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L’ALLUVIONE

Piovve tanto che si ruppero gli argini e mezzo paese si allagò.
Un’ira di Dio come quella non si era più vista dal ‘17 - dicevano i vecchi - dai tempi della grande guerra di Cadorna.
Le acque erano piombate a valle ingrossando le paludi che non poterono contenerle senza alcun canale a mare; di notte, improvvisamente, la marea irruppe per le strade, raggiunse gli usci, entrò nelle case e nei cortili.
Di primo mattino, Antonio se ne stava appoggiato al muro di casa, fumando una sigaretta, curiosando nel via vai dei vicini che sgombravano carichi di materassi, pentole, santini e altre suppellettili.
Una frotta di ragazzini, con i calzoni rimboccati, guazzava nell’acqua torbida, a mollo fino alle cosce, armata di fiocine di canna appuntita, tentava il fondo in cerca di carpe.
Un trattore mandato dal comune sostava nel punto alto. Un barchino raccoglieva le donne e i bambini in basso, li trasportava sul carrello, accatastati con le masserizie per essere avviati ai locali dell’asilo infantile.
A mezza strada, Rina con un comodino a spalla s’era sollevata la gonna per percorrere il tratto dell’uscio di casa fino al carretto.
«Mica male!», fischiò Antonio, accennando con un gesto alle gambe.
Lei stizzita lasciò ricadere la gonna.
«E brava!», sogghignò lui, «per fare dispetto a me rovini panorama e salute...».
«Faresti bene a dare una mano al tuo prossimo, fannullone.», lo apostrofò lei.
«A un prossimo come te, anche tutte e due gliele darei, le mani!», disse Antonio gettando la cicca nell’acqua che ormai era giunta a un passo dalla soglia di casa sua. «Che vada in malora!», aveva pensato, «quattro stuoie, tre scanni e un tavolo.». E si infilò deciso giù per la strada allagata, senza neppure rimboccarsi i calzoni, avanzando con un suo caratteristico ondeggiare del busto, a braccia aperte come per tenersi in equilibrio.
«Allegro, zio Andrea! Finché c’è vita c’è speranza!», disse entrando nella camera da letto.
Zio Andrea lo guardò cupo. Sul letto, tre marmocchi giocavano saltando sopra la rete metallica a fior d’acqua. Un tavolino galleggiava capovolto. Zia Assunta staccava i santini dalle pareti e baciandoli a uno a uno li riponeva dentro una corbella.
«Adesso avete finito il gioco, se non vi dispiace; ché dobbiamo smontare il letto.». Antonio prese i bambini in un fascio sottobraccio e li caricò sopra il carretto. «E fate da bravi con il cavallo, ché quello tira calci.»
Il letto s’era arrugginito e non veniva fuori dalle sponde. «Chissà dove si è cacciato il martello!». Si dovette rimediare con un sasso preso sopra la tettoia.
«Il gatto! Abbiamo dimenticato il gatto...». Cercava Rina guardandosi attorno.
«Il gatto, il gatto... se la cava bene anche da solo, lui.». Lo trovarono in cortile, sui rami alti del fico, tranquillo pacifico, osservando sotto di sé l’insolito mare grigio sporco.
«Anche voi all’Asilo!». Ordinò la guardia che trafficava con gli stivaloni alle cosce e con un foglio di carta rosa nelle mani. E il carretto si mosse.
«E smettetela con questo muso da funerale! Tanto paga il Comune...». Li incoraggiò Antonio.
«Già... paga tutto il Comune...». Borbottò zio Andrea.
«Sia fatta la volontà di Dio!». Mormorò zia Assunta.
Rina gli strinse la mano con una occhiata dolce, salutandolo.

Antonio trovò gli amici all’osteria, piena di gente come nel giorno della festa di Sant’Isidoro.
Nell’angolo illuminato della finestrella che dava sul cortile cementato sedevano a bere Giovanni, Pepino e Raffaele.
«E’ così che vi passate la povera vita!». Li salutò ironico sedendosi in cima alla panca.
«E tu, se hai molta voglia di lavorare, perché non vai a spietrare?». Rispose pronto Raffaele, porgendogli una tazza traboccante di vino nero.
«Alla salute! Però, se invece di piovere acqua, quel cornuto...».
Pepino scosse la testa. «Si, scherzate, parlate... ragliate... fregati siamo! Quest’anno mangeremo fango e berremo acqua sporca.».
«E ti guasti il sangue prima dell’ora?». Antonio lo guardò con aria di compatimento. «Famiglia ne abbiamo tutti; e chi non ha moglie e figli, ha vecchi...».
«E debiti. Di quelli ne abbiamo tutti davvero.», aggiunse Giovanni, il meno ciarliero della compagnia.
«Giusto, non dico di no. Ma che cosa ci si guadagna a piangerci su?». Riprese Antonio versando da bere. «Ecco, a me potete parlare della miglior cosa, di Dio, di Filosofia... Io vi risponderò sempre: Falli fottere e beviamoci sopra! Io sono fatto così.». Levò il bicchiere colmo; attese di bere con gli altri. «Salute! Tanto le corna dalla testa non ce le leviamo con i piagnistei.».
La nipote di Anselmo, il padrone della bettola, aveva il suo daffare, poverina, per accudire tutti i litri e i mezzi litri di nero, di bianco e di vernaccia che si andavano vuotando. Rispondeva come poteva a tutti: «Vengo subito.», o «Ci ho due mani sole.» o «Mica sono a elettrico.», e tentava di districarsi alla meglio nella calca fra certe strusciate basse a tradimento, «Figlia non ne ha?»; «Le mani in terra!...»; «A tua madre fallo!».
«Filomena! a letto un’ora appena...», la chiamò facendo la rima Antonio, «non lo vedi che fuori piove e dentro siamo all’asciutto?».
Gli altri guardarono allarmati fuori dalla finestrella.
«Vai all’inferno!». Brontolò Giovanni. «Ci mancherebbe, che piovesse ancora! Ma lo sai che ho l’acqua a un palmo dalla porta di casa?! Tocco ferro, tocco...». E si infilò una mano in tasca, facendo gli scongiuri.
«Ma non era tua moglie, l’altra sera, che seminava basilico e garofani?». Osservò Antonio ironico, prendendo al volo il mezzo litro di vernaccia dalle mani di Filomena e allungandole intanto una lisciatina nel sedere, «Beh, adesso sarà contenta, che non le tocca innaffiare.».
Tacquero, bevendo. Giunsero alle loro orecchie le chiacchiere dal tavolo vicino.
«Dio non ha nessuna stima di noi...». diceva un vecchio, in tono lamentoso, pettinandosi con le dita la barba bianca sporca di tabacco fin sotto il mento.
«Destino nostro é quello di soffrire...». Diceva un altro.
Antonio si levò in piedi, recitando grottescamente la parte dello scandalizzato: «Ma guarda un po’ che adesso si fanno le prediche anche all’osteria! Dai, usciamo fuori a respirare, amici, qui dentro c’è puzza di m...».
Gli altri non si mossero, interessati al discorso del vecchio, che aveva ripreso a parlare.
«Se mi arriva l’acqua dentro casa, questa volta faccio una pazzia!». Esplose d’un tratto Giovanni, torvo, fissando allucinato il pavimento.
«E con chi te la vuoi prendere?». Sbottò Pepino. «Con chi te la vuoi prendere? Con il Padre Eterno? Fai come fanno a Bosa: quando piove lasciano piovere...».

Alcuni uomini, poi un gruppo di ragazzi passarono di corsa in strada.
«Dev’essere successo qualche cosa...». disse Raffaele.
«Andiamo a vedere», si alzò Antonio, dirigendosi verso l’uscita. Gli altri seguirono.
Fuori, videro gente avviarsi a frotta verso la via Regina Margherita, una delle strade allagate.
Fermarono un ragazzo. «E cosa è stato?».
«Come, cos’è stato!? Si sposa Ignazia Serra, oggi...».
Sopra il terrapieno che dominava la piazzetta allagata, uomini e donne si accalcavano davanti al parapetto per vedere i barchini che si erano radunati davanti a casa Serra. Vi sedevano i parenti e gli invitati, vestiti a festa; i giovani, in piedi, manovravano i remi. Il barchino più grande, addobbato con tappeti e rami di menta e malvarosa, attendeva gli sposi, infilato per metà con la poppa nell’andito.
Quando Ignazia Serra, portata a braccia dai fratelli, mise piede sul natante, dove l’attendeva lo sposo, la folla si sporse in avanti per veder meglio.
“Buona fortuna e buona sorte!” Si agitò augurando una donnetta, in bilico sopra il davanzale di una finestra; ma, perso l’equilibrio, scivolò nell’acqua sottostante, con le gonne che si erano aperte a ruota.
«Attenta zia», l’apostrofò un giovanotto che calzava stivali di gomma, avvicinandosi per aiutarla a venir fuori, «se no oggi facciamo matrimonio e funerale insieme».
La barca degli sposi con il seguito di natanti si diresse remando verso la zona alta affiorante. La gente agitava le mani salutando, lanciando grano, sale e parole di buon augurio.
«Già l’avevi detto si’ che andavi a Venezia in viaggio di nozze!». Gridò Antonio allo sposo, quando gli passò a tiro. «Più Venezia di cosi’!... e ci risparmi un mucchio di soldi, fortunato».
«Vai a farti fottere!», rispose quello, tutto stretto soffocato dentro la giacca di panno blu da cerimonia. «E ringrazia che sono in grazia di Dio, altrimenti ti rispondevo per le rime».
«Annata di acqua, annata di figli!». Gli gridò ancora Antonio, burlando.
«Toh», replicò lo sposo tenendo il braccio col pugno chiuso e battendoci sopra l’altra mano con foga. La sposa si raccolse pudica sotto lo scialle. Gli uomini sghignazzarono divertiti.
«Beh, la festa è finita... Concluse Raffaele avviandosi.
In un angolo di strada si fermarono al tavolo delle noccioline e dei ceci brustoliti. Se ne fecero versare in tasca un misurino per ciascuno.
Passeggiando e sgranocchiando, arrivarono sulla strada delle paludi: una banchina gettata sull’acqua.
C’era il maestro, uscito con gli scolari a scampagnare, che diceva: «Ecco, guardate li’ in fondo: quella è una penisola e quell’altra un’isola e quell’altro ancora un istmo...».
    A destra e a sinistra le campagne apparivano sommerse; a tratti si vedeva qualche lingua di terra, qualche chioma di olivo, qualche cresta di siepe di ficodindia.
«Buongiorno, maestro!», salutarono.
«Ma perché non li mette a pescare, quegli sfaticati?! Con una lenza a ciascuno, si farebbe un bel pranzetto di anguille». Osservò Antonio.
Il maestro fece finta di non averlo udito, continuando a indottrinare i ragazzi con la sua voce monotona: «Ci sono alte e basse pressioni atmosferiche...».
«Che superbia! Neanche se fosse della razza di don Pepino!». Borbottò Antonio, mentre raccoglieva un sasso per lanciarlo a un cagnetto che se ne stava ai margini della strada, fiutando i fatti suoi fra le erbacce. «Centrato!». Esclamò compiaciuto.
Alcune gocce pesanti cominciarono a cadere nel grigiore che, riempito tutto il cielo fino all’orizzonte, sostava cupo immobile. Quasi a passo di corsa, ritornarono all’osteria.

Era ormai mezzogiorno e nella sala c’era rimasta poca gente. Filomena, seduta dietro il bancone, riposava sfogliando fumetti.
«Accidenti, si è già fatta ora di pranzo.», avvertì Giovanni dopo aver dato un’occhiata all’orologio di latta appeso dietro il banco, tra gli scaffali e le bottiglie.
«Eh, per me… all’una, vorrei trovarne di roba da mangiare! Se non mangio fune di giunco, oggi… Ci sono rimasti solo i muri, a casa… Se pure ci sono ancora, con più di un metro di acqua.», brontolò Pepino.
«Siete grandi per niente.», intervenne un ragazzino che girava tra i tavoli raccogliendo mozziconi di sigaretta, «Io so dove si può trovare roba da mangiare, e roba di prima qualità, anche…».
«Passa via!», lo minacciarono allungando i piedi, «Roba da mangiare tu?! Passa via!».
«Che cosa mi date, se vi dico dove?». Insistette il ragazzo senza disarmare.
«Passa via!». Ripeterono indignati.
«E’ vero… c’è andato anche babbo con la carriola… dalla parte dell’argine rotto. Un bue intero, vi dico!».
«Passa via, ti abbiamo detto.», lo cacciò Antonio; e per farsi sentire meglio gli allungò una pedata, alzandosi per metà dalla panca.

L’asino di Raffaele meriggiava sotto la tettoia, nel cortile dietro casa; sul davanti stava la carretta rattoppata, con le stanghe in alto.
«Intanto che tu prepari l’asino, noi gettiamo qualcosa in corpo.», decise Antonio andando dritto al canterano in cucina. Aprì lo sportello, trovò e prese una insalatiera con olive dolci, un mezzo pane e un pezzo di formaggio marcio. Giovanni scovò una damigiana di vinello e si affrettò a riempirne un boccale.
«Bisogna muoversi, prima che se ne accorga tutto il paese.», suggerì Antonio ficcandosi in bocca una manciata di olive e risputandone i semi per terra, in direzione del camino.
Gli altri assentirono accennando col capo, masticando pane e formaggio.
«L’asino è pronto.», li informò di lì a poco Raffaele, apparso sull’uscio con l’animale bardato, trattenuto per la cavezza.
Antonio squadrò l’animale con sufficienza. «Ma cosa diavolo gli dai da mangiare a quella povera creatura? Padre Nostri e Ave Marie?», chiese con sarcasmo.
L’altro si adombrò: «Perché?», disse, «Non ti sembra tenuto bene, forse?».
«Beh, per essere tenuto bene, non dico di no. Ma sembra deboluccio… mi sembra un santo in penitenza.».
Gli altri risero divertiti. Raffaele parve offendersi. Avanzò con l’asino fino a metà cucina, facendolo voltare a destra e a manca. «Guardatelo bene, il mio bestiolo! Non è mica di quelli che si arrendono a mezza salita, lui! Piccolo sì, ma…», diede una manata sulla groppa, «… è di quelli che hanno biscotto in saccoccia!».
«Se è di quelli, la benedizione in casa non ti manca di certo!». Ghignò Antonio, suscitando nuova ilarità.
Raffaele alzò la voce, irritato: «Senti, l’asino mio tu non lo devi disprezzare… Se proprio lo vuoi sapere, questo è asino della razza di quelli di don Pepino! Puoi chiedere, se vuoi.».
«Basta così, allora: mi levo il cappello!». S’inchinò ironico Antonio. E per chiudere la discussione, aggiunse: «Ci porterà fortuna, allora. Un bue a casa ci portiamo, stavolta.».
Attaccato al carretto, fu deciso di far partire Raffaele da solo. Gli altri, alla spicciolata, avrebbero fatto un’altra strada - per non dare nell’occhio.

Si trovarono un’ora dopo nei pressi dell’argine rotto. Sulla terra e sui sassi vi erano tracce di sangue e rimasugli d’interiora e solchi di una ruota.
«Qualcuno ha già fatto buona pesca.», osservarono non senza una punta d’invidia.
L’acqua torbida correva gorgogliando attraverso la breccia aperta nell’argine, riversandosi nelle terre basse a sud del paese. La liquida distesa grigia era a tratti rotta da qualche ciuffo di verde, da qualche striscia di terra affiorante. Stormi di cornacchie gracchiavano disputandosi un posto in cima ai rami spogli di un fico enorme. Ammassi di falaschi e canne, misti a rottami di ogni genere, qualche tronco d’albero sradicato, viaggiavano sul filo della corrente, che appariva più veloce dov’era prima l’alveo del fiume.
«Lo conoscete bene il posto?». Chiese Pepino, rimboccandosi i calzoni fino alle cosce. «Se no, qui, ci tocca nuotare.».
«Da questa parte è basso di sicuro.», gli rispose Raffaele, armato di una lunga pertica con un arpione legato in cima, mentre si avventurava nell’acqua, in direzione di un filare di ficodindia a metà nascosto.
Gli altri gli andarono dietro, guardinghi.
«Qui siamo nell’orto di zio Raimondo Ogheddu… non li sentite i cavoli sotto i piedi?».
«Cavoli e ravanelli.», disse Antonio, «ma che ce ne frega adesso della verdura? La pietanza dobbiamo trovare, adesso.».
Avanzando cauti, tastando il terreno con le pertiche, si divisero due da un lato e due dall’altro della siepe.
«Attenzione, lì c’è qualcosa!». Diede l’allarme Raffaele, accostandosi a un groviglio di sterpi galleggianti, impigliatisi tra le pale spinose del ficodindia, dove si intravedeva una gibbosità dal pelame rossiccio.
Appena furono a tiro, allungarono le pertiche rostrate.
«Merda! Un cane rognoso! Già l’hai trovata la pentola dei marenghi!», si indignarono delusi contro Raffaele, sputando rumorosamente.
Fu soltanto due ore dopo - intanto, per ingannare l’attesa, uno si era tuffato a raccogliere cavoli - che videro una massa galleggiante apparire sul filo della corrente, avvicinarsi, descrivere un ampio cerchio, fermarsi infine, impigliata con altri rottami, tra i rami di un olmo distante cento metri.
«Questa volta ci siamo.», si dissero giulivi.
«Ci siamo un corno! E chi ci arriva fin lì? In quel punto non c’è meno di tre metri d’acqua.», osservò Raffaele, sfreddando gli entusiasmi.
I loro volti si rabbuiarono, e ristettero come annichiliti.
«Gente di poco sale!», li scosse Antonio. «Vai al carretto, tu, che il diavolo ti porti, e passami la fune, che vi faccio vedere io!». E così dicendo si toglieva rapidamente di dosso la giacca, i pantaloni e la camicia, fino a restare in mutande. Prese la fune e l’arrotolò, mettendosela a bandoliera, tra spalla e ascella, dirigendosi quindi, senza esitazione, in direzione della carcassa.
Quando l’acqua gli giunse alla cintola, si gettò a nuoto.
«Attento alla corrente.», gli gridarono.
«Preparate il fuoco, piuttosto.», rispose lui, senza diminuire il ritmo sostenuto delle bracciate.
Qualche minuto più tardi, a cavalcioni sui rami affioranti dell’olmo, fece con le braccia un gesto di richiamo. «Roba di prima categoria!», gridò. «Mi faccio tagliare quelle cose se ha più di un anno! Roba scicche!». Fece un nodo scorsoio alla fune, lo passò e lo strinse attorno a una zampa, diede alcuni strattoni, fino a rimuovere la carogna dall’incaglio. Quindi si ributtò in acqua.
Nuotò con un braccio, tirandosi dietro la preda con la fune, incoraggiato dalle urla di entusiasmo dei compagni, che si erano fatti incontro saltellando giulivi.
Squartando la bestia, ributtarono nell’acqua il ventrame e la pelle, posero i quarti sul fondo del carretto e li mascherarono accuratamente con frasche di mirto e di lentisco.
«Un cavallino novello!», gongolava fregandosi le mani Antonio, piroettando dinanzi alla fiamma d’un fuocherello che i compagni avevano acceso perché si asciugasse. «Stanotte faremo baldoria, alla faccia di chi ci vuole male.».

In casa di Antonio, indipendentemente dall’alluvione, mancava la corrente elettrica. Caricarono d’acqua e di carburo la lampada, l’accesero e l’appesero al gancio di fil di ferro che pendeva da una trave del soffitto, in cucina.
Di fuori, l’acqua saliva di livello, infilandosi tra la porta e la soglia dell’ingresso. La pozza si allargava dall’uscio verso la camera da letto, sulla destra, e la cucina, a sinistra. Dalle imposte socchiuse baluginava l’ultima luce del giorno.
Avevano scelto di proposito la casa di Antonio. Là, nessuno li avrebbe disturbati. I vicini erano tutti sfollati fin dalla mattina, chi dai parenti nella zona alta e chi all’Asilo, dalle suore.
Raffaele era uscito per riportare l’asino e per fare un giro in paese in cerca di pane.
Pepino si occupava della legna. Due cortili più avanti, sopra una tettoia di pali, scovò un mucchio di fascine di cisto. In due viaggi ne scaricò sette o otto sul pavimento, davanti al camino.
Antonio tagliava la carne e la infilava negli spiedi, spruzzandola coscienziosamente di sale fino.
Giovanni si sfiatava ad accendere il fuoco con una manciata di paglia umida. «Neanche un pezzetto di carta, in questa maledetta baracca! Già non sembra lo studio del rettore, malapasca lo colga!, tutto pieno di libri, asciugandosi con il braccio gli occhi lacrimosi per il fumo.
«Certo che l’attrezzatura non gli manca. Perfino nel cesso ce n’ha. E’ una razza con il sedere delicato, quella dei preti… usa sempre carta, e di quella fina…», intervenne Antonio.
Stesero tutte le stuoie sul pavimento, vi si sdraiarono, sospiranti soddisfatti.
«Questa sì che è vita.», bofonchiò Pepino.
«Attento, porco Giuda! ché il fuoco è troppo vispo!», urlò Antonio. E Raffaele allontanò parte della legna con l’attizzatoio.
A suo tempo controllarono la cottura, tagliando bocconi con il coltello e assaggiando. Al terzo controllo, Antonio disse: «Proprio a puntino.», e tolto dai mattoni lo spiedo, lo mise a punta in giù ,sopra l’angolo più pulito della stuoia e ne fece scivolare la carne.
La pioggia ritornò. La udirono crepitare fitta, piacevolmente sulle tegole del tetto.
«Musica, maestro!», esclamò Pepino di buon umore; sollevandosi sbilenco su di una mano accompagnò il tambureggiare della pioggia con alcuni suoi rombanti rumori.
«Bella educazione!». Lo redarguì scherzosamente Antonio, «Portato vuoi in luogo di signori!».
«Al diavolo i signori! Cosa ti credi, che sono puliti come sembrano, i signori? Passa via, i signori…».
Alle undici finirono il vino, ma restava ancora mezzo cavallo - più o meno.
«Con tutta questa grazia di Dio… e la festa è finita.».
Disse costernato Giovanni, capovolgendo il fiasco significativamente. «Io sono una creatura fatta così: il mangiare mi va tutto in veleno, se non ci metto sopra due dita di vino purché sia.».
«A chi lo dici!?», fece eco un altro, «Io devo averci disturbo di stomaco: la roba senza vino mi torna in gola.».
«Beh, forse non ci crederete… A me l’acqua fa venire gli svenimenti.».
«Eh, si, dicevano bene gli antichi: acqua ai fiori e vino ai cristiani!».
«Dai, dai, le chiacchiere sono belle ma lunghe.», intervenne decisamente Antonio, «ma qui bisogna fare qualcosa.». Poi, guardando Raffaele fisso negli occhi, disse: «Tu sei un amico, non è vero?».
«Amico? Come no!? Ho portato anche l’asino…».
«L’asino non si beve… per quello che me ne importa te lo puoi portare anche a letto.», intervenne Pepino che aveva capito dove Antonio andava a parare il colpo.
«Tu adesso», rincalzò Antonio, «Raffaele mio, sei di quelli che con una scusa salutano gli amici, ciao buona notte, si chiudono soli soletti in casa loro e si ubriacano di nascosto…».
«Già, proprio come faceva il canonico Rosas, per non farsi vedere dalla gente, chiuso in sacrestia… Dopo, usciva in piazza di chiesa, a rimettere, davanti alla gente.», intervenne Giovanni.
«Ah, sei di quelli! Svergognato! Razza di amico che abbiamo!», spalleggiò gli altri Pepino.
Dopo la sceneggiata, i tre tacquero mostrando una faccia tra l’indignata e l’addolorata.
Raffaele sconcertato strusciò il sedere sulla stuoia.
«Alla buon’ora! Ti stai alzando, dunque!… E dai, muoviti, ancora qui sei?», lo sollecitò Antonio dandogli una spinta d’incoraggiamento.
Raffaele si diresse titubante verso la porta di uscita. I suoi piedi enormi scalzi si fermarono, stropicciarono indecisi nell’acqua che arrivava dall’ingresso.
«Non vorrai conservarla per Pasqua, quella mezza damigiana che tieni dietro il comò!».
«Ma se è già aceto… Cammina!».
«E muoviti!… Non sei ancora tornato?».
Mezz’ora dopo Raffaele ricomparve con la damigiana a spalle. I tre si alzarono dalla stuoia e corsero a sgravarlo dal peso. «E quanto diavolo ci hai messo a tornare!».
Raffaele, pur sollevato dal peso, se ne stava immobile sull’uscio della cucina, con la faccia stralunata.
«E allora? Ti è scesa paralisi?”. Gli chiesero mentre sturavano la damigiana e riempivano il boccale.
Pepino gettò una mezza fascina per ravvivare il fuoco. La stanza si illuminò di una luce violenta, rossastra.
«Guarda che fermi così ne sono morti altri», lo apostrofò Antonio, seccato.
«Si può sapere che ti ha preso?», gli si avvicinò Pepino mostrandosi preoccupato.
Raffaele aprì finalmente la bocca. Muovendo un passo in avanti, mormorò: «Giù in paese ne sono cadute cinque… In una c’è rimasto Antioco… Antioco Su Puxi, con il ragazzo. Era tornato a ritirare un po’ di roba… Li hanno portati via poco fa… Li ho anche visti, sopra un carro, c’erano il prete e l’appuntato…».
Chinarono il capo, muti.
«Antioco, quel tonto!», ruppe il silenzio Pepino, picchiando un pugno rabbioso sulla stuoia, «la fine del tonto… Per salvare che cosa? I pidocchi…».
«Un uomo grande come lui!», sbottò appresso Giovanni, stringendo i pugni, «Fidarsi così… per farsi fottere dai muri di terra!»
Lasciamo perdere adesso: la cosa fatta è più forte del ferro. Ognuno ha il suo destino. Beviamo, adesso… e tenete il fuoco vispo.», disse Antonio, ma la sua voce che voleva essere spavalda suonò incerta.
Raffaele continuava a starsene fermo impalato vicino all’uscio, coi piedi nella pozza d’acqua che si allargava a dismisura.
«Ah, ma allora non è finita! Tu ci vuoi proprio rovinare la festa! Sputa fuori tutto, su, che altro ci hai in corpo?»lo aggredì quasi urlando Antonio.
«Ho sentito il bando…», mormorò l’altro.
I tre lo guardarono stupefatti: «Il bando?».
«Sì, il bando del sindaco. Dice di andare tutti, di correre tutti, con picconi e con pale e con carriole, dice di aprire un canale a mare, per salvare il paese…»
Antonio sbottò in una risata stridula: «Avete sentito?… Il bando!… Per salvare il paese!… Adesso vuol fare il canale… adesso, adesso che sono morti cristiani! Adesso, che se lo scavi lui, adesso, il canale. Noi terre non ne abbiamo… e neppure case… E che sono case, quelle che abbiamo? Abbiamo da mangiare, adesso, e anche da bere, abbiamo, noi, adesso, no?… E allora, mangiamo e beviamo!… Siediti, Raffaele, siediti… che aspetti? siediti!… E al diavolo il sindaco… Fin tanto che dura l’alluvione, la roba da mangiare non ci mancherà. Che ci frega di tutto il resto?».
Gettarono un’altra fascina al fuoco e rimisero in caldo l’arrosto.
L’acqua, superato l’ingresso, avanzava sul pavimento della cucina, fino a lambire le stuoie.


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