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Introduzione

Scrivendo questi racconti mi sono reso conto che ho sempre scritto in sardo, anche quando scrivevo in italiano. Lo ammetto, è una scoperta banale; eppure mi riempie di grande soddisfazione, perché mi fa scoprire anche, di me, una capacità che reputo importante: quella di essere stato sempre me stesso, voglio dire un sardo, a dispetto della lingua con cui mi esprimevo. E così, i romanzi e racconti, i servizi giornalistici, le inchieste e i saggi che ho scritto in italiano, in realtà sono stati pensati in sardo, erano scritti dentro di me in sardo, prima di “tradurli” sulla carta.
Voglio dire che parlando e scrivendo in italiano non ho fatto altro che tradurre dal sardo. Perché, appunto, ero un sardo; e come sardo non potevo che pensare in sardo. Ogni uomo nasce con una propria lingua e con una forma mentale e fisiologica ad essa correlata - così come nasce con i caratteri propri della razza, del gruppo etnico, della nazione, dell'ambiente geografico, della cultura cui egli appartiene.

E' pur vero che appartengo alla razza umana - per una mia scelta ideale e non soltanto perché condivido con tutti gli uomini del mondo lo stesso destino, il destino di tutti i nati in terra: quello di nascere, vivere e morire. Ma è ancor più vero che, in un ambito più limitato e più realmente vissuto, appartengo a un popolo storicamente, geograficamente e culturalmente diverso da tutti gli altri popoli, e in particolare, nel mio caso, diversificato dalla oppressione e dallo sfruttamento. E’ di questo popolo che io mi sento parte, è a questa Gente, (che riconosco come la mia Gente ), che io mi sento, se possibile, più simile e più vicino.

Riesco così a spiegarmi e a comprendere diversi aspetti della mia vita, che prima non mi erano chiari. In primo luogo, i motivi reali e profondi del mio amore, del mio attaccamento alla mia Terra e alla mia Gente. Che non potevano essere, e non sono, semplicemente di natura affettiva, ma che dovevano avere, e hanno, origini e ragioni più complesse - come quella che io ero, e sono, la risultante di quella realtà che si chiama Sardegna, e quindi ad essa strettamente correlato e dipendente. E così pure che io avevo, e ho, la stessa identità di quella gente che è la Gente sarda, nella quale non potevo e non posso non riconoscermi - poiché il mio destino, nel bene e nel male, è tutt'uno con il suo.
In quanto sardo, la mia lingua madre è il sardo. Posso dire, oggi che la mia vita è al tramonto, che il sardo è veramente e concretamente la mia “lingua madre”. Perché mi rendo, conto rileggendo e correggendo questi miei “Contus e contixeddus”, che la maggior parte dei vocaboli e in specie i modi di dire sono ripresi dalla parlata oristanese di mia madre - della quale mi fido come fonte ancor più che del Porru e, certamente, ancor più che del Wagner. La lingua che mia madre parlava all’interno della sua famiglia, del suo parentado, della sua comunità.
Mi rendo conto che come “facitore di libri in lingua italiana”, ma già ancora prima, e in misura maggiore, nei banchi di scuola, il mio italiano, il mio modo di esprimermi in italiano, ha subìto una profonda influenza e profonde modificazioni da parte della mia lingua d'origine. In parole semplici, il mio italiano è una traduzione dal sardo, magari personale e caratterizzato, e forse anche brillante, ma pur sempre una traduzione dal sardo. Questa affermazione la si prenda, se si vuole, come una mia solenne abiura della lingua e della cultura italiana.
Tutto questo non significa che un uomo non possa pensare, parlare e scrivere in tante lingue. C'è un bellissimo proverbio ungherese che suona: “Tante lingue tu parli, tanti uomini tu sei”. Per quel che io voglio dire, significa che l'impronta della lingua madre - in tutti i suoi aspetti sintattici, logici, espressivi e perfino nella sua musicalità - è presente e appare in ogni altra successiva lingua che si impara a parlare e a scrivere, anche correttamente.

Intanto, va ricordato che per noi sardi quando andiamo a scuola - che lo si voglia o no è la scuola di un “paese” straniero, di cui la Sardegna fa parte per ragioni storiche, politiche ed economiche - imparare a parlare italiano è come imparare a parlare una lingua straniera. Diciamolo pure: a scuola si impone ai nostri bambini l'uso dell'italiano, lingua straniera obbligatoria - come un tempo il russo nei paesi dell'Est europeo e oggi l'inglese nei paesi satelliti degli Yankee. Una lingua straniera che si sovrappone alla lingua madre, limitandola e sclerotizzandola: una lingua, questa, che pure era e restava l'unica che esprimesse e potesse esprimere compiutamente la propria realtà.
Questo, per la verità accadeva un tempo, anche assai recente. Ora, accade il contrario: la lingua sarda diventa sempre più, anche per i ragazzi sardi della provincia, una “lingua straniera”…
Nelle scuole ho insegnato per tanti anni italiano; mentre i miei scolari mi insegnavano il sardo, che essi conoscevano e parlavano, ovviamente, meglio di me. E io che insegnavo ai fanciulli, nel loro paese, la presunzione di una cultura straniera, verso cui essi erano sollecitati con il miraggio di diventare "migliori", io imparavo da loro, umili paesani, il mestiere della vita - che coincide con l'amore stesso della vita, amore di sé e del prossimo - nell’unica realtà vivibile,.quella di cui eravamo parte…

Tempo fa, a Camogli, sulla Riviera Ligure, sono stati affondati alcuni cassoni per favorire in essi l'insediamento di pesci e molluschi, nel tentativo di ricostituire un patrimonio ittico dissennatamente sperperato e distrutto. Altrove - pare - sono state utilizzate allo stesso scopo carcasse di auto (patrimonio abbondante in questa civiltà), con risultati non del tutto soddisfacenti. La stessa fonte informa che a Camogli, in occasione dell'affondamento dei cassoni ecologici, è stato commemorato l'ideatore del sistema, un ingegnere del luogo del quale, ovviamente, mi sfugge il nome.
Il fatto di cronaca - che potrebbe a prima vista apparire uno dei tanti ingredienti folcloristici di cui sono infarciti stampa e telegiornali quando manca la cronaca nera - mi ha riportato indietro nel tempo, ai miei primi anni di insegnamento nelle scuole di Cabras, ai miei primi contatti con il mondo e con la cultura dei pescatori degli stagni. Alle lezioni astratte che io davo ai miei scolari per il buon uso di una lingua per loro straniera o su fatti storici che avulsi dalla loro realtà avevano il sapore di favola, si alternavano le lezioni pratiche che i miei scolari mi davano sulla tecnica di pesca nelle loro lagune.
Una di queste tecniche, tra le più rudimentali usate dai fanciulli, era l'immersione di barattoli o di altri oggetti cavi che andavano a depositarsi sul fondo melmoso, diventando in breve tempo dimora di pesci e di molluschi. A tempo debito, barattoli e simili venivano rimossi e il più delle volte vi si trovava rintanata qualche preda, che arrotondava il magro pasto familiare. Entrando nei particolari, i miei scolari-docenti mi riferivano che per prendere le anguille con quel metodo, e in tempi brevi, andava benissimo un corno di bue, possibilmente fresco: ve ne era abbondanza nelle rive degli stagni, in quanto lì, da decenni o da secoli, venivano buttati i residui di macellazione.

Ora mi chiedo - e la domanda è veramente rettorica - se l'ingegnere di cui, a ragione, mi sfugge il nome, abbia anche brevettato il popolare sistema del barattolo, verniciandolo di quella scientificità necessaria a dare lustro e denaro allo scopritore, necessaria alla utilizzazione del ritrovato su larga scala, necessaria infine a rendere lauti profitti all'imprenditore che vi investirà i capitali.
La scientificità di tradurre l'essere in avere, cioè di mercificare e capitalizzare non soltanto i ritrovati dell'ingegno umano ma le esigenze e i sentimenti che ne costituiscono l'essenza, è una scientificità di cui il popolo è totalmente privo - secondo lo stesso giudizio dei ceti colti.
Al contrario, il popolo ha una propria scientificità. Senza teorizzarla, vivendola nella pratica, intende scienza come conoscenza di sé e della realtà del mondo in cui vive, e utilizza la tecnica per la sopravvivenza e la realizzazione dell'essere.
Se ritorno con gli occhi della mente al tempo della mia fanciullezza è lì che ritrovo la mia vocazione allo scrivere, al raccontare, al testimoniare. Che è tutt'una cosa con l'esigenza profonda di dare voce e corpo alla gente di allora e al mondo in cui viveva.
Il mondo schiettamente contadino dell'Oristanese - che a momenti abbandonava la zappa per tentare l'avventura nelle acque degli stagni prima e poi del golfo - era quello da cui traevo le origini, ed era molto diverso dal mio di cittadino borghese, destinato agli studi. Tuttavia, mi sentivo attratto da quel mondo che mi piaceva e mi soddisfaceva assai più del mio, tanto da desiderare di farvi parte. Era quello un mondo con il quale mantenevo frequenti contatti per motivi di interesse familiare, che visitavo specialmente in occasione di feste e sagre, di matrimoni e funerali.
Oggi io sento e so - e non soltanto per averne tratto le mie origini - di appartenere a quel mondo, di essere espressione di quel mondo. Mi rendo conto, oggi, che il mio modo di essere, di credere, di amare, di pensare è quello della mia Gente.
Le immagini più vive e più care della mia fanciullezza appartengono a momenti di feste paesane, che erano sempre occasione di vita collettiva, e a momenti certo più intimi e forse più intensi di vita domestica.
I preparativi della festa sono immagini di donne e bambini che ritagliano bandierine di carta colorata, con cui poi gli uomini e i ragazzi pavesano il cielo delle strade; immagini di rami di alloro che adornano i muri delle case e di copriletti e tappeti e arazzi che si affacciano ai davanzali delle finestre; e di donne chiesastiche e fanciulle che spargono sui selciati foglie e petali e rametti odorosi di menta, di timo, di rose, di gerani, di garofani; e di uomini che nel piazzale di chiesa si danno da fare per l'allestimento della legna del gran falò... Per alcuni giorni tutti gli uomini validi hanno portato il loro contributo di legna, di fascine, di ramaglie, di tronchi, chi con il carro e chi a spalle...
E la festa sono immagini de paradas, di tavoli che offrono leccornie e ristoro, lungo le strade che portano al luogo della festa, di solito il piazzale antistante la chiesa del Santo che si celebra; e il sacerdote o un vecchio de su gremiu, del comitato, che compie il rito dell'accensione de su fogadoni, del falò, sulle cui fiamme votivamente passeranno indenni su mani paterne i bimbi della comunità, e di giovani promessi sposi che salteranno in coppia, bene augurando; e di donne che sulle braci arrostiranno i tradizionali cibi dei giorni solenni: anguille e muggini, agnello e porchetto; e di donne di ogni età nel costume tradizionale, che consente di far conoscere il paese da cui esse provengono, e di bambini che girano tra i tavoli con il pugno stretto sulla moneta avuta in dono, alla ricerca di un giocattolino di latta; e al tramonto l'immagine della gente tutta raccolta al suono allegro ma composto, quasi ieratico, di una armonica, intorno alla quale si forma un cerchio danzante, su ballu tundu...
E dopo la festa, le immagini malinconiche del piazzale deserto e scomposto, nell'aria grigia gelida del mattino che viene, la tristezza del ritorno al quotidiano, all'usuale, al lavoro di tutti i giorni.

Racconti e novelle di questo libro, scritti in lingua sarda campidanese, nell'intenzione dell'autore, testimoniano non soltanto la realtà di un mondo oppresso e di una cultura sommersa, ma anche il suo bisogno e la sua ansia di riscatto civile e di liberazione.
Poiché il passaggio dalla fase orale a quella scritta è un momento importante e necessario della lingua sarda che cresce, non resta altro da fare che metterci a scrivere e a proporci, come prima oralmente nelle "gare poetiche" e nelle canzonis dei cantori girovaghi, raccontando ora nei libri alla Gente nostra. Scrivendo impareremo a scrivere, così come parlando abbiamo imparato a parlare. E' facendo, infatti, che si impara a fare.



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