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11. “Che ti possa rincorre la giustizia!”

Nel 1969, la giunta esecutiva dell'Associazione Nazionale Magistrati (che raccoglie il 90% dei giudici) delibera all'unanimità di non intervenire alle inaugurazioni dell'anno giudiziario, perché «l'Associazione si sente estranea a manifestazioni ufficiali - afferma un comunicato - che non esprimono quelle effettive istanze di fondo dei giudici di fronte al paese, delle quali, essa, da decenni, si è resa interprete senza trovare alcuna rispondenza presso il potere politico».
Il vento della contestazione popolare comincia dunque a penetrare nei muffiti santuari dei tribunali. Alla inaugurazione dell'anno giudiziario 1969, in Sardegna, anche gli avvocati deliberano di non partecipare. Gli avvocati contestano la giustizia del sistema e la contestano gli stessi giudici.
La gente sarda contesta questa giustizia da sempre. Con la repubblica democratica nata dalla Resistenza antifascista e fondata sulla Costituzione la gente sarda non ha tratto gli sperati benefici per la sua crescita civile. In particolare, l'antica frattura tra il cittadino e la giustizia è rimasta. Anzi si è approfondita, perché la coscienza dei diritti civili è andata maturando nella coscienza popolare, perché nonostante i conclamati assunti democratici del potere legislativo, le strutture dell'ordinamento della giustizia sono quelle di sempre: un meccanismo repressivo e oppressivo concepito da uno Stato autoritaristico.
Della insofferenza popolare nei confronti di questa giustizia il banditismo è l'espressione più antica e più elementare. Ma il sintomo più diffuso, e certamente il più grave, è la sfiducia profonda, radicale, totale che la gente sarda senza distinzioni nutre per la giustizia così com'è, con i suoi codici, con la sua impietosa lentezza, con l'autoritarismo di chi l'applica. C'è nel popolo, diffusissima, una frase estremamente ingiuriosa che si rivolge al nemico: «Che ti possa rincorrere la giustizia!».
C'è un equivoco da chiarire. Un equivoco che fa comodo al potere costituito. E cioè che il banditismo sia tout court un fenomeno di criminalità limitato ad alcuni individui “tarati” di una ben precisa area geografica, la Barbagia, e che la totalità del popolo sardo ne sia estranea. Estranea “fisicamente”, almeno in gran parte, è ovvio - ma non anche “ideologicamente”. Il banditismo è da considerarsi estrazione consustanziale del connettivo economico, sociale e culturale del popolo sardo: ne esprime uno dei modi di contestazione che (indipendentemente da giudizi politici e morali) rappresenta, appunto, il rifiuto di certe istituzioni dello Stato.
Purtroppo, al livello in cui si trova la nostra isola, il moto di contestazione e di rivolta popolare non ha saputo né potuto porre alcuna seria alternativa al potere del sistema. Ha soltanto saputo opporre, finora, violenza alla violenza. Una scelta certamente sbagliata sotto il profilo utilitaristico - se non sotto quello dell'etica sociale, per cui ogni violenza è legittima al cittadino oppresso da uno stato violento. Il cittadino, in questa situazione, non può sperare di abbattere il sistema con la violenza: il sistema è organizzazione perfettamente funzionale nell'uso della violenza ed è sostenuto da strutture politico-giuridiche che legalizzano l'oppressione, lo sfruttamento, la discriminazione, l'arbitrio. La violenza del cittadino è sempre un grave reato, qualunque sia la ragione che la muove. La violenza del sistema è al contrario espressione della legge. Pertanto è normale che venga punita nel cittadino perfino la violenza “verbale” nei confronti di un funzionario dello Stato - anche se lo stesso cittadino sia stato da quello stesso funzionario pubblicamente oltraggiato e malmenato.
Due ipotesi di lotta politica libertaria e progressista sono possibili in questa situazione:
- una lotta popolare per i diritti civili, facendo leva sui dati democratici acquisiti “nel sistema”, e non “dal sistema”; fare esplodere le contraddizioni che esistono tra questi e i dati autoritaristici - fascisti e clericali “del sistema” - fino a provocarne la crisi che sbocchi nella rivoluzione;
- oppure, l'insurrezione generale armata delle masse popolari che, distrutto il sistema, crei una nuova società.
Questa seconda ipotesi, perché sia attuabile, deve prevedere una insurrezione armata di tutti i popoli della terra, nello stesso momento maturi e uniti. Il che è utopistico che possa verificarsi a breve scadenza; ed ogni tentativo immaturo o isolato o rafforza nei suoi strumenti repressivi il sistema che si voleva abbattere o lo sostituisce con un altro sistema necessariamente autoritaristico in concorrenza con i sistemi esterni.
La prima ipotesi - che può attuarsi anche in una sola area geografica indipendentemente da condizionamenti esterni - è una lotta politica già in atto, condotta in Italia, con alterna fortuna, dal partito radicale.

Che cosa si contesta alla giustizia del sistema? Un gruppo di avvocati scrive in un manifesto distribuito a Roma:

“La giustizia italiana è malata di paralisi progressiva. Se vi rivolgete ai tribunali dovete pagare, pagare, pagare. Se avete ragione ve la daranno quando non vi serve più. Se avete torto forse vi andrà un po' meglio, ma ci rimetterete lo stesso. Chi va in carcere vi resterà, anche se innocente, in attesa di giudizio e nessuno lo risarcirà perché è stato ingiustamente detenuto. I lavoratori attendono anni per vedere riconosciuti dai tribunali i loro diritti. Si inventano nuovi reati, si sequestrano a tamburo battente i giornali cosiddetti pornografici che poi vengono assolti. Ma i processi contro i pezzi grossi non si fanno o non finiscono mai… Solo un grande movimento popolare potrà cambiare le cose della giustizia italiana…”

E ancora il testo di un manifesto radicale indirizzato agli avvocati:

“Siete testimoni e vittime voi stessi della disfunzione della giustizia. I diritti del cittadino sono ormai privi di ogni garanzia. I processi civili sono per lo stato solo un'occasione per riscuotere tasse e balzelli sulle ingiustizie subite. I codici sono vecchi, i giudici pochi e mal distribuiti, i servizi arcaici, i processi non finiscono mai. La giustizia penale dà l'impressione di colpire a casaccio. La funzione punitiva è di fatto affidata alla discrezione dell'istruttore con la carcerazione preventiva, mentre ci si balocca a riesumare il plagio e a sequestrare per oscenità i giornali che parlano male di qualche pezzo grosso. Se non volete essere complici, protestate…”

Ma c'è di più. Si levano voci di contestazione alla giustizia da parte degli stessi giudici. Nel suo intervento all'assemblea dei magistrati tenutasi a Roma (…) il presidente dell'Associazione Nazionale Magistrati, dottor Mario Barone, ha detto, tra l'altro, che occorre riformare il nostro sistema penale tutt'ora ancorato a una concezione estremamente autoritaria dello stato e all'idea che i rapporti tra lo stato e il cittadino debbano essere di subordinazione di questo a quello.

“E' scandaloso - ha detto il magistrato - che la vetustà della nostra codificazione venga in luce solo attraverso le sentenze abrogative della Corte costituzionale, ma è ancora più sconfortate il fatto che, mentre la Corte si adopera ad una graduale epurazione dal nostro ordinamento delle norme in contrasto con la carta costituzionale, Parlamento e Governo non sembrano preoccupati granché, salvi sporadici casi, di colmare i vuoti che le sentenze abrogative della Corte vanno creando…”

E' dello stesso periodo di contestazione delle celebrazioni dell'anno giudiziario 1969 una lettera al presidente della Repubblica, redatta da un gruppo di avvocati democratici e radicali:

“…Tutto è stato studiato, tutto è stato detto, da tutte le sedi sono stati indicati rimedi alla crisi della giustizia, ma nulla è stato fatto: leggi farraginose e complicate, codici contrari alla Costituzione e di pretta marca fascista, ordinamento giudiziario vetusto, sedi e mezzi inadeguati. A queste cose corrispondono: magistrati sopraffatti dal lavoro, cancellieri travolti dai processi, avvocati che si arrabattano intorno a cause che non giungono a termine e alla fine gli sventurati cittadini che non ottengono giustizia… Ha mai saputo o Le hanno mai riferito di processi penali che durano anni e anni, mentre il cittadino viene trattenuto in carcere preventivo per poi magari essere assolto? Le hanno mai detto come realmente si vive ancora oggi nelle carceri? Bene, questo e niente altro è l'amministrazione della giustizia in Italia.”

A questo punto riportiamo l'attenzione alla nostra isola, alla situazione della giustizia in Sardegna, citando rapidamente i moti di contestazione vecchi e nuovi.
Nella “lettera aperta al nuovo Procuratore generale”, del novembre del 1968, la rivista Sassari Sera fa il punto sulla crisi della giustizia, suggerendo l'opportunità della “controinaugurazione” dell'anno giudiziario suggerita dal partito radicale:

“Noi rifiutiamo di credere che quella del Procuratore generale debba considerarsi una figura simbolica, decorativa, che recita la sua parte in paludamenti di porpora, attorniata da carabinieri in alta uniforme, soltanto in occasione dell'apertura dell'anno giudiziario… Il Procuratore generale, in virtù dei poteri che gli derivano dalla legge, può e deve rivestire una funzione ben più incisiva e determinante. Egli è il capo della polizia giudiziaria, ad esempio. Ebbene, forse che la polizia giudiziaria ha mai avvertito, sul terreno operativo, la presenza del Procuratore generale? Se si dovesse rispondere affermativamente, come si spiegherebbero allora gli attriti o meglio la guerra dichiarata che caratterizza i rapporti tra carabinieri e Pubblica Sicurezza, tra squadre mobili e Criminalpol? Come si spiegherebbero gli abusi non tutti ancora ufficialmente censurati, che si addebitano a taluni funzionari sul cui conto pendono denunce anonime e non anonime?… Si dirà che i questori e i vice questori non sono ufficiali di polizia giudiziaria e perciò sono svincolati dalla Sua alta autorità. E' vero, il nostro ordinamento presenta anche questa incongruenza: un questore ed un vice questore interrogano, fanno sopralluoghi, svolgono indagini di polizia giudiziaria, senza sottostare agli obblighi che incombono agli ufficiali di polizia giudiziaria. Il questore dipende dal ministero dell'Interno. Che strano sistema!!! Ed il ministero dell'Interno ha ancora in Italia, ad onta di ogni innovazione democratica, molti caratteri ereditati dai tempi dell'autoritarismo…”

Infatti. Le strutture dell'istituto della giustizia sono volutamente arcaiche e i codici sono volutamente fascisti. La Costituzione repubblicana ha lo stesso valore di una coccarda progressista sulla divisa di uno sbirro di Franceschiello o sulla camicia nera di uno squadrista.
Infatti. Gli alti funzionari dello Stato hanno poteri discrezionali e altri se ne prendono in proprio “discrezionalmente”. Non soltanto i questori, ma gli stessi ufficiali di polizia giudiziaria agiscono ignorando il magistrato e commettendo gravi abusi di potere. Basti citare il caso inqualificabile del comandante del gruppo dei carabinieri di Cagliari, colonnello Bucci (lo stesso che nel documento L'anonima sequestri del Guerrini abbiamo visto provocare l'indegna rissa con la polizia di Nuoro disputandosi la pelle di due creature umane), il quale spedisce “appunti” anonimi, contenenti accuse infamanti, e false, nei confronti di docenti, al provveditore agli studi, con l'evidente scopo di colpire nel cittadino le sue idee progressiste.
E' interessante - e potrebbero giovarsene gli stessi magistrati contestatori - per mettere a fuoco la questione dell'amministrazione della giustizia, prendere in esame la realtà sarda. Scrive Giuliano Cabitza in Rivolta contro la colonizzazione, edito da Feltrinelli:

Neanche l'amministrazione della giustizia, purtroppo, va esente da critiche e rilievi di un certo peso. Del resto è notorio che i sardi in genere e i barbaricini in particolare ne hanno sempre avuto un'opinione, diciamo, riservata. Anzi, per i barbaricini il problema di ottenere una soddisfacente giustizia forse non si è mai posto. Perché sono ben consapevoli che la Corte, i magistrati, gli avvocati e tutto il resto rappresentano non un ente superiore alle vicende umane, equanime e disinteressato, ma il Re, lo Stato, cioè l'altra parte in causa. Perciò la “giustizia” viene considerata cattiva, ingiusta nel suo complesso e in linea di principio, comunque, estranea, inadeguata alla loro condizione umana e, perciò, da ostacolare, da sfuggire a costo di farsi latitanti e banditi.
Quanto l'apparato giudiziario italiano abbia fatto per guadagnarsi questa fama non è ora il caso di esaminare. Non parliamo ovviamente del viceré sabaudo Carlo Emanuele di San Martino che amministrava la giustizia andando in giro per l'isola in compagnia del boia e con una grossa scorta di robusto cordame. E' un fatto, però, che gli orientamenti e le insufficienze stesse degli organi giudiziari hanno avuto anch'essi un loro peso nel favorire la persistenza, se non proprio l'incremento dei fenomeni di banditismo…
Per quanto poi riguarda l'attività degli organi giudiziari, si può citare da recenti e qualificate pubblicazioni: «La Magistratura raramente si interessa delle notizie inqualificate di reato, cioè della denuncia della stampa e, troppo spesso, si ha l'impressione, incrimina per calunnia chi si lamenta di aver subìto angheria da parte dei pubblici poteri. Appare strano che ogni radunata sia sediziosa; che i cortei, le proteste in massa… finiscano regolarmente sul banco degli imputati… Resistenza a che cosa? Alle manganellate? Oltraggio ad un poliziotto che allenta calci? Istigazione a delinquere perché si invitano i cittadini a non farsi sopraffare dalle bastonate, anche se si tratta di bastonate di pubblici ufficiali? Blocco stradale perché una massa di studenti e di operai si siede per terra per protestare contro qualcosa?» «Vi sono dei magistrati mentalmente inadatti a giudicare, protetti da un malinteso solidarismo di casta che i cittadini scontano. Ma ancora peggio, quando le procure sono rette da magistrati angusti, pieni di tetraggine misoneista, pronti a ficcar dentro ogni disgraziato e ossequiente nei confronti delle autorità pubbliche e private». …Quanto ai pastori sardi, poi, sembra che i giudici non abbiano avuto davvero la mano leggera, se è vero che «basta vedere quante sentenze di condanna delle Corti di assise della Sardegna sono state riformate in sede di rinvio dai giudici della penisola».
Logicamente - continua il Cabitza - questi passi non autorizzano giudizi generali corrispondenti. Essi sono però una pennellata di un quadro di per sé già abbastanza scuro, in cui l'ordinamento giudiziario, malgrado la Costituzione e le varie innovazioni, ha ancora la figura dell'ordinamento fascista. Di tipo fascista è, inoltre, la formazione di non pochi degli alti gradi della Magistratura. Il che comporta, a proposito della lotta contro la criminalità in Sardegna, un continuo ritorno dei Procuratori generali della Repubblica sulla richiesta di ripristino del confino di polizia o almeno alla richiesta, da parte dei magistrati competenti, della denuncia ad ogni «eccessiva e pericolosa indulgenza» nell'applicazione delle misure di prevenzione, quali la sorveglianza speciale e il domicilio coatto. Quando poi queste strutture organizzative e ideologiche dell'amministrazione giudiziaria non sono sufficienti a far adottare dai magistrati provvedimento graditi ai ceti dominanti, si mette in moto il meccanismo delle pressioni politiche, anche di parte governativa, delle campagne di stampa, che invocano “la caccia grossa” contro i “pastori-banditi”, il capovolgimento della presunzione dell'innocenza, la soppressione del diritto di difesa, l'abolizione dei diritti costituzionali.
L'incriminazione, in verità assai rara, di qualche poliziotto, la scarcerazione di un pastore in stato di detenzione preventiva, il rigetto della proposta di un questore di mandare un innocente al domicilio coatto, sono altrettante occasioni per far sì che il giudice, autore di quelle decisioni, venga guardato con sospetto, calunniato, aggredito moralmente dalla stampa, da certi ambienti della polizia, da molti parlamentari e uomini di governo, dagli stessi sardi.
In altre parole, è sempre in atto il tentativo d'inserire l'amministrazione della giustizia in un “piano” di repressione dei pastori che è essenzialmente politico e che le dovrebbe essere estraneo, specie quando esso implica lo sconfinamento dai limiti dell'ordinamento giuridico positivo. Perciò la legge, a cui lo Stato impone obbedienza, è spesso solo un penoso gravame, una fonte inesauribile d'obblighi e di divieti e mai di diritti, spesso un pretesto appena mascherato per ingiustificate persecuzioni. Ma questo è il quadro di oggi, sotto la repubblica democratica. Si può bene immaginare quale sia stata l'amministrazione della giustizia durante i periodi della monarchia liberale e della monarchia fascista. Quali e quanti danni siano stati inflitti ai sardi da una repressione impostata e attuata secondo gli schemi del tipico colonialismo, nessuno saprà mai dire. Né dati statistici, né testimonianze, né l'immaginazione possono dare una descrizione vicina al vero dello strazio delle madri barbaricine. Il governo di Roma potrebbe dire quanti barbaricini sono stati uccisi in un secolo di Stato unitario. Potrebbe dire quanti anni di carcere sono stati erogati, quanti di confino, di domicilio coatto, di sorveglianza speciale; quanti anni di carcere preventivo hanno subìto pastori innocenti; quante famiglie sono state smembrate, quanti patrimoni andati in malora. E quanti pastori per paura del carcere preventivo o del confino, o per aver reagito ad un sopruso, hanno preso le vie della latitanza e del brigantaggio. E quanti sono oggi i barbaricini incarcerati? Sono certamente tanti, troppi; Non c'è una sola famiglia di pastore che non annoveri tra i suoi componenti chi, per una ragione o per un'altra, non abbia passato i suoi guai con la “giustizia”.
E' tempo, perciò - conclude il Cabitza - di sollevare con tutto l'impregno necessario il problema sociale dei detenuti e delle loro famiglie, di tanta gente, cioè, caduta, colpevole o innocente, sotto i colpi della repressione, che una concezione realistica della vita umana non può considerare come cancellata dalla faccia della terra.

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