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Capitolo X - La riforma tradita

1 - «L'opera di riforma in Italia è stata inaugurata con legge 12 maggio 1950, n. 230, contenente provvedimenti per la colonizzazione dell'Altopiano della Sila e dei territori jonici contermini, con "il compito di provvedere alla ridistribuzione della proprietà terriera e alla sua conseguente trasformazione con lo scopo di ricavarne i terreni da concedersi in proprietà ai contadini…". La legge stralcio (legge 21 ottobre 1950, n. 841) - norme per la espropriazione, bonifica, trasformazione ed assegnazione di terreni a contadini - si richiama alla predetta legge, salvo alcune deroghe espressamente previste. La determinazione dei territori doveva essere fatta dal governo centrale entro il 30 giugno 1951, sentite le amministrazioni regionali ove costituite. L'art. 2 contiene la delega al governo per la istituzione di enti e di sezioni speciali degli enti di colonizzazione e di trasformazione fondiaria, non ché dell'ente autonomo del Flumendosa. Il ministro dell'agricoltura e delle foreste esercita la vigilanza sugli enti e ne coordina le funzioni e i compiti. Le norme per l'istituzione dell'ente per la trasformazione fondiaria ed agraria in Sardegna sono state emanate ai sensi dell'art. 2 della legge succitata, con decreto presidenziale 27 aprile 1951 n. 265. All'art. 3 è prevista la delega all'assessore all'agricoltura della Regione sarda delle funzioni di vigilanza e di coordinamento» (Dalla relazione della Commissione di inchiesta sull’ETFAS istituita dal parlamento regionale – in “Sassari Sera” del 1° novembre 1969.

In alcune aree regionali «sottosviluppate», sulla scia della colonizzazione fascista, il governo clericale vara la legge di riforma agraria, e con un programma - mai realizzato - che avrebbe dovuto interessare 742 mila ettari da espropriare da colonizzare (i terreni più ingrati del territorio), vengono costituiti i seguenti enti: il Delta Padano, il Maremma Tosco-laziale, l'Opera colonizzazione Sila in Calabria e Lucania, l'ERAS in Sicilia e l'ETFAS e il Flumendosa in Sardegna.
Nella nostra Isola l'Ente di riforma avrebbe dovuto operare in tutto il territorio; sennonché, per la presenza di un altro carrozzone di sottogoverno (l'Ente Flumendosa), venne escluso dal territorio di 27 comuni, da lasciare alle cure di una «sezione speciale», appositamente creata dal governo, all'interno dell'Ente per il Flumendosa.
L'operazione riforma agraria - che ricorda da vicino gli interventi riformistici della borghesia sabauda - ha una duplice faccia. Una, demagogica e falsamente progressista, che si riallaccia alle vecchie strutture e tecniche della colonizzazione agraria sabauda e fascista, riprendendo le opere di bonifica varate da Mussolini dopo il 1926. Un'altra faccia, politica, che consente al padronato agricolo e alla classe politica che ha dato il via al nuovo regime democristiano, di creare centri di potere e di controllo elettorale con un mastodontico carrozzone di sottogoverno.
I risultati della operazione erano scontati e sono noti. Si è imposto al contadino, «beneficiato» con terreni di infima categoria, il pagamento in toto delle spese, più gli interessi, gli sperperi e i parassiti, di una riforma truffaldina. Si è così indebitato il contadino, lo si è rovinato e costretto a una drammatica emigrazione. Si è gravato sullo Stato e sulla Regione, e quindi sul contribuente, per mettere in piedi e conservare il più grosso apparato clientelare e parassitario dell'Isola.
Varati i piani di esproprio - una pioggia di denaro per i proprietari terrieri, i quali dietro lauti indennizzi si liberavano dei loro terreni infruttuosi e una vera e propria truffa ai danni del contadino, al quale si addossava un patrimonio passivo - i primi decreti sono della primavera del 1952; quindi seguono nuovi decreti e le immissioni in possesso nel dicembre dello stesso anoi e nel gennaio del 1963.
L'ETFAS si poneva i seguenti obiettivi:
- economicità delle nuove aziende contadine;
- creazione di nuove comunità modernamente concepite nelle quali l'elevazione sociale e morale delle famiglie sia facilitata da condizioni di razionalità;
- massimo sviluppo degli impianti industriali per la trasformazione e lavorazione dei prodotti agricoli;
- inquadramento dei piani di colonizzazione in visioni più ampie che tengano conto delle necessità e delle possibilità di sviluppo di più vaste zone territoriali.
Tali obiettivi si sarebbero dovuti raggiungere col «Piano decennale». Sono passati quarant’anni e l'economia agricola isolana è in sfacelo. Si può sostenere, a cuor sereno, che l'ETFAS non soltanto ha mancato gli obiettivi che si poneva, ma ha contribuito in modo rilevante alla crisi fino alla degradazione della agricoltura.

Del fallimento dell'Ente di riforma cominciavano a parlare perfino gli storiografi del sistema già nel 1967, addebitando le responsabilità ai Sardi e non al malgoverno.

«A questa crisi (dell'agricoltura) non ha rimediato neppure la politica, attuata nell'immediato dopoguerra, della riforma agraria e della trasformazione fondiaria, perseguita in Sardegna dall'ETFAS… L'agricoltura moderna e razionale, a colture fortemente specializzate, accompagnata dal progresso della zootecnica (sviluppatasi negli ultimi anni con un confortante rovesciamento delle tendenze tradizionali, sicché il patrimonio bovino ha ripreso a crescere rapidamente, mentre si contrae leggermente quello ovino), sembra oggi l'unica capace di sopravvivere in Sardegna; ma anch'essa deve affrontare problemi di reddito e di manodopera tutt'altro che facili da risolvere, non meno che quelli inerenti alla formazione delle "intese" fra i vari proprietari dei terreni (in Sardegna la proprietà fondiaria si presenta ancora particolarmente frammentata) e vincere anche qui, i due più grossi ostacoli posti allo sviluppo dell'Isola dalla psicologia sarda: la paura del rischio imprenditoriale e la scarsa vocazione cooperativistica o, in genere, alla solidarietà» (Aa. Vv. – La società in Sardegna nei secoli – 1967).

Si riconosce il fallimento della politica dell'Ente di riforma ma si tacciono le cause di questo fallimento, che pure sono arcinote e tutte relative alla criminosa gestione del carrozzone che ha sperperato miliardi e ha incentivato nell'Isola il malcostume. Si attribuisce la responsabilità della crisi della agricoltura all'eccessivo frazionamento della terra (che nel caso dell'Ente di riforma non ha niente a che vedere in quanto esso opera su terreni espropriati, circa 70.000 ettari, accorpati e poi divisi in poderi e distribuiti a 3.500 contadini) e più in particolare a un dato caratteriale del sardo, «la paura del rischio imprenditoriale» e «la scarsa vocazione cooperativistica e solidaristica».
La mancanza di spirito imprenditoriale (di tipo capitalistico) in un popolo colonizzato e da secoli oppresso e sfruttato è un meccanismo psico-sociale di difesa, è un dato intelligente: è in parole povere il frutto di lunghe esperienze e riflessioni che portano a una precisa scelta: quella di non farsi fottere; inoltre, lo spirito imprenditoriale è necessariamente legato al possesso di un capitale: ora, il contadino sardo, depauperato da un processo di colonizzazione permanente, non è mai riuscito a costituire altro capitale se non quello a malapena sufficiente a sfamarsi.
Il secondo pregiudizio - la scarsa vocazione cooperativistica e solidaristica - è tout court un falso idiota, se appena si conosce la storia della gente sarda. Ancora oggi - in un'era storica che ha distrutto ogni valore mutualistico e che ha sempre più alienato e disumanizzato - nelle nostre comunità agricole e pastorali l'aiutarsi tra povera gente è ancora una regola fondamentale di vita. Esiste un forte e radicato spirito mutualistico fra i membri della comunità di cui si hanno quotidianamente esempi nell'uso degli strumenti di lavoro (che non vengono mai negati a chi li chiede per lavorare), nei prestiti di legna o di pane fatti senza alcun interesse, anzi senza che ne sia dovuta la restituzione, nella costruzione collettiva della casa, nelle sottoscrizioni per rifondere qualcuno di un danno patito, e così via. Altro esempio ci viene dalla creazione in Sardegna di numerose cooperative agricole, che sono sopravvissute lottando tenacemente contro ogni difficoltà obiettiva e contro ogni politica disgregatrice dell'ETFAS, del padronato e del governo.
Ma il giudizio più cinico e distorto è quello relativo al «confortante rovesciamento» delle tendenze tradizionali, per cui il patrimonio ovino si contrae. Si dà per scontato che il progresso dell'agricoltura sarda sia legato alla estinzione della pecora e alla trasformazione del pastore barbaricino in moderno allevatore di bovini. A questo punto, l'economia va a farsi benedire: ciò che interessa è il calcolo politico, è la eliminazione di un gruppo etnico come quello barbaricino, la distruzione di una cultura resistente al colonialismo. L'autore del brano in esame, pur di assecondare la tesi del padrone, che vuole associare, l'arretratezza al permanere della economia pastorale barbaricina, neppure si cura delle contraddizioni in cui cade, dopo aver scritto:
«…la aleatorietà e la scarsità di redditi agricoli scoraggiano le giovani generazioni, mettendo così in crisi la stessa conduzione delle imprese di tipo tradizionale, mentre più omogeneo appare ancora il mondo della civiltà pastorale, più chiuso e più refrattario a subire le suggestioni della civiltà moderna, e ancora capace di offrire, pur nelle anacronistiche usanze di lavoro e di vita, che lo contraddistinguono, guadagni relativamente soddisfacenti» (Aa. Vv. – La società in Sardegna nei secoli – 1967)..

Se gli storiografi del sistema vogliono trovare alibi per giustificare in qualche modo il fallimento della riforma agraria e fondiaria nell'Isola farebbero meglio a inventare altro che lo scarso spirito cooperativistico del contadino sardo. La storia del movimento cooperativistico contadino rappresenta una delle pagine più dense e gloriose nella storia delle lotte di liberazione del popolo sardo, e non consentirò a nessun utile idiota di intellettuale di negarla. Possono documentarsi mille esempi di come i braccianti agricoli abbiano saputo unirsi tra loro, costituire decine di cooperative, strappando con le unghie e con i denti la terra da coltivare e il pane a una natura ingrata e difficile, a un padronato gretto e ingordo, a un governo espressione del privilegio di classe, alla violenza poliziesca, ai raggiri della commissione per le terre incolte e dei tribunali, alla invasione dei militari che sottraevano loro la terra conquistata col sangue.

2 - «Ci eravamo riuniti in casa di M. alla periferia del paese, quella notte del 1° aprile 1950, tutti braccianti della cooperativa A. Gramsci. Avevamo deciso di occupare le terre delle paludi che per legge dovevano esserci assegnate dalla Commissione di Cagliari e che i tribunali con gli avvocati dei proprietari ci rifiutavano sempre» - . Testimonia R. un vecchio bracciante che ha partecipato nel movimento cooperativistico alla occupazione delle terre a Pauli Arbarei. - «Eravamo almeno trenta, quella notte, riuniti nella cucina di M. Parlavamo a bassa voce, per non svegliare i bambini che dormivano nel solaio e anche perché le parole nostre non arrivassero alle orecchie di qualche spia. Sapevamo ormai, per esperienza nostra e di altri braccianti, che i padroni mandavano camions di carabinieri per scacciarci dalle terre e che qualche volta era accaduto che per sbaglio fossero state esplose fucilate. Perciò bisognava preparare il piano con cura e con cautela. Se si riusciva a dissodare e a seminare il campo prima dell'arrivo della forza pubblica, si era automaticamente proprietari del raccolto, in base alle leggi di allora».
«Quella sera del 2 aprile 1950 - prosegue C. un altro bracciante - erano arrivati due camions di carabinieri, e ne avevano arrestati quattordici. Io ero uno di quelli. Tre notti a Buoncammino, ho fatto, io, che povero sì, ma il disonore della prigione non lo avevo mai avuto! In quel tempo, nella cooperativa, avevamo 80 ettari di terra ed eravamo 55 soci, tutti con famiglia: quasi la metà del paese. E tra un sacrificio e un altro, tra un tribunale e una prigione, abbiamo tirato avanti abbastanza bene. Poi è venuta la crisi dell'agricoltura. Il costo della vita è aumentato, raddoppiato, triplicato. Le terre si sono viziate col concime, e se non ne hanno, grano non ne danno. E noi ci troviamo con un amo ben conficcato in gola, perché il prezzo del prodotto è sempre lo stesso. Non abbiamo potuto neppure salvarci con colture nuove e più redditizie, magari con il vigneto, perché i padroni delle terre che la cooperativa ha in affitto non permettono nessuna trasformazione nel loro fondo, e noi, senza la loro autorizzazione, non possiamo fare niente. Stanno aspettando che noi le lasciamo per riprendersele loro, le terre. E ci sono ormai quasi riusciti: ci siamo ridotti a soli 16 soci, tutti vecchi e malandati».
«Dei 60 ettari che ha attualmente la cooperativa, 28 sono di proprietà della chiesa - testimonia N. C. consigliere dell'Antonio Gramsci -. Una sera, don Sideri, il parroco, mi manda a chiamare e mi dice che il segretario di Sua Eccellenza il Vescovo vuole parlare a tutti quelli della cooperativa. Io ho risposto: - Non è obbligo, ma dovere nostro venire. E ci siamo andati. Il segretario di Sua Eccellenza ha cominciato col chiederci come si chiamasse la cooperativa. – “Antonio Gramsci” - abbiamo risposto. Lui ha fatto la faccia storta: - Antonio Gramsci? Eh, eh! - ha detto - Eh, ma non lo sapete che nome è Antonio Gramsci?… Era un sardo, questo sì, ed era anche delle vostre parti, ma un poco di buono era, senza timore di Dio; un vagabondo era; uno che andava in giro a imbrogliare il prossimo ignorante come voi. E se voi foste in grado di capire da soli, spalanchereste la porta e lo buttereste fuori, questo nome! - Ha detto tutto adirato. Noi allora gli abbiamo chiesto: - E che nome dovevamo dare, allora, alla nostra cooperativa? - Come, che nome? - ha detto lui - Perché non Sant'Isidoro, che è anche il vostro Santo protettore?… - Il suo scopo, e quello del parroco, lo abbiamo capito subito: era quello di farci sciogliere la cooperativa e di farci aderire alla Coltivatori Diretti di Bonomi. In quella riunione eravamo 21. Soltanto 2 erano pencolanti, e c'erano cascati alla fine: - Facciamo come dice il segretario di Sua Eccellenza - avevano detto - ognuno prende il suo pezzo di terra per conto proprio ed entriamo nella Coltivatori Diretti senza perdere nulla, né assegno familiare né altro. Io ero diventato verde. Mi sono alzato in piedi, allora, e ho sputato in sardo tutto il fiele che ci avevo dentro, ché se non lo sputavo, scoppiavo: - Noi siamo arrivati a quel poco dove siamo arrivati con lotta e sacrificio - ho detto. Quando noi eravamo a guerreggiare nelle paludi quel due aprile, e ci avevano legati e presi come delinquenti, lei don Sideri, si godeva lo spettacolo dal campanile guardando coi binocoli. Se lo ricordi, che noi abbiamo fatto pane dal 1945 ad oggi, per noi e per quelli di fuori, e anche per lei e per il vescovo. L'abbiamo fatto con sudore, sacrificio e prigione, per colpa di quelli che non vogliono che noi tiriamo la testa fuori dal sacco. Lei è un ministro di Dio: aveva il dovere di aiutare noi, i poveri, e non i ricchi. Il nome di Antonio Gramsci non le piace? Che cos'è un nome? Un nome non può mai far male a nessuno. Ma non è Antonio Gramsci che non le piace: sono i 55 soci della cooperativa che non le piacciono! - »…
La cooperativa Antonio Gramsci di Pauli Arbarei, costituita nell'immediato dopoguerra, ha dimostrato la validità di una lotta unitaria di una comunità agricola per l'amministrazione comune della terra. Dalla amministrazione della terra, i Paulesi sono passati alla amministrazione del Comune; hanno tentato poi con successo la costituzione di una cooperativa di consumo, scavalcando i profitti del rivenditore. Si sono trovati davanti ostacoli immensi, superiori alle loro forze. Innanzi tutto, una situazione culturale disastrosa… Poi, funzionari di ogni calibro, anche nella stessa Commissione per le terre incolte, che avevano, a loro tempo, sostenuto nei tribunali, nonostante le messi alte e rigogliose, che le terre occupate dai cooperatori erano improduttive e andavano rese ai proprietari. Ancora, i padroni delle terre, in particolare la parrocchia e per essa il vescovo di Ales, proibendo qualunque trasformazione fondiaria, qualunque impianto di colture più redditizie, quale la vite. E infine, il menefreghismo, il cinismo o la incapacità delle autorità regionali e nazionali con le loro leggi demagogiche che favoriscono soltanto chi già possiede e con il fiscalismo più gretto e con gli interventi paternalistici, quando non di sperpero e di corruzione. Come insegna l'ETFAS, che stimola nel nostro contadino non la coscienza cooperativistica e comunitaria, ma il peggior senso - quasi che ce ne fosse bisogno! - del possesso e dell'individualismo più deteriore, come fa quando divulga nei pulpiti, nelle scuole e nei campi questa preghiera dell'assegnatario: «Gesù mio, ti ringrazio per avermi dato questo pezzo di terra, che ora è mio e solamente mio» - (Da un’inchiesta dell’autore in “Sardegna Oggi” n. 25 del 1963).

Se soltanto una parte dei miliardi regalati all'ETFAS e sperperati in folli intraprese e intrallazzi di ogni genere fossero andati a sostenere le cooperative agricole, la situazione economica e sociale dell'Isola sarebbe ben diversa. E si potrebbe anche dire - come è stato detto da numerosi cooperatori - che in mancanza di una politica cooperativistica da parte dei governi centrale e regionale le cose sarebbero ugualmente andate meglio se le cooperative fossero state ignorate, si fossero lasciate in pace. E' il caso delle cooperative agricole del Salto di Quirra, nell'Ogliastra, dove, contro ogni difficoltà naturale e contro l'assenteismo e il malvolere del potere politico, il movimento cooperativistico ha creato una serie di imprese e di strutture sufficienti a garantire un lavoro dignitoso per centinaia di lavoratori agricoli - fino all'arrivo nell'Isola dei generali della NATO, che hanno deciso di impiantare in quella zona le loro basi missilistiche scacciandone i cooperatori.
Da quel 1957 a oggi, la zona è diventata un deserto. I cooperatori sono in gran parte emigrati, andando a impinguare i profitti dei capitalisti del MEC. Sono rimasti i vecchi, le donne e i bambini, e quei pochi che neppure la fame e la disperazione riescono a strappare dalla terra dei loro padri.
Si evidenzia così la natura truffaldina e rapinatrice del sistema. La riforma agraria, varata non a caso dal latifondista Segni, ha per scopo di scoraggiare e di frantumare il movimento cooperativistico maturo e cresciuto con le lotte per la occupazione delle terre incolte nel dopoguerra, e di creare una nuova struttura di potere e di controllo politico nel settore, divenuto esplosivo per la presenza di masse bracciantili sempre più coscienti e combattive.
In altre parole, il sistema agisce su due fronti, apparentemente indipendenti ma strettamente correlati a uno stesso fine: da un lato crea un mastodontico apparato burocratico (l'ETFAS) e lo foraggia con miliardi che vanno a finire non si sa dove; poi espropria le terre al suono delle fanfare democratiche e con le benedizioni vescovili ai morti di fame, facendo loro mille promesse di assistenza e di incentivazioni, lasciandoli poi soli a dannarsi con una terra povera e col pagamento delle spese di acquisto, di trasformazione dei terreni e di tutto l'apparato parassitario. Da un altro lato, dove il bracciante si organizza in cooperativa e riesce a vivere dignitosamente e a creare vere e solide strutture economiche democratiche, lì interviene per frenare, disgregare, distruggere: rifiutando ogni assistenza, ogni incentivazione - anche ciò che è un diritto in virtù di legge e che in virtù della stessa legge non si denega al latifondista - e come soluzione finale insedia nelle terre appena redente dal lavoro della cooperazione le basi militari, scacciandone il contadino, distruggendo le cooperative.

3 - La cattiva amministrazione dell'Ente di riforma in Sardegna è diventata proverbiale. E passerà alla storia del malcostume insieme a quella dei governatori spagnoli e dei viceré sabaudi. Questa che segue è una mini-antologia di cronaca nera sull'ETFAS.

«Sardegna Oggi», n. 30, 1963: «La terra senza alba».
«Il villaggio agricolo di Arborea è nato nel 1929 al centro di una vasta zona paludosa e malarica. Sfruttando un progetto di bonifica del socialista terralbese Felice Porcella e già in atto con «l'Ente per la Bonifica della Piana di Terralba e Adiacenze», il fascismo porta avanti con grande impiego di uomini e di mezzi la colossale trasformazione fondiaria e agraria. Il mandato pionieristico viene affidato dal fascismo agli stessi capitalisti che colonizzano l'Isola in altri settori: nelle miniere, nelle banche, nella Società Elettrica Sarda, nelle Ferrovie, nelle industrie casearie. Nasce la Società Bonifiche Sarde, società per azioni, che lavora con i contributi largamente concessi dal governo fascista. La SBS fa la bonifica attingendo al serbatoio di morti di fame. Una impresa faraonica: spianare, livellare, aprire canali, impiantare forestali - senza mezzi meccanici, con pala e piccone; trasformare fondiarmente una superficie vasta venti chilometri per dieci, sotto il tormento di una miriade di insetti ematofagi, con la malaria che avvelena, che spossa, che uccide. Alla massa dei braccianti sardi, in maggioranza del comune di Terralba cui appartengono i terreni, viene assicurato che finita la bonifica essi ne godranno i benefici: riceveranno le terre redente, lottizzate, e le coltiveranno in qualità di mezzadri. Ma nel '29, a bonifica finita, i braccianti sardi - i sopravvissuti - vengono licenziati e a Mussolinia (così verrà chiamata la zona bonificata in onore del duce) vengono trapiantate famiglie di coloni veneti e romagnoli. Caduto il fascismo e nato l'ETFAS, Mussolinia viene ribattezzata col nome di Arborea: i padroni della Società Bonifiche Sarde, che hanno accumulato milioni sfruttando prima il bracciantato sardo e poi i coloni veneti e non hanno speso una lira in opere di bonifica, vengono indennizzati dallo Stato per le terre espropriate (cedono all'Ente di riforma, però, soltanto le terre, e mantengono la proprietà degli impianti industriali, i caseifici, la Società 3-A, e centinaia di ettari di forestali di eucalipti, pioppi e pini).
Arborea parrebbe un grazioso villaggio agricolo modello; e ci si stupisce nell'apprendere che l'ETFAS, almeno dove la riforma si era già fatta nel suo aspetto tecnico, non abbia saputo nemmeno conservarla, che le fattorie si stiano spopolando, che le gramigne stiano invadendo i campi, che le stalle siano deserte da quando se ne stanno andando gli assegnatari (che pure furono floridi mezzadri sotto quel padrone chiamato Società Bonifiche Sarde, che conosceva a meraviglia l'arte di mungere lavoratori e Stato)… Arborea è in crisi… altre volte abbiamo osservato che la riforma della terra non può pesare col suo costo sul contadino. Sarebbe come se un medico mandasse a lavorare un ammalato grave per farsi pagare l'onorario… Arborea è feudo di un connubio di reazionari: il clero (i salesiani); la DC (i Covacivich e i Marras); la Società Bonifiche Sarde (i padroni del vapore isolano); l'ETFAS (la buona programmazione tradita). I risultati di un tale ibrido potere non possono che essere ovvi.
L'ETFAS, politicizzata, è portata a confondere programmi di lavoro con fortunose vicende di onorevoli… Intanto le case coloniche e i campi restano deserti e abbandonati. I centri di Linnas, Pompongias e Torre Vecchia possono già cancellarsi dalle carte geografiche. La popolazione, da 5.000 abitanti, è scesa a poco più di 3.000. E l'esodo non accenna a diminuire. «Preferiremmo fare l'operaio a metà salario che continuare a sudare sulla terra per niente - dicono gli assegnatari che preparano i fagotti - L'operaio sta bene: i dirigenti dell'ETFAS se li portano a casa per riordinare i loro giardini e sono pagati col salario della industria…».

Così come il commercio risulta un monopolio di intoccabili famiglie, così la diffusione delle idee. Il cinema, per esempio, è un monopolio. E' dato in gestione al veterinario comunale, il quale, senza ostacoli di concorrenza, seguendo la regola morale dell'Ente che porta inquadrati i propri dipendenti al precetto pasquale, ha instaurato una ferrea parrocchiale censura su tutti i films in programmazione…

«Sardegna Oggi», n. 23, 1963: «Il lungo inverno di Buddusò».
«…Le testimonianze dei pastori ci riportano a fare le vecchie considerazioni sugli interventi esterni, sulle riforme, che, è evidente, i loro costi non si possono addossare al povero pastore. Così facendo, non soltanto gli si farà odiare il progresso, ma si finirà di ucciderlo.
A questo proposito, come facile esemplificazione, citiamo l'ETFAS, sulle cui benemerenze abbiamo visto fino alla nausea riempirsi intere pagine a pagamento nei quotidiani, quasi che la gente non veda e non sappia che l'ETFAS è il maggiore esempio di malcostume politico e amministrativo che si sia mai visto, come se la gente ignori l'incompetenza di funzionari che occupano i loro posti soltanto in grazia di loro onorevoli protettori e che Arborea, dopo la gestione ETFAS è decaduta a livello di una distesa di gramigna e che (ad Oristano) le case coloniche della Riforma di Tiria e di San Quirico, disabitate, sono divenute semplicemente dei cessi.
Anche a Buddusò - chi l'avrebbe mai pensato! - è arrivato l'ETFAS. E' andato a scovare, tra centinaia di migliaia di ettari di montagne aride, sassose, senza neppure viottoli da muli, qualche povero ettaro di terra affiorante fra le rocce. Di questi ettari, 76 a ponente e 40 a levante, espropriati con grande gioia di alcuni grossi proprietari che ci mandavano a pascolare le capre, soltanto 42 più 28 sono risultati umanamente coltivabili. Non irrigui, rendono, se imbottiti di concimi, circa 15 quintali di grano a ettaro (siamo ben lontani dai 60 di quelle terre del Nord-Italia che si vanno spopolando perché l'agricoltura non rende!). Qui, non si chiamano assegnatari ma quotisti i 20 contadini che l'ETFAS è riuscito ad adescare in un primo tempo con le scassature e i concimi gratuiti. Adesso però il contadino quotista deve pagare tutto ciò di cui ha bisogno per lavorare quelle terre e deve inoltre mantenere sulle sue spalle la baracca sconnessa edificata dall'Ente. Ma non ricava neppure ciò che ci spende. Perciò ritorna a fare il pastore o chiede il passaporto per andarsene in Germania, con idee tutt'altro che edificanti sulle cose di casa nostra…»

«Sardegna Oggi», n. 37, 1963: «L'ETFAS e il centro-sinistra».
«…L'ETFAS si proponeva di perseguire come fondamentali obiettivi l'esproprio e la distribuzione delle terre ai contadini, con la prevalente formazione di unità aziendali indipendenti, anziché di quote destinate a puro completamento di reddito pre-esistente; la trasformazione fondiaria integrale in modo da permettere di passare dal tradizionale ordinamento colturale a carattere estensivo ad ordinamenti i più intensivi possibile; la creazione di infrastrutture indispensabili per una più economicamente progredita e socialmente più elevata; lo sviluppo della cooperazione agricola tra gli assegnatari.
Dal 31 gennaio 1953, giorno in cui ebbe termine l'emanazione dei decreti di esproprio, ad oggi (novembre 1963), l'attività dell'ETFAS è passata attraverso diversi cicli operativi… La trasformazione fondiaria è ancora in fase di completamento: dai 70.000 ettari previsti, l'ETFAS ha finora trasformato in vigneti 3.000 ettari, in agrumeti e frutteti 650 ettari… Dopo 10 anni i risultati possono considerarsi negativi…
L'errore è cominciato dalla assegnazione sbagliata dei poderi, fatta nelle sacrestie… i poderi sono stati assegnati spesso a gente che aveva il solo merito di non essere comunista. Una scelta di parte che ha permesso al partito politico interessato (leggi DC) di immettere nell'Ente una massa di pseudocontadini, lasciando fuori i migliori, spesso i più bisognosi, coloro che per capacità e volontà avrebbero effettivamente collaborato coi tecnici per realizzare quei poderi modello che erano in programma. »

A partire dagli editti del 1820, la borghesia italiana si è impadronita del patrimonio fondiario dell'Isola arricchendosi col gioco del compra-vendita. Qualche volta riesce perfino a «farla sparire», come nel Sinis di Cabras. Dove appunto «sono spariti» oltre 2.000 ettari del demanio comunale. Della singolare sparizione parlano diversi giornali.

«La Nuova Sardegna» del 27 luglio 1967.
«Il consiglio di amministrazione della cooperativa UNIONE PASTORI si è riunito d'urgenza per prendere in esame la difficile situazione in cui si trova la categoria… Il presidente, sig. Antonio Vargiu, ha così aperto la discussione: «La mancanza di pascoli, la siccità, le morie frequenti, la primitività delle tecniche di allevamento, il basso costo del prodotto impostoci da commercianti senza scrupoli sono le cause principali della nostra tragica situazione, una situazione che se continua getterà sul lastrico decine di famiglie e disperderà un patrimonio che è fondamentale per la sopravvivenza della comunità. Intanto potremmo almeno in parte risolvere la questione dei pascoli se il Comune operasse una giusta distribuzione delle terre di sua proprietà tra i cittadini che ne hanno bisogno. Si tratta di un patrimonio comunale di circa 3.000 ettari, un tempo amministrato insieme da contadini e pastori. Ora invece queste terre vengono date in affitto esclusivamente ai contadini, commettendo così una palese ingiustizia nei confronti della nostra categoria, che non ha in Comune santi protettori…
Ma c'è di più. QUESTI 3.000 ETTARI COMUNALI SI SONO INSPIEGABILMENTE RIDOTTI A 800. I PROPRIETARI TERRIERI SE LI SONO INCORPORATI ANNO PER ANNO. Il commissario prefettizio, che ha amministrato il paese prima di queste ultime elezioni, è riuscito a riguadagnarne 200; portando il patrimonio fondiario comunale a circa 1.000. CHI SI E' APPROPRIATO DEI 2.000 ETTARI MANCANTI?… E i 1.000 ettari che annualmente vengono dati in affitto? Questi terreni dovrebbero essere dati, come seminativi o come pascolo, ai contadini e ai pastori senza terra. Invece vengono dati di solito ai grossi proprietari legati al carro di chi comanda. Questi grossi proprietari subaffittano, ricavandone utile senza lavoro alcuno… Noi della cooperativa non abbiamo mai avuto in concessione neppure un ettaro di terra…».

C'è un momento in cui l'ETFAS non riesce più a trattenere gli assegnatari che fuggono, e non trovando più alcuno, neppure tra i morti di fame cronici, che pure abbondano nell'Isola, rivolge la sua attenzione ai pieds noires, i quali, dopo la nazionalizzazione delle terre negli Stati africani, vengono convogliati nel Mezzogiorno e in Sardegna. Ma neppure i pieds noires reggono al «trattamento» ETFAS:

«Sassari Sera» del 1° marzo 1968 - «Fuggono anche i profughi tunisini dalle borgate inospitali dell'ETFAS»:
«Quando i profughi arrivarono in Sardegna… il centro ETFAS di Oristano li assegnò ai vari poderi disabitati del comprensorio di bonifica e fece loro molte promesse: oltre la casa e il podere di circa dieci ettari promise l'assistenza tecnica e finanziaria, la sistemazione dei prodotti, l'assistenza medica e sociale… I poderi erano gli stessi abbandonati dai primitivi assegnatari per mancanza di acqua e per eccessiva salinità dei terreni. Erano considerati un peso morto… un peso che solo a dei tunisini si sarebbe potuto accollare, per ringraziarli delle loro disavventure africane… si tratta di coloni italiani cacciati via dal governo tunisino in base alla legge del 12 maggio 1964 che decretava la demanializzazione delle terre… Il governo italiano aveva dal canto suo garantito ai pieds noires profughi il 50 per cento in risarcimento dei terreni da questi persi con l'esproprio in Tunisia: dopo anni di distanza l'indennizzo è ancora da vedersi… Queste 40-50 famiglie… che hanno ormai speso gli ultimi risparmi per riparare le case, per allacciare la luce e l'acqua, che hanno trovato l'acqua a loro spese (per l'irrigazione), che a loro spese chiamano i tecnici perché non possono fidarsi di quelli dell'ETFAS, che iniziano i lavori di bonifica e di trasformazione, vivono ormai nella speranza e nell'illusione… I grandi agrumicultori, gli esperti viticultori e i validi apicultori del deserto tunisino sono costretti ad allevare galline e a vendere le uova al mercato se vogliono campare…»

Nei primi giorni del 1968 si ha notizia della decisione del Consiglio regionale di nominare una Commissione di inchiesta sull'ETFAS. La notizia desta un notevole interesse specialmente per le manovre politiche sotterranee che hanno provocato la decisione: l'iniziativa, presa dal PSIUP passa fortunosamente in Consiglio con 35 voti favorevoli e 26 contrari: 10 consiglieri DC e PSU hanno votato con le opposizioni e contro le direttive della giunta di centro-sinistra. Prima ancora della inchiesta (che come vedremo verrà bloccata dal governo centrale) decisa dal parlamento regionale, la battagliera rivista «Sassari Sera» ha condotto una propria inchiesta sull'Ente di riforma.
«…Le voci che corrono sul conto dell'Ente sono tutt'altro che rassicuranti. Pare che esso viva alla giornata, e che i finanziamenti governativi non sarebbero sufficienti neppure a coprire le spese di gestione, per cui l'ETFAS SAREBBE ESPOSTO PRESSO LE BANCHE PER SOMME NOTEVOLI dell'ordine di miliardi. Nel campo delle riforme e delle trasformazioni, l'ETFAS è ormai pressoché inoperante da anni, ma ha cercato di impedire il definitivo allontanamento degli assegnatari dai poderi facendo ricorso ai finanziamenti del Piano Verde e della Legge 583.
Alla fine, sia per introitare delle somme, sia per non lasciare arrugginire del tutto le attrezzature, l'Ente si è adattato a elemosinare l'appalto di strade vicinali della Regione (lo scandalo delle strade vicinali di cui si è occupata la Magistratura trova origine proprio in questa circostanza) o ad effettuare lavori a pagamento per conto di imprenditori privati.
Come ente di sviluppo esso non è praticamente entrato in funzione, anche perché si attende da due anni la nomina del nuovo Consiglio di amministrazione in base alla legge istitutiva. La situazione caotica e mortificante in cui si trovano numerosi dipendenti, tecnici o amministratori, non è esplosa all'esterno con sufficiente clamore per la preoccupazione del posto e per quel senso di omertà, che è una delle caratteristiche data all'ETFAS dai dirigenti politici che lo hanno guidato.
I rapporti con gli assegnatari sono generalmente pessimi e i vari capi-centro assomigliano più ai gabellotti siciliani che a tecnici che dovrebbero aiutare tante famiglie contadine che fanno una vita di stenti e di sacrificio. D'altra parte l'Ente non ha alcun interesse a perdere il controllo politico e amministrativo su di essi, anche in vista delle prossime elezioni.
Ora di fronte alle decisioni del Consiglio, i più preoccupati sono gli esponenti politici della DC che hanno utilizzato l'Ente e le sue strutture per vincere le battaglie interne di partito e quelle elettorali… Siamo a conoscenza che da varie parti si sta raccogliendo materiale, documenti e testimonianze che dovrebbero essere sufficienti a provocare una inchiesta della Magistratura sull'Ente e la sua gestione, passata e presente, per cui l'indagine del Consiglio potrebbe apparire, anche ai più direttamente interessati, il male minore…» (In “Sassari Sera” del 31 gennaio 1968).

«Sassari Sera» quindi richiama l'attenzione della Commissione d'inchiesta e della magistratura su alcuni bubboni dell'Ente di riforma:
«- la faccenda dell'acquisto parco macchine: la dogana di Cagliari ne blocca lo svincolo asserendo che si tratta di macchine riverniciate e non invece nuove come asserito nei documenti di importazione; - il modo con cui viene usato il fondo ufficio stampa e propaganda; - con quali artifici sono stati venduti a speculatori turistici diversi terreni espropriati per la trasformazione fondiaria lungo il litorale che va da Fertilia a Porto Conte; - e infine la questione delle strade vicinali, uno scandalo che vede direttamente coinvolto Paolo Dettori, ex assessore all'agricoltura ed ex presidente della Regione.
Il dott. Angelico Meloni, funzionario dell'assessorato all'agricoltura della Regione sarda è stato incriminato dalla procura della repubblica di Cagliari. Il reato di cui egli si sarebbe reso colpevole è emerso durante le indagini condotte per lo scandalo delle strade vicinali. Come si ricorderà, a seguito di numerosi articoli pubblicati dal nostro giornale e riguardanti i rapporti anomali tra alcuni Consorzi e l'assessorato all'agricoltura, la Magistratura aveva aperto una indagine incaricando i carabinieri di acquisire prove e testimonianze. Erano stati interrogati numerosi professionisti e presidenti di Consorzi. Questi ultimi avevano segnalato, in diverse circostanze, come l'assessorato all'agricoltura esigesse da loro la quota dell'11 per cento che la Cassa del Mezzogiorno versava ai Consorzi per le spese di progettazione. In sostanza la Regione pretendeva di amministrare delle cifre spettanti ai Consorzi arrogandosi il diritto di spenderle secondo criteri propri: pagando i progettisti con cifre inferiori all'effettivo onorario e facendosi liquidare successivamente dai Consorzi, avvalendosi di una dichiarazione falsa, somme tre-quattro volte superiori a quelle che effettivamente avevano dovuto liquidare al progettista.
Ai Consorzi che si erano rifiutati di farsi amministrare dal conto fuori bilancio della Regione, l'assessore Dettori aveva inviato una lettera in cui veniva imposto perentoriamente il versamento della cifra come condizione indispensabile per il finanziamento dell'opera prevista. Al dott. Meloni sarebbe stata appunto contestata l'illiceità di queste lettere che venivano spedite in nome e per conto dell'allora assessore Dettori.
Negli ambienti politici ci si chiede fino a quando l'on. Paolo Dettori, ex assessore ed ex presidente della Regione, possa essere considerato esente da una responsabilità diretta. Il Meloni, che durante le polemiche con i presidenti di Consorzi ha sempre dichiarato di aver eseguito degli ordini, affermerà di aver inviato quelle lettere di spontanea volontà, senza un preciso mandato dall'assessore? Come spiegherà l'assessore, se com'è lecito supporre verrà interrogato, l'esistenza di un conto fuori bilancio di circa mezzo miliardo ottenuto col deposito di tutti gli 11 per cento versati dalla Cassa del Mezzogiorno ai Consorzi? La incriminazione di Meloni potrebbe comportare automaticamente quella di Dettori» (In “Sassari Sera” del 15 aprile 1968).

Mentre parlamento regionale e magistratura «indagano» sull'Ente di riforma e sulle pastette tra questo e i politici, il prof. Enzo Pampaloni viene riconfermato per la quarta volta nella carica di presidente dell'ETFAS.

«La decisione è stata presa nei giorni precedenti le elezioni politiche - scrive «Sassari Sera» - ma la notizia è stata divulgata in quelli successivi. Cossiga e il gruppo dei giovani turchi hanno evitato accuratamente una speculazione elettorale. E' noto che l'ETFAS è il principale strumento di potere di cui si sono serviti i dirigenti della DC sassarese nella scalata ai maggiori posti di sottogoverno. In queste ultime elezioni, tra i candidati preferenziali della DC alla Camera figurava addirittura il dott. Carlo Molé, funzionario dell'ETFAS, già segretario particolare di Pampaloni. Molé, trasferito dall'ETFAS di Sassari a quello di Cagliari nel 1956, ha funzionato per anni da elemento di collegamento tra il gruppo dirigente democristiano di Sassari legato a Segni (padre della riforma agraria) e le agguerrite fazioni cagliaritane gravitanti complessivamente intorno alla figura del defunto ministro Antonio Maxia. Autentico cavallo di Troia ha cominciato con una paziente opera di infiltrazione coalizzando i gruppi isolati dell'opposizione di destra e di sinistra fino a penetrare nel comitato provinciale, dove, contemporaneamente all'ascesa di Nino Giagu, altro funzionario dell'ETFAS, Pietro Soddu e Paolo Dettori, titolari di alcuni assessorati chiave, è riuscito a far saltare ad una ad una tutte le varie segreterie di destra che dopo la morte di Maxia avevano cercato di impadronirsi della leadership cagliaritana. L'ultima clamorosa eliminazione dalla scena politica di Cagliari è stata quella del padrone dei pazzi Gaetano Berretta, estromesso a seguito di uno scandalo fatto scoppiare dal nostro giornale.
L'operazione Molé, oltre a rafforzare il potere dei giovani turchi, ha avuto lo scopo di consolidare la posizione personale del presidente Palpaloni. Dal '56 al '68, ETFAS e giovani turchi sono vissuti in una sfacciata simbiosi politica. L'ETFAS ha consentito ai giovani turchi capeggiati da Cossiga di avere a disposizione una determinata forza elettorale e i giovani turchi hanno assicurato costantemente a Pampaloni la riconferma alla presidenza, onde evitare un avvicendamento che facilitasse un'inchiesta sull'Ente di riforma all'interno del quale lo stesso ministero dell'agricoltura aveva riscontrato sin dal '56 tali irregolarità da rendere necessaria la sostituzione dell'allora direttore generale Franco Rotondi.
Quali siano i confini tra le responsabilità politiche e quelle penali di Pampaloni non è possibile stabilirlo con esattezza. Si sa - a prova di smentite - che la gestione dell'ETFAS dal 1951 ad oggi (1968) è stata condotta all'insegna della più assoluta illegalità. Sono circa dieci anni che il nostro giornale va denunciando episodi specifici di questa gestione e tali da interessare la Magistratura. Ma la pubblicazione di documenti, l'indicazione di fonti di indagine non sono serviti a bloccare la specifica vocazione dell'ETFAS: quella di servire esclusivamente gli interessi di un gruppo di persone dando ai 100 miliardi stanziati dallo Stato e spesi da Pampaloni niente altro che il senso di uno sperpero inutile…» (In “Sassari Sera” del 30 giugno 1968).

Circa un mese dopo la riconferma di Pampaloni alla presidenza dell'Ente, giunge la notizia che il governo centrale ha bloccato l'inchiesta promossa dal parlamento regionale.

«E' un atto di inaudita gravità - commenta lo stesso giornale - di cui non si sa bene chi sia l'autore, se il governo Moro prima di tirare le cuoia dopo il 19 maggio o il governo Leone, ancor prima di avere avuto la fiducia del parlamento… E' indubbio che vi siano state pressioni molto forti dei massimi dirigenti dell'ETFAS e degli uomini politici sardi maggiormente legati all'ETFAS e che da una indagine, condotta seriamente, potrebbero vedere definitivamente compromesse le loro fortune politiche ed elettorali; Il maggiore indiziato è in ogni caso Pampaloni con gli uomini politici che hanno imposto la sua ennesima riconferma a presidente dell'ETFAS, primo fra tutti l'on. Cossiga. E' un passo falso, dettato evidentemente dalla paura. L'ETFAS è in fallimento. Sono oltre 4 miliardi all'anno; letteralmente sperperati per mantenere un apparato burocratico elefantiaco che non ha più nulla da fare e che per la massima parte non fa niente…»(In “Sassari Sera” del 15 luglio 1968).

4 - Nello stesso periodo in cui il governo blocca l'inchiesta sull'ETFAS aperta dal parlamento regionale, il parlamento italiano istituisce una commissione di inchiesta sui «fenomeni di banditismo». Quando si dice «banditismo» noi sardi pensiamo automaticamente a tutta quella gente forestiera e nostrana, in colletto bianco, che ha rapinato e rapina il nostro patrimonio e che accumula ricchezze sfruttando il nostro lavoro. Il parlamento e la commissione che ne è l'espressione stanno evidentemente dall'altra parte, perché hanno automaticamente pensato ai pastori barbaricini. Eppure c'è stato un momento di suspence, un momento in cui qualcuno ha creduto che la commissione di inchiesta Medici stesse per allargare i contenuti del termine «banditismo»: precisamente quando la stampa ha dato notizia della visita del senatore Medici al presidente dell'ETFAS.

Ho riportato la notizia su «l'Astrolabio» sotto il titolo esplicito «I due volti del banditismo»:
«Il senatore Medici Giuseppe, presidente della commissione, si è incontrato con gli ispettori agricoli e forestali dell'Isola e con il presidente dell'Ente di sviluppo (ETFAS), prof. Pampaloni. Il colloquio, di circa tre ore, si è svolto in una sala riservata dell'hotel Il Faro nella località turistica di Porto Conte presso Alghero. La sera precedente, il senatore Medici aveva reso una visita di omaggio al cardinale Sebastiano Baggio, arcivescovo di Cagliari, il quale, a sua volta, era reduce da una visita di ringraziamento a Paolo VI per l'annunciata visita pontificale in Sardegna prevista per il 24 di questo mese.
Il massimo riserbo circonda i lavori della commissione di inchiesta: la riunione si è svolta con le porte dell'hotel sbarrate; ma essendo note le competenze degli interlocutori è facile presumere che sono stati esaminati i problemi delle zone a economia agro-pastorale, delle cosiddette «zone interne». Nel corso della giornata, infatti, il senatore Medici ha sorvolato in elicottero le Barbagie sotto munita scorta di carabinieri, rientrando, senza danni, all'aeroporto di Fertilia.
Alcune indiscrezioni sono trapelate sulle questioni trattate nell'incontro. Si è parlato di redditi, di esigenze produttive, di mercati e delle prospettive di sviluppo della economia agro-pastorale nel contesto della programmazione regionale. Pare comunque che siano stati elusi i problemi di fondo in particolare la disastrosa politica dell'ETFAS, presieduto dal prof. Pampaloni, divenuto un mastodontico carrozzone di sottogoverno e messo più volte sotto accusa dai partiti della opposizione e dalla stessa stampa indipendente.
L'Ente sardo di riforma ha connessione con il fenomeno «banditismo» nelle zone interne non soltanto per le sue responsabilità nel mancato sviluppo delle arcaiche strutture della economia agro-pastorale (che insieme ad altri fattori determinano l'insorgere della criminalità barbaricina), ma anche per i metodi di conduzione e di gestione. Tanto è vero che nel gennaio del 1968, in seguito all'ondata di denunce che giunsero da ogni parte dell'Isola, il Consiglio regionale decise di nominare una commissione di inchiesta sull'ETFAS. Si attribuisce - in quel periodo - all'Ente uno sperpero di 50 miliardi, oltre i 4 miliardi annui che assorbe dal ministero per le spese di gestione…
Più dettagliatamente, sono questi alcuni dei pesanti addebiti che dal 1951 a oggi vengono mossi all'Ente di riforma:
1) L'ETFAS è un grosso centro di potere economico e politico della DC sarda; in soli 10 anni ha creato 2 consiglieri regionali (Giagu e Serra), 1 deputato (Carlo Molé), 1 senatore (Pietro Pala), e inoltre ha dato una piattaforma elettorale a un sottosegretario (Francesco Cossiga) e a un presidente della regione (Paolo Dettori). Negli stessi anni sono oltre 100 i miliardi spesi, e una parte cospicua andrebbe cercata nei bilanci del fondo assegnato all'ufficio stampa e propaganda. L'allegra gestione ETFAS è divenuta proverbiale in Sardegna: gli alti funzionari percepiscono stipendi favolosi standosene dietro lussuose scrivanie; i quadri subalterni sono occupati di norma da personale che si è distinto in galoppinaggio elettorale. Si parla di 400 tra impiegati e alti funzionari assunti per chiamata dal presidente Pampaloni, senza l'autorizzazione del ministero e retribuiti con artifici e in violazione delle leggi.
2) L'ETFAS è inattivo e pieno di debiti. In questi 20 anni di attività ha contribuito a dissestare l'economia agricola della Sardegna, programmando le riforme all'insegna dell'incompetenza e della improvvisazione… Il patrimonio zootecnico isolano è passato dai 3 milioni e 500 mila capi ovini a meno di 2 milioni e 500 mila nel 1958. Sarebbe stato sufficiente, per incrementare il settore dell'allevamento, fare quelle trasformazioni che altrove già si sono fatte: pascoli irrigui, stalle e silos (per la conservazione del foraggio), cooperative di conduzione e per la lavorazione e per il commercio dei prodotti, con una serie di norme per assicurarne il buon funzionamento e proteggere gli allevatori dalle speculazioni degli industriali lattiero-caseari. Si sono invece sperperati con l'ETFAS miliardi per trasformare in seminativi terreni tradizionalmente riservati al pascolo, dove le rese a grano non arrivano a 10 quintali per ettaro, contro la media nazionale del 23,7 che pure risulta insufficiente a coprire le spese di produzione.
L'ETFAS, che doveva con i suoi notevoli mezzi a disposizione sollevare il livello della economia agricola ne ha invece aggravato la già precaria situazione, e quel che è peggio ha fatto odiare la terra al contadino. L'Ente doveva dimostrare la bontà e l'utilità dell'impiego di moderne tecniche agricole: il suo fallimento ha dato ragione ai proprietari terrieri assenteisti e sfruttatori.
Anche a voler tacere sulla corrotta amministrazione dell'Ente - viziata da clientelismo e politicismo deteriori - è sufficiente citare alcune sue assurde intraprese per esprimere un giudizio negativo: la bonifica di alcune zone pietrose dell'Altipiano di Buddusò seminate a grano, dove a malapena potevano pascolare le capre e potevano aprirsi cave di granito; la bonifica (si fa per dire) dell'Oristanese, dove sono stati messi a dimora numerosi ettari di meli, in una zona dove, è risaputo, tali colture allignano, possono anche fiorire, ma non fruttificano.
Gli assegnatari e i quotisti delle zone citate, allettati in un primo tempo da sgravi fiscali e da contributi, dopo avere resistito qualche anno, quando hanno dovuto cominciare a pagare essi i conti della riforma, hanno lasciato casa e podere e sono tornati a fare il bracciante all'agrario o dietro le pecore - quando non hanno preso la triste via della emigrazione…
E' improbabile che il senatore Midici - concludevo su «l'Astrolabio» - presidente della commissione parlamentare di inchiesta sul banditismo sardo, in sole tre ore di colloquio con gli alti funzionari del settore Agricoltura, in una sala di un hotel d'élite, abbia potuto conoscere punto per punto le vicende dell'Ente di trasformazione. Se il senatore Medici e gli onorevoli membri della commissione desiderano farsi edotti sui fenomeni di banditismo diffusi in Sardegna dovrebbero - a nostro modesto avviso - guardare anche un poco al di fuori del Supramonte orgolese» (In “L’Astrolabio” settimanale n. 18 del 3 maggio 1970.

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