì fino alla radice dei capelli.
Eva dimostrò di possedere la straordinaria capacità di adeguarsi a qualunque situazione semplicemente riflettendo come uno specchio ogni interlocutore. Riusciva a sembrare intelligente senza esserlo. Non c'era quasi nulla dentro di lei, di suo: appena un soffietto di foto-souvenir del suo mondo contadino con le banali didascalie sul retro. Tutto il resto era vuoto. Un vuoto «pieno» di puntiglioso orgoglio, di irrefrenabile bisogno di esibirsi e primeggiare, di una insaziabile fame di lodi e di carezze. Pur di sfamarsi avrebbe ingurgitato qualunque vangelo, anche quello degli hashishin, purché predicato da un «vecchio della montagna» di bell'aspetto, danaroso e vestito come nei caroselli tivù.
Erano trascorsi parecchi mesi dalla visitazione al tempio dei suoi genitori. Avevo dimenticato la ragazzina pruriginosa e la promessa di vigilare su di lei - incastrato in un ginepraio di intraprese socio culturali. Mi ci buttavo per raggiungere quel livello di allucinata tensione che mi era diventata necessaria per sentirmi vivo.
Oltre alla vigilanza sull'Istituto Statale per Educande, mi occupavo in quel periodo di scienze congressuali. Insieme ad altri pochi esperti programmavo convegni, seminari, stages, tavole rotonde, simposi, dibattiti, ritiri, conferenze, riunioni, assemblee e congressi di vario livello aventi tutti per tema «Tecniche modi e tempi dell'intervento nella formazione morale e civile del fattore umano». Una nuova attività incentivata da un apposito ministero, allora molto in voga, definita progressista e abbastanza redditizia. Le mie capacità nel settore vennero presto riconosciute e ricevetti l'incarico di ispettore generale.
Dopo qualche decina di visite ai Centri di Formazione del fattore umano, avevo imparato a memoria il discorso di base su «la funzione dell'animatore a livello di comunità, modi e tempi». Svolgevo meccanicamente la tesi prefabbricata e collaudata nei concetti, nei toni, nelle pause e nelle reazioni del pubblico; intanto, per non annoiarmi, pensavo ai fatti miei - conteggiavo i rimborsi spese viaggio; osservavo le decorazioni della sala, se c'erano; guardavo fuori dalle finestre; valutavo le cosce delle ragazze sedute in prima fila. Era un discorso tagliato e cucito in modo da poter essere indossato da chiunque con la massima disinvoltura, bianco, nero o rosso che fosse. Non mi accadde mai di trovare un contradditore. Se l'avessi trovato - l'ipotesi è assurda - sarebbero crollate le colonne d'Ercole del sistema: il dollaro e lo stakanovismo, la POA e le guardie rosse, Andreotti ministro e i pensieri di Mao, i martiri di tutte le guerre e la verginità. Nel confezionare l'abito buono per tutti si partiva dal dato di fatto che l'uomo per natura sua non è litigioso - almeno sulle questioni ideologiche - e che invece ha un profondo bisogno di ricevere pronto in bottiglia sturata l'elisir della verità, che lo liberi dalla fatica di pensare con la propria testa.
Fu lei stessa, Eva, a ricordarmi i doveri di precettore venendo a trovarmi a casa nei pomeriggi dei giorni dispari. Aveva un pretesto logico e morale per giustificare agli occhi dei suoi e della gente tanta assiduità: andava male a scuola e aveva bisogno di ripetizioni.
La trovai meno insignificante della prima volta. L'eruzione umorale che prima si disperdeva in una miriade di pustoline doveva aver trovato un unico cratere di sfogo. In città, utilizzando i comuni strumenti di diffusione delle idee aveva appreso l'arte di rendere consumistico il prodotto: i suoi straccetti erano stati ritoccati, più aderenti, più corti, più socchiusi; sapeva accavallare le gambe mostrando le cosce con disinvoltura; espressioni, gesti e toni erano ripresi dalla presentatrice tivù del sabato sera; il suo repertorio linguistico si era arricchito di alcuni moduli porno-dissacratori, dosati in modo da apparire una intellettuale dell'ultra sinistra.
Era ancora poco per interessarmi a fondo. Lei lo capì, si sentì ferita nell'orgoglio e si intestardì nel proposito di conquistarmi.
Seguii freddamente il suo gioco, sicuro di poterlo dominare. Per dare un tocco di vivacità al gioco, decisi di evangelizzarla a tempo perso. A ciò non era estranea l'ipotesi che una graziosa fanciulla evangelizzata si può scopare più facilmente e con più gusto.
Dal canto suo, Eva possedeva un talento raro nell'assumere il ruolo della neofita. Mentre predicavo pendeva dalle mie labbra in un atteggiamento di religioso raccoglimento e gli occhi le brillavano di ideologica concupiscenza. Lei fingeva così bene il suo ruolo che io finii per prendere sul serio il mio.
Suonò il campanello dell'ingresso e qualcuno andò ad aprire. Dico qualcuno perché non sono mai stato in grado si sapere - tra mogli, figli, amanti, amici e questuanti - quanta gente stesse a casa mia in qualunque ora del giorno e della notte. Per stare tranquillo mi ero riservato un'ala del pianterreno, vietandone a tutti l'accesso. I piccoli apprendevano ancora in fasce che in quel recesso tabù viveva un nume sacrosanto. Portando su un piano di religiosità i rapporti con la gente di casa, evitavo i soliti conflitti che deprimono o stimolano la vita familiare dei comuni mortali: le prediche e gli scapaccioni, le moine e gli isterismi delle mogli, la correzione dei compiti e i nulla-osta per ogni rinnovo di guardaroba, le discussioni sui festival delle canzoni e sull'orgasmo vaginale e le sonnolente ammucchiate davanti alla tivù. Quando mi solleticava l'idea - molto raramente - concedevo una visita pastorale agli inquilini di casa. Avvertita per tempo, la tribù entrava al completo. tali eccezionali visite si verificavano sempre di sera, per la cena; e a quell'ora - per la dinamica dei riflessi condizionati - si metteva in moto da sé il discorso su «tecniche modi e tempi dell'intervento nella formazione morale e civile del fattore umano», e le parole cominciavano a venirmi fuori da sole senza che potessi fermarle. Entravo nel salone col piviale sul doppiopetto grigio, pomposo e corrucciato, libri riviste carte sottobraccio - di lì a poco avrei ottenuto la libera docenza. Il televisore veniva subito spento e acceso il lampadario centrale. Quindi sedevo a capotavola - posto che anche in mia assenza era sacrilegio occupare - e mi concedevo all'estatica turba.
Suonò il campanello, dunque, e qualcuno andò ad aprire dileguandosi discreto. Un picchio timido alla porta dello studio e lei entrò tutta tirata a lucido, con una rivista arrotolata in mano: labbra stropicciate di rossetto grigio cadavere sfumato di viola, palpebre abbondantemente ombreggiate di blu, l'arco delle sopracciglia depilato, i capelli sciolti cadenti in due bande sulle guance pomellate di ocra. Nell'insieme un risultato esteticamente discutibile ma apprezzabile nelle intenzioni.
«Scusi se la disturbo», mormorò.
«Nessun disturbo, figurati, mi fa piacere rivederti».
Si illuminò e venne avanti per stringermi la mano - per l'esattezza, mi diede la mano per farsela stringere.
Le indicai la poltroncina davanti alla scrivania e tacqui aspettando che aprisse bocca.
Avrei potuto aspettare fino alla resurrezione dei morti. Eva non aveva alcunché da dirmi. Mi guardava e basta. Il guardarmi doveva essere l'unico scopo della sua visita. Pareva impegnarla totalmente e soddisfarla anche, almeno a giudicare dalla sua espressione beata.
I lunghi silenzi mi annoiano, se non ho le mani occupate. Dissi: «Ti stai ambientando, vedo. Una città interessante la nostra, vero? Residui spagnoleschi, borbonici, sabaudi, papalini…»
Seguiva con interesse affettato. Capii che il tasto era sbagliato. Dissi: «Come stanno i tuoi simpatici genitori? Li rivedi spesso? Sei fortunata ad avere genitori che si preoccupano tanto di te…»
Rispose con un «bene grazie» seguito da una espressione di incontenibile disgusto. Altro tasto sbagliato. Non tollera ficcanaso e pastoie, la cavallina. Dissi: «Hai fatto amicizie? Ti diverti?».
Strusciò il sedere sulla poltroncina. Il tasto era azzeccato. Rispose: «Oh, sì, tanto! Non pensavo di fare tante amicizie. Istruttive, anche…»
Non ne dubitavo. Naturale che i ragazzi le corressero dietro. Dissi: «Ne sono contento» e la esaminai. «Ti trovo cambiata, sai». Lei si mise in evidenza, incerta. «In meglio, voglio dire. Ti trovo più matura, più carina».
Avevo toccato il suo la. Si contorse, arrossì, sorrise e non sapendo che altro fare prese a gingillarsi con la collana.
A quel punto, decisi di congedarla. Mi alzai e l'accompagnai alla porta. Mi sembrò dispiaciuta di doversene andare così presto. Per rasserenarla le presi una mano e dissi: «Torna pure a trovarmi quando lo desideri o se hai qualche problema. Considerami un amico».
Le visite pomeridiane di Eva si ripeterono con regolarità, esclusi i giorni di vacanza suoi e di lavoro congressuale miei. Il rapporto che ne derivò divenne struttura portante del mio complesso edificio esistenziale.
Nei tre anni che seguirono, Eva aveva digerito tre grandi amori e un numero imprecisato di piccoli, arricchendosi di esperienze pratiche; inoltre aveva appreso tutte le malizie dialettiche che io potevo fornirle. Era ormai in grado di interessare gli uomini e di farsi invidiare dalle donne. Le era rimasta intatta la devozione animalesca che mi aveva dimostrato già dal primo giorno, un sentimento comune in una ragazzina, cui però si aggiungeva una curiosità morbosa di scoprire i meccanismi esistenziali di un uomo straordinario - supponevo che fosse una forma abnorme di appetito sessuale sublimato.
Eva era una nullità dal lato creativo. Un vuoto vivificato da un inesauribile bisogno di ricevere sensazioni - la paragonavo a un mostruoso recipiente capace di disintegrare nel suo vuoto qualunque contenuto.
Man mano che penetravo affascinato in quel suo singolare vuoto, mi innamoravo e mi perdevo con lo stesso angoscioso smarrimento che deve provare l'insetto caduto nel calice del nepente. Ero passato dal ruolo dello sperimentatore a quello della cavia - lei, pur conservando per me l'animalesca devozione, mi utilizzò per sperimentare, cioè vivere, la mia vita. Mi sottoponeva a ogni genere di sollecitazione per conoscerne le reazioni e utilizzare le esperienze nei suoi rapporti interpersonali.
Ovviamente potei conoscerla in questi termini soltanto quando i fili del suo gioco si allentarono diventando visibili. Mi snebbiai, allora; e pur continuando ad amare il nepente trovai la forza per sgusciare da uno spiraglio fuori del calice divoratore. Non fu facile sfuggirle indenne - si era fatta scaltra nelle schermaglie psicologiche, non tradiva emozioni, usava con raffinato dosaggio parentesi di silenzio, sorrisi e assiomi.
Dopo l'allucinante periodo trascorso nel suo sacco disgregatore avrei dovuto fuggire da lei; sentivo invece un bisogno puntiglioso di razionalizzarla per possederla in modo totale e definitivo; legata mani e piedi. Soltanto così - pensavo - l'avrei rimossa da me con tutte le radici e l'avrei infine incasellata inoffensiva nello schedario dei ricordi. Scelsi cioè per liberarmene la soluzione più difficile e insieme la più allettante per un intellettuale sicuro di sé: razionalizzare l'irrazionale per dominarlo - un'antica alchimia politica, la stessa che ha prodotto la civiltà delle macchine e la razza di oranghi che attualmente intristisce la terra.
Espressa in termini di esigenze, Eva aveva bisogno di qualcuno che valesse per credere nei valori, di qualcuno che l'amasse, per amare; aveva bisogno di tenerezza, per intenerirsi, di luce per illuminarsi. Non potendo provare sensazioni in proprio, era diventata sensibilissima nel riflettere le altrui. Mancava di fantasia nel modo più assoluto. Il suo umore era sempre perfettamente intonato all'ambiente e alle persone con le quali entrava in contatto. Non faceva nessuno sforzo a piangere con l'amico triste e a ridere con l'amico ilare - al contrario di chi si compenetra nei sentimenti altrui e deve sempre fingere per arrivare a un rapporto accordato.
Mi dava un esempio aberrante della socialità. Sfuggiva la solitudine, da sola si annoiava a morte galleggiando in un vuoto assoluto, senza un volt di energia da scintillare, senza un fremito di sensazioni, senza l'immagine di un ricordo. Per ciò stava sempre in compagnia, in contatto sensibile con qualcuno che fosse vivo, per sentirsi viva.
Nelle sue rarissime notti di forzata solitudine, il tempo interminabile che precedeva il sonno le si popolava di fantasmi informi che ondeggiavano cullandosi con ritmo crescente, fino a diventare il sibilo lacerante di un diapason - il vibrare di un filo di ragno teso nell'infinito.
Eva aveva necessità di tanti uomini per ogni vuoto da riempire. Per tanto le riusciva di accettare diversi uomini contemporaneamente senza sentirsi in colpa. Il mio amore le colmava vuoti intellettuali; l'amore di Massimo, il fusto del paese, le forniva sensazioni di forza e di aggressività; l'estasi di Giorgio, un biondino timido, la faceva vibrare di tenerezza; e così via per tanti altri: non mancavano il compagno di scuola sgobbone che le comunicava stimoli allo studio, l'attivista di partito proletario che le ispirava sentimenti di fratellanza universale e il porcaccione da passeggio esperto nel raccontare barzellette oscene che la eccitava.
Pur schematizzata, Eva continuava a restare l'affascinante mistero dell'irrazionale. E da questo lato - credo - mi era diventata necessaria: un equilibrante per lenire l'aridità razionale di una vita prefabbricata come la mia. Ma non so bene se lei fungesse, in quella fase del nostro rapporto, da olio lubrificante per i miei ingranaggi esistenziali roventi a causa del loro moto folle o se tout court avesse la funzione di un vaso di fiori freschi sopra un computer.
Mi ero abituato alla sua presenza pomeridiana a giorni alterni. Esauriti i convenevoli riprendevo il lavoro e lei leggeva o studiava sdraiata sul divano. Di quando in quando richiamava la mia attenzione per farsi spiegare il significato di una parola o il concetto di una frase.
Una volta disse: «Posso esserti utile in qualcosa? non so, mettere ordine, battere a macchina…»
«Puoi andare in cucina e prepararmi un caffè molto lungo», risposi.
Uscì e portò il caffè. «Vanno bene due cucchiaini di zucchero?» chiese.
«No, mi basta uno, grazie».
«E' ancora molto caldo, fa attenzione», disse.
La guardai. Mescolava il caffè per sciogliervi lo zucchero. Tolse il cucchiaino, lo asciugò mettendoselo in bocca, lo ripose sul piattino. Mi porse la tazzina. Attese in piedi che io bevessi, seguendo con una espressione affettuosa. Mi era tanto vicina da sentirne il calore.
Da questo episodio e da altri mi parve di capire che in lei c'era il desiderio di completare il nostro rapporto vagamente sentimentale con un contatto fisico. Avevo visto giusto, ma con buona pace di Freud lei desiderava da me un contatto fisico che non aveva nulla da vedere col sesso.
Fu lei stessa che con lenta e studiata gradualità arrivò a stabilire quel contatto di cui aveva bisogno. Una volta stabilito, durava quasi ininterrottamente per tutto il tempo che lei si tratteneva. Le tecniche per arrivare al contatto erano quanto mai infantili: mi si sedeva vicino per farmi leggere qualcosa e senza parere appoggiava il suo ginocchio al mio; oppure metteva la mano sul bracciolo della poltrona dove io sedevo e le sue dita finivano sul mio polso; o anche prendeva la mia mano in un momento di foga interlocutoria, dimenticandosi di lasciarla.
Questo suo particolare bisogno di accumulare energia vitale attraverso un puro e semplice contatto epidermico, finì per destarmi la voglia di chiavarla. Non avevo ben capito la natura asessuata dei suoi contatti; d'altro canto mi tornava comodo fraintendere, collocare il fenomeno sul piano comune.
Mi impegnai in una escalation da certosino, apparendo sempre coinvolto e innocente, con l'alibi del suo contatto. Dalla fase dello stare insieme a chiacchierare con la mano nella mano, passammo a quella dello stare seduti allacciati sul divano; poi a quella di accarezzarci il viso vicendevolmente; quindi a mantenere unite le guance fraternamente. La fase più lunga e più intensa fu quella delle carezze col polpastrello dell'indice sulle sopracciglia, che durò oltre un mese.
Mi stupiva che si appagasse con così poco, sapendola sessualmente attiva. Non si aprì neppure quando l'escalation giunse all'abbraccio disteso. Aderiva con tutto il suo corpo al mio, e il contatto le infondeva una animalesca vitalità: le si inturgidivano il collo, le orecchie, le labbra; il viso le si arrossava e la fronte le si imperlava di sudore; gli occhi le si illanguidivano. Assumeva l'espressione di beatitudine del lattante dopo una poderosa poppata.
La prima volta che la baciai, la sua bocca si schiuse docile lasciando penetrare la mia lingua. Staccatomi da lei mi prese la faccia tra le mani e restò a lungo a fissarmi, aggrottata. Mi chiedevo che cosa le stesse passando per la testa, quando disse: «Mi hai deluso, sai».
Mi dispiacque, l'averla delusa. Aspettavo che dicesse perché: avrei potuto rimediare rifacendo meglio. Ma lei taceva. Dissi: «Perché ti ho delusa, cara?».
Mi guardò, scosse la testa, disse: «Così. Tu sei intelligente, puoi capire benissimo».
Avrei potuto capirlo, a rifletterci; ma non mi tornava utile, capire. L'escalation era giunta ormai a un punto da cui non era possibile ritirarsi senza perdere quel particolare orgoglio del maschio. Tanto valeva affrettare i tempi, recitare l'ultimo atto e abbassare il sipario.
Studiai la «soluzione finale» nei minimi dettagli, calcolando tempi e contrattempi - una minuziosità pari a quella dei criminali dei film americani quando progettano il piano per svaligiare Forte Knox. Come tutti i piani perfetti, il mio prendeva l'avvio da un contrattempo provocato.
Si trattava: primo, organizzare una gita in gruppo, a cui partecipasse ovviamente lei; secondo, non spendere una lira, perciò farla passare per «gita culturale» col rimborso spese a carico del servizio centrale della pubblica istruzione; terzo, produrre il contrattempo che obbligasse il gruppo a trascorrere la notte fuori casa; quarto, assicurarsi che ci fosse non lontano dal luogo del contrattempo un albergo con tutte camere singole e poco trafficato. Il resto sarebbe venuto da sé.
Infatti venne. Almeno fino a un certo punto. Dopo cena restammo tutti insieme a chiacchierare nella hall, gareggiando in banalità sul guasto al carburatore - dai sintomi non poteva essere il carburatore; meno male, il pulmino ce l'aveva fatta a sbarcarci giusto a cento metri dal provvidenziale albergo: ma avrebbe rimborsato anche le spese d'albergo, il servizio centrale?
Ritiratisi tutti, lasciai trascorrere un prudenziale lasso di tempo, quindi bussai alla camera di Eva. Non si stupì di vedermi. Mi fece entrare e richiuse la porta. Era ancora vestita, quasi che mi aspettasse. Però disse: «Perché sei venuto?».
Più che impacciato mi sentivo agitato. Risposi: «Così, per stare un po' insieme. Non ho sonno».
Mi prese affettuosamente per mano e fece per condurmi alla poltrona. «Vuoi qualcosa da bere? Aspetta, chiamo il bar».
«No, lascia stare. Sono venuto per vederti, vederti nell'intimità… un modo per conoscerti più a fondo, capisci? Senti, facciamo così: mi siedo e fumo una sigaretta; tu intanto fai finta di essere sola, spegni la lampada, accendi il lume da notte, ti metti a letto e fai la nanna».
Accondiscese con un sorriso. Senza badare a me prese a spogliarsi e tutta nuda si infilò sotto le lenzuola.
Finita la sigaretta, mi avvicinai al letto e dissi: «Ora che ti ho vista, posso andarmene».
«Se vuoi stare ancora un po', non mi dispiace», disse. Mi tese una mano carezzevole e sussurrò: «Sei molto caro».
Pensai fino a che punto sarebbe arrivata stavolta la sua mania di contatto epidermico. Dissi: «Ti dispiace se mi sdraio un attimo vicino a te?».
«Perché dovrebbe dispiacermi?».
«Non so, potresti avere degli scrupoli, qui a letto…»
«Mi credi tanto arretrata?».
«No, no, scusami», mi affrettai a dire sdraiandomi al suo fianco.
Stando io sopra le coperte e lei sotto ne veniva un contatto imperfetto. Lei disse ciò che speravo: «Vieni sotto anche tu… no, non così, sarà bene che ti levi qualcosa di dosso, per esempio le scarpe».
Tolsi le scarpe e tutto il resto. Dissi: «Vuoi che spenga la luce?».
«No, il lumino non mi dà fastidio».
Aderii al suo corpo e rimasi immobile, aspettando che mi si placasse l'interna agitazione. Quando mi fossi placato - pensavo - avrei sentito il piacere e allora glielo avrei fatto provare io, il contatto…
La distensione dello spirito tardava ad arrivare, mentre permaneva totale quella del corpo. La faccenda cominciò a preoccuparmi.
Lei chiese: «Che hai? Non stai bene?».
La guardai. Il suo viso era sereno, radioso come un mattino di primavera coi mandorli in fiore e i gorgheggi dei cardellini. Mi sentii più che mai disarmato. Veramente strano: la sensazione che mi dava il contatto del suo corpo nudo era dolcissima, ma l'uccello non reagiva. Pareva essersi dato all'ascetismo, e per quanto facessi non riuscivo a farlo uscire dalla sua tana. O che lei gli avesse contagiato la maledetta anomalia del contatto puro?
A quel contatto puro, Eva intanto si era già appagata. Col faccione rubicondo soddisfatto del pupo che ha vuotato tutte e due le mammelle di una nurse ciociara, allentò l'abbraccio, si stirò e sospirò: «Sei molto caro sai; riesci a infondermi non so come dire la forza dei nervi distesi».
Quell'uscita da carosello, in quella situazione, mi fece diventare di umore nero. Pensai: - Stai calmo. Meglio stare al suo gioco, per il momento. Non voglio che mi creda un impotente.
La parola impotente, seppure messa lì senza peso, mi colpì, divenne grossa, enorme, una meteora che cominciò a turbinarmi nel cervello. Richiamai alla mente le migliori prestazioni, i record massimi. Il risultato fu quasi nullo - lo sentii fremere appena alla radice. Allora dissi: «Spegniamo la luce e dormiamo, vuoi?».
«Sì, caro, dormiamo», rispose.
Prese subito sonno. Io rimasi sveglio a rimuginare.
Possedevo una discreta conoscenza della materia. Cominciai col prendere in esame il meccanismo che provoca l'erezione, quindi feci la rassegna delle cause per le quali l'erezione non si verifica. La sintomatologia del mio caso si orientava verso l'eziologia psicologica. Una diagnosi favorevole, il caso meno grave, da un lato. Tutto è a posto, ma il coso non funziona. Il che è già un conforto. Prognosi: basta individuare il fattore negativo specifico - un complesso di colpa oppure un odore sgradevole - studiarlo per conoscerlo ed eliminarlo. Qualcosa come lo studio biologico del Leptoconops irritans in una campagna antiparassitaria.
Trascorsi almeno un'ora alla disperata ricerca dell'agente negativo specifico - chissà dove aveva il suo habitat, nascosto in qualcuna delle centomila pieghe dell'oscuro sacco dell'inconscio. Senza il radar di un analista non lo avrei trovato in mille anni. Accantonai quindi l'ipotesi del blocco psichico per prendere in considerazione la diminuita capacità dei riflessi del midollo spinale. Un sintomo di astenia. Surmenage intellettuale. Troppe responsabilità, troppo lavoro, troppe preoccupazioni. Rimedio-palliativo: una doccia fredda per ridare tono al cervello, ai lombi e scuotere il coso. L'ipotesi era allettante, ma la cura impossibile: la camera di Eva era sprovvista di bagno.
Spostai infine l'attenzione sulla dinamica fisiologica delle parti direttamente interessate. Carenza ormonale. Le batterie sono scariche, non arriva corrente e il motore non si avvia. Palpai le batterie: scariche del tutto non mi parvero… Bella fregatura, se dipendeva dal circuito interrotto! Hai voglia a girare l'interruttore, la lampadina non si accende. No, il circuito non c'entrava, non avevo avuto traumi recenti, nulla di rotto. Bisogna considerare l'età, la diminuita produzione di sostanze nobili: carenza ormonale. Cura a base di testosterone. Gli effetti benefici si riscontrano dopo una quarantina di giorni…
Guardai l'orologio: erano le tre. mi restavano ancora poche ore per trovare una soluzione onorevole - la disfatta mai. Neppure una disfatta mascherata da una nobile rinuncia. In verità, se in me avesse prevalso il buonsenso avrei potuto ridurre di una casella lo scaffale delle chiavate, evitandomi in seguito un mucchio di dispiaceri. Decisi di assopirmi e di attendere fiducioso il risveglio - considerato che ogni mattina, immancabilmente, mi destavo in grazia di dio.
L'essere entrato in tale ordine di idee placò come per incanto la mia agitazione, fugò i timori e mi ritrovai col motore acceso pulsante. Mi affrettai a partire, prima che l'inconscio o che altro diavolo fosse me lo spegnesse di nuovo. Eva era docile e desiderosa di contatto anche nel sonno, per fortuna.
Si destò mentre le stavo sopra. Emise un gemito languido, di gola, allungò una mano e accese il lume senza spostarmi, sbatté le palpebre, spalancò gli occhi, mi pose le mani sulle spalle, restò un bel po' a guardarmi e infine disse: «Mi hai deluso, sai».
Credetti che si riferisse alle mie prestazioni e aumentai la pressione e il ritmo scrutando le sue reazioni. Non partecipava attivamente - naturale, in una ragazza perbene - però godeva maledettamente. C'erano tutti i sintomi…
Dopo restò allacciata teneramente al mio corpo con le braccia e le gambe.
A un tratto si sciolse, si allontanò e disse: «Perché l'hai fatto? Si poteva evitare, no?».
Mentii: «Mi sono trattenuto, ho lottato contro il desiderio, non volevo, è stato più forte di me, perché ti amo».
«Io credevo a un amore speciale, tra noi, un amore puro, come Dante e Beatrice».
Il rammarico percettibile nel tono della sua voce scompariva nel mare di dolcezza del suo viso caldo radioso.
Dissi: «Ora il nostro rapporto è anche più puro, perché è completo».
«Non lo credo. Per me, il rapporto era già completo. Hai rotto un'armonia che durava da anni».
Pensai che fossero fisime dietro cui nascondesse certi pregiudizi di cui si vergognava e che avrebbe superato. Dissi: «Non ti crucciare, adesso. Riposa. Ne riparleremo domani».
Era l'anno del diploma, la finalissima. Con molto garbo, Eva mi comunicò che aveva deciso di mettere giudizio per non pregiudicarsi l'esame. In parole povere, chiavare il meno possibile. D'altro canto - disse - rompere del tutto sarebbe stato un male peggiore, forse. Apprezzai molto quel forse. Ammise di avere ancora bisogno di sostegno morale e culturale - vedermi per sentirmi - e in particolare aveva bisogno di quel suo contatto fisico - vedermi per toccarmi, caricare la sua batteria attingendo dalla mia. Ciò le dava - a suo dire - pienezza spirituale e fisica.
Molto più tardi e in circostanze estranee a questa vicenda, mi è accaduto di ritrovare in un amico la mania del contatto con le persone o con gli oggetti significativi allo scopo di trarne energia. Egli, per evitare contagi microbici, non usava mai le mani ma un «tramite», buon conduttore, per esempio un pezzo di rame, che teneva sempre in mano pronto a essere messo in contatto con una fonte di energia. Si trattava di persona con intelligenza superiore alla media, con la quale discorrevo piacevolmente - l'unico fastidio era quello di vedermi di tanto in tanto poggiare quel suo «conduttore» sulla fronte, sul polso o in altra parte scoperta del mio corpo, quando non ci fosse a portata di mano qualche apparecchio radio o tivù che costituivano con certe auto e moto di grossa cilindrata l'ideale di fonte da cui trarre energia. Devo aggiungere però che il mio amico era nella sua mania più equilibrato di Eva, perché «prendeva» nei momenti in cui sentiva dentro di sé un calo di tensione, e «dava» agli altri quando si sentiva carico, e dava anche a chi scettico lo prendeva per matto.
Gli incontri si diradarono. Ci incontravamo qualche volta a casa di Nice, un'amica di Eva. Eravamo tutti e tre allergici alla siesta. personalmente, ritenevo un lusso volgare il buttar via una porzione di vita così grossa, se si moltiplicavano le due ore quotidiane per trecentosessantacinque, eccetera. Ammettevo che la digestione è un momento critico per l'organismo, ma con due tazzine di caffè la tensione poteva sollevarsi a un livello utile almeno per condurre analisi estetiche, se non per svolgere attività creative.
Eva in fase digestiva cadeva in letargo. Aveva bisogno si una spinta per rimettersi in moto. Un'ora o due di conversazione fungevano da volano.
Nice odiava dormire anche di notte e stava bene con noi perché ci trovava due creature singolari. Preparava un ottimo caffè e lo offriva con lo stile del mecenate uso ad avere nella propria corte uomini di genio e brillanti etere. Parlava e ascoltava con una espressione macerata: miscelava Kierkegaard con Adorno più un pizzico di Schopenhauer - l'escavazione profonda dell'interiore, l'angoscia dell'essere, una carica nucleare nell'ombelico del mondo e bum!… Naturalmente era bruttina e piena di complessi. Per equilibrarsi, compensava il compensabile con valori intellettuali.
Nice rappresentava un esemplare raro nella nuova generazione: era politicamente impegnata a sinistra, legava coi professori e andava bene a scuola. Adler era il suo santo taumaturgo; le aveva insegnato il modo di vivere considerando la psiche come una bilancia, i cui piatti si mantengono sempre allo stesso livello aggiungendo o togliendo peso o contrappesi. Una fatica del diavolo, questo continuo inarrestabile dosaggio: mascheramenti ed esibizioni, questo è inferiorizzante e lo nascondo tanto poco o tutto, questo è superiorizzante e lo mostro tanto poco o tutto. Un'altra faticaccia, la taratura dei pesi che sul mercato degli ideali mutano continuamente di valore: per poter dormire qualche ora di notte e poter tenere aperti gli occhi di giorno.
Nice era una delle tante creature che si suicidano per vivere, che si sottopongono a ogni supplizio, anche quello di diventare intelligenti, pur di essere accettate dagli altri e provare l'illusione di essere amati. La sua condizione somigliava alla mia - ma avevo per lei un sentimento di pena, senza quella ironia che a me non risparmiavo. Avrei leccato amorevolmente le sterili dolorose piaghe che le producevano i mostruosi ingranaggi della macchina in cui si era incastrata.
Era un pomeriggio afoso. Eva e Nice vestivano abiti leggeri e corti. Sdraiate vicine sul divano mostravano le gambe con maggiore prodigalità del solito. Notai che le sollecitazioni che ricevevo da Nice mi caricavano di desiderio per Eva.
Si parlava della mia idea di scrivere la storia di un uomo sradicato dalla campagna e trapiantato in una metropoli. Conclusi: «Egli ignorava l'esistenza del termometro. In estate cercava l'ombra e in inverno il sole. Era felice. Dove gli si faceva buio, lì si addormentava. Ora, invece, gli accade di non riuscire a prendere sonno se nel suo appartamento la temperatura scende o sale oltre i venti gradi…»
Eva disse: «E' una storia comune, oggi come oggi. Se avessi il tuo talento…»
La interruppi ironico: «Coraggio, dimmi…»
«Ecco, io scriverei la storia di un uomo straordinario…»
«Ogni vita, mia cara, è straordinaria», intervenne Nice.
Confermai, annuendo col capo.
«Non dico di no - si difese Eva - ogni vita è di per sé, e tanto più per chi la vive, una vicenda straordinaria. Io volevo dire altro, mi avete interrotto, volevo dire di un uomo straordinario che è straordinario proprio perché non lo è…»
Stavolta la interruppi io: «Scusa, cara, perché non provi a parlare più chiaro?»
«Mi spiego meglio. Un uomo che per apparire straordinario è costretto a fare i salti mortali».
Guardava me, parlando; e mi parve di cogliere un sorriso ironico - aveva ormai buttato giù l'idolo dal piedistallo, ma speravo che almeno non prendesse a calci i frammenti.
Nice disse: «Continua, Eva, la tua idea mi sembra buona».
Dovevo prendere il banco, subito. Mi affrettai a dire, rivolto a Eva: «In sostanza tu parli di un uomo qualunque che per sfondare indossa abiti non suoi. Una rielaborazione, mi pare, della favola dell'asino che veste la pelle del leone. Nella favola l'intento didascalico guasta… si potrebbe evitarlo… sì, mi stai dando una buona idea… ecco, io non lo smaschererei; nessuno dubita mai del suo travestimento, tutti sono convinti di avere a che fare con un vero leone. L'unico a sapere è lui. Di qui il dramma…»
«Esatto», disse Eva «E portando avanti il tuo discorso - ma non era il mio? - si potrebbe dimostrare che tutti i geni non sono che asini travestiti da leoni e mai smascherati…»
La discussione riportata sulle generali mi tranquillizzò, ma non perdonavo a Eva l'intenzione di ferirmi. Dissi: «Sembrerebbe che tu ce l'abbia con i geni. A ogni buon conto, sappi che io non mi reputo un genio».
«Può darsi», replicò piccata, «ma se lo credono gli altri non puoi farci nulla. E questo potrebbe essere un altro risvolto della storia».
Il rapporto cominciò a perdere colpi; prima o poi mi avrebbe lasciato per strada.
Decisi di provare in anticipo - per cominciare ad abituarmi e soffrirne di meno - i sintomi della delusione.
In primo luogo dovevo trovarle tutti quegli attributi necessari a scatenare lo sdegno di prammatica: quando ci si accorge di avere amato una canaglia, di avere sofferto e goduto condizionati da un essere indegno di lustrarci le scarpe, non si può non sentire la bocca amara e la voglia di farla finita.
Dimostrata con una lunga serie di fatti la fondatezza degli attributi «canaglia» ed «essere inferiore», mi sedetti aspettando l'arrivo dei sintomi specifici dell'amore deluso: sensazione di catastrofe, riflessioni pessimistiche sulla organizzazione cosmica, pensieri socio-politici eversivi, riaffioramento di precedenti fregature, inappetenza, vuoto di valori - un sintomo vago, quest'ultimo, ma importantissimo.
L'unico sintomo che rilevai - non previsto - fu il brontolio dell'orgoglio ferito: «Ti sei lasciato menare per il naso da una sgualdrinella». Il gioco era davvero stupido, a guardarlo dopo - tanto stupido che non mi stupii di esserci cascato: mi sarei sentito più umiliato se fossi cascato in un gioco intelligente.
Altro sintomo che avrei dovuto sentire: un senso di liberazione. «E' stato un incubo, ora ne sono uscito e ricomincio a vivere condizionato dalla mia sola volontà». Invece non mi sentivo affatto libero senza di lei.
Riemergeva il brontolio dell'orgoglio ferito. «Non è stato un incubo. Hai amato e sofferto davvero. Non tentare di uscirne con la storiella dell'incubo. Mi ricordi quella fanciulla scrupolosa che fingeva di dormire mentre l'amico la montava. E non ne esci neppure con l'altra tua favola dell'attore che recita tanto bene da credere vera la finzione».
Cominciai a barcollare e ad angosciarmi: «E allora, come è stato possibile, un uomo del tuo calibro, cascarci come una pera matura…» Doveva esserci una valida giustificazione: troppo lavoro, forse, o alimentazione irrazionale. Debolezza organica, esaurimento nervoso. Debole e quindi indifeso. Lei è stata il virus che entra nel sangue, trova anticorpi mosci, si instaura sfacciatamente, prolifera, pullula, domina.
La sera prima, Eva si era ricordata improvvisamente di una relazione di storia dell'arte da presentare a scuola il giorno dopo, improrogabilmente.
Notai in lei un insolito fervore e me ne mostrai compenetrato: «Che hai cara?».
«Sono stata scusata dal professore tre o quattro volte, per questa benedetta relazione. Domani devo assolutamente presentarla».
«Hai tempo tutta la sera. Isolati, lavora…»
«Temo che il tempo non mi basti. Non sono molto lucida. Dovrei stare sveglia tutta la notte, per farcela».
Era un modo di dirmi che se non l'avessi aiutata mi avrebbe fatto saltare il dolce. La «causa di forza maggiore» è la formula inventata dal sistema per fregare la gente quando le regole del gioco non gli tornano comode. Dissi: «Cara, non ci sono io forse? se ti do una mano, in un paio d'ore ce la caviamo. Quando mai trascorrere una notte in bianco!?».
Mi ringraziò. Ero convinto di avere in pugno la situazione. Impartii le direttive: «Io preparo la stesura; tu intanto mettiti a studiare il periodo nei suoi aspetti economici, politici, eccetera…»
Mi attaccai per un'ora a uno di quei mostruosi volumi specialistici dove ogni brano di materia è anatomizzato con la microscopica minuzia del paranoico. Vi trovai molto di più di quanto mi occorresse per stendere una relazione di dieci cartelle sul nudo scultoreo di uno scorcio di secolo - esattamente dodici anni - che ha lasciato a malapena qualche frammento di dita con influssi periclei.
Dopo un'altra ora di battitura a macchina, stanco ma giulivo, pregustavo appassionate ricompense andai a consegnarle il lavoro.
La trovai nel salotto addormentata sul divano, con le gambe prodigalmente esposte. Le gambe di Eva erano sempre esposte con prodigalità, non deliberatamente ma per una particolare struttura anatomica: l'ampiezza del bacino, l'enormità delle cosce, la lunghezza delle gambe erano tali da non poter essere nascoste in alcun modo, anche per il loro contrasto con l'esilità della testa, del busto e delle braccia.
Distolsi a fatica lo sguardo dalle sue gambe, la presi per le spalle e la scossi. Spalancò gli occhi spaventata. L'aggredii: «Ma insomma! possibile che tu non abbia il minimo senso del dovere?».
Abbozzò e disse: «Hai ragione. Scusa, mi ci sono appisolata…»
Pensai: «E' ancora insonnolita, può essere un momento favorevole». Per ammorbidirla avevo anche qualcosa da offrirle. Dissi: «Ecco la relazione pronta. Dieci cartelle giuste. La preparazione orale te la fai in mezz'ora».
Mi gratificò con un bacio. Per Eva, baciare era come stringere la mano per salutare. Lo sapevo, eppure ci ricascavo: il luogo comune sul bacio, la cordicella che abbassa le mutande.
Inzuccherò il rifiutò. Disse: «Sei stato molto caro a darmi una mano. Ma ora ho bisogno di un po' d'aria fresca per snebbiarmi. Usciamo, vuoi? Farà bene anche a te. Dopo farò la parte orale, te lo prometto».
La passeggiata durò due ore più del previsto. Ai giardini pubblici le venne il ghiribizzo di mettersi a giocare a nascondarello con una turba di ragazzini. Pretendeva che giocassi anch'io…
Dovetti chiamarla urlando, perché tornasse. Arrivò senza fretta. Disse: «Ciao. Mi sono divertita un mondo».
Feci una smorfia di compatimento.
«Ho capito, scusa, dimenticavo che sei una persona seria e che ho da finire quel maledetto lavoro».
«Appunto. C'è anche il dovere. Tu lo dimentichi troppo spesso. Ora rientriamo. Più tardi rientriamo e più tardi finisci…»
«E' commovente la cura che ti prendi di me», disse beffarda.
Una donna sa rifiutarsi in tanti modi. Eva usava con me il metodo più appropriato al ruolo che io avevo stupidamente assunto. Era tanto chiaro da essere ovvio che davanti all'alternativa dovere o copula, uno come me, per essere coerente coi suoi discorsi sui «valori etici strutturali che reggono la società civile», non poteva assolutamente dare la precedenza alla volgarità dell'istinto.
A mezzanotte trascorsa filtrava ancora la luce dall'uscio della sua camera. Pensai: «Figurati se un'oca del genere riesce a fare le notti in bianco studiando. Probabilmente si è addormentata con la luce accesa».
Entrai. Era sveglia, invece, e studiava - o almeno pareva, con il libro aperto in mano. Sedeva accoccolata sulla poltroncina, con un plaid sopra le gambe.
«L'hai presa proprio sul serio», dissi accarezzandole i capelli da dietro la spalliera, per nasconderle la mia nudità.
«Voglio fare una bella figura, domani».
«Brava, cara. Mi ricordi certe mie impennate giovanili, certe notti insonni…» Mi interruppi prima di farmi scappare il solito esempio dell'Alfieri e del suo sconcio Volli, sempre volli, fortissimamente volli. Che andasse a dare il culo, l'Alfieri! Se non me la fossi stesa per almeno dieci minuti non sarei riuscito a prendere sonno - me l'ero programmata, ormai. Decisi di aspettare: avrebbe finito per stancarsi di giocare all'Alfieri, la bambolona. Dissi: «Vorrei aiutarti in qualche modo. Purtroppo non posso studiare al posto tuo. Non riesco a dormire, sapendoti sacrificata. Ti starò vicino finché non avrai finito».
Mi guardò in tralice, sorridendo. Mi fece una carezza sulla guancia. Disse: «Non voglio che perda sonno anche tu. Vai a dormire, ti prego». E per chiudere il discorso mi scoccò il bacetto della buonanotte.
Insistei: «Ne avrai ancora per molto?».
Guardò il mio viso, forse per giudicarne la resistenza. Disse: «Ne avrò almeno per due ore».
Quell'almeno le lasciava un margine di sicurezza. Io presi quell'almeno inopportuno e lo scaraventai fuori dalla frase. Dissi: «Due ore? Bene, aspetto. E' giusto starti vicino nei momenti difficili. Sai che faccio? Me ne sto nel tuo letto a leggere. Quando arriverai lo troverai caldo».
Lei continuò a recitare con una bravura che non mi aspettavo. Disse: «Sei molto caro, ma non posso accettare che ti sacrifichi. Il tuo sonno è prezioso, saresti uno straccio, domani».
Io mi ero già infilato nel letto.
Lei riprese: «Sai, ho detto due ore perché tu non ti crucciassi. In verità potrebbero essere di più. Credimi, non devo distrarmi neppure per cinque minuti».
Dissi: «Ecco, una pausa di cinque minuti è quel che ci vuole. Lascia che te lo dica uno che se ne intende. Dopo riprenderesti con rinnovata lena…».
Stavolta le sfuggì, con un riso beffardo, il movimento iniziale di quel gesto sconcio che si fa col braccio.
Io proseguii angelico: «Ti distendi per cinque minuti, stiamo vicini vicini in contatto, ti rilassi…»
Si rifugiò ancora una volta nella incorruttibile corazza del dovere e lo fece prendendo tale e quale dal mio armamentario. Disse: «Mi deludi, sai. Non sei tu che predichi i valori inalienabili, fulcro e scopo di ogni momento esistenziale? Non sei tu che tuoni guai a chi calpesta nell'uomo in sé o in altri anche uno solo di questi valori? E se venissi meno al mio dovere, come potrei guardarmi più allo specchio senza sputarmi in faccia?».
Abbassai la testa. Pensai: «Te la sei meritata. Così impari a complicare la vita, la tua e quella degli altri - perfino il chiavare, che è la cosa più semplice e naturale del mondo». Dissi: «Non ti facevo tanto saggia. Credimi, ne sono lusingato… Non c'è sacrificio che non valga la pena di sopportare pur di salvare un valore morale».
La frase finale non era un granché. In compenso suonava bene. E dopo averla pronunciata me ne uscii pomposo, dimenticando perfino d'essere tutto nudo.
Il pomeriggio del giorno dopo andai da Nice. Eva non c'era.
«Come? sta a casa tua e la cerchi qui? Penso che stia ancora dormendo. Stamattina sono passata da lei. Ha brontolato che era stanca, che aveva saltato la scuola, che preferiva un'assenza a una figuraccia nella interrogazione di storia dell'arte».
Nascosi la rabbia dietro un sorriso. Dissi: «Poverina. Ha studiato tutta la notte senza farcela. Verrà più tardi».
«Ma che dici? Non ricordi che oggi è un giorno pari? Si alzerà fresca fresca per uscirsene col ragazzo…» Rilevò il mio stupore e aggiunse: «Il cervellone non ti salva dalle ingenuità sentimentali. Eva ha il ragazzo da molto tempo. Credevo lo sapessi…»
Tentai di difendermi dall'accusa di ingenuità e dalla sofferenza dell'inganno. Dissi: «Beh, non lo sapevo ma lo immaginavo. Eva è una ragazza esuberante, moderna… Non era difficile da immaginarsi, ti pare?».
Nice si accorse che soffrivo. Mi si fece vicina. «Non ne vale la pena, credimi. Non ti ha mai amato. Almeno non come tu avresti voluto», disse accarezzandomi. Mi sentii turbato, smise e si allontanò: «Che sbadata! Dimenticavo il caffè. Scusami, torno subito».
Mi lasciò tutto il tempo per rimettermi. Pensai: «Ecco una donna che saprebbe comprendermi e amarmi»; e quando la vidi versarmi il caffè premurosa e sorridermi non seppi trattenermi dal prenderle una mano. «Grazie, Nice, grazie di cuore».
«Grazie di che? Lo sai che ti stimo, che mi sei caro».
Eva mi si rificcò in testa. «Non mi ha mai amato, dici?».
«Non pensarci. D'altro canto devo capirla, non deve essere facile amare un uomo come te. Non sei un uomo qualunque, tu. E poi, l'hai amata davvero, tu?».
Soltanto allora mi accorsi che Nice parlava del rapporto tra me ed Eva come se sapesse tutto da sempre. Risposi: «Non lo so. E' certo però che sentimenti e sensazioni li ho vissuti e sofferti».
«Non vuol dire: puoi avere amato sentimenti e sensazioni, non lei».
«Sì, Nice, forse è stato così… Tu mi aiuti a capire».
«Sono sincera, ecco tutto. Vedi, dico ciò che penso, non prendertela…Tu sei un uomo che non può amare. Puoi fingere di amare, puoi forse suscitare amore negli altri…»
La interruppi: «Aspetta, fammi capire. Vuoi dire che non sono capace di vivere la realtà così com'è? Che ho bisogno di falsarla, per viverla? Sì, forse è così: sono un attore fallito che prova continuamente un copione che mai reciterà sulla scena della vita».
«Sì, ma non esattamente. Tu non sei un attore fallito. Tu reciti bene sulla scena della vita, tanto bene da ridere e da piangere dimenticando la finzione. No, non sei un attore fallito. Tu sei - perdonami per ciò che dico - tu sei un uomo fallito. No, non nel senso comune del termine: hai tutto ciò che si può avere. Agli occhi della gente tu sei arrivato. Sei un fallito, forse come tutti gli intellettuali, perché non potrai mai provare il gusto vero della vita, il gusto di vivere senza conoscere il meccanismo della vita…»
Sentii gli occhi riempirsi di lacrime. Le lasciai venire, traboccare, scorrere senza ritegno.
Nice mosse la mano. La fermai. «No, ti prego, lasciale… Voglio sentirle scorrere… Lascia che ne senta il gusto vero, per una volta almeno».
7 - Il pignoratario
E' rientrato all'imbrunire, trascinando una cassetta di cartone piena di bottiglie vuote. E' tutto intento a far conti: si aggrotta, bisbiglia e punta perplesso le dita sulle labbra e sul mento.
La mia domanda lo ha distratto dai suoi calcoli. Non porge l'orecchio, ci sente benissimo, si può parlargli senza alzare la voce - anche se è vecchio come Matusalemme.
«Sì, già sono io quello che cerchi: Floris Celestino, domiciliato qui. Quanti anni ho, non me lo ricordo, ché sono molti e conti lunghi non ne so fare. E tu, se è lecito, chi sei?»
Minuto esile incartapecorito, nuota dentro un pastrano militare. Gli occhietti lucidi vivi nel volto affilato mi scrutano diffidenti. Si è messo con le mani tra gli stipiti, teso nel riquadro della porticina, a difendere la sua tana - una casupola di mattoni di fango e paglia sopravvissuta tra due nuovi edifici che non si capisce se la sorreggano o se la stritolino tra le loro spalle di cemento dalla bava pietrificata.
Ha finito per dimenticarsi dell'intruso, si è seduto sulla soglia con la scatola vicina e riprende a borbottare e ad articolare le dita conteggiando dieci bottiglie a venticinque lire l'una.
La cifra suggeritagli lo coglie di sorpresa e lo lascia perplesso. Deve essergli arrivata troppo veloce. Scuote la testa: «Um… duecentocinquanta lire… um», e solleva più volte il viso spostandolo a destra e a manca per cogliermi in controluce, nel riverbero del tramonto, e valutarmi. Sembra rassicurato.
Vede l'auto parcheggiata. «Ho capito», dice «tu sei venuto a vedere come sta. Già sta bene sì, adesso. Me l'hanno restituito proprio oggi».
Scruta il pacco che ho in mano. «Anche roba gli hai portato? Se è pane, te lo puoi anche riportare via. Pane non ne mangia». Lo prende e comincia a scartarlo, curioso. Appena vede profilarsi una bottiglia, la estrae e ne esamina il colore del contenuto. Scuote la testa soddisfatto. «Qualche goccio di vernaccia gli farà tornare le forze. Sta facendo freddo, quest'anno. Non sembra nemmeno il mese di aprile».
Ha perso ora ogni residua diffidenza. Spalanca la porta per farmi entrare più comodo. «Entra, entra, che parliamo meglio dentro».
Lo aiuto a sistemare la cassetta di cartone con le bottiglie vuote in un angolo dell'ingresso. Il cemento del pavimento è scrostato da molto tempo, ne restano qua e là alcune scaglie sulla terra battuta. Spostiamo le due sedie spagliate accanto all'uscio, al chiarore che ancora viene da fuori. Dal soffitto pende un residuo di portalampade, covile di mosche.
«Luce non ne ho più. Me l'hanno staccata quelli che vanno in giro a passare le bollette. Ai poveri fa bene stare al buio. Più stanno al buio, meno vedono e meno desideri fanno. Una cosa io l'ho sempre desiderata: di non morire solo come un cane. No, io non sono di qui, sono nato vicino a Cagliari. Il consumato di babbo si era trasferito in questo posto per fare il pescivendolo. Di ventiquattro figli siamo rimasti in due fratelli. Eh, sì, ventiquattro. Senza contare quelli sparsi, ché il consumato di babbo vendeva pesci ma ne regalava anche, in giro per i paesi. L'altro fratello sta nel Capo di Sopra. Sono più di trent'anni che non ne so notizia, dalla volta che l'avevano trovato con un paio di porcetti dentro il sacco. Era già buio e non aveva bollettino, così avevano pensato male e ne ha fatto quasi tre anni di galera».
Si interrompe. «Compatiscimi per un poco, torno subito», dice. Si alza e sparisce sul fondo, dietro uno straccio di tenda.
Rientra cinque minuti dopo, ilare. «L'appetito già non gli manca, grazie a Dio». Siede a schiena diritta, il vecchio, e guarda con occhietti vispi.
«Fumare? Non ne fumo di quella roba dolce, io. Ma se non ti offendi, la prendo lo stesso e la conservo. Che mestiere faccio? Il girovago. Giro da quando ero bambino. A vendere di tutto. Raccogliere e vendere. Conosco tutti i letamai della zona. Prima ho cominciato a vendere pesci. Mi portava con lui il consumato di babbo. Mi lasciava in piazza col cesto aperto e se ne andava nelle osterie o a correre, dietro le siepi. Gira gira, trovi solo fame. Ci vogliono i mezzi, per vendere pesce. Al tempo mio, andavo con la corbula attaccata al cappuccio di sacco dietro le spalle. D'estate, prima di finire il giro, il pesce già puzzava, e anche io puzzavo. Sparlotti del golfo, specialmente. Vivevo a sparlotti, nella stagione loro che è adesso. In occasione di feste, prima un po' di guadagno c'era. Finita l'affluenza della gente, restavano a dozzine le teste dei muggini arrosto. E duravo una settimana a teste di muggini e ravanelli. Passata la prima guerra, giravo con la carriola che mi aveva venduto la vedova di un muratore che non era ritornato. Facevo meno fatica e caricavo tre ceste. Poi è venuta l'altra guerra, e anche i pesci si erano messi in divisa, con la tessera. A venderli non faceva più liberamente, se no uno andava in prigione. Allora ho cambiato e mi sono messo col ferro vecchio. Così mi sono comprato un carretto da uno che gli era morto l'asino. Una specie di ambulante sono. Giro sempre in tondo, e il giro è sempre più piccolo e finisce dentro la fossa… Adesso che sono vecchio mi hanno regalato il compagno, ché da solo non ce la facevo più a tirare il carretto. Mi hanno chiamato col brigadiere, quelli che comandano. Io subito ho pensato a una disgrazia, ma mi sono fatto coraggio e ho detto che venivo pronto. Il brigadiere mi ha portato davanti a tutta la giustizia parata. C'erano tutti insieme, e dalla faccia sembravano allegri. Però io non mi fidavo molto, ché quelli fanno una faccia e invece ne hanno un'altra. Mi hanno detto: - Coraggio, allegria! che noi il cuore ce l'abbiamo buono e non credere che non ci pensiamo a quelli bisognosi. Guarda che bel regalo ti abbiamo fatto. Tienilo bene, che porta la benedizione di Monsignore qui presente. - Non ci volevo credere, io… Così il lavoro si è alleggerito, e faccio visita a tutte le botteghe. Cartone e anche cassette di mercato. Le cassette le rivendo a trentacinque l'una. Se te ne servono, per qualunque cosa che sia, sono utili - adesso ti conviene, che ce ne sono molte in cortile, ferme da tutti questi giorni. A te posso fare anche trenta… Il cartone me lo danno i bottegai, quando finiscono pasta e zucchero. Il ferro non va più, adesso. Neanche una scheggia. Ci vorrebbe un'altra guerra, ci vorrebbe. Allora sì frutterebbe tutta quella roba ammucchiata nei cortili e nei letamai. Dicono che il ferro serva per fare bombe. Io già lo so a chi dovrebbero metterle, le bombe. Bombe e dinamite!… Eh, sì, guerra non ce n'è adesso - così dicono. Ma una specie di guerra c'è sempre, per combattere la vita. La fame arriva a prenderti per il collo, peggio degli austriaci… Nella grande guerra fame ce n'era di meno. Quasi tutti i giorni la gavetta di minestra e di tanto in tanto scatoletta. E anche liquore, di quello forte, per rafforzare le ginocchia prima di correre ad ammazzare austriaci. Brutte bestie, gli austriaci. Razza di banditi appostati nei monti e nei boschi. A noi ci avevano mandato per servire la giustizia per ordine del re. Io ne ho fatto poco o niente. Mi avevano preso quasi subito… Non mi ricordo quasi nulla della guerra. Tutto il santo giorno sbucciando patate e schiacciando pidocchi in quel concentramento o come diavolo lo chiamavano, senza poter parlare con nessuno perché era un casino di gente che non si capiva l'uno con l'altro nel modo in cui parlavano. Chissà di quali interni erano,tutti quei demoni gettati insieme. Facce di Giuda, ladri senza rispetto, dovevo stare col coltello sempre aperto, se no mi risvegliavo senza calzoni. Quando mi hanno lasciato andare, guerra non ce n'era più… Se mi hanno dato il sussidio? Una stoccata mi hanno dato! Così ne avessero dato ai figli del re! E l'altro giorno sono venuti a pignorarmi…».
Attraverso lo straccio di tenda, nel cortile, si è intravista un'ombra. Il vecchio ha l'udito fino. Si volta. «Nominatolo, l'angelo, eccolo apparire!», esclama giulivo, alzandosi. Si affaccia sul cortile, bamboleggiando: «Stai buono adesso, ho gente di rispetto. Vai, che roba da mangiare ne hai ancora, vai…».
Ritorna e riprende il racconto. «L'altro giorno… eh, l'altro giorno, brutto giorno è stato! È venuto di presto un signore con due carabinieri. Mi sono pensato: - Gesù Maria, qualche disgrazia grande. Ho creduto morto mio fratello che sta nel Capo di Sopra, oppure arrestato per causa brutta. Ma quelli: - Tu non hai pagato la tassa di casa. Se non paghi facciamo pignoramento. - Io ho detto: - E che cosa devo pagare, se è lecito? - E quelli: - Diciotto mila di casa. - Io mi sono sentito di fuoco sotto. Dopo però ho pensato che diciotto mila non li valgo neppure io con tutta la mia roba - branda materasso, coperta e due sedie. Lui ce l'ho in cortile e forse non lo sanno. Ho detto: - Fate il dovere vostro, ché io già non so niente. - E non sono andati diritti in cortile e mi hanno pignorato proprio lui? Colpo di palla li ferisca! già lo sapevano sì! Quelli sanno tutto: il mostrato e il nascosto. Ci hanno tutto scritto… Il carretto non l'hanno preso, malapasqua li colga! L'hanno solo guardato…».
Mi si fa più vicino, si guarda attorno circospetto e abbassa il tono della voce. Gli occhi gli si sono fatti acuti come spilli. «Eppure, io ho sempre pagato, anno per anno. Quando, non me lo ricordo di preciso, ma pagato ho. Ricevute non me ne hanno lasciato. Capisci come vanno le cose?! Triste grande e nero mi hanno lasciato. E Piriccu, lui, portato al macello… No, male no, non me l'hanno trattato male, questo non lo posso dire. L'hanno legato nel pezzo del cortile dove ci cresce erba. Ma Piriccu non ne mangia di roba cresciuta nei cortili. Allora gli hanno dato pane. Il pane non lo può nemmeno vedere, lui. Gli è andato in antipatia da quando siamo stati insieme a fare questua con padre Crisantemu, quello dei Cappuccini. Era tutto slombato, a furia di bisacce di pane. Mi aveva preso con Piriccu per opera di carità. Adesso anche Piriccu è vecchio e non ha più denti fermi. Gli ho trovato una specie di erba che gli piace più dei sommommoli zuccherati. A leccate se la mangia, proprio di gusto… Come un cristiano è, gli manca solo la parola. Quando mi sono visto solo, mi sono mancati i sensi ed è corsa gente dalle case vicine. Mi hanno spruzzato acqua in faccia, per far scendere il sangue dalla testa. Neanche lo so tutto il tempo che è passato, gettato nella branda. Non mi faceva cuore di assaggiare nulla, neanche di parlare, sempre pensando - Adesso il giro è finito e la fossa ce l'ho sotto già piena di vermi… - Sì, anime buone ce ne sono state, questo non lo posso dire. Come la figlia piccola di Raimondo, quello che aggiusta le ossa rotte. Ogni santo giorno veniva e mi portava una tazza di brodo caldo con un'esca di pane fresco, e mi faceva coraggio, diceva: - Piriccu già sta bene, lo ho visto io, è tutta una finta e dopo glielo riportano fino a casa. ma quando mai?! male non ne ha fatto a nessuno, e la giustizia niente gli deve fare… - Sono venuti anche i signori di fuori a prendere notizie di Piriccu e a fare fotografie, e anche loro mi hanno fatto coraggio: - Ma quando mai?! Un vecchio così, senza compagnia di nessuno, che cose così non ci dovevano essere neanche in Abissinia. - Allora la gente ha cominciato a muoversi e a mormorare e sono venuti i carabinieri per vedere che cosa era tutto quel movimento. E quando lo hanno saputo, sono entrati anche loro, hanno guardato tutto il posto senza dire bah. Solo uno che aveva gradi si è tolto il portafogli di tasca e mi ha messo soldi sotto il cuscino. Che Dio glielo renda nell'altra vita a più e più… L'hanno anche messo nel giornale, Piriccu. Me l'hanno portato per farmelo vedere. Era preciso uguale… Un po' dimagrito, ché non gli trovavano la roba giusta da mangiare… O forse il dispiacere gli toglieva la voglia, legato in quel posto straniero, lontano da casa… Questa mattina a presto me l'hanno riportato. Prima si sono presentati una brigata di signori che avevano la faccia allegra. Non ci stavano tutti, ché la casa, lo vedi, è piccola; e quelli di fuori battevano le mani. Ho avuto subito un presentimento buono, da come ho visto le facce. Uno mi ha detto: - Celestino, allegria! Ci abbiamo pensato noi. - Ce l'avevano nascosto dietro la porta, per farmi una improvvisata. L'ho sentito subito, Piriccu. Mi sono ritornate le forze e mi sono alzato…».
Piriccu si è affacciato sull'uscio, da dietro lo straccio di tenda, con le orecchie tese.
Il vecchio si volta e gli sorride. «Non gli piace stare solo. Mi segue di giorno e di notte, come un cristiano… E' come una creatura battezzata. Porta rispetto alla gente e anche alla casa, ché quando deve sporcare va nel posto suo… Se non ti è disturbo, lo faccio entrare e stiamo ancora a parlare, tutti insieme».
Accenno di sì con la testa.
Il vecchio si alza verso il fondo: «Vieni, Piriccu, entra, che ti faccio conoscere questo signore che è venuto a farci una visita di allegria…». Prende euforico la bottiglia di vernaccia dal pavimento e gliela mostra levandola in alto: «Guarda, cosa ci ha portato, guarda. Domani facciamo festa, e niente giro…».
8 - Il ragionier Aritzo
Il ragionier Aritzo fece due ore di straordinario e uscì dall'ufficio alle nove. Era una sera fredda d'inverno. Camminava spedito, le mani in tasca, il bavero della giacca rialzato.
La vide dall'altra parte della strada, sull'orlo del marciapiede, sotto il cono di luce. Lo colpirono le strisce rosse gialle orizzontali. Si fermò. Tornò indietro di qualche passo, fece un fischio di ammirazione. Accidenti! mai gli era accaduto di vederne una così nuova pulita, per strada.
Attraversò, guardandosi attorno circospetto. L'avvicinò. Le pareti brunite odoravano di creolina, di puro. Un metro di altezza, si e no; una figura ben proporzionata, nel complesso; le strisce orizzontali la ingrossavano un poco ma le davano un aspetto giovane sportivo.
Ebbe un moto di tenerezza. Levò una mano e la protese in un gesto di carezza, quando udì uno scalpiccio di passi. Si ricompose, e con ostentata indifferenza riprese il cammino.
Voltò nell'ultima traversa, una strada aperta di recente, ancora poco illuminata. Una decina di caseggiati senza intonaco. Contò le porte, come sempre, per distinguere la sua, la settima. Salì stancamente le scale fino all'appartamento 15 D sesto piano, due camere e servizi.
«Il signore sì che ci sa fare!». Aprì il barattolo, lo mise sul fornello orecchiando la tivù. «Regolate le funzioni con Dolce Scioltina!». Chiuse il rubinetto del gas. «Una a me e una alla mamma!». Prese un tovagliolo, un piatto, una forchetta, una cocacola, un panino, una mela e mise tutto in un vassoio. «Più sicurezza, più stile con l'apriscatole Blitz!». Versò mezzo barattolo di tortellini nel piatto e dalla cucina si trasferì nell'ingresso-soggiorno. «L'uomo di successo corre con Multigrade… Papà, voglio crescere presto!». Si era abituato a cenare seguendo i programmi. «Gli slip Ursus fanno di te un vero maschio!». Ormai gli riusciva facile far rientrare nell'angolo visivo i ventun pollici del televisore e il mezzo metro quadrato del tavolo imbandito. «Brindate con Wilma Burg, assaporate l'ebbrezza bionda!». Non gli accadeva più, ora, di rovesciare il bicchiere o si sbrodolarsi la camicia.
«Margy!» esclamò appena lei apparve per informarlo sui programmi della sera - un pretesto per sorridergli con l'espressione maliziosa dell'innamorata che ha una voglia matta di farsi maneggiare. Una commedia di Nicodemi, un dibattito sull'unità sindacale, un incontro sportivo… Egli non udì, in orgasmo; gettò forchetta e tovagliolo e corse a spegnere la luce. Il suo televisore, adempiute le debite prescrizioni, forniva l'immagine realtà. Soltanto ventimila lire in più, ma ne valeva la pena. L'annunciatrice sembrò uscire dal vetro e prendere corpo davanti a lui. Indossava il solito maglioncino attillato a strisce orizzontali.
Si era invaghito di Margy fin dalle sue prime papere. Gli piaceva tutto di lei. Ciò che vedeva dalla cintola in su e ciò che immaginava dalla cintola in giù. Margy aveva il viso fresco dell'adolescente, gli occhi limpidi dell'imene intatto. Sorrideva vezzosa e le sue labbra schiudendosi si atteggiavano al bacio. La sua voce chiara argentina gli ricordava i gorgheggi serotini dell'usignolo che aveva il nido nel filare di pioppi davanti alla cascina del nonno.
Scomparsa l'immagine di Margy, riprese a cenare svogliato. Il pensiero gli tornò in strada. Se non l'avesse vista con i suoi occhi non l'avrebbe creduto. Doveva esserci un dramma, sotto. Un oscuro dramma. Da quando viveva in città ne aveva viste tante, colme di ogni rifiuto, ammaccate, deformi, corrose, puzzolenti. Le evitava, potendolo. Provava schifo, e insieme una grande pena per le contenitrici dell'umano pattume. Ma questa era una eccezione, ancora lustra di vernice, fragrante di creolina, incontaminata. Avrebbe presto seguito il destino di tutte; sarebbe diventata una pattumiera sfiancata dal marciume.
Stette a lungo a rivoltarsi nel letto. Era tormentato dal pensiero di quella creatura sola e indifesa. Stava nel rione più malfamato, covo di teppisti e di lenoni. Era suo dovere intervenire, rintracciare il padrone - o incosciente o criminale. Gli avrebbe versato i soldi del riscatto e l'avrebbe condotta con sé. La sua casa - mutuo trentennale -era piccola sì ma onesta. Ma poteva anche non esserci, un padrone. Quante sono le creature orfane abbandonate che si perdono nei meandri torbidi della metropoli? Questa ipotesi lo riempì di tenerezza, e in un baleno si decise. Si scrollò di dosso le coperte, si vestì e si precipitò fuori di casa.
Prese un'andatura spedita, un po' per la tramontana che soffiava gelida e più per l'idea che qualcun altro lo avesse preceduto. Il mondo è pieno di farabutti pronti ad approfittarsene. «Dio, fa che non arrivi troppo tardi!» proruppe accelerando l'andatura. La funesta idea gli era entrata nel sangue facendoglielo tumultuare. Prese a correre.
Alla cantonata si fermò. Ansimante, madido di sudore, guardò. «Dio sia ringraziato!» - era ancora lì, sotto il cono di luce, apparentemente intatta. Il viso gli si illuminò di gioia.
Le si avvicinò, scrutandosi intorno. La guardò, trasalì. Da un lato, a mezza altezza vide un'ammaccatura. Sentì una fitta lancinante al costato, in direzione del cuore. «Maledetti teppisti», sibilò in un impeto di rabbia.
Avrebbe voluto trattenersi, conoscerla meglio, prima. Ma poteva capitare lì qualche nottambulo, il rione pullulava di capelloni e ladri - tutta gente che di giorno dorme e di notte se ne sta in giro. Senza indugiare oltre, l'abbracciò, la sollevò da terra e se la portò via.
Il fardello era dolce ma pesante. Dovette fermarsi e posarla diverse volte, prima di arrivare al portone di casa. Avrebbe potuto caricarsela sulle spalle, sarebbe stato più agevole ma indecoroso. Salì i gradini tenendosela tra le braccia. Ne intravvedeva il fondo scuro, da cui saliva l'inebriante effluvio di creolina.
Arrivò stremato, ma si compose per non darlo a vedere. Ilare eccitato, la collocò accanto al televisore. «Per stanotte», disse «poi vedremo».
Accese il lume sopra il tavolo e spense il lampadario che mandava una luce sfacciata. Sedette di fronte a lei. La sua attenzione tornò all'ammaccatura. Senza dubbio un sasso, e grosso anche. Ebbe un nuovo e più violento accesso d'ira contro l'ignoto. Le pareti domestiche rendevano più puri e più forti i suoi sentimenti. Si era comportato egregiamente. Sentì la soddisfazione - la sentì sciogliersi in bocca saporosa come un'anisette, scendergli in gola, scaldargli piacevolmente le viscere. «Se ti lasciavo lì, chissà come ti avrebbero ridotta», disse; e con voce dolce sommessa aggiunse: «Ti troverai bene, qui, con me. Vedrai».
Non si reggeva in piedi dalla stanchezza e dall'emozione. La coprì con un telo di cretonne uguale a quello che proteggeva il televisore e spense il lume.
Dalla sua camera sporse la testa per sussurrarle «Buonanotte», poi si infilò nel letto, lasciando discretamente socchiusa la porta. Si addormentò subito, profondamente.
Figlio unico, si era trasferito in città da ragazzo, coi genitori, subito dopo la guerra. Il pane si comprava ancora con la tessera. Mezzo chilo di pere, di quelle che il nonno dava ai porci, costituiva un pranzo luculliano.
Suo padre era usciere di pretura. Trent'anni in un paese sperduto sui monti, tra pecore e abigei. Si era messo in pensione, e venduto casa vigna campicello aveva puntato il resto della vita sulla città. Qualunque sacrificio, pur di dare al suo unico figlio una sistemazione dignitosa. Soltanto la città poteva dare un avvenire civile. La città è tutto: può farti diventare ciò che vuoi. Gli unici pericoli sono le cattive compagnie e i casini. Evitando le cattive compagnie si evita anche di finire nei casini.
Il ragazzo aveva una cieca fiducia in suo padre - nonostante lo odiasse più o meno inconsciamente per il modo violento con cui sottometteva la mamma, una donnetta minuta dolce. La città non gli piaceva. Potendo l'avrebbe cancellata, come una sequela di astruse formule da una lavagna, per disegnarvi un prato verde con il ruscello e i fiorellini gialli. Sbagliava, certamente. Suo padre sapeva quel che diceva - tarchiato tozzo, aveva sopracciglia ispide e coglioni grossi dai quali penzolava un cazzo enorme. Lo ricordava così, da quella notte che si erano incontrati andando in bagno.
Prese a studiare con tutto l'impegno di cui era capace. I compagni mostravano di volergli bene, in classe. Lo adulavano, anche, per farsi passare i compiti. Fuori, lo sfuggivano, specialmente quando erano in compagnia di ragazze. Capì così che le ragazze non sono come i compiti.
Il giovane Aritzo era tracagnotto e ispido. Invidiava le figure snelle eleganti. Osservando Filiberto credette di scoprire il perché del suo successo con le ragazze: I polsi gli uscivano magri dai polsini rosa della camicia, una esilità femminea virilizzata dalla peluria bruna. Si provò a imitare Filiberto. Davanti allo specchio prese a controllarsi nei gesti, nelle espressioni del viso, nel camminare. Spostò i bottoni dei polsini, allargandoli per fare apparire i polsi più snelli.
A sedici anni, la morte del padre gli procurò insieme il dolore e la gioia più grande della sua vita. Fu rientrando dal funerale che Antonietta accettò di essere la sua ragazza.
Antonietta era l'allieva più bruna, più piccola, più diligente - e la più puttana, aggiungeva Filiberto - della quinta C sezione mista. Era ben voluta e portata a esempio dai professori. Non faceva mai assenze, seguiva attentamente le lezioni, era sempre preparata. Sedeva al primo banco, fila centrale, con la faccia e il busto protesi in avanti, pronta a ricevere ogni parola che veniva dalla cattedra. Il professore di lettere - per certe sue spregiudicate idee - aveva messo insieme in ogni banco una femmina con un maschio. Il destino - o meglio, il professore di lettere - aveva fatto di Antonietta la compagna di Mario Aritzo, pareggiandolo così ai compagni più intraprendenti.
Il primo sorriso che Antonietta gli rivolse lo fece innamorare. Avvampò come un deposito di carburante raggiunto da una granata. L'innamoramento paralizzò in lui ogni volontà e cominciò a sognare e a dimagrire. Le interrogazioni andavano di male in peggio. Il professore di lettere decise allora di affidarlo alle cure della compagna di banco. Una umiliazione largamente compensata, per Mario Aritzo. Antonietta, per fare fino in fondo il proprio dovere di ausiliatrice, andava a studiare da lui. Il ragazzo finì per perdere del tutto la testa.
Antonietta restava fredda inattaccabile. I turbamenti, i sospiri, i tremiti, gli sbiancamenti di lui rimbalzavano come su una corazza di diamante. Lei leggeva e ripeteva imperterrita monotona tracciando sul quaderno figure geometriche, impiantando equazioni, svolgendo temi, traducendo odi latine. Egli non sentiva e non capiva nulla, in estasi. Allora, lei finiva per spazientirsi e gli concedeva dieci minuti di pausa. La pausa consisteva in un muto immobile lasciar trascorrere i dieci minuti. Lei sdraiata sulla sedia obliqua con lo schienale appoggiato al muro. Lui a guardarla estasiato.
Una volta, mentre lei leggeva, lui, approfittando della posizione in cui si era dovuto mettere per seguire il testo, le aveva sfiorato i capelli con la guancia. Lei si era voltata inviperita, agghiacciandolo: «Piantala, e non fare il furbo! pensa piuttosto all'interrogazione di domani, alla figuraccia che mi farai fare». Mario Aritzo aveva sospirato richiamando a sé tutta la volontà per seguire il procedimento attraverso cui X + Y - Z diventava 37 al quadrato di P greco.
Rientrando dal funerale si erano fermati ai giardini pubblici. Egli pensò e disse che sarebbe dovuto piovere, in una sera triste come quella. Il pensiero piacque ad Antonietta, che si commosse e gli prese il braccio. Camminando, lei gli strofinava il fianco col braccio, ed egli sentiva la tristezza sciogliersi, e sciogliersi anch'egli tutto quanto. Socchiuse gli occhi beato galleggiando in un mare di latte tiepido.
Arrivati a casa ridivenne triste, e scoppiò a piangere come un bimbo. Antonietta gli prese la faccia singhiozzante e se l'appoggiò sul seno. Era soffice e caldo, ed egli vi pianse a lungo. Non trovando altro per consolarlo, lei disse che gli voleva bene, che anzi da tempo ricambiava il suo amore… però, ecco, non era ancora il loro momento, bisognava studiare, prima… Mario Aritzo smise di piangere e bevette le sue parole con la faccia ancora nascosta, stordito e felice.
Prima di lasciarlo, Antonietta gli fece una carezza sui capelli e lo baciò sulla guancia.
I loro rapporti non cambiarono di molto, dopo quella sera. A scuola, lei restava la più brava, la stimolatrice culturale del compagno ritardato. A casa, nelle ore di studio pomeridiane, Mario era autorizzato a posarle una mano sulla spalla durante la lettura, a tenerle una mano durante i dieci minuti di pausa e a darle il bacio del commiato sul pianerottolo.
L'equilibrio sentimentale di Mario Aritzo crollò d'un colpo il maledetto pomeriggio in cui sua madre uscì. Al rumore che fece la porta nel richiudersi, il ragazzo sussultò. Attendeva e temeva da tempo quel momento. Un inconscio terrore lo prese e lo agitò. Antonietta, con la faccia sul libro, aveva socchiuso gli occhi - turris eburnea. Quegli occhi che non lo guardavano avevano scatenato in lui l'istinto fino a soffocare il terrore. La prese per un braccio e la tirò sul letto. Abbrividì, sentendoselo sopra nudo, e lo aiutò allargando le cosce. Un'attesa lunga snervante. Lo sollecitò accarezzandogli le reni, palpandolo - inutilmente. Lo sentì infine crollare addosso, scosso dai singhiozzi. Provò un senso di pena e mosse una mano per consolarlo. Il disgusto la vinse toccando quel corpo muscoloso, sudato, volgare, inutile. Si alzò sgusciandogli da sotto. Si rassettò, prese la sua roba dal tavolo e uscì sbattendo la porta. Mario Aritzo rimase sul letto, a piangere.
Il ragionier Aritzo era mattiniero come i passeri che cinguettavano all'alba tra i rami dei pioppi, nel casolare del nonno. Non amava starsene tra le lenzuola tiepide a crogiolarsi, neppure quando accidentalmente si risvegliava con una parvenza di erezione. Non aveva mai voluto dare alcuna importanza al fenomeno, per la vecchia ruggine tra lui e quell'incapace. Accendeva la radiolina sul comodino e vi cercava un ritmo musicale adatto ai suoi dieci minuti di ginnastica. Flessioni e rotazioni del busto: tutte medicine risparmiate.
Quella mattina si svegliò più presto del solito. Si infilò la vestaglia, mise le pantofole e corse nell'ingresso-soggiorno.
La stanza era in penombra. Teneva gli scuri accostati. Odiava il rettangolo grigio senza una macchia di verde, senza un pigolio di passero. Sussurrò «Buongiorno», scoprendola. Restò a guardarla dolcemente, sfiorando l'orlo rotondo con dita lievi. Vista dall'interno l'ammaccatura era meno dolorosa: una piccola protuberanza, non più di una ecchimosi nel fianco - due tre impacchi di acqua vegeto-minerale e molta tenerezza.
Aumentò il volume della radio. Fischiettò dietro la musica, radendosi. Di tanto in tanto si affacciava sulla soglia, pensieroso. Non era nella migliore posizione - concluse. Misurò l'ambiente con lo sguardo, quindi la spostò nell'angolo tra la finestra e il tavolo, vicino alla poltrona: un punto da cui poteva vederla dalla cucina, dalla camera da letto e dal bagno. Finì di radersi.
Uscendo, chiuse con maggior cura del solito la porta d'ingresso. Si disse che la precauzione non ha nulla a che vedere con la gelosia. Fidarsi, con certi mascalzoni in giro, sarebbe stato dabbenaggine. «E niente straordinario, oggi», mormorò scendendo vispo le scale.
Ripassando dove l'aveva incontrata la sera prima, non poté fare a meno di fermarsi. Lo fece con studiata indifferenza, per non destare sospetti. Al suo posto, sul marciapiede, c'era un mucchio di immondezza. Un paio di ragazzini ci frugavano, prendendo a calci i barattoli vuoti e i torsi di cavolo. Il ragionier Aritzo arrossì, disgustato.
I colleghi d'ufficio smisero la lettura del giornale: la faccia di Aritzo prometteva una migliore utilizzazione del tempo. Lo attorniarono, stuzzicandolo. «Tu ci nascondi qualcosa…». «Sprizzi gioia da tutti i pori. Hai vinto al lotto?».
Il ragionier Aritzo abbozzò un largo sorriso. Dentro si era chiuso tutto come un istrice. Che vogliono da te? Stai attento. Sono falsi come Giuda.
I colleghi giudicarono cretino il suo sorriso. Che fosse un cretino, essi lo davano per certo, considerati certi suoi strani comportamenti. «Ma che dite mai?» intervenne un altro, «La sua non è faccia da vincita al lotto, è gioia di cuore…».
Accolsero l'ipotesi con entusiasmo: un'idea davvero spassosa che quel cretino potesse avere una ragazza.
«Complimenti, caro Aritzo! e non ci dicevi nulla?!».
«Com'è? bionda? bruna?».
«Ah, vecchio mandrillo!».
«E' una cosa seria, certamente… a quando i confetti?».
Il ragionier Aritzo si sentì violentare. Si irrigidì e prese a sudare copiosamente. Cominciò a bagnarsi sulla fronte, sotto le ascelle, sulle reni, fra le cosce. La bocca, al contrario, gli si seccò. Tentò disperatamente di umettarsi le labbra aride con la lingua. Anche la lingua gli si era rinsecchita. Allora cercò scampo nella fuga. Voltò le spalle e si mise a rovistare a caso, convulsamente, tra le carte della sua scrivania. Continuava a sorridere, dolorosamente, coi denti cavallini scoperti fino alle gengive violacee.
I colleghi non mollarono la preda. Era entrata la signorina Franceschi, la segretaria del direttore, un gran pezzo di bionda tutta gambe e poppe. Il piacere del gioco diventava più intenso, proiettato tra cosce di donna certamente calda.
«Cara Franceschi, sai la novità? A dirtelo non ci crederai… Il nostro Aritzo si è finalmente fatto la ragazza. Te l'immagini?».
Le gambe e le poppe della Franceschi fremettero pregustando il piacere acre di un linciaggio. Stava per aprire bocca, quando si volse e vide la faccia atterrita di Mario Aritzo. Disse: «Lasciatelo in pace. Il direttore sta per arrivare, e a giudicare dal tono di voce che aveva al telefono direi che non è di buon umore».
Il ragionier Aritzo entrò nel supermercato di piazza dell'Unità. Un rifugio tranquillo tiepido - lui e le cose a portata di mano con l'etichetta e il prezzo e niente mercanteggiamenti. sceglieva sempre scatole senza ammaccature.
Il lavoro d'ufficio l'aveva stancato e amareggiato più del solito. Otto ore a conteggiare sulla calcolatrice e a trascrivere nei registri. Era uscito qualche minuto prima per trovare un ascensore libero ed evitare i colleghi. Ritrovò la serenità in quel tempio dispensatore di beni, nella musica che filtrava in sordina lungo i viali scaffalati. «Sì, è stato duro, oggi, il lavoro», si disse. E decise di rifarsi con una cena fuori dall'ordinario: prosciutto, salmone, spumante.
Arrivò a casa rasserenato del tutto, e con una gran voglia di vivere, di divertirsi. Mise gli acquisti sopra il tavolo e le andò incontro. «Eccomi di ritorno», disse. E le si sedette accanto, sulla poltrona. Una sensazione di beatitudine lo pervase. Assaporò la dolcezza della penombra amica tra ciglia socchiuse. i muri, il tavolo, il televisore assumevano forme nuove, più intime.
Apparecchiò il tavolo per due. Mise le candeline rosa e la bottiglia di spumante incoronata di fiorellini di plastica. La fece sedere di fronte - stava comoda, sulla sedia. Accese il televisore, tenendolo a volume appena percettibile.
Lo spumante gli andò subito alla testa, inebriandolo. «Alla felicità!», brindò levando l'ultimo bicchiere.
Quando si alzò, le gambe erano molli e duro il desiderio. Rassettò la piega del lenzuolo, sprimacciò il guanciale, accese il lumino da notte, aprì e richiuse il cassetto del comodino - vi teneva da sempre un vasetto di vaselina e preservativi.
Tornò all'ingresso-soggiorno. Lei stava ancora lì, seduta davanti al tavolo. L'accarezzò dolcemente e le sorrise prima di portarla in camera da letto. La lasciò sullo scendiletto, dall'altra parte. Le voltò le spalle, spogliandosi. S'infilò sotto le coperte e spense la luce. Chiuse gli occhi, si distese, si rilassò.
Provò un incontenibile bisogno di aprirsi a lei - non la vedeva ma ne immaginava le forme, il maglioncino a strisce, il sorriso. Parlò a lungo, veemente a tratti o sommesso - scorrere tumultuante di un torrente ; esile pigolio di passero nel cespuglio del ligustro; ondeggiare di farfalla madreperlacea sui fiori rossi dell'oleandro; trilli serotini di usignolo nell'infinito del cielo; terra calda di anfratti amorevoli; e spini di rovo e di pruno e schegge di silice e il sesso di Antonietta… Parlando e piangendo si addormentò.
Una voce che chiamava il suo nome lo ridestò. Egli attese che la voce parlasse. «Tutti hanno diritto alla felicità. Anche tu. Questo è il tuo momento, Mario Aritzo».
Non osò aprire gli occhi, per paura di rompere l'incantesimo. Desiderò sentire ancora la voce, e la sentì. «Tu hai capito, tu solo, che io non sono quel che appaio. L'amore può fare qualunque miracolo. Non aver timore, Mario Aritzo, apri gli occhi e guardami».
Il tepore di un alito e una carezza gli sfiorarono il viso. Socchiuse gli occhi e la vide - meravigliosa fanciulla gigliata di veli. La vide chiaramente, china su di lui.
Una ecchimosi bluastra traspariva dai veli, nel biancore del costato. «Il sasso…» pensò rattristandosi.
«Non ti crucciare», sussurrò lei, «Ho difeso per te la mia purezza».
Riconoscenza tenerezza desiderio scaturirono d'impeto dalle sue viscere. Con dita amorevoli carezzò il livido. Lei abbrividì al contatto e si lasciò cadere su di lui con un gemito. Egli urlò, abbracciandola; urlò, ergendosi; urlò, entrando in lei.
Vuoto di pensieri e di grumi giacque, dopo - sughero ondeggiante in un mare senza prode.
«Sei felice». Lei ruppe il silenzio. «Perché non esser felici sempre?».
Egli pensò che domani sarebbe stato un altro giorno. Pensò alla realtà, fuori, e strinse gli occhi.
Lei disse: «Perché non fermare il tempo?».
«Fermare il tempo? Come?» gemette Mario Aritzo. «Come?».
«Se tu lo vuoi, io posso».
«Se lo voglio? Oh, se lo voglio!».
La vide alzarsi, attraversare la camera, uscire, entrare in cucina, aprire il rubinetto del gas.
Egli non disse nulla, quando lei tornò. Non disse nulla neppure quando udì il sibilo, quando aspirò l'alito dolciastro. Lei lo teneva stretto tra le braccia.
Egli temette di non poterla possedere ancora. Lei capì la sua paura e lo eccitò con indicibili carezze. Il sesso gli si risvegliò e la penetrò ansimando. L'orgasmo gli fece perdere i sensi…
Mario Aritzo capì in quell'attimo il senso della vita; ne colse in quell'attimo tutto l'assurdo.
9 - Lettera a Karla Kirchner
Liebe, sono rimasto a guardare la nave bianca illuminata - trainata nel buio di un altro mondo. Su quella nave c’eri tu, mio dolce amore, e dovevo esserci anch’io.
Mi sentivo tanti uomini diversi, in quell’addio - ti amavo, sognavo di poter vivere un’altra vita, avevo paura dell’ignoto che somiglia all’angoscia della morte, ed ero un elce che affonda radici nel granito.
Ora io so che intorno a me non c’è pane di terra da scavare per un trapianto - può esserci soltanto il taglio di una scure o il fuoco di una folgore. Forse neppure il seme può allignare fuori dalla pietra che lo ha partorito. Sei partita con appena il sapore salmastro del vento, appena lo scintillio del tramonto fra le guglie dei monti: qualche parola dell’anima; troppo poco, per capire.
Mi hai detto tutto ciò che può attrarre un uomo senza radici: immagini senza significato, per me . “Non c’è altro destino che attendere qui, finché la roccia diventi terra e la linfa diventi sangue”. Credo di averti risposto così - ricordo la dolcezza del tuo viso incupirsi.
Eri venuta dal mare, da molto lontano, un mese prima. In una agenzia avevano ascoltato il tuo caso. “Alienazione, nevrosi da benessere industriale” . Ti avevano suggerito un ritorno alle origini, un bagno purificatore nel passato.
“Io non credo che sulla tua isola incomba un maleficio”, dicevi. “Tutto si risolverebbe con le macchine”.
Erano bei sogni, sogni venuti da fuori, come tutti i sogni - quasi credibili, quando le cime degli elci ondeggiano nell’azzurro dimenticando le pietre in cui radicano. Ti eri innamorata di un assurdo, anche tu: “Ci trovano te, in ruscelli di sangue, se mi aprono il cuore”.
Ti ho delusa. Hai pianto, prima di salire sulla nave. Non potevi trascinarmi con tutta la roccia cui sono attaccato. Hai detto quasi con risentimento: “Sai dove trovarmi. Posso aspettarti, ma non per molto. Pensaci.”
Io so che non ti vedrò mai più. So che potrò solo ricordarti come si ricorda un prodigio, un’eclisse di sole, una cometa: qualcosa che non segna il ritmo di questo tempo. Non potrò essere me stesso - l’unico che io voglio essere - se non qui, su questa terra. Ma prima che gli abissi che separano il tuo mondo dal mio scavino nel ricordo, vorrei dirti....
Ha un sapore assurdo, di eterno, la vita, qui, su questi monti, su questo corpo di ciclope pietrificato, roso dal tormento dei millenni, sotto un cielo che non ha un gesto umido di pietà. Quale senso può avere, qui, la vita umana, la tua vita, qui, su queste pietre nude, che esistono solo per precipitare frantumate nell’abisso?
Che senso può avere, qui, l’essere battezzato, tenuto in braccio dal padrino notabile, studiare, ingraziarsi la maestra venuta da fuori portando un fiocco più grande, un quaderno più pulito? e l’abito in pura lana vergine più distinto di quello in terital del ragioniere del piano di sotto? e la frequenza al classico che apre ogni porta? e il prestigio di aver sposato la figlia di un uomo d’affari? e il batticuore per l’auto nuova, la più coupé, la più veloce di tutte? e il futuro, un futuro chiamato concitatamente con la rabbia di non poterlo possedere mai abbastanza tutto, mai abbastanza subito? Che senso ha, qui, una tale vita?
E che senso può avere, qui, su questi monti, un grattacielo popolato di gente che sale e che scende in ascensore, portando cartelle e fogli e veline e raccomandazioni da un piano all’altro, da un ufficio all’altro? Che senso può avere una piazza piastrellata coi porticati intorno, e la gente che passeggia o siede ai tavolini succhiando una cocacola? e un vigile in uniforme al centro, sulla pedana zebrata, ad agitare le mani inguainate di bianco fosforescente, a fischiare come un merlo sopra un viavai multicolore rombante di scatole in cui è stivata la gloria e l’angoscia, la presunzione e la sapienza della moderna dinamica? Che senso ha, qui, una chiesa con ampie vetrate, aeree volute, mosaici in poliesteri, organo elettronico, coro in radica di noce formica, altari di marmo, sermoni diffusi da altoparlanti dislocati acusticamente razionali tuonanti i doveri delle coscienze soffocate dallo smog, travolte dal turbine dei motori, perse nelle nebbie del libero dibattito, corrotte dal veleno del benessere? Che senso ha, qui, su questi monti, una scuola con riscaldamento centralizzato, palestra coperta, lavagne doppie bilanciate, radiotivù, giardino con fiori coltivati da cogliersi per ornare la cattedra in tek, i muri stuccati in gesso smaltato e il crocifisso stilizzato in plastica avorio? Che senso ha, qui, un alveare con uomini-formiche in tuta bianca e blu muoversi al ritmo di presse, di occhi luminosi rossi gialli verdi? e una rivolta vociante con cartelli scritti e bandiere e pugni levati in alto per l’aumento dell’indennità di scomodo di lire quindici orarie?
E quale senso può avere mai, qui, tra questi monti, un drappello di militari usciti da una jeep saltando leggeri come acrobati da circo, avanzanti in rango serrato mitra a spall’arm e casco da trincea, tenuta da operazioni, sottufficiale appostato in alto dietro un masso, binocoli carta topografica telefono da campo staffetta portaordini tamburino e trombettiere?
Fra questi monti, ogni uomo nasce col destino del pastore nomade. Il battesimo è l’imposizione della croce. Le poche ore di scuola sono ore strappate al dovere del pascolo, della raccolta di fascine per il focolare: ore che incidono più profonda la coscienza del dramma. Il servizio militare è l’acquisizione di tecniche più idonee a cogliere il bersaglio dei nemici del gregge. Non ci sono livelli sociali da raggiungere. Non c’è millecento del ragioniere del piano di sopra da superare nel week-end. Non c’è moglie di commendatore da avvilire con la pelliccia nuova. Non c’è famiglia del farmacista del piano di sotto da ingelosire con le vacanze in Riviera....Qui, ci sono soltanto pietre, e fame da superare e da vincere, e uomini di pietra, ci sono, che scalpellano il loro cuore per frantumarlo, e sudore e sangue per impastare la silice che verdeggi della speranza, così che il gregge sopravviva. Non ci sono grattacieli, qui, né piazze dense di traffico, né chiese luminose di vetrate, né scuole con palestre, né fabbriche, né rivolte operaie. Soltanto uomini di pietra ci sono, qui, che si calcificano nei secoli e si sgretolano come graniti rosi e friabili per dare terra alle conche, perché la roccia diventi terra...E un drappello di uomini in divisa, c’è, assurdo, tra questi monti di pietra - uomini usciti da jeep, leggeri come acrobati da circo, che avanzano in rango serrato, mitra imbracciato, sottufficiale appostato in cima, binocoli, carta topografica, telefono da campo, staffetta portaordini, trombettiere e tamburino...
C’è, si, qualcosa di nuovo che affonda radici di cemento e di ferro nelle viscere della montagna. C’è una diga sul fiume Taloro. La sua mole - idolo della moderna tecnica - qui, su questi monti, è un giocattolo assurdo, lasciato nel deserto da un prodigioso fanciullo dal volo di libellula. E intorno alle acque del bacino c’è una strada d’asfalto panoramica con i guardrail belvedere nel silenzio di radi elci, di aspri lentischi, di contorte querce - un serpente bruno dalle reni spezzate. Ma sul tappeto d’asfalto non si avventura il gambale del pastore avvezzo agli spinosi cardi e alle macchie del rovo e agli speroni di roccia e ai pendii senza viottolo - né le strade e gli asfalti danno erbe e rugiade e ombre alle greggi che vanno perpetuamente trascinandosi in processione annusando la speranza di esuli mentastri.
E con la diga, da un lato, c’è un drappello di uomini strani: cinque eremiti in divisa che trascorrono i giorni vuoti lunghi con la loro baracca le loro armi il loro passato umano a specchiarsi nelle acque del lago, a guardia dell’idolo della moderna civiltà che l’incivilità della pietra può, nel suo rovinoso franare, frangere e seppellire come un guscio d’uovo.
Partorito e abbandonato fra pietre desolate, l’uomo è condizionato in ogni suo bisogno, in ogni suo divenire, dal gregge - dal procreare di una pecora, dal sopravvivere di un agnello, dal germogliare di uno sterpo, dalla pioggia, dal vento, dalla brina. Fino a quando non sarà placata l’ansia del nomade senza tetto, fino a quando la natura e il destino detteranno, qui, su questi monti, la legge del branco, il numero sarà forza e la forza sarà vita. E finché ciò sarà, sarà anche un nonsenso, qui, la civiltà del cemento e degli uomini armati.
Qui, ci sono soltanto pietre e uomini che non vogliono morire. In questa preistorica realtà, alla luce dei valori primevi che essa contiene, è valida la legge dell’abigeo e del bandito, è giusta la religione amara di un dio vendicatore che si implora affinché il nemico del gregge, cadavere in uno strapiombo, sia roso dalle formiche.
Qui, ciò che conta unicamente è il gregge. Altri doni, qui, l’uomo non ha avuto dal suo povero dio se non monti di pietre e ispide greggi e durezza di solitudine e angoscia di silenzi. Qui, ciò che unicamente vale è la pecora - animale sacro adorato negli altari aperti al cielo, simbolo e reale fonte di ogni possibile vita.
Uccidere una persona per vendetta è sacrilegio: un delitto che può pagarsi soltanto con il sangue sparso di colui che lo ha commesso. Rubare una pecora è atto eroico: Prometeo che attinge alla fonte della vita in dispregio della legge avara di un dio avaro - è la sete di vivere che si placa soltanto fra gli artigli del più forte.
All’uomo senza gregge, qui, restano solo le pietre e il loro dramma d’essere nude sterili e senza coscienza di futuro. All’uomo nudo, qui, fra queste pietre, resta l’animo della belva, l’ansia predatrice, la volontà di uccidere per vivere; o resta la viltà, l’immoto accoccolarsi del cane senza tana, l’anelito d’essere un sasso tra i sassi infitti profondi...
Non c’è altra scelta, qui, su questi monti, se non l’elementare essere o non essere. La caccia è il primo gioco del fanciullo. Bambini con trofei di lucertole e di passeri ritornano a sera nel villaggio - accendono un mucchio di sterpi nel viottolo per arrostire una preda che non sazierà alcuno. Al mattino, ognuno si è fatto il giusto fascio di legna e ha avuto la giusta fetta di pane. Quando hanno vinto la paura del sasso scagliato e del sangue, calzano il pesante gambale del pastore, imbracciano il moschetto aggiustando la mira sui cartelli di latta colorata conficcati ai margini di strade deserte.
Le donne filano la lana ispida delle ispide pecore; tessono la lana bianca e nera come il destino tesse il bene e il male delle creature nate in terra, cagliano il latte denso munto al pascolo di cortecce, pressano con dita dure il formaggio bianco azzurrino.
Gli uomini vagano con le greggi nel deserto di pietra. Il giorno e la notte sono dei di luce e di tenebra. Il silenzio si ode, si apprende, si fa idea, si anima - silenzi bui e silenzi luminosi, di pace e di canto, di lamento e di morte.
Ci sono silenzi di millenni incisi nel cuore dell’uomo come sulla pietra di un monte. Silenzi che non si possono rompere col rombo di un trattore, con la colata di cemento che ferma un fiume, con il salmodiare sacerdotale, con la dialettica di un comizio, con la sapienza di un maestro, e neppure con l’urlo della violenza scagliata dalle bocche infuocate dei mitra.
Qui, ci sono solo pietre e pecore scarne e uomini dolorosi che hanno imparato a vivere senza chiese, senza tetto, senza pascoli, senza parole - le parole vengono dalle cose filtrate dall’anima dell’uomo che la possiede. Qui, non possono esserci parole. Qui, ci sono soltanto pietre e silenzi.
Liebe, tu, come altri venuti dal mare - pochi, col cuore buono - credi e hai pensato ai miracoli. Ma qui, l’uomo non sa, non capisce che cosa sia miracolo. Qui, Jahvé non sa piovere manna dal cielo per uomini-angeli affrancati dalla schiavitù. Qui, la natura non sa fare il prodigio dei graniti corrosi divenuti terra fertile a valle. Tu credi in un miracolo umano: l’uomo nuovo delle macchine che produca, su questi monti, cieli fioriti, ameni paesaggi, clima mite, insenature dalle candide arene, e li venda al mondo suo... Bene, che provino, che vengano, con il tuo animo, gli uomini che parlano e fanno parlare la macchine... Ma prima ascoltino il silenzio, e meditino, qui, su queste pietre, le umane vicende.
Cantiere Gusana, 1964
10 - La casa del sole
L'ultima notte avevo ingoiato una manciata di sedativi per ammorbidire le schegge di un'angoscia senza volto, e mi ero risvegliato nei labirinti della droga, in un carosello di sessi di carta pattinata.
Mi alzai col cervello piatto, i sensi ottusi, la bocca amara impastata. Per un bicchiere d'acqua fresca avrei dato la coupé otto cilindri arroventata sotto casa. Il frigo si era guastato durante la notte. Dal rubinetto veniva un filo tiepido clorato.
Mi vestii meccanicamente… «Si mette in moto schiacciando un bottone, se si inceppa telefonare al 619619 SCRI, Servizio Controllo Revisione Impianto - L. 5.000».
Presi le anfetamine di tipo autorizzato e uscii. Il sole sfocato di grigio già superava i cornicioni degli attici e fondeva l'asfalto. Un brulichio di merli appiccicati al vischio: qualcuno crepava torcendo il collo, cercando azzurro di cieli e verde di boschi.
Socchiusi gli occhi alla luce violenta. Il traffico era assordante arido, senza l'iridescenza umida di gocce della cascata del Niagara. Mi si contrassero dolorosamente i muscoli della faccia, tesi a proteggere i sensi violentati… La sporca guerra: l'uomo resiste a tutto, al fosforo che gli rode le carni, alle pinze che gli strappano le unghie, se non si è mozzato la lingua coi denti per sputarla ai piedi dell'aguzzino, e sopravvive per eiaculare angoscia nel ventre di una femmina e generare mostri.
Mi ritrovai in un piazzale di periferia. Sui campi isteriliti, ai margini di una montagna di rifiuti plastificati, sorgeva uno scheletro di cemento. In mezzo, una tettoia di Eternit ondulata poggiava su telai di ferro. Mi avvicinai al chiosco interno ancorato a due pilastri - funzionalità: merda liofilizzata, più aroma di democrazia, uguale denaro.
«Un biglietto», dissi allungando i soldi nel pertugio.
«Per dove?», borbottò una faccia malata da dietro la visiera.
«L'ultima fermata. A casa del diavolo».
Salii sul pullman, feci due passi e crollai su un sedile. Le anfetamine di tipo autorizzato dovevano essere fasulle. Chiusi gli occhi, acchiappai l'esile rotondità di un filo e presi a tirarlo delicatamente. Era un filo condizionatore. «Dovresti vergognarti di agire senza il controllo della ragione».
Ebbi un fremito di paura e feci per scendere e tornare. Me ne mancarono le forze. Richiusi gli occhi e cercai altri fili. Mi si erano aggrovigliati tutti, dentro. Cercai allora di fermare l'attenzione sulle unghie sporche di petrolio. Lo sforzo mi diede una fitta alle tempie. Rinunciai a pensare e mi assopii.
Mi risvegliò lo sbattere della portiera. L'autista si voltò, diede un'occhiata all'interno, avviò il motore, ingranò la marcia impugnando il priapo di metallo. I tralicci sussultarono e si mossero; sfilarono lentamente le ossa grigie dello scheletro di cemento. La luce mi abbagliò.
Tentai ancora di guardarmi dentro. Dal buio, prese a salire vivida come una insegna al neon la parola «dove?». Nasceva piccola come un punto, nell'ombelico; salendo cresceva e arrivava enorme al cervello; quindi, con un flop scompariva, mentre un secondo «dove?» già cominciava a salire e a crescere, e poi un'altra e un'altra ancora - come le insegne dei casini. Il gioco mi stancò presto: dentro ci sono le conigliette al Coty per farti bere il Whisky; bevi il whisky, ma la coniglietta non te la danno.
Le frastagliature della città sfumarono, allontanandosi. Una collina bastò a nascondere dietro il suo breve arco palazzi cupole monumenti caserme. Spuntavano ancora spezzoni di tralicci, di ciminiere, di pennacchi, di carabinieri, di falli di caucciù. Poi, il verde fitto di un filare di pioppi antichi coprì tutto l'orizzonte e sentii sciogliersi la rigidità dei miei muscoli e percepii il formicolio dei sensi e il rotolio dei pullman.
«Siamo arrivati», mi scosse l'autista.
La linea finiva con la strada davanti al muro bianco del cimitero di un villaggio. Il pullman sostava sotto una tettoia di Eternit ondulata identica a quella da cui era partito. Di fronte al terrapieno alberato di cipressi, oltre un campo incolto, biancheggiava un'insegna Cocacola enorme, inchiodata sulla facciata di tre case. Sentii sete; avevo le labbra aride e la bocca impastata.
A lato del muro bianco si snodava un viottolo. lo presi quasi di corsa. Serpeggiava tra gli ulivi, verso il dorso di un colle. I margini erbosi erano umidi di pioggia recente.
Mi fermai sul dosso, a riprendere fiato. L'aria era aromatica, frizzante. A respirarla profondamente, eccitava tanto da provocare vertigini. Sedetti sopra un sasso, accovacciato. Una lumaca bruna tracciava una scia di bava iridescente. Formicuzze rossicce andavano e venivano vivacissime; si incontravano, si fermavano, si pavoneggiavano, si complimentavano l'un l'altra, esprimendosi con fremiti rapidissimi.
Mi dimenticai per lungo tempo, immerso in quel piccolo spazio di mondo vivo. Mi ritrovai intento a dirigere con uno stecco il traffico della moltitudine di insetti ai miei piedi. Me ne vergognai, sapendo che Jahvé, per fare numero tonto o per ragioni politiche, aveva tralasciato di scrivere sulle tavole l'undicesimo comandamento.
Mi alzai, allargai le braccia, arcuai la schiena con voluttà e sbadigliai fino a crocchiare le mascelle. poi mi guardai attorno e vidi che si andava facendo buio. Provai un brivido di paura: la paura dell'ignoto che oranghi nevrotici hanno popolato di fantasie mostruose… Quando ero bambino pedalavo in bicicletta lungo un vialetto di periferia fiancheggiato da siepi, e le ombre notturne mosse dal fanale mi tenevano con il fiato in gola. Avevo paura dei morti, vaganti nelle tenebre con il loro mistero. Ci credevano tutti, ai morti che ritornano; e ci credevo anche io.
«Ora non sono più un bambino», pensai. Ma lo sono mai stato? Come si può esserlo vivendo in una scatola di cemento, guardando con lenti graduate la geometria ortogonale di pilastri antenne tralicci, ascoltando con l'auricolare suoni parole scorrenti dal freddo magnetico di un nastro? Se non sono mai stato bambino, come posso essere diventato uomo? Dovrei scompormi in molecole e farne due mucchietti, sceverando le mie naturali da quelle «non mie», e ricostruirmi con le sole molecole originali, per essere veramente me stesso. Le altre dovrei disintegrarle: a lasciarle libere potrebbero riattaccarmisi come limatura di ferro al magnete.
Pensai di essere impazzito, ed ebbi paura di essermi perduto, di non ritrovare più la carta d'identità, il libretto di circolazione, la carta di lavoro, la tessera del partito e la foto della prima comunione. Poi superai una balza e mi apparve il sole sul filo dell'orizzonte in un cumulo di nubi rosse, e i suoi ultimi raggi mi penetrarono…
Sentii un incontenibile bisogno di correre, volare, urlare, rotolarmi sulla terra. Il sole finiva di scomparire, spegnendosi. In quello straordinario momento di trapasso, la natura si era immobilizzata, e il silenzio era assoluto. «Non tornerò più dove le speranze e i sorrisi soffocano sotto colate di cemento e di plastica. E' tale il frastuono che fanno quegli uomini morti che non potranno udire le trombe della resurrezione. Avrebbero voglia a sfiatarsi, Gesù Cristo e Marx! Qui, se suonassero, potrei udirle. Ma a che servono, qui, le trombe? Gesù Cristo e Marx, qui, preferirebbero andarsene insieme a raccogliere pratelline.
Camminai tutta la notte ilare, a passo spedito, cantando. Lo stridere dei grilli e il gracidare delle rane davano un ritmo al palpitare delle stelle e del mio cuore. Mi ritrovai sulla cima di un monte.
Al primo chiarore dell'alba, tremolò il turchino del mare. Il disco del sole diradò la foschia e ruppe l'orizzonte avvampando. Apparve la costa pianeggiante racchiusa dai monti. La pianura si colorò: il verde cupo del bosco di pini, l'argento del ruscello tra i canneti, più giù lo specchio grigiastro della palude da cui affioravano ciuffi di giunco e di falasco, il giallo della radura ombreggiata da esili pioppi e il rosso delle tegole della casupola sulla balza di un colle.
Man mano che procedevo, la natura si animava di un brusire crescendo. Lo sentivo nella pelle, il brulicare della vita, l'indicibile gusto della vita.
Il sole sormontò raggiante il mare. Mi fermai ad ammirarlo nel suo splendore. Mi arrampicai sopra una guglia per riceverne il suo calore in tutto il corpo. Avrei voluto avere radici, come l'elce che rompe il granito, per penetrare nella terra e frondeggiare nel cielo. Il sangue mi correva fluido nelle vene palpitanti: lo sentivo sprizzare ad ogni battito del cuore.
Avevo ancora la sete del giorno della fuga, un bisogno incontenibile, adesso. Mi precipitai giù per il costone verso il luccicare intravisto tra i rami di un salice.
Era quasi sera, quando mi ritrovai davanti alla casupola di schisto. La facciata a mare riceveva l'ombra di un macchione di acacia. Sapevo che non era abitata. Sapevo già com'era dentro prima ancora di entrarci. «Non l'ho sognata e non la sto sognando - mi dissi - la possiedo in me, così come è. Niente è assurdo, se non la ragione».
La porta era aperta. Prima di varcare la soglia, mi lasciai cadere sulla terra e le aderii assaporandone col dorso il tepore ruvido.
Arrivò quando le ombre si erano fatte lunghe. Sedevo sul pavimento con le spalle appoggiate alla parete sul fondo, di fronte alla porta aperta. La sua figura si stagliò nel riquadro. La luce del tramonto la circondava di un alone dorato, più chiaro e vivo intorno ai capelli. Non provai stupore, vedendola, soltanto un leggero batticuore.
«Ti aspettavo», dissi.
«Mi aspettavi? Perché?».
«Ti aspettavo da sempre, senza un perché. Vieni».
Varcò la soglia, mosse passi incerti nella penombra.
«Vuoi accendere la luce?».
«La luce?».
Percepì il sorriso nella mia voce. Anche i suoi occhi sorrisero. Mosse ancora qualche passo.
«Posso far luce col fuoco, se vuoi. La legna è pronta, nel camino».
Assentì con un cenno del capo.
Diedi fuoco alle ramaglie. La fiamma avvampò illuminando la stanza. Rivolsi ancora lo sguardo a lei, restando accoccolato. I nostri sguardi si incontrarono. Mi sentii sciogliere nella dolcezza dei suoi occhi. Mi alzai e le tesi le mani, commosso.
«Sì, sei tu che aspettavo», dissi.
Mi fermai davanti a lei per guardarla, perché mi guardasse; e non avevo alcun timore di deluderla.
Mi guardò a lungo e finì con un sorriso: uno schiudersi e un fremere delle labbra. poi rivolse l'attenzione intorno.
«E' come nel sogno», disse. «Tutto. Anche tu, vicino al camino acceso. Ma nel sogno, tu non avevi volto».
«Gli uomini non hanno più volto. Per questo sono infelici».
Si accoccolò sulla stuoia. Stette per qualche tempo assorta, col mento sulle ginocchia.
«A che pensi?».
«Non so, di preciso. Mi sento morbida, dentro. Non riesco più a vedere nel passato. Mi si è sfocato, nella memoria».
«Io vedo le tue mani. Come sono le tue mani?».
Le nostre mani si mossero insieme, si cercarono, si sfiorarono, si carezzarono, si allacciarono. Le vedevo senza guardarle: non ero altro che le mie mani. Chiusi gli occhi, stordito dall'intensità del contatto.
Quando le mani si aprirono e si sciolsero, i nostri visi erano distesi, belli come quando i sensi sono placati. Nei suoi occhi vedevo riflesso il mio viso.
«Si è rifatto buio, metti altra legna al fuoco, voglio guardarti ancora, conoscerti, capire. Sento che mi si confondono sogno e realtà… deve esserci una magia in questo luogo o in te».
Scossi la cenere dalle braci e su queste ammucchiai ramaglie minute. Presto le foglie crepitarono fumigando ed esplose la fiamma.
«Guardami: non c'è magia. E neppure in questo luogo. Qui, c'è soltanto la gioia di vivere che ogni uomo porta dentro di sé, insopprimibile. Qui, tu e io possiamo ritrovarla».
Abbrividì; si sdraiò supina sulla stuoia socchiudendo gli occhi.
«Sei stanca. Riposa».
Sollevò appena la testa per annuire, poi la spostò e l'appoggiò incerta sul mio grembo.
«Ti peso?».
«Il tuo peso è dolcissimo, cara».
«Dimmi: è tuo questo luogo, questo rifugio di sogno?».
«E' mio ed è tuo, è dentro ciascuno di noi… è la casa del sole».
«La casa del sole…».
«Ora dormi. Riposa. Ci risveglieremo domani col sole, domani», dissi carezzandola con dita leggere.
L'afa cominciò a stemperarsi con le prime folate di vento dal mare.
«Scendiamo?»proposi.
«Adoro il mare, sai».
Si alzò, attese che anche io mi alzassi, si avviò precedendomi.
«Mi chiedo ancora se è un sogno».
«Ti capisco. Ci siamo tanto allontanati dalla vita che proviamo uno strano malessere quando ci sentiamo felici, e allora ci chiediamo se è un sogno. Abbiamo paura della delusione…».
«Ma è bello sognare. Sai, in sogno percorrevo un sentiero come quello che mi ha portata qui: una linea chiara serpeggiante nel verde della pianura spruzzata di asfodeli e di iris fino alle dune senza orme. Non c'ero mai stata prima - non potevo esserci stata. Eppure, tra questo luogo e me c'è come un antico legame. Come nel sogno, il mio vagare si è concluso davanti a una porta aperta. Nel sogno era una bara foderata di velluto rosso… Fermandomi, si è fermato il tempo, e il silenzio mi ha avvolta nella stessa immobilità della pietra. Fino a quel momento ero insicura, in balia del bene e del male, armata tesa angosciata per ignoti pericoli. Da quel momento mi è scivolato di dosso il guscio, mi sono sentita rinascere libera. Dimmi: forse la libertà è disarmata?».
«Libertà è vivere senza perché. I perché sono ingranaggi dell'assurdo razionale che pianifica la vita. Dimentichiamo i perché… Su, cara, corriamo».
Fu tutta una corsa per le balze fin giù verso la pianura; poi camminammo senza tempo su un prato ai margini di un ruscello.
«Oggi raccoglieremo soltanto fiori gialli», disse.
Giunti alla pineta, ai piedi del primo albero spargemmo i fiori raccolti. La brezza salmastra non alitava più sui nostri volti: si udiva frusciare tra le cime dei pini.
«Guarda, è un tempio meraviglioso: gli alberi sono le colonne che reggono la volta del cielo».
Ci addentrammo nel folto. Insieme ai pini vegetavano rigogliosi cespugli di cisto e di lentisco che rallentavano il nostro cammino.
«Vicino al mare diradano», dissi.
«Come lo sai?».
«Ci sono venuto altre volte, prima che tu arrivassi. Ti aspettavo dal mare. Mi piace credere che l'amore venga dal mare, come la vita».
«Mi dispiace di averti deluso. Io non sono venuta dal mare ma dal caos di una metropoli».
Tacque, si fermò facendomi un cenno con la mano.
«Guarda, una grotta nel verde… Da bambina giocavo a nascondermi - tu sai, tu capisci, vero? perché tutti i bambini nati schiavi giocano a nascondersi? - ma non c'erano boschi e rifugi dove nascondermi. Fingevo d'essere nascosta coprendomi gli occhi e la faccia con le palme. E tutti mi vedevano, e tutti fingevano di non vedermi… Qua dentro, nessuno mi avrebbe vista».
Staccò la sua mano dalla mia e corse infilandosi agilmente fra i cespugli, scomparendo.
Attesi qualche minuto, poi gridai.
«C'è davvero una grotta?».
Non sentì o forse non volle rispondere, per gioco.
«Attenta!» gridai ancora «Adesso ti cerco e ti acchiappo».
Girai tutto intorno ai macchioni alla ricerca di un varco. Trovai infine le sue tracce e a stento penetrai nel folto fino a sbucare in una piccola radura interamente ricoperta da una fitta ramaglia. La volta era arabescata da una ragnatela di luce. Lei stava nel mezzo, distesa supina sulla coltre di foglie, con le braccia aperte.
«Amami, ti desidero», mormorò «nessuno, qui, potrebbe mai vederci».
Ci amammo dolcemente, restando dopo immoti a seguire con occhi socchiusi i fili della ragnatela di luce.
«Verremo qui, quando sarà giunta l'ultima ora, verremo qui insieme e dormiremo qui insieme, per sempre», disse prendendomi la mano e avviandosi. E le sue parole erano senza tristezza.
Gli alberi e i cespugli diradarono alfine e il terreno si fece più sciolto sabbioso. Apparvero le prime dune e qualche ciuffo rado di giuncastro.
«Il mare, il mare!» gridò superando l'ultima duna.
Il sole sfiorava l'orizzonte: ruotava come una girandola meravigliosa sprizzando multicolori faville che si spegnevano nel mare.
Si spogliò rapidamente ed entrò nell'acqua. Avanzò con le braccia aperte, protendendo il busto in avanti. Il suo corpo snello si stagliò dinanzi al sole, divenne una figura scura dai contorni luminescenti che il mare lentamente cancellava. Tuffandosi d'un colpo ruppe l'incanto. Riemerse più lontano. Scosse la testa per liberarsi dall'acqua, agitò una mano. Gridò.
«Vieni. Nuotiamo incontro al sole. Vieni.».
Mi gettai in acqua e nuotai a bracciate forti, per raggiungerla. Il sole finiva di spegnersi in un'ultima vampata tra le nuvole. Non la vedevo più, tra le onde. Pensai: «Non riuscirà a raggiungere il sole, a ripescarlo dall'abisso».
Tornai a riva. Uscendo, rabbrividii all'aria umida. Mi accoccolai sulla sabbia ancora calda, dietro un cespuglio, al riparo del vento.
Le ombre calarono rapidamente. Ebbi paura per lei. «E se non vedesse la riva?». L'unico tenue chiarore veniva da ponente, dal mare. Cercai ramaglie e le accesi. «Col fuoco vedrà la riva, e potrà anche scaldarsi». Mi tranquillizzai, pur non riuscendo a distogliere il pensiero e gli occhi dalla liquida buia distesa.
La sentii prima ancora di vederla emergere. Le corsi incontro. Mi tolsi la giacca e gliela misi sulle spalle. «E tu? Hai freddo tu, così? Aspetta, abbracciami, ci coprirà tutti e due».
Ci inginocchiammo davanti al fuoco. Per tenerlo vivo bastarono i rami di un vicino cespuglio di cisto: le sue foglie resinose bruciavano anche verdi, scoppiettando. Tesi le mani alla fiamma, e quando le ebbi calde le accarezzai il viso, il seno, le reni.
Si lasciò scivolare lentamente sul dorso, socchiudendo gli occhi, mugolando.
«Oh, sì, scaldami, carezzami così…».
Il tepore del fuoco e la sua nudità mi destarono il desiderio di amarla. L'abbracciai.
Sorrise dolcemente, scuotendo la testa, trattenendomi.
«No, non ora, aspetta, lascia che il fuoco si spenga: voglio vedere i tuoi occhi tra le stelle, sopra di me…».
Il vento rinforzò, non si acquietò come sempre al cadere del sole. Portò fino a noi gli scrosci dei marosi e l'aroma acre dei pini e dei ginepri.
«Farà freddo stanotte», dissi.
Avevamo accatastato dietro casa ceppi e rami raccolti durante le nostre quotidiane escursioni. Ce ne caricammo le braccia e ne facemmo provvista a lato del camino.
La voce del vento divenne urlo.
«Il vento mi dà l'immagine di una creatura disperata, coi capelli dolorosi irti come aghi infitti…».
«Non essere triste, cara».
«La voce del vento è triste. Io sento adesso la voce del vento».
Restammo per lungo tempo immobili, senza parole, seguendo pensieri e sensazioni. Poi il vento cessò e tacque il vibrare delle imposte e il fruscio della polvere. D'un colpo la pioggia ruppe il silenzio; dapprima tambureggiò come i chicchi del grano sul telo teso nell'aia, quindi scrosciò violenta.
Si levò in piedi, rianimata.
«La pioggia lava la tristezza del vento, purificatrice», disse. «Vieni, corri, corri con me, adesso…».
Mi prese per mano, tutta eccitata; spalancò la porta e con un balzo fu fuori, sotto la pioggia fitta.
L'odore forte acre della terra bagnata riuniva in uno tutti gli odori delle creature viventi, che furono e che saranno.
Sul finire dell'autunno giunse fino a noi un ronfare di ruspe e un intermittente martellare su roccia. Brandelli di nuvole volavano bassi nel grigiore del cielo, stridevano i rami spogli al vento.
Accosciati sul pavimento, nell'angolo più buio, guardavo con terrore il terrore nei suoi occhi fissi sulla porta sprangata.
«E' davvero la fine?» chiesi atono.
Si scosse, mi guardò e un sorriso triste increspò le sue labbra.
«Sii forte, non pensare. Più tardi verrà il vento dal mare lontano, verrà e sgombrerà l'orizzonte e riapparirà il sole».
Il ronfare delle ruspe si udì più vicino, crebbe d'intensità, divenne rombo. A tratti giunsero indistinte voci umane.
«Non c'è più sole, ne speranza, per noi».
Si alzò e si riaccoccolò più vicina, al mio fianco. Mi accarezzò il viso, i capelli, dolcemente, con le dita.
«Ritornerà, il sole, vedrai. E' eterno, come la vita, come l'amore», disse sussurrando.
«La vita… cos'è la vita? Lunghi anni di attesa in una prigione con sbarre di pianto, per un attimo di felicità».
«Sii forte, non pensare. Tu mi hai insegnato a non pensare; vorrei insegnarti io, adesso, a non pensare».
«Sognare, almeno, sperare… L'acqua del ruscello era limpida, quando ero bambino. Facevo una barchetta e la posavo trepido sul filo della corrente. La seguivo con lo sguardo, fin dove gli occhi potevano vedere. Chissà dove fermava il suo corso - mi chiedevo fantasticando boschi ombrosi e prode candide di arene punteggiate di coralli e prati di asfodeli e di crochi fioriti e laghetti dalle anse tremule di salici…».
«So ciò che vuoi dire. L'acqua del tuo ruscello finiva in un pantano immondo. E' così. Tutto finisce così… Ma non pensare, adesso; non essere triste, ti prego. Vestirò l'abito verde per te, oggi».
«Forse tu puoi ancora salvarti, fuggire. Io non ho più molto tempo, davanti a me - soltanto parole e rimpianti. Tu hai tempo, tu puoi sognare ancora, sperare di trovare ancora una casa del sole…».
«Le tue sono parole d'orgoglio, non di uomo. Tu sei la mia casa e il mio sole…».
Piangeva, parlando, e le lacrime stillavano sulle sue labbra tremanti. Aprii le braccia e lei vi si gettò singhiozzando. Urlai di disperazione, di rabbia, d'impotenza.
«No, non fare così», si riprese lei riasciugandosi il pianto, tenendomi stretta la testa sul suo grembo. «Non fare così… Andiamo nella pineta, vuoi? Questa casa è triste, senza sole. Vieni, lo attenderemo ai margini della pineta, il sole, da sopra le dune. Verrà, vedrai. Verrà con la brezza…».
Al pensiero di lasciare la casa mi assalì il terrore del nulla; vedevo l'ultimo scoglio inabissarsi in un mare senza prode.
«E' questa la fine?» mormorai.
Non rispose. Si levò in piedi e mi tese la mano.
«Vieni, non abbiamo più tempo», disse decisa.
«Non credevo che tu potessi avere tanto coraggio. Io…».
«Hai paura, lo so. Anche io ho paura. Ma tu sei con me e tu sei tutto, adesso, per me. Tutto il resto io lo cancello, o almeno vorrei. Vieni, non parlare più, vieni…».
Presi la mano che mi tendeva. La seguii. Sull'uscio mi fermai smarrito tremante e feci per voltarmi indietro.
«No, non guardare. Non troverei neppure io la forza, se guardassi indietro. Mi lascerei cadere qui, a morire come una bestia presa al laccio».
Nei fianchi della montagna a oriente brillarono le mine. Le interiora di basalto rotolavano ammucchiandosi a valle. Le esplosioni si susseguirono; la terra tremò sotto i nostri piedi. Accelerammo la corsa.
Riprendemmo fiato ai margini della pineta. Lei riconobbe il lentisco dalle foglie straordinariamente rosse.
«Era estate, ricordi? era la prima volta. Raccogliemmo fiori gialli. C'era la brezza, dal mare, e gli aghi dei pini vibravano come le corde di un'arpa. Ricordi?».
«Come potrei dimenticare? Per questo, sono triste».
«Non essere triste. Sai, bastano pochi attimi, gli attimi di un sogno, per rivivere tutta una vita. Questi sono i nostri attimi… Siamo passati qui, la prima volta , ricordi? ogni albero, un bacio».
Il tappeto di aghi ammorbidiva i passi. La pineta si fece più fitta, più buia. A tratti, brevi spazi intorno a un tronco caduto, roso dal muschio, pullulante di insetti.
Mi precedette, camminando più spedita. La raggiunsi e la fermai dove la terra cominciava a farsi sciolta. Attraverso gli ultimi alberi apparvero le dune che annunciano il mare.
«Non voglio uscire dal bosco. Non voglio cercare ciò che non c'è, che non ci sarà. Il sole non verrà, non potrà rompere i cumuli. Voglio fermare qui i miei ultimi passi».
«Guarda là, ricordi? là…».
Seguii la sua mano e vidi il macchione che segnalava il nostro rifugio. Risentii parole già dette - Ci ameremo lì l'ultima volta - e mi lasciai cadere per terra singhiozzando.
«Non c'è più luogo, né speranza, per noi…».
Mi si avvicinò posando una mano sulla mia spalla sussultante, senza parlare.
«Perché non parli?» chiesi «Dimmi, perché la vita?».
«Non domandarti perché. Tu sai, perché tutto è dentro di te. L'uomo è nato col sole, con la terra, col mare, col cielo che hanno tutti i perché. Eppure, l'uomo ha voluto crearsi un destino. Non serve domandarsi perché, quando si ha un destino».
«Ma tu, io, non l'abbiamo voluto, noi, questo destino».
«Altri lo hanno voluto. Lo hanno voluto anche per noi, e ora, almeno per noi, è troppo tardi per rifiutarlo».
Un chiarore rossastro si accese a ponente. I tronchi dei pini si stagliarono netti sullo sfondo luminoso come colonne di un immenso tempio. Restammo a lungo abbracciati, con lo sguardo rivolto al chiarore. Poi, d'un tratto, una lama di sole balenò tra le nuvole. Lei si staccò dall'abbraccio, corse, salì sulla cresta di una duna, ergendosi per vedere oltre.
«Ecco, è il tramonto», gridò. «No, non ancora, più giù il cielo è quasi sgombro. Lontano sul mare si è mossa già la brezza. Giungerà fino a noi, tra poco, e il sole tramonterà libero…».
Oltre le dune, nel declivio verso la spiaggia, fiorivano minuscoli gigli di cera venati d'azzurro. Sedemmo davanti al mare, scrutando l'orizzonte.
«Tarda ad arrivare, la brezza», dissi impaziente.
«E' lungo da attraversare il mare», disse e si voltò a guardarmi, e i suoi occhi erano chiari. «Non sono più triste, vedi. La tua presenza acquieta ogni tumulto della mia anima. Morire con te è come vivere con te».
Vide i miei capelli muoversi, vibrare e balzò in piedi gridando.
«La brezza! è arrivata la brezza!».
Il disco rosso scivolò da sotto il cumulo di nuvole, incendiandole. Lo squarcio azzurro sul filo dell'orizzonte avvampò. L'immensa distesa liquida abbrividì, illuminandosi.
Mi prese per le braccia scuotendomi, supplicando: «Parla, ti prego, parla, adesso, parla, ti prego, parla, parla…».
«Ti amo, ti amo!» gridai, «ti amerò sempre; ogni volta che il sole tramonterà sul mare…».
Le guance le si rigarono di lacrime; tutti i muscoli della sua faccia fremettero convulsamente. I nostri corpi si allacciarono stretti, disperati, indivisibili e immortali.
Il sole cominciò lentamente a spegnersi nelle onde che lo lambivano.
«Addio, addio!» lo salutò correndo forsennata, tendendogli le braccia, urlando, singhiozzando, «addio, addio!». Poi cadde sulle ginocchia, coprendosi il volto con le mani.
Mi inginocchiai alle sue spalle, circondandola con le braccia, nascondendo il mio pianto tra i suoi capelli. La sentivo più smarrita di me, ora. Mi alzai e l'aiutai ad alzarsi.
«Andiamo», dissi, «ci sarà luce per poco. Dobbiamo raggiungere la nostra radura prima del buio».
Si lasciò condurre. La sua mano scottava e tremava nella mia. Avevo paura di smarrirmi nel nulla pieno di incubi; l'unico punto reale sicuro era la nostra radura.
«E' come dormire?» sussurrò.
«Sì, è come dormire».
«Sono stanca. Se è come dormire, meglio subito, adesso».
Si fermò, mi prese per le braccia e le strinse forte. Il suo viso era il viso di una bambina impaurita.
«Dimmi, dormirò con te? come sempre? abbracciati? per sempre?».
«Sì, amore, come sempre, abbracciati, per sempre».
«Dimmi, come pensi che sia, morire?».
«Non più doloroso, non più assurdo che vivere…».
Ritrovammo il macchione, cercammo il varco, entrammo nel suo interno cavo.
Si distese composta, con le mani incrociate sul petto. Vidi i suoi occhi baluginare nel buio che si era fatto e mi coricai al suo fianco.
Udii come da lontano il suono della sua voce.
«Senti la brezza? le cime dei pini vibrano come le corde di un'arpa».
11 - La pastora
Io ero la prima figlia. Mio padre, pastore di poche pecore a molta strada dal paese, andava ogni giorno a piedi prima dell'alba a dare il cambio al servo che aveva vegliato tutta la notte. Era di salute cagionevole mio padre, e così debole che aveva bisogno di me per portagli giaccone e bisaccia.
Aspettava un figlio maschio dalla prima gravidanza di mia madre, e invece ero nata io, femmina - ma come maschio mi trattava. All'età di sei anni già gli andavo appresso come un cagnolino. Giunta all'ovile, portavo al pascolo gli agnelli. Li conoscevo tutti uno per uno, e quando qualcuno si allontanava sapevo qual'era.
Ho imparato a contare da sola, e trascorrevo ore e ore contando giorni, settimane, mesi. Diventai brava a ricordare le date di tutte le feste. Allora calcolavo quanti giorni mancavano a Santa Maria, la festa più grande del paese. Per quel giorno mi avevano promesso il primo paio di scarpe.
Un giorno, facendo questi conti, mi ero addormentata con la testa sopra un sasso riscaldato dal sole, e gli agnelli erano entrati in un campo di grano. Quel giorno me lo ricorderò finché avrò da vivere: il 29 maggio san Massimino. Mio padre non mi picchiò, mi guardò solo - ma con un'aria così irata che mai più mi lasciai prendere dal sonno.
I contadini che passavano nei campi vicini mi chiedevano: "E babbo tuo dov'è?". E io rispondevo: "Non lo vedete che è qui vicino a me che sta riposando?". Ma non era vero. Ci avevo messo il sacco di orbace con una fascina e una pietra sotto, per finta, caso mai qualcuno avesse voluto approfittarsene.
Una volta, andando alla fontana a cento metri dall'ovile, inciampai in una radice di lentischio, caddi e ruppi il brocchetto. Tornai disperata all'ovile, e mio padre che mungeva le pecore mi cacciò lontano per non contagiare loro la mia agitazione. Poi mi mandò a raccogliere il coccio di base del brocchetto, che per fortuna era rimasto intatto, e me lo fece aggiungere alla fila dei testevillus che stavano davanti alla baracca bene ordinati. In quei recipienti bevevano i cani, e ogni giorno dovevo rinnovare l'acqua.
Quando fui un po' più grande, mio padre mi mandò per il paese con il bidone. Andavo per le case e vendevo il latte a misurini. Ogni misurino costava cinque centesimi, e finito il giro i conti dovevano tornare per forza.
Mia madre era una donna santa. Non era mai uscita di casa, se non la domenica e le altre feste comandate per andare alla prima messa. Era minuta, grassoccia, bianca e diceva sempre di sì. Mio padre la teneva sul palmo della mano. Le figlie dovevano lavorare in campagna per farsi il corredo e poi anche in casa, perché lei non si affaticasse. La sera si sedeva sull'uscio davanti alla strada - teneva le mani sul grembo e i piedi le spuntavano dalla gonna morbidi e bianchi. Glieli guardavo con ammirazione. I miei erano neri e ruvidi, coi calcagni screpolati.
Mi lamentavo dei piedi, d'inverno, perché le screpolature mi facevano male. Mio padre allora mi ci faceva mettere olio di sego caldo, di quello che usavo per ungergli le scarpe. Una volta che lo preparavo, ne ungevo anche le screpolature delle mani e dei polsi. Mi salvava molto dalla brina e dal vento gelato - altro che le porcherie che vendono adesso.
A me, non mi avevano mandato a scuola perché dovevo fare da maschio e aiutare mio padre, ma una delle mie sorelle fu mandata - la seconda. Era gracile e tutta ohi, ohi e svenimenti, non poteva neanche muovere un dito. Ci voleva anche una figlia che sapesse fare i conti con la penna; e siccome questo sembrava molto importante, quando mio padre vendeva la lana o il formaggio al grossista e lei faceva i conti con la penna, le regalava un paio di monete. Io, i conti, li facevo a mente più in fretta di lei, e avevo brontolato, una volta, per i soldi. Per punizione fui mandata a fare le commissioni e a portare l'acqua dalla sorgente a zia Antioga. Così - dicevano - un paio di monete me le potevo guadagnare con le braccia, visto che non sapevo né leggere né scrivere.
Zia Antioga, sorella di mio padre, era vedova e aveva molti figli maschi. Questi erano ammirati da tutti perché avevano la camicia sempre bianca come la neve. Zia Antioga non stirava mai col ferro la biancheria. Il ferro consuma la roba e la ingiallisce. Lei la stendeva ben messa ad asciugare e la lisciava un paio di volte con le mani mentre finiva di asciugare. Piegava i tovaglioli mica sbilenchi, ma così ordinati che sembravano usciti allora allora dal negozio, e li metteva al loro posto nell'armadio insieme alle mele cotogne che danno odore buono alla roba.
Mi voleva bene, zia Antioga, e mi vantava perché mangiavo il pane nero - come mi aveva abituato mio padre, perché solo gli uomini grandi che lavorano devono mangiare il pane bianco. Quando tornavo dalla fonte con la brocca dell'acqua fresca per i figli, mi diceva: "Adesso scopa la casa, così ti meriti la fetta del pane. Nonno, quando mangiava senza aver fatto il suo lavoro, diceva: - Maledetto mi sia oggi il pane che ho mangiato! - anche se in campagna non era potuto andare per colpa del temporale. Vedi, figlia mia, nella vita bisogna lavorare e dare ascolto ai vecchi che ne sanno più di noi". E io scopavo la casa per avere la fetta del pane.
E zia Antioga parlava bene di me e mi portava a esempio perché lavoravo senza imbroglio. La lavorante che aveva per aiutare a fare il pane mi prendeva in giro. Quando la lasciava sola, involgeva la pasta in un tovagliolo, si sedeva e mi diceva: "Guai a te se glielo dici". Io stavo zitta, anche se mi faceva rabbia, e desideravo che zia Antioga lo scoprisse. Una notte che ci stavo pensando, era venuta e l'aveva trovata addormentata con la testa sul tavolo del pane. Allora si era inquietata anche con me, perché non l'avevo avvertita, e mi aveva detto che non si fidava più. Questo mi era dispiaciuto molto.
Mia madre aveva avuto altre tre femmine dopo di me, tutte delicate, "non mi toccate che mi caco!". Così, facevo tutto io, e loro mi aiutavano nelle faccende leggere. Non ho mai capito perché mio padre avesse tanto rispetto per mia madre - la teneva come una immagine sacra sul comò, per non sciuparsi. Invece io mi ammazzavo di lavoro. Andavo al mulino col sacco del grano in testa, a due ore di strada; andavo al ruscello a lavare i panni... Avevo dodici anni, la prima volta che avevo cominciato a fare il bucato da sola. Ci voleva tutta la giornata: lavare la biancheria, metterla a bollire nel calderone della lisciva, risciacquarla e stenderla.
Di sera, dopo sbrigate le faccende, mi sedevo sulla pietra dell'uscio di casa a fare il pizzo con le amiche, ed ero la più svelta di tutte. Se mio padre era in piazza, quando rientrava le mie amiche lo vedevano da lontano appena spuntava alla curva, e dicevano: "Si vede babbo tuo tornare", e scappavano di corsa a casa loro. Io rientravo, chiudevo la porta e preparavo la cena.
Nelle giornate libere dai lavori pesanti di casa, andavo a servire due mie zie, per il bucato e per il pane.
Cominciavamo a lavorare il pane alle tre del pomeriggio, fino alle sette del mattino. Il pezzo di pasta che manipolavo io era sempre più bianco di quello delle altre - e non mi si attaccava mica al tavolo, anche se per arrivarci dovevo stare sopra una cassetta da sapone, ché ero bassottina. Mia zia ci faceva lavare le mani prima di incominciare - solo acqua e niente sapone per non dare brutto sapore al pane. "Meglio sapore di fumo che di sapone", diceva.
E così, con le paghe che racimolavo qua e là, a dodici anni potevo comprarmi quel poco vestiario che mi necessitava e in più conservare soldi per farmi il corredo. Non spendevo niente se non per lo stretto necessario. Anche i soldi che mi regalavano per la festa di Santa Maria li raggranellavo da un anno all'altro.
La domenica andavo in chiesa, com'è dovere di tutti i cristiani. Ma non mi ero mai voluta iscrivere a nessuna associazione. Del resto, le Figlie di Maria che avevano il nastro azzurro erano le peggiori puttane. Perfino nella processione, invece di andare dietro il Santo - bell'onore gli facevano! - si mettevano davanti, in fila a una a una per farsi guardare meglio, peperute! In processione io stavo con le donne anziane, dietro, e non mi vedeva nessuno in mezzo all'altra gente. E quando andavano a confessarsi poi, quelle!... Io già non lo so che cosa avessero da raccontare a quel povero prete, tre ore davanti al confessionale. Si sceglievano sempre il più giovane, che aveva orecchio fino e naso buono - quello vecchio era un po' sordo e bisognava gridare e si sentiva un paio di metri lontano, ma era bello rosso e sano, mentre il prete giovane era giallo come cera. Sfido io! con tutti gli aliti di quelle lì, appena alzate! e facevano anche perdere tempo a qualche madre di famiglia che aveva fretta e che, magari, quando si era stancata di aspettare se ne tornava a casa con la sola messa.
Venne la grande guerra. Molti partirono e pochi tornarono. Tutte le ragazze della mia età ricevevano lettere dal fronte e ne scrivevano. Mi prendevano in giro, dicevano: "Chi vuoi che ti scriva, a te pastora, che sei così piccolina. Scommettiamo che non hai nemmeno quattordici anni!".
Io ne avevo diciotto, ed ero più giudiziosa di loro. Qualcuna, tra una lettera e l'altra dell'innamorato, aveva ricevuto anche qualche altro regalo; e dal fronte lui non era tornato, ma il figlio era rimasto; e molti dicevano che non era nemmeno figlio di un morto in guerra ma di qualche imboscato - tanto i morti non potevano parlare.
Zia Chedenia me lo diceva sempre: "E tu lasciale cantare quelle peperute scervellate: stai al posto tuo - la scopa si prende dall'angolo, non la si trova in mezzo alla stanza".
Zia Chedenia era una cugina di mia madre, ed era molto buona. Il marito invece era un uomo burbero, per mangiare si sedeva al tavolo della camera buona., da solo, e mangiava in un piatto civile. Zia Chedenia, invece, mangiava con i figli, con il servo pastore e con me, quando c'ero, in cucina, direttamente dalla pentola, ai piedi del focolare. Al marito cucinava carne e muggini arrosto; noi mangiavamo semolino e, qualche volta, ed era festa grande, fregola condita col formaggio. Mi voleva bene, a me. Diceva che ero "maiale da poveri", che mangiano di tutto senza brontolare.
Mi aveva insegnato molte cose, a filare e a tessere. Mia madre - santa finché si vuole - non sapeva fare nulla. Tutto quello che so l'ho imparato da zia Chedenia. Anche is brebus da dire quando si prepara il lievito per il pane. Bisogna recitarli facendo le croci in penombra, senza che possa sentire nessun altro. Mi aveva raccontato di una serva che lei aveva avuto, non li recitava bene, is brebus, e non ci credeva, e allora le veniva s'ennemigu e le rompeva la conca e le sbatteva il tovagliolo in faccia, ogni volta che si metteva a fare il pane. "Bisogna credere negli spiriti del bene" - raccomandava - "perché ci aiutino e ci proteggano in ogni nostra faccenda".
A casa di zia Chedenia veniva zia Grazia che sapeva molti brebus: quello de su mali fattu e quello di s'ogu liau. Una volta zia Grazia si era ammalata grave, l'avevano stesa sulla stuoia vicino al fuoco, e in un momento in cui non c'era nessuno mi aveva chiamato e mi aveva insegnato is brebus contro il malocchio. Aveva paura di morire senza prima averli trasmessi a persona di fiducia.
Nessuno ci credeva che io sapessi is brebus, essendo così giovane; ma quando li avevo usati per una mia amica malata da un uomo che aveva ogumalu ed era guarita, allora ci avevano creduto, sì. Me li chiedevano spesso, per qualche maiale bello o per galline di razza che si ammalavano di malocchio ed io li dicevo preparando s'acqua 'e patena. Mai avevo chiesto ricompensa, perché zia Grazia mi aveva ordinato di fare così.
Finita la guerra, avevano ripreso i balli di carnevale. Mi piacevano molto i balli. Ci andavo accompagnata da un mio cugino - mio fratello, unico maschio fra sei femmine, era ancora troppo piccolo per poter badare alle sorelle. Mio padre diceva che non bisogna regalare tempo al divertimento: quando tornavo dai balli, invece di coricarmi pigliavo la zappa e andavo in campagna a farmi la giornata. Ero già grande e mi urgeva il corredo. Soldi senza lavorare non me ne dava nessuno, in più le paghe erano basse e le cose erano care.
Mio padre ci diceva: "E' vostro dovere lavorare la roba nostra, in casa e in campagna, tirare il carro tutti insieme. Io soldi non ve ne do, vi do da mangiare il giorno che ci siete. Fatto questo, andate pure a lavorare da chi volete, così guadagnate e conservate. Siete in tante, e per non fare figlie e figliastre non do cinque centesimi a nessuna. Guadagnatevelo voi, il corredo; e non fatemi fare brutta figura con chi vi chiederà in moglie...".
E così avevo incominciato a comprarmi un po' di biancheria. Per risparmiare, cucivo io stessa gli orli nei momenti di tempo libero. Non sapevo ricamare, però. Una delle mie sorelle era molto brava in questo, e per farmi ricamare un lenzuolo buono le dovetti dare la stoffa per farsene uno uguale. Per vestirmi già spendevo poco: la blusa e la gonna della domenica le avevo da otto anni; le scarpe me l'ero comprate prima della guerra ed erano ancora nuove: le mettevo solo per andare in chiesa.
Mio padre non andava mai in chiesa, anche se molto devoto. Non cominciava mai un lavoro senza farsi prima il segno della croce. Ogni mattina, quando metteva il caglio al latte per fare il formaggio ci faceva sopra una croce, e così sul pane prima di iniziarlo. Si arrabbiava se qualcuno affettava il pane dalla parte sbagliata, e noi figlie, anche se eravamo grandi, non ci azzardavamo mai a farlo, per paura di sbagliare. Le focacce, che si mangiavano in giornata, non voleva che si tagliassero col coltello, perché - diceva - altrimenti fa male alle spalle di chi le ha lavorate. Io gli ero riconoscente di questo pensiero, perché il pane lo avevo lavorato io.
"Chi non si accontenta del poco suo, gli viene a desiderio quello degli altri", diceva sempre, insegnandomi a risparmiare su tutto. "Se c'è la fiamma del camino, spegni la candela... Il fuoco coprilo con la cenere calda, così le braci durano fino a domani e non sprechi un fiammifero per riaccenderlo". E già mi è servito sì, essere abituata a risparmiare, a non allungare i piedi più di quanto non sia lungo il lenzuolo. Non era come oggi: mi fa rabbia, quando vedo gente che non ha mutande sotto il culo sprecare la roba in minuterie. "Non deve mancare il necessario, ma non è necessario averne di più" - diceva, io mi sono sempre conformata.
Il raccolto era il periodo più faticoso, ma anche quello che rendeva di più per chi voleva raggranellare. Fin dalla primavera mi cercavo un padrone col quale andare a spigolare. Per avere il diritto di raccogliere le spighe bisognava prima andare a tirare le fave, ad aiutare nella trebbiatura, scaricarle e conservarle nel solaio.
Dopo le fave cominciava la trebbiatura del grano, e noi spigolatrici eravamo pronte dietro i mietitori per raccogliere le spighe non recise o che cadevano. Restavamo in campagna per tutto il periodo, perché i campi erano lontani dal paese e l'ora migliore per spigolare era all'alba e al tramonto, quando le stoppie non sono aride e non graffiano gambe e braccia. Dovevamo servire i mietitori - quando avevano sete bisognava portare loro l'acqua coi brocchetti, a qualunque distanza si trovassero. Quando avevamo finito di mietere un campo, dovevamo lasciarlo anche noi, avessimo finito o no di spigolarlo, per stare loro vicine e servirli in ogni necessità.
Avevamo una sacca legata alla cintola per metterci le spighe senza gambo - quelle col gambo le legavamo a piccoli fasci. Io ero sempre più svelta delle altre; nelle annate buone riuscivo a fare anche quindici starelli. Un anno solo mi ero trovata imbrogliata, facendo in società con altre due. Quando mi ero accorta che si tiravano indietro - tanto dopo dovevamo dividere tutto in parti uguali - mi ero inquietata molto. Ma ormai l'accordo era fatto, e per quell'anno andò così. Da quella volta feci sempre per conto mio: mai fidarsi di fare comunelle. Arrivavo sempre ad almeno due starelli più delle altre, ed erano invidiose e dicevano che ero di pugno stretto. Quando loro riposavano, io piano piano sgattaiolavo e spigolavo in qualche campo lasciato a mezzo, invece di perdere tempo a sbagasciare con i mietitori. Magari, proprio con i mietitori non si mettevano, ma con i padroni sì, per aumentare il corredo. C'era ziu Remundicu che dopo il raccolto se le portava anche al mare, le spigolatrici, specialmente se aveva la moglie pregna, e scendeva alla spiaggia a fare il bagno assieme a due di quelle bagasce.
Alla fine della mietitura si faceva una cena di maccheroni; l'indomani i mietitori ritornavano ai loro paesi oppure riprendevano con un altro proprietario. Quindi veniva la trebbiatura. Ciò che avevo spigolato me lo trebbiavo per conto mio - l'affitto dei buoi o del cavallo lo pagavo in lavoro. Appena trebbiato bisognava ventolare. Ma non sempre il vento c'era. Qualche volta si aspettava giorni e giorni. Molte spigolatrici se ne stavano sdraiate all'ombra - io trovavo sempre qualche altra spiga da raccogliere, e quando ne avevo un fascio lo portavo a casa e lo pestavo con un bastone.
Quando il grano era tutto pulito ammucchiato si riempivano i sacchi. Allora cominciavano le burle, i mietitori spingevano le donne sul mucchio del grano e si facevano grandi risate - ma a me quegli scherzi non piacevano affatto. Poi gli uomini caricavano i sacchi sui carri e li portavano in paese. Noi spigolatrici andavamo dietro cantando, oppure ci portava il padrone in calesse.
"Nella casa del padrone, la massaia, aveva preparato la cena di maccheroni o la preparava intanto che noi scaricavamo. Se i sacchi erano molto pieni, se ne vuotava nelle corbule, ce le mettevamo sopra la testa e su di corsa fino al solaio. Se i sacchi erano più leggeri li portavano su gli uomini. Anche lì nel solaio facevano burle, acchiappavano una spigolatrice e la seppellivano nel mucchio. La padrona brontolava che le spargevano il mucchio fin sotto il letto, e di tanto in tanto correva a controllare, quando dopo una spigolatrice saliva il padroncino e non si decidevano più a riscendere.
Avevo ventidue anni, la volta che ero andata a spigolare da un proprietario benestante - per la prima volta non mi era parente: fino ad allora mio padre, con una scusa o con l'altra, mi aveva sempre mandato con zii.
Il padroncino aveva un anno meno di me, ma si dimostrava più anziano. Aveva un difetto nel pronunciare la esse, "a lingua dolce". Gli stava bene, però, lo faceva anzi più simpatico. Era sempre allegro come un passero, burlone, e molto premuroso con me. Tutta l'estate ebbi occasione di accorgermi delle sue occhiate e delle sue parole gentili, e ne ero molto contenta. Per la prima volta in vita mia lavorai felice dall'alba al tramonto, e prendevo parte agli scherzi. Ero diventata un'altra. Un tempo così non l'ho trovato più mai...
Le mie compagne erano gelose, vedendo che il padroncino aveva per me una predilezione. Mi burlavano, dicendo che io non ero donna ma una specie di maschietto, che mi stavo mettendo grilli in testa, che lui si divertiva a farmi illudere.
Le voci arrivarono presto alle orecchie di mio padre. Mi chiamò e disse: "Quel giovane non è adatto alla nostra famiglia. Loro sono contadini, noi pastori. Tu puoi essere una buona moglie per un pastore, non per un contadino. In più, lui ha un anno meno di te, ed è troppo puledro. Levatelo dalla testa". Queste parole non si potevano discutere, e dalla mia faccia sparì il sorriso.
A furia di sacrifici, il numero delle pecore di mio padre era aumentato; così pure erano aumentati i terreni da pascolo e i campicelli da coltivare a grano per la provvista dell'anno. L'unico maschio di casa - il cacanido - cresceva bene, e su di lui erano riposte tutte le speranze di mio padre. Era trattato come il Santo in chiesa: gli erano dovute tutte le cure e tutti i suoi desideri erano ordini - meno male che era modesto e di cuore buono.
Noi figlie non avevamo nessuna importanza. Dovevamo sposarci e basta. Io ero la più grande e la più sollecitata, perché spettava a me per prima sposarmi, secondo l'usanza: "Se non cominci tu, quando si sposeranno le tue sorelle? Tutti penseranno che avete pretese, se tu non cominci. Ti devi decidere senza far troppo la schizzinosa". Io non avevo nessuna voglia di incoraggiare pretendenti - l'avevo desiderato sì di sposarmi, una volta, quello che volevo io...
Vicino al nostro ovile c'era un sentiero che portava alla casa di campagna di un proprietario che aveva fama di essere molto ricco. Passava egli altezzoso a cavallo e sembrava padrone di tutto ciò che vedeva intorno a sé. Salutava superbo, come se ci avesse il torcicollo. Le mie sorelle conoscevano anche i suoi due figli. Uno di questi era appena tornato dal fronte - un tipo scontroso, col berretto calcato sugli occhi, salutava con un mugolio. Una mattina che lo videro passare a cavallo sul sentiero, le mie sorelle mi chiamarono. Passò, e al suo saluto scoppiai in una grossa risata, tanto era buffo.
La sera stessa, a casa, dopo cena, mentre pulivo le stoviglie in cortile, mio padre mi chiamò in cucina. C'erano visite. Di fronte a mio padre sedeva un uomo che non conoscevo, e mi stupii. Disse mio padre a bruciapelo: "Chi è di voi che si è messa a ridere stamattina, quando è passato il figlio di Maccioni?". Abbassai la testa in attesa della sfuriata e risposi: "Sono stata io. Non ce l'ho fatta a trattenermi, era così buffo". "Non una parola di più!" tuonò mio padre "Tu sarai la moglie del figlio di Maccioni! Vuole in moglie quella che ha riso. Del resto, è giusto che sia così: tu sei la più grande e devi incominciare tu, e poi è un buon partito. Devi sentirti onorata che il figlio di Maccioni si sia degnato di scegliere te, povera figlia di un pastore". E senza che avessi potuto pronunciare mezza parola rivolgendosi all'ospite che non conoscevo ma di cui ora avevo capito il ruolo disse: "Vai pure e dì a Maccioni che mia figlia è contenta di diventare la moglie del figlio Gesuino, e che può venire quando vuole a fare le cose in regola".
Andato via il pavoninfu mi azzardai a dire: "Ma Babbo non le sembra che avremmo potuto parlare prima di dare una risposta?". Che mi si fosse spalancata la terra sotto i piedi e mi avesse inghiottita! Gettò un grido che mi fece tremare tutta. Disse: "Figlia snaturata! devi ringraziare il destino a tutte le ore del giorno e della notte per la fortuna che ti è piovuta addosso. Non lo sai come stanno bene i Maccioni? Il padre gira sempre a cavallo come un marchese - preoccupazioni non ne ha di certo. Il figlio è più grande di te quattro anni e va meglio di quel nipotastro ragazzino che ti eri messa in testa. E' un giovane serio, si sta facendo una bella casa. Pensa piuttosto a lavorare e a risparmiare per non farmi fare brutta figura con la roba".
E così mi ritrovai con un fidanzato che non conoscevo, che non volevo, che non mi piaceva. Ma dovetti fare faccia bella a burla cattiva. Piano piano mi abituai a vederlo venire la sera, a sentirlo scambiare qualche parola - due o tre in tutto - con mio padre. Aveva il vizio di fumare, ne accendeva una dopo l'altra. Mio padre lo rimproverò, e gli ordinò di smetterla in casa nostra perché noi non eravamo gente sprecona. Lui obbedì e diminuì il numero delle sigarette. Qualche volta ci trovava a cena e mangiava con noi - dapprima diceva di aver già cenato e rifiutava, ma dopo si metteva a tavola e mangiava come un affamato. Era stato al fronte, ma non ne parlava mai. Correva voce in paese che fosse di idee socialiste. Questo era un brutto neo, fra tanti pregi che mio padre gli vedeva, e ci passava sopra perché era figlio di Maccioni; ma lo aveva avvertito di non permettersi di parlare di politica in casa nostra.
Ero disperata per il costo della roba. Avevo raggranellato prima della guerra centesimo su centesimo. Ora quei soldi non valevano più niente: giornate e giornate di lavoro non mi compravano neppure un bicchiere. Mio padre non aveva cambiato idea a proposito di aiutarmi: dovevo sbrigarmela da sola. Volevo continuare ad andare a giornata in campagna, ma il mio fidanzato e anche mio padre si scandalizzarono: "Quando mai, la futura nuora di Maccioni andare a fare la serva?". Se mai potevo lavorare nella famiglia del fidanzato.
E così, appena avevo tempo, andavo a casa della mia futura suocera e mi rendevo utile in mille modi. Purtroppo senza una lira di compenso.
Mia suocera aveva fama di buona e magnanima. Mi accorsi presto che tale fama era immeritata. Era una donna furba, di quelle che sanno portare il Santo in chiesa. Era piccoletta bruna. Si alzava all'alba, svegliava il servo e lo mandava a portare il cavallo che pernottava nel chiuso di campagna, per tenerlo pronto sellato quando si alzava il marito. Poi si metteva a fare la farina o altre faccende, lemme lemme. Non perdeva la calma, qualunque cosa succedesse.
Chi comandava veramente, in quella casa, era la figlia grande, una zitella acida, baffuta e petulante. Si sposò più tardi, a quaranta e più anni. e riuscì anche a fare un figlio, e tutti si erano chiesti come avesse potuto fare il marito.
C'era da correre all'orto per pulirlo dalle erbacce, da portare brocche d'acqua dalla sorgente, da fare il bucato, da lavorare e cuocere il pane. Su tutto disponeva lei, la zitella coi baffi, col massimo risparmio di fatica da parte sua. Mi diceva: "Tu sei molto svelta e brava anche: fai proprio a tempo a tutto; quando hai finito questo fai quello!". E io obbedivo, anche se a malincuore, che dovere mio era di essere obbediente e rispettosa.
Ebbi anche occasione di conoscere una cognata, la moglie del fratello maggiore del mio fidanzato. Una donnona lardosa dalla risata sguaiata, sempre accaldata. Non faceva altro che sbuffare, standosene sdraiata sopra una stuoia in cucina - tutto sottosopra, stoviglie sporche, cenere, legna bruciacchiata e merda sul pavimento e mosche, mosche che ronzavano dappertutto, che entravano dalla porta del cortile insieme al fetore del maiale che grugniva davanti allo steccato che sostituiva la porta. Chiunque entrasse a cercarla, veniva invitato a farsi avanti fin dove lei stava sdraiata, senza alcun ritegno se erano maschi, vestita o spogliata che fosse. Quando tornava il marito, stanco del lavoro, le chiedeva da mangiare; e lei diceva: "La cena è nel camino, mangia tu che io non ho fame".
Una sera c'ero anche io, e avevo assistito alla scena. Per rispetto, avevo rifiutato la cena. Ma il marito mi disse: "Mangia tu, che sacco vuoto non resta in piedi. Lasciala dire, quella: si è saziata durante tutto il giorno, e perciò ora non ha fame": Seppi poi che per calcolare ciò che la moglie divorava durante il giorno, prima di uscire in campagna contava i pani e misurava le funi di salsiccia.
L'unico guadagno di quell'anno fu il grano spigolato a fatica nei momenti di pausa che mi restavano lavorando per la mia famiglia e per quella del mio fidanzato.
Mi ero accorta quasi subito che non c'erano buoni rapporti tra il mio fidanzato e i suoi. La mia futura suocera, un giorno, mi disse: "A te sì che ti vogliamo bene, perché sei brava e lavoratrice, ma a Gesuino, lui è sfaticato e di poco sale": Come potevano voler bene a me, che ero una estranea, se non volevano bene a lui, creatura del loro sangue? Dal momento in cui mi disse quella frase, cominciai a diffidare di lei e delle sue belle parole, e non le credetti più. Lei e la figlia - la zitella coi baffi, quella che poi si era sposata con un vecchio - mi erano diventate odiose.
Io credo poco alle apparenze. Diffido sempre delle belle parole. Non mi incantano neppure i dottori letterati. "Chi più ne sa, meno ne sa!" Bella fatica hanno fatto, loro, a imparare! levati dal letto col caffelatte, portati fino a scuola sul palmo della mano e seduti sul banco coi cuscini sotto il culo. Se fossi potuta andare anche io, come loro, a scuola, anche scalza e stracciata, ne saprei come loro, anzi di più, che io ho una memoria che ricorda ogni cosa. Ma loro, i signori, scommetto che non ce la farebbero a fare tutto ciò che faccio io in una giornata di lavoro!
Dopo il raccolto ci fu il matrimonio. I giorni che lo precedettero non li auguro neppure al mio peggiore nemico. C'era da diventare pazza, col pensiero di far bastare i pochi soldi per comprare il necessario. Non volevo certo lasciare qualche oggetto indispensabile, per andare magari a chiederlo a mia suocera che abitava vicino. Se ne sarebbe fatta due di risate, alle mie spalle, la zitella coi baffi, se mi fossi dovuta inginocchiare a lei, per chiedere un oggetto!
La casa era finita e tutti ne parlavano. Qualche maligno diceva: "Sembra un convento! Già ne resteranno anche vuote, di quelle stanze". Che fosse grande era vero - ma non è che le stanze fossero molte, il guaio era che non avevo abbastanza soldi per riempirle di roba.
Arrivai fin dove potei. Piangevo, vedendo i pochi carri con la mia roba andare a casa dello sposo che sarebbe stata da allora in poi la mia casa.
Nei primi giorni non mi ci sapevo vedere. Non la sentivo casa mia - come quando mi ero fatta una gonna di nove teli all'usanza di allora: ogni volta che la mettevo me la sentivo troppo larga e pesante, e alla fine mi ero pentita: con quella stoffa avrei potuto farne due. E infatti, qualche tempo dopo la disfeci e ne rifeci due, che mi durano ancora, da portare a strapazzo.
Un giorno che mio marito era in campagna, venne un falegname a cercarlo. Dissi: "E che cosa vuole da mio marito?". Lui disse: "Lasci stare, quando lo vedo glielo dico". Tornato mio marito, gli dissi: "E' venuto il tale falegname a cercarti. Che cosa vuole da te?". E lui disse, un po' irato: "E che bisogno aveva di venirmi a cercare? Già lo sa che ci sarei andato a fargli il viaggio di legname da Sanbistu col carro. Se ritorna, digli che la memoria non l'ho persa ancora, e quello che prometto lo faccio". Tutto finì lì, e a quella storia non ci pensai più.
Ed ecco, dopo un po' di giorni, venne un fabbro. Lo vidi entrare in cortile, guardandosi attorno come se cercasse qualche cosa. Lo prevenni e dissi: "Non starà cercando mio marito per farsi fare un viaggio da Sanbistu?". Disse lui: "Cosa mi dice mai!? viaggi a me non me ne servono. Guardavo solo se c'era il carro di suo marito, perché gli devo ricordare una commissione".
La sera, lo dissi a mio marito. Stavamo mangiando un piatto di lenticchie e la cucchiaiata gli andò di traverso. Con la faccia bassa, brontolò: "Già ci andrò io, a parlargli. Non te ne prendere pensiero, tu". E poi aggiunse: "Guarda che per stasera ho invitato amici, e ti voglio contenta".
Vennero gli amici, fecero un bordello grande, si mangiarono le provviste e si bevettero il vino. Mi mostrai contenta, davanti a loro, ma quando se ne furono andati dissi a mio marito: "Guarda che questa sia la prima e l'ultima volta che mi porti in casa quegli sfaccendati. Se eri abituato così, con me non continuerai. La mia roba me la sono fatta con sudore di sangue, e non me la sperpererai tu con i tuoi vizi".
Da quella volta amici non ne vennero più. Ma vennero invece prima un muratore e dopo il padrone della fabbrica di mattonelle e della calce - e non mi vollero dire che cosa volevano. E anche per loro, mio marito disse che doveva fare dei viaggi col carro. Io ne ero piena fin qui, di quella storia: non potevo mandarne giù altro, e tutta indemoniata gridai: "Ma tu mi stai imbrogliando! Cos'è questo raggiro? E i soldi dei viaggi che fai col carro per tutta quella gente, dove li metti? Qui non c'è una lira. Lavori, lavori e soldi in casa non ne porti. Voglio sapere come stanno le cose". "Sai", disse lui senza guardarmi, "le cose sono care e mi è rimasto qualche conticino da saldare, e lo sto scontando con questi viaggi". "Ma perché non me l'avevi detto? Invece di fare una casa grande, la facevi piccola. Invece di avere fretta di sposarti, ti pagavi prima i debiti e mi lasciavi lavorare e avrei comprato qualche cosa in più - roba pagata, però!". "Mio padre non voleva che facessi una brutta figura", si scusò lui. "E allora", dissi "vai da tuo padre a farti pagare i debiti!".
E non è che io fossi dissipatrice. Mi ero messa a risparmiare dal primo giorno di nozze. Qualche volta me ne andavo a casa di mia madre a mangiare, e non spendevo niente per me. Qualche uovo che facevano le galline - regalo di matrimonio - lo vendevo, e con quei soldi compravo le sigarette a mio marito. Ma non era un "debituccio", non erano "conticini" da finire presto.
Un giorno venne un proprietario che abitava vicino, e mi aprì gli occhi. "Come non lo sapevi? Il debito di tuo marito è grosso. Poche cose pagate ci sono, qui, di questa casa...".
E per cinque anni, cinque lunghi anni, piangendo lacrime di sangue, lavorai come una schiava di galera per pagare tutti i debiti, fino all'ultimo centesimo. Mi alzavo all'alba, involgevo in una coperta il bambino che mi era nato per disgrazia, e lo buttavo da mia madre - ci pensavano le mie sorelle piccole a vestirlo e a sfamarlo - e correvo a zappare o a seminare o a trebbiare, mentre mio marito andava a trasportare minerale dalla miniera alla fonderia. Perfino a mietere, andai, io, per non pagare un mietitore. Furono anni di lavoro, di fame e di veleno. E così ho imparato la vita.
Adesso sono vecchia, il mio poco ce l'ho, non devo niente a nessuno, mi basta e mi accontento. Non faccio come certi, che fanno il passo più lungo della gamba, vogliono la roba anche se non se la possono pagare con le proprie forze, e allora fanno prestiti. E i debiti sono duri da scorticare. E qualcuno finisce per mettersi a rubare, e la roba degli altri non si deve toccare. Il povero l'ha lasciato Dio, e ognuno deve restare quello che è. Del resto, quando un cristiano ha il pezzo di pane e il fuoco per scaldarsi, sta bene - tutto il resto sono vizi che sottoterra non ci portiamo.
E poi, se una donna comincia a desiderare la mobilia buona, si abitua al lusso e non c'è marito che la può soddisfare e tenere a freno. Come la massaia che era compagna mia in casa di zia Chedenia: incantata dai soldi, si era sposata con un uomo di miniera. Il marito ne usciva giallo come cera dalla galleria, e lei tutta bella e rossa e agghindata se ne andava per le botteghe, pomposa, col figlio in braccio che sembrava il principe del corno della forca, pieno di fiocchi e di pizzi - peccato quel pizzo! tanto i bambini non guardano ciò che pisciano; basta ripararli dal freddo. E fosse stato bellino, almeno! Sembrava un aborto, perché quella lì, anche se gli metteva la cipria per uscire, chissà come lo teneva in casa. Del resto, si vedeva già da ragazza, che specie di donna era. Quando lavoravamo la pasta per il pane, si lavava le mani col sapone un paio di volte, perché era schifiltosa. E adesso che ha consumato i polmoni di suo marito buonanima si sta lucidando per sposarsi di nuovo. Ma se fossi io uomo, già mi monterebbe così!
Oggigiorno il mondo è cambiato. Ci sono troppi vizi, coi soldi che corrono. E per che cosa, poi? Fosse almeno più sana e più contenta, la gente. Quando io andavo a lavorare, mi alzavo all'alba e ci andavo a piedi, e non ci arrivavo gialla come cera e slombata - come sono adesso le donne. Perfino le zappatrici, quelle poche che ci sono rimaste, vanno al campo in bicicletta, e arrivano con gli occhi gonfi di sonno, perché si sono alzate dieci minuti prima, quando il sole era già alto. I soldi che sprecano per comprarsi le biciclette dovrebbero conservarli, se no quando si sposano non hanno lenzuola, svergognate, e se le fanno comprare dal fidanzato. Quelle lo scorticano, un uomo. Si fanno belle di fuori, e si vestono di lusso anche per andare a lavorare. E quando non basta il marito, fanno le bagasce.
Con tutte le macchine che ci sono, adesso nessuno vuole lavorare a mano. Il pane non ha più lo stesso sapore. La terra è sforzata e riscaldata da quei concimi, da appena ci buttano il seme. Le spighe le gettano dentro le trebbiatrici, invece di lasciarle al sole che fa bene a ogni cosa. E il grano, di nuovo dentro quelle macchine calde e puzzolenti. Per forza, la farina non viene buona! ne esce calda e puzzolente. E il pane? invece di lavorarlo a mano, ributtano la farina in un'altra macchina, e ne viene fuori una pasta frolla che non resiste al lievito. Fatto in casa, il pane, ci vogliono almeno tre ore per lievitare, e che sia ben coperto. Adesso, in mezz'ora, non fanno in tempo neppure ad accendere il forno che già la pasta si sta liquefacendo, e nel forno non si gonfia e non ha il suo buon profumo.
La gente è tutta malaticcia. Quando ero piccola, anche se andavo scalza e poco vestita, medicine non ne avevo mai preso. Oggi, le ragazze sono tutte a dolori, sempre prendendo medicine. Per ogni fesseria corrono dal dottore. Sarà che hanno soldi da buttare o che hanno voglia di farsi guardare e toccare. Per parte mia non ci sono mai andata e mai ci andrò - va' che non mi spoglierei davanti a loro, uomini sono, anche se dicono che non guardano: neanche se avessero gli occhi cuciti col giunco!
Quando devono fare un figlio, si cacano addosso per lo sforzo. Già mi aspettavo la levatrice, io! Il secondo l'ho fatto in campagna. Quando mi sono sentita nel momento, ho lasciato la zappa, l'ho fatto, l'ho avvolto nello scialle e me ne sono tornata a piedi in paese. E gli davo da succhiare fino ai due anni, che latte ne avevo - adesso tirano un giorno o due e latte non ce n'è più, e a quelle povere creature danno di quella roba in polvere: chissà che porcheria è.
Gli animali lo stesso. Su trenta uova gallate, sì e no ne escono cinque col pulcino. Sarà quel mangime nuovo che gli danno o sarà l'aria brutta, non lo so... i galli non cantano più. A malapena si alzano di mattina e fanno un pigolio da pulcino, e le galline, neanche le guardano. Prima, un gallo solo si metteva sotto tutto un pollaio di quaranta galline, anche due o tre volte in un giorno. E doveva stare attento ai galletti che crescevano... In casa di mia madre, di galletto se ne faceva a pranzo uno alla settimana. La domenica, al rientro dalla prima messa, mamma si preparava - spettava il turno al galletto più turbolento che bisticciava e disturbava il gallo da monta. Era una festa grande per tutti. Tutti assistevano, e ciascuno aveva il suo aiuto da dare. Al momento di sventrare l'animale si faceva silenzio, e tutti guardavamo la sua faccia e aspettavamo.. Apriva e toglieva i bottoni, che erano belli grandi e non come quelli di adesso che sembrano semi di melone! Li prendeva e li metteva in un piattino, andava in cucina e li mostrava al marito: "Guarda, che razza di bottoni aveva quel demonio!" Il piatto veniva lasciato tutto il giorno in vista, così che la gente che veniva in visita potesse ammirarli.
Io dico che se lavorassero in casa non se ne andrebbero al cinema. Io già non lo so che gusto ci trovano a chiudersi in uno stanzone buio a respirare quel tanfo. Neanche in chiesa vado, quando è tardi e l'aria è viziata. Tutt'uno è andarci di mattina presto, quando si sente solo profumo di cera! Adesso, poche ne sono rimaste di candele; è tutto a lampadine. E Dio non deve essere molto contento, perché era povero e non aveva bisogno di lampadari di cristallo.
Per cucinare hanno messo il gas. Tanto hanno lo stesso sapore, il brodo fatto a fuoco di legna nel camino e quello fatto su quella fiamma puzzolente! Tutto per non lavorare. E meno lavora e più la gente muore. Chi non muore di malattia muore di disgrazia, con quelle macchine. Perché non se ne staranno in casa, dico io, invece di andarsene in giro a sbagasciare. Belli sono, uomini e donne, gettati insieme dentro le macchine! A me fa schifo solo a vederli. Figuriamoci a entrarci dentro. Appena me ne passa una vicina, il fumo che ne esce mi fa venire voglia di vomitare. Adesso li portano in macchina perfino in camposanto. Io una cosa vorrei: che non mi ci mettessero dentro neppure da morta. Lo dico sempre a tutti: che facciano un sacrificio e che mi portino a spalla, in camposanto. Se mi ci vogliono portare. Se no, vaffanculo! che mi lascino lì.