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LA DICHIARAZIONE DI GUERRA

Quel dieci di giugno, la pula del grano volava già nelle aie; l’annata era stata più asciutta del solito e le spighe erano maturate prima del tempo.
La notizia che la radio avrebbe trasmesso un comunicato importante era partita dal Municipio, dove la bandiera tricolore, rispolverata, si teneva poggiata all’angolo interno del davanzale.
«Questa volta ci siamo per davvero!». Aveva esclamato don Achille, podestà segretario del Fascio, fregandosi le mani, dopo aver letto e riletto la velina.
Lungo le strade strette acciottolate scoscese, nella striscia d’ombra, sedevano, sugli usci di pietra, le donne, frugando, con dita esperte, la testa dei piccoli accucciati. Le vecchie, accoccolate, tenendo accanto la cesta della lana e fra le mani il fuso, carminavano o filavano.
Il pomeriggio era caldo, senza vento. Il sole aveva riscaldato come forni le casupole basse di schisto grigio. I sassi delle strade scottavano i piedi scalzi. I cani lambivano a turno l’acqua verdastra della gora lunga esile della fontanella di piazza.
I vecchi, muti, sotto l’olmo del sagrato, seduti con e spalle al muro sbrecciato della chiesa, guardando il cielo, attendevano la brezza pomeridiana che sarebbe dovuta giungere dalla parte del mare.
Quando Efisio, il messo comunale, e Giovanni, la guardia campestre, passarono, inviati dal podestà, tutti sapevano già che qualcosa sarebbe accaduto quel giorno. Venticinque, ne erano partiti, richiamati a scaglioni per la mobilitazione.
Anselmo s’era portato nell’aia Filomena, la sua ragazzina più cresciuta, per rimpiazzare Antonio che aveva ricevuto la cartolina con altri cinque, una settimana prima.
Il cavallo correva sopra il largo mucchio di spighe che cominciavano a triturarsi; a tratti rallentava, si metteva al passo, avvicinava le sue grandi labbra piene di fremiti a terra, cercando di cogliere qualche filo di paglia: Filomena, allora, reggendo la lunga cavezza di corda con una mano, con l’altra schioccava la frusta.
Anselmo ammucchiava con la pala di legno il grano trebbiato, pronto per lanciarlo poi alla brezza.
Il mese di giugno non sarebbe bastato, senza altre braccia più valide. E i pomodori e i meloni, a valle, attendevano le zappe, già infestati di gramigne.
La radio, l’unica del paese, fu installata sul balconcino del Municipio. Il podestà don Achille diede ordine all’elettricista di aggiungere un altoparlante da appendere fuori, sul muro sotto la finestra, perché si udisse in tutta la piazza.
Quelli dell’aia - lo spiazzo diserbato spianato, in cima al paese - furono i primi a sentire il gracchiare della radio che trasmetteva inni patriottici. I canti e la musica non suonavano a festa: le parole, in una lingua quasi sconosciuta; il ritmo, estraneo e freddo; toccavano soltanto l’orecchio.
I ragazzi stavano giù, nelle ultime case, addossati al muro bianco del camposanto, a giocare a fossetta, con le palline del sambuco. Agli squilli rochi si guardarono senza parlare.
Corsero a sfida. Arrivarono in piazza tutti insieme; solo due tre piccolini, reggendosi con la mano i pantaloni senza bretelle, con l’ombelico nero su uno spicchio di pancia in su e in giù per il gran correre.
Giovanni, la guardia campestre, si era messo il berretto con la visiera e si era messo sull’attenti sotto l’altoparlante, sordo al frastuono della radio a tutto volume, indifferente agli sberleffi dei ragazzi i quali scimmiottavano il suo saluto alla militare.
Efisio, il messo comunale, rientrò dal terzo giro in paese, aia compresa: «Ordine del podestà! Tutti alla piazza! Notizie importanti alla radio!».
Nuras, con i suoi trecentoventi abitanti, possedeva un magnifico monumento ai caduti, tutto di cemento bianco, con una lapide di marmo alla base, su cui erano incisi otto nomi. I nuresi riconoscevano i loro morti, pur senza saperli leggere, dal disegno dalla grafia e, meglio ancora, dalla posizione, dopo esserseli fatti indicare un paio di volte dal prete, il primo: Gesuino… il secondo: Francesco… il quinto: Attilio…
Ma il tempo e i monelli avevano finito per cancellare molte lettere e gli anziani non campavano a lungo con le milze gonfie di malaria e gli arti aggranchiti dai reumi buscati nelle paludi.
Eppure i nuresi erano tutt’altro che un popolo di guerriglieri.
Gli unici terribili nemici che ogni anno tentavano di combattere erano le piogge invernali eccessive e le brinate; le lunghe siccità primaverili e le cavallette.
Durante le piogge, correvano tutti a rinforzare i muretti sul pendio del colle per trattenere la poca terra rimasta nei terrapieni. Si consolavano, rientrando la sera, con sacchetti e barattoli colmi di lumache da arrostire sulle braci.
Durante la siccità, esauriti i pozzi, bestemmiavano in piazza, con la faccia alta adirata verso il cielo sfocato che si riempiva di polvere gialla anziché di nuvole. Poi, con le donne avanti, andavano a chiedere la funzione e la processione, invocando Santa Barbara e San Jacopo: «Bosus teneis is crais de Xelu…».
Le guerre dei ragazzi non erano più cruente. Rinnovavano le fionde alla prima lucertola apparsa sui sassi, ai primi pigolii sui rami rinverditi. Un palmo di camera d’aria di bicicletta diveniva allora preziosa merce di scambio. La sera, a frotte, rientravano con le prede verdi e marron pendenti da uno spago legato intorno alla vita.
D’estate, all’imbrunire, vociavano, agitando le canne, per abbattere i pipistrelli. Quei figli del demonio andavano bruciati, raccomandavano le vecchie. Era uno spasso, vederli contorcersi, i diavoli, fra le fiamme del fuocherello allestito in strada.
Don Achille, podestà segretario del Fascio, padrone dei boschi sulla collina e delle paludi a valle, disponeva e ordinava dal suo palazzotto e dal Comune, arroccati sul terrapieno della piazza. Casa e comune, già da tempo, comunicavano con una porta: precisamente il salotto con l’aula consiliare. L’idea era stata del padre di don Achille, il Cavalier Ferdinando, il quale, ai suoi tempi, era stato, pure lui, podestà.
Pochi i pascoli e pochi i pastori. Duecento pecore e quindici vacche in tutto, che don Achille aveva affidate, divise in tre greggi, a tre famiglie onorate e laboriose.
Le donne, gettato lo scialle nero sulle spalle, si erano raccolte in piazza coi ragazzi.
I vecchi guardavano da lontano, seduti ancora sul terrapieno del sagrato, masticando con gengive senza denti.
Gli uomini e le fanciulle, nell’aia, incitavano i cavalli al girotondo; scrutavano a tratti il cielo senza un filo di vento; s’asciugavano col braccio il sudore del volto; bevevano un sorso dalla fiasca tenuta al fresco dietro un sasso.
Don Achille apparve nel riquadro della finestra del Comune. Alle sue spalle si intravedevano la sagoma del messo e quella più scura del prete, don Gesumino.
L’altoparlante smise di suonare inni patriottici. Ci fu una pausa piena di fruscii, urla in dissolvenza, silenzi. Una voce cupa s’udì di colpo tuonare. La guardia, sotto l’altoparlante s’irrigidì sull’attenti. L’Italia, anche Nuras, aveva dichiarato guerra ai popoli plutocratici.
La voce tacque. Ripresero gli inni patriottici. Don Achille abbassò il volume della radio, si sporse sul davanzale: «Nuras farà onore alla patria!». Disse. «I nostri figli», proseguì additando il monumento ai caduti, «si copriranno, come in passato, di gloria!». Alzò la mano tesa nel saluto: «L’avvenire è fulgido e radioso! Vinceremo!». Alle sue spalle si mosse la tonaca nera in un gesto benedicente.
Le donne si inginocchiarono e si segnarono. I ragazzi batterono le mani.
I vecchi s’informavano dalla prima donna che passò loro davanti.
«La guerra? E con chi dobbiamo farla?». Si chiedevano senza sapersi rispondere, ruminando cicche di sigaro e antichi assilli, cospargendo di saliva gialla la polvere ai loro piedi.
Giulio, lasciato un momento il cavallo di Anselmo, era sceso in paese per informarsi.
«La guerra! C’è la guerra!». Riferì rientrando. E riprese a trebbiare il suo mucchio di fave.
«La guerra? E per che cosa?». Si passavano la stessa domanda l’un l’altro.
«La radio e don Achille hanno detto che c’è la guerra».
«La guerra, la guerra…». Brontolarono gli uomini, incitando al lavoro le bestie. Ripresero a sollevare gli occhi al cielo: «Maledetto vento, che stasera non si decide a soffiare!».
Le fanciulle portavano le bluse aperte sul petto, zuppe di sudore. Con gesto continuo passavano la mano sulla pelle per liberarla dalle reste fastidiose. Sentivano le ginocchia, il grembo, farsi dolci per la stanchezza… Venticinque, ne erano partiti, in sei mesi, a far il soldato…
La notte stessa, il paese fu scosso da un cupo boato. Matteo, il guardiano dell’aia, vide in basso un lampo illuminare violentemente i tetti, le tegole rosse e i sassi grigi. Non si mosse, perché non poteva muoversi; il grano, a parte la carestia, non si lascia incustodito neppure un minuto. Si protese nello strapiombo, finché apparvero i riquadri illuminati.
Le donne avevano spalancato le finestre passandosi la voce l’una con l’altra.
Gli uomini e i ragazzi sgusciarono dai sacchi e dalle stuoie e scesero in strada, dirigendosi verso il chiarore di incendio che proveniva dalla piazza.
Romualdo, il sacrista, che dormiva nella cappella del Sacro Cuore, s’era attaccato alla fune della campana. Ma non ce ne fu alcun bisogno…
La gente, arrivata in piazza, si fermò.
Al chiarore pallido della notte, sempre più nitido man mano che il pulviscolo calcareo si dissolveva apparve ciò che restava dell’edificio comunale: quattro muri neri sbrecciati del piano terreno dentro i quali erano ammucchiate le macerie sbriciolate del piano superiore.
La casa del podestà era rimasta miracolosamente in piedi, col muro comune aperto da una breccia grande da passarci due carri a buoi.
Don Achille, in pigiama, stralunato, guardava ora le macerie, ora la breccia di casa sua. La signora Concetta e i suoi tre marmocchi singhiozzavano spauriti tremanti accoccolati sui gradini, con don Gesuino accanto a rincuorarli.
Giovanni, la guardia campestre, arrivò di corsa, affibbiandosi il cinturone della giacca kaki; si avvicinò a don Achille, gli baciò la mano, salì sulle macerie mormorando con voce da spiritato: «Che disgrazia, che disgrazia…».
Le carte dell’Anagrafe ravvivarono l’incendio. Bruciarono per qualche minuto, rischiarando i volti degli uomini fermi impassibili a distanza in semicerchio compatto e i volti dei ragazzi insonnoliti cisposi, seduti accosciati per terra.
Si rifece penombra. Don Achille, agitando larghe le braccia, si volse agli uomini, imprecando, minacciando:
«Maledetti! Maledetti tutti! Le ossa in galera vi farò marcire!…».
Nessuno aprì bocca; nessuno ebbe un gesto. Senza un commento, senza neppure guardarsi in faccia, se ne tornarono alle loro case, seguiti dai ragazzi e si riaddormentarono sulle stuoie calde di cenere, sotto gli stracci.

Le ostilità a Nuras erano così iniziate: il mattino presto, all’alba, giunsero due camion di carabinieri per piantonare il paese.


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