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CONSIDERAZIONI SUL MILITARISMO

Per finire, vorrei fare alcuni considerazioni sul militarismo.
Si sta diffondendo il principio secondo cui un conflitto tra due o più stati, con armi convenzionali e geograficamente limitato, non è la guerra: riservando I'uso di questo termine a conflitti generalizzati, come quelli del '14 -'18 e del '39-'45. Da qui l'idea, che contagia un po' tutti - forse anche sostenuta da inconscio desiderio - che dal 1945 il mondo sta vivendo un lungo periodo di pace. E questa pace - sottolineano i governanti - la stiamo godendo grazie agli eserciti e alle armi, che bisogna potenziare sempre più, giusto il principio di quei ladroni che furono gli antichi romani: «Si vis pacem para bellum».
In verità, mai pace fu più armata e giù guerreggiata di questa che stiamo vivendo. In 36 anni, dal 1945 al 1981 - secondo le statistiche - si sono avuti nel mondo oltre duecento conflitti e centocinquanta sanguinosi colpi di stato, per un totale di 25 milioni di morti e oltre 100 milioni di feriti. E in questi ultimi due anni assistiamo a un rialzo delle attività belliche - dal conflitto anglo-argentino per le Falkland a quello tra iraniani e iracheni; dal Ciad al Libano, a El Salvador, al Nicaragua, all'Afghanistan, fino allo sbarco dei marines USA a Grenada. Per non parlare di quel sempre più diffuso fenomeno di criminalità politica, detto terrorismo, organizzato su schemi militari, che svolge vere e proprie azioni di guerra. E qui, per inciso, va detto che a mio avviso la diffusione del terrorismo non è da considerarsi semplicisticamente «rivolta delle classi oppresse», ma più precisamente atti di guerra non dichiarata tra potenze rivali, per destabilizzarsi l'un I'altra. Insomma, un modo neppure tanto nuovo, di portare lo scompiglio in casa d'altri, quando non anche in «casa propria», con il terrore delle stragi.
Un così gran numero di conflitti, sia pure geograficamente limitati, ha comportato danni immensi alla economia dei paesi belligeranti; e nel contempo ha portato ingenti profitti ai paesi produttori e trafficanti di armi. Il commercio delle armi nel mondo è stato valutato nel 1980 intorno ai centomila milioni di dollari all'anno. Stati Uniti e Unione Sovietica sono i maggiori produttori di armi; essi hanno quindi tratto i maggiori profitti da queste guerre e da queste stragi - oltre ad avere avuto I'opportunità di sperimentare «sul vivo» nuovi sistemi di armi e nuove strategie belliche. Dal canto suo, l'Italia dell'inflazione e della disoccupazione risulta essere una delle nazioni maggiormente impegnate nel traffico di armi: è al quinto posto nella graduatoria dei paesi cosiddetti «civili».
Quale pace, dunque, stiamo vivendo, sta vivendo il mondo, se ogni anno si producono e si vendono e si usano ben 100 mila milioni di dollari di armi? Produrre armi significa fare guerre, assassinare. E' ovvio che una guerra non può farsi senza armi. E dunque, per raggiungere la pace è necessario smantellare le industrie belliche, é necessario il disarmo. Questa è la prima considerazione che emerge dal semplice buonsenso.
L'esistenza di eserciti, di forze armate, di armamenti, di strategie belliche vengono giustificati dal potere degli stati come necessari alla difesa territoriale delle nazioni, al mantenimento dell'ordine interno, in definitiva per conservare la pace. Una pace armata e guerreggiata come quella attuale è una falsa pace. Io credo in una pace senza armi, in una pace pacifica. Se vogliamo la pace dobbiamo preparare la pace.

Che cosa sono e a cosa servono gli eserciti? Quali sono i legami tra il militarismo e il potere?
Partiamo da un primo dato di fatto. In tutti gli stati - qualunque sia l'ideologia cui dicono di ispirarsi, fascista, democratica, marxista - lo sviluppo scientifico e tecnologico della società civile è sempre dipendente da quello della organizzazione militare. I ritrovati della ricerca scientifica trovano sempre un impiego privilegiato nell'arte della guerra. Per fare un esempio, lo sfruttamento dell'energia nucleare ha trovato impiego prima nelle bombe di Hiroshima e Nagasaki, poi nella propulsione di mezzi da guerra, e soltanto dopo come fonte energetica per uso civile. Voglio dire che, in effetti, l'attuale modello di civiltà (nel senso di progresso civile) appare ed è la risultante dello sviluppo della organizzazione, della scienza, della tecnologia e della filosofia del militarismo.
Sarebbe utile, a mio avviso, fermare la nostra attenzione su questa ultima affermazione, per renderci conto fino a che punto i principi e le norme che regolano la nostra vita sociale, perfino quella affettiva, siano principi e norme ripresi o imposti dalla ideologia del militarismo. L'assunzione dell'individuo in ruoli, la divisione di compiti in dirigenti ed esecutivi, la gerarchizzazione e l'autoritarismo, le sanzioni disciplinari e le «promozioni sul campo» sono aspetti di una sostanza militare presente in tutte le istituzioni pubbliche e private: partito, sindacato, scuola, famiglia, posto di lavoro di ricreazione. Ci ritroviamo così, in ogni momento della nostra vita, irreggimentati e intruppati, perennemente «sul piede di guerra», uomo contro uomo, sesso contro sesso, giovani contro adulti, ceto contro ceto, comunità contro comunità.
Questa è, comunque, una prima constatazione di fatto: che i principi e le norme della organizzazione militare tendono sempre a  imporsi su quelli della organizzazione civile. Ne consegue, e possiamo facilmente constatarlo, che la cosiddetta crescita civile dei popoli è una falsa crescita: una crescita basata sullo scontro, sulla violenza, sulla rapina: una crescita mostruosa che allontana sempre più l'umanità dalla naturale e libera realizzazione di sé.
Vediamo ora un secondo dato di fatto: in ogni stato, in ogni nazione, borghese, marxista o scopertamente fascista, la funzione delle forze armate è sempre la stessa: una funzione duplice ma unica nella sostanza. Primo: conservare e rafforzare il potere all'interno mediante istituzioni coercitive e violente, leggi tribunali galere, per la  repressione delle opposizioni popolari; secondo: estendere il potere all'esterno, mediante ricatti economici, guerriglie e terrorismo, fino alle guerre e alle occupazioni coloniali, per l'assoggettamento e lo sfruttamento di altri popoli.
Queste due funzioni del militarismo, all'interno e all'esterno del proprio paese, si esplicano con gli stessi mezzi e strumenti, diversamente dosati: la violenza delle armi e il ricatto economico; ma perseguono gli stessi scopi: l'assoggettamento e lo sfruttamento dell'uomo, la rapina e lo sfruttamento del patrimonio naturale, il monopolio della scienza e della tecnica e lo sfruttamento degli strumenti di produzione e dei mercati.
Oggi come ieri, come sempre, tutti gli eserciti non hanno il compito di difendere integrità territoriali, di difendere civiltà occidentali o orientali o di difendere valori democratici o socialisti: queste sono panzane per tentare di giustificare le stragi, le carneficine, per convincere i popoli a scannarsi tra loro. La verità è che tutti gli eserciti e tutte le istituzioni armate hanno lo scopo di conservare sistemi di potere basati sul privilegio di pochi e sullo sfruttamento di molti. Hanno lo scopo di reprimere le giuste lotte di liberazione degli oppressi; hanno lo scopo di assassinare i popoli che non si sottomettono, che resistono.
In qualunque latitudine si trovino, di qualunque colore politico si rivestano, i blocchi militari perpetuano la logica della violenza per conservare sistemi oppressivi; e sono sempre una minaccia per la pace, per la fratellanza, per la libertà, per il progresso dei popoli. Sempre e dovunque le forze armate, eserciti e polizie, tendono ad affermare l'uso delle armi come mezzo di confronto politico, economico, ideologico tra stato e stato, tra stato e cittadini. C'è ancora chi parla di eserciti «buoni», di eserciti «popolari», di eserciti «pacifici». La verità è che il concetto di guerra è e non può che essere consustanziale, strutturalmente connesso a ogni istituzione armata, a ogni istituzione creata e addestrata appunto per fare la guerra.
Io credo che dobbiamo rifiutare come falsa e mistificatrice la distinzione che si tende a fare tra eserciti «buoni» ed eserciti «cattivi», tra eserciti «democratici» ed eserciti «fascisti», tra eserciti «borghesi» ed eserciti «popolari». Questa distinzione serve in fin dei conti come copertura alla esistenza e alla legittimazione delle istituzioni armate - che in quanto tali sono sempre violente e fasciste, anche in quei paesi che si dichiarano «democratici» o «socialisti», perché sono sempre a guardia del privilegio dei padroni del potere, qualunque divisa indossino.
Questa distinzione è una manovra della consorteria al potere per far credere al popolo che gli eserciti si possono «democratizzare». Si vuol far credere che gli eserciti sono una «forza stabilizzante», di dissuasione, e perciò sono necessari per garantire la pace, e quindi «sono buoni». Si vuol far credere cioè che se le armi, le polizie, le galere, gli eserciti sono «democratici» (e magari «sindacalizzati») allora il popolo li sente amici, fraternizza, e magari è anche felice di farsi massacrare.
Personalmente non arrivo a capire che cosa può mai voler significare la «democratizzazione» di una istituzione di per sé violenta, una istituzione concepita, organizzata e addestrata per la distruzione, per l'assassinio di massa. Forse che un esercito democratico massacra democraticamente i popoli nemici, a differenza di un esercito fascista? Chi massacra più democraticamente il capitalismo USA o I'imperialismo sovietico? E che differenza può farci a noi, a noi popolo, l'essere massacrati, in caso di guerra, da una atomica proletaria anziché da una atomica borghese?
Se siamo veramente uomini di pace - veri cristiani o veri socialisti o veri libertari - dobbiamo dire no a tutti gli eserciti e a tutte le armi. Dobbiamo rifiutare ogni forma di violenza - e non tanto e non soltanto condannare la violenza che viene dal basso, l'unica che abbia una sua legittimità nel bisogno di liberazione, ma anche e soprattutto la violenza che viene dal potere, dagli eserciti, dalle polizie, dalle galere, dalle leggi, dallo sfruttamento dei padroni.

Esaminiamo brevemente un terzo dato di fatto: con lo sviluppo della scienza e della tecnica, e con la sempre maggiore coscienza assunta dagli oppressi, il potere ha creato, per conservarsi ed estendersi, eserciti sempre più efficienti e ha prodotto armamenti sempre più distruttivi. Questo processo di ammodernamento delle forze armate comporta immense somme di denaro, immense energie di lavoro umano sottratte ad usi di pace, di autentico progresso. Comporta per il popolo immensi sacrifici, più sfruttamento e più fame.
Certamente esiste un rapporto di causa ed effetto tra le ingenti spese militari e le crisi economiche che travagliano le nazioni. Esiste un rapporto tra lo sperpero in armi e il sottosviluppo, la fame diffusi in due terzi del mondo. Di questo gli economisti del potere non parlano. Ripetono la solfa del deficit nella bilancia dei pagamenti con l'estero; dicono che noi importiamo più di quanto non esportiamo; che consumiamo più di quanto produciamo; e concludono con i soliti ammonimenti al cittadino che lavora: fare più sacrifici.
Questi stessi economisti, facendo i conti in tasca al lavoratore, dimenticano del tutto di fare un qualsiasi riferimento alle somme favolose che lo stato italiano - che, essi stessi dicono, «non ha calzoni sotto il culo» - spende per le forze armate, spende per dotare l'esercito degli armamenti più moderni e micidiali. Eppure, si sa, anche in fatto di armi, non siamo certo autosufficienti. Dobbiamo continuamente «aggiornarci» importando armi dall'estero, dagli Stati Uniti perlopiù, che appunto hanno costituito l'Alleanza anche per assicurarsi un mercato redditizio. L'acquisto di armi per miliardi di dollari all'estero, non incide sulla bilancia dei pagamenti almeno quanto la bistecca?
A questo punto, la gente non può non chiedersi perché mai lo stato italiano, per ridurre il deficit della spesa pubblica, anziché aumentare le tasse e il costo della vita, anziché contrarre i salari e i consumi popolari, non diminuisca invece le spese militari, non riduca le voci in bilancio e fuori bilancio relative agli armamenti, che costano davvero un occhio della testa - e che diventano inutili dopo qualche anno, superati da nuovi e più distruttivi ritrovati.
Gli economisti del sistema fanno lo stesso discorso furbesco del «signori della guerra»: danno per scontato che le forze armate siano «un servizio pubblico» di prima necessità. Un servizio, cioè, di cui fruirebbe il popolo. E in base al mercantile principio del «servizio pubblico sempre efficiente», le spese per le forze armate sono in continuo aumento; e chi paga, ovviamente, è il popolo che ne fruisce. Tra parentesi. Definire le forze armate «servizio civile» sconfina nel grottesco. Considerato che gli eserciti servono per fare la guerra, cioè per massacrare i popoli, mi sembra quantomeno strano che siano gli stessi popoli a doversi pagare i boia e gli strumenti del proprio massacro - così come si paga per l'assistenza sanitaria o per la pensione. E' allucinante pensare che lo stato ci fa pagare il «diritto alla morte» molto più caro del «diritto alla vita»; se è vero, come è vero, che spende miliardi in armi da guerra e non spende una lira per salvare le vite umane dalla fame e dalle malattie.
Quanto spende il popolo italiano per mantenere in piedi sempre più efficiente la macchina bellica?
In Italia, dai 352 miliardi del 1950 si è passati ai 770 miliardi  nel 1960; si è arrivati a 1.510 miliardi nel 1970 e si sono toccati i  7.500 miliardi nel 1980. L'incidenza delle spese «ordinarie» per la cosiddetta difesa è mediamente del 15 per cento delle spese pubbliche dello stato. Ma non è dato sapere a quanto ammontano le spese «straordinarie» - bisogna sapere che il bilancio della difesa gode di un particolarissimo privilegio, tra tutti i bilanci dello stato: può essere soggetto a variazioni compensative anche dopo la sua approvazione, senza altri provvedimenti legislativi, semplicemente con un decreto del ministro del tesoro su proposta del ministro della guerra... pardon, della difesa.
Quando si dice che gli eserciti, la loro esistenza e il loro mantenimento, sono la causa principale del sottosviluppo e della fame nel mondo, si afferma una verità fondata su dati di fatto. Si prenda, ad  esempio, la spesa governativa degli Stati Uniti per la Ricerca e lo Sviluppo. In milioni di dollari, al Dipartimento della difesa vanno ben 8.184; alla NASA, l'Ente spaziale di carattere preminentemente bellico, vanno altri 4.495 milioni di dollari; mentre alla Salute,  Educazione e Benessere appena 1239 e infine allo Sviluppo urbano e abitazioni soltanto 20. Questi dati sulla spesa per la sola ricerca (che sono riferiti al 1970) seguono uguale indirizzo anno per anno, con le debite proporzioni in crescendo - negli USA e nei paesi membri dell'Alleanza. E per analogia, nei bilanci dell'Unione Sovietica e dei paesi del Patto di Varsavia. Questi dati dimostrano, più di ogni altra tesi, le immense energie e ricchezze sottratte all'umanità, per gettarle sull'altare della potenza militare.
Il problema della fame nel mondo è principalmente una questione di scelte politiche: la spesa globale per mantenere in piedi le forze armate nel mondo é sufficiente ad alimentare una popolazione terrestre tre volte superiore a quella attuale.
Il fatto che si mette in evidenza il dissennato sperpero di capitali e di energie, non vuole significare che eserciti e armamenti siano da abolire perché troppo costosi. Io non ne voglio fare una semplice questione di risparmio - come già fanno i politici fiancheggiatori del militarismo, quelli che gesuiticamente sostengono che gli eserciti (e quindi le guerre) sono un «male necessario».
C'è soltanto una cosa su cui il militarismo non si preoccupa di risparmiare: la vita umana. Noi crediamo al contrario che la vita è l'unico patrimonio che vale la pena conservare e difendere. Perciò, quando si parla del militarismo è necessario specificare che aldilà dei costi economici che pure comportano all'umanità immensi sacrifici, ci sono ben più alti costi in vite umane nei casi di conflitti armati. E bisogna essere dissennati per non capire che finché ci saranno armi nucleari sarà possibile una guerra nucleare.
Io credo che se questa civiltà, se questo progresso devono passare attraverso la degradazione dell'uomo e del suo ambiente naturale, allora noi dobbiamo dire che questa civiltà e questo progresso sono falsi e dannosi e dobbiamo rifiutarli e combatterli nella misura in cui ci danneggiano.
Più specificatamente, la fisica nucleare ci pone davanti al tragico dilemma da cui non si sfugge: o fidarci ciecamente fino a lasciarci uccidere da essa; oppure rinunciarvi nella misura in cui diventa mortale. Per questo io credo e dico che quando la scienza, come quella attuale, asservita al potere, perde la sua ragione di essere, che è quella di conservare e potenziare la vita, e diventa fonte di distruzione e di morte, allora è una scienza da rifiutare, è una scienza da combattere.

Concludendo, non posso non accennare, sia pure brevemente, a una domanda che sicuramente verrà posta in questo convegno: che cosa fare contro gli armamenti, contro la guerra, per la pace nel mondo, per un mondo migliore?
Io credo che in primo luogo la gente deve sapere. Conoscere per capire, prendere coscienza, mobilitarsi, lottare. Dobbiamo mobilitarci tutti, uomini e donne, vecchi e bambini, a tutti i livelli, in tutti i paesi del mondo, con tutti i mezzi. Il nostro diritto alla vita deve essere la ragione della nostra unità e della nostra lotta. Nessuna diversità ideologica deve dividerci all'interno di una unica ideologia: l'antimilitarismo. Noi popolo, noi umanità contro i signori della guerra e contro il potere che essi sostengono.
Il primo obiettivo di una lotta unitaria è il disarmo unilaterale; perché ciascun popolo deve iniziare da sé, a disarmare, nel proprio territorio, senza alcuna condizione. Soltanto così si può giungere al disarmo universale.
Io non ho formule di lotta da indicare come risolutive; credo che quando il popolo raggiunge coscienza e maturità sa egli trovare da sé la giusta forma di lotta per giungere alla propria liberazione. Credo comunque che nessuna forma di lotta si possa aprioristicamente escludere, quando il fine da raggiungere è quello di salvare I'umanità dalla distruzione.
Personalmente, oggi come oggi, privilegio l'azione culturale a quella strettamente politica. Voglio dire che ritengo che il metodo più efficace di lotta contro la violenza del potere, per la liberazione dell'uomo, sia «culturale»: favorire cioè nell'uomo oppresso e sfruttato il processo di conoscenza e di presa di coscienza della propria situazione, favorendo lo spirito associativo, il mutualismo, la fratellanza, lo spirito critico.
Se ci riconosciamo come oppressi, non siamo mai soli. Tanti sono gli uomini e le donne che credono nella pace e possono battersi con noi per un mondo nuovo. Tutti i popoli del mondo vogliono la pace e sia pure in forme confuse si battono per la pace. La verità é che questi popoli sono così oppressi, così affamati, così gravati dalle catene del bisogno da non riuscire a informarsi o a organizzarsi o a levarsi in piedi e muoversi tutti insieme. Ma chi sa e ha capito e ha forza di levarsi in piedi, si levi e si batta per l'unico scopo per cui vale la pena battersi: la sopravvivenza dell'umanità.

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