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Tratto da "Rivista Anarchica" - n° 5 - Giugno-Luglio 1981


La lingua biforcuta

L'attuale dibattito sulla lingua sarda è vivacizzato da una proposta di legge di iniziativa popolare, lanciata il 16 gennaio 1978 da alcuni intellettuali di estrazione politica diversa. Si tratta di un dibattito, per altro vecchio di almeno un secolo, svolto in termini e a livelli accademici, per lo più strumentalizzato per fini elettoralistici, molto spesso vuoto o inconcludente, dal quale sono assenti le componenti sociali che più contano, contadini e pastori - i quali pure conoscono e usano abbastanza bene la lingua sarda.
La prima e più immediata valutazione che si ricava è che le linee ideologiche e politiche di questo dibattito sono contraddittorie e a volte inconciliabili tra loro: in esso, infatti, si configura un fronte anticolonialista composito, disarticolato, velleitario che ha come unica base comune una idealistica difesa dei valori culturali del popolo sardo. La seconda e più meditata valutazione che questo dibattito deve essere riferito alla utilità d'uso che il popolo sardo può farne nella propria lotta di liberazione. Più precisamente, per me, valutare i fatti significa sempre distinguere ciò che è del popolo, da ciò che gli è estraneo, ciò che è rivoluzionario, da ciò che è riformistico o demagogico, ciò che è espressione di elaborazioni astratte e idealistiche di intellettuali e politici, da ciò che è espressione concreta della realtà del popolo e della sua esigenza di crescita.
Ora, a leggere molti degli interventi nella stampa, sia apologetici sia denigratori, sulla questione del bilinguismo in Sardegna, mi è spesso venuta in mente l'espressione che, secondo certi fumetti, gli indiani riservano al viso pallido: "Voi parlare con lingua biforcuta!" - dove evidentemente l'attributo biforcuta non è riferito alla forma ma al contenuto. E si potrebbe a ragione dedurne che la lingua dei bianchi è di per sé biforcuta, in quanto esprime una mentalità infida, predatoria, contorta. Al contrario di quella indiana, primitiva ma leale e schietta e che si esprime, come si dice da noi, in limba deretta. Sembrerebbe cioè - in base ad una analisi etico-politica corretta - che nei rapporti conflittuali tra uomini, o gruppi di essi, esistano necessariamente due lingue diverse: quella biforcuta di chi opprime e quella diritta di chi è oppresso. Anche dove apparentemente esiste una sola lingua, come all'interno di una stessa nazione, in realtà anche lì emergono e si contrappongono due lingue diverse: quella del potere, ufficiale accademica, letteraria, tipica dei codici e dei tribunali; e quella popolare, spuria, illetterata, volgare, tipica della miseria dei ghetti, della disperazione delle galere.
Così come all'interno di una stessa nazionalità esiste un rapporto conflittuale tra classi egemoni e classi subalterne e quindi tra lingua culta e lingua volgare - è il primo termine di paragone di una equivalenza che prosegue - così pure esiste un rapporto del genere tra nazione colonizzatrice e nazione colonizzata, tra lingua civile di quella e lingua barbarica di questa. Certamente, i rapporti che intercorrono tra l'oppressore e l'oppresso, tra le rispettive culture,  non sono così nettamente in conflitto, come lo sono nei momenti storici di più acuto scontro di interessi. Dalla parte dell'oppresso, per comprensibili meccanismi psico-sociali, c'è il tentativo, sollecitato in certe misure e forme dallo stesso oppressore, di assumere la lingua e la cultura del modello egemone, di identificarsi in qualche modo con il vincitore, nell'illusione di uscire dalla propria miserabile dimensione. Si tratta, appunto, di quel processo di liberazione senza sbocchi dell'integrazione, o assimilazione, tipico non soltanto del colonialismo extra metropolitano ma anche del colonialismo interno. Fenomeno cioè che tende a verificarsi in ogni rapporto tra forze privilegiate al potere e forze degradate sottomesse al potere.
La lingua (e la cultura) dei Sardi, in quanto esprime la realtà di un popolo oppresso e la necessità di liberazione, si oppone alla lingua (e alla cultura) italiana, che esprime la realtà di uno stato e di classi che esercitano il dominio e l'oppressione. La loro diversità, l'intensità del loro essere per confrontarsi e scontrarsi, sono dati e determinati dai diversi interessi economici e politici in gioco. A differenza di come qualcuno pensa, il paese colonialista, o le classi al potere, non hanno alcun interesse a far scomparire la lingua (e la cultura) del paese colonizzato, o del popolo sottomesso, per sostituirla con la propria. Così come si potrebbe fare con un abito, magari usato. Non hanno alcun interesse e non possono farlo neppure volendolo - se non eliminando fisicamente quel popolo. E allora, chi la lavorerebbe la terra? chi produrrebbe per i padroni? Il potere colonialista, o delle classi egemoni, si avvale della maggiore forza tecnologica e militare per imporre la superiorità della propria cultura. Non distrugge tuttavia, come si è detto, la cultura e le tradizioni del popolo colonizzato, o assoggettato, ma le conservano in forme rudimentali, vili, folcloriche - in tal senso anzi sviluppandole. La lingua dei Sardi è stata deliberatamente conservata in forme degradate, per dimostrare con la sua arretratezza la maggiore validità dell'italiano, lingua civile dell'egemonia. E se è vero che la lingua sarda ha saputo esprimere, in momenti di dignità politica del suo popolo, "l'inno contro i feudatari”, è anche vero che in momenti oscuri ha cantato l'inno della truppa ascara in guerra, il "Deus salvit su Rei". Rileviamo così che nei momenti storici di passiva accettazione della servitù del nostro popolo, la sua cultura viene utilizzata dal potere italiano in funzione patriottarda, valutata con attributi di fierezza, dedizione, fedeltà e così via. Mentre nei momenti di maggiore coscienza civile, da un lato il potere italiano relega la cultura sarda a livello di rudimento barbarico, negandole ogni possibilità di uso e di sviluppo civile, e da un altro lato il nostro popolo tenta una riappropriazione integrale della propria cultura, lingua e tradizioni, opponendole con rinnovata energia e ritrovata dignità a quelle del "nemico".
La lingua non è tutto nel rapporto conflittuale tra oppresso e oppressore. E' soltanto un aspetto, e per di più indotto da altri aspetti, squisitamente economici e sociali, del complesso insieme che caratterizza appunto lo scontro sempre aperto tra colonizzato e colonizzatore. Affermando e sostenendo l'uso della sua lingua non si sviluppa il popolo nel suo insieme di carattere e di esigenze di crescita - come non si svilupperebbe armonicamente un corpo umano potenziando un solo arto: la logica ci dice che agendo così su un organismo depresso gli creeremo maggiori squilibri. Ho sostenuto, in diverse occasioni, che una operazione di difesa della lingua sarda, sganciata da una lotta di liberazione totale, può comportare più danni che benefici. Un eventuale riconoscimento-legalizzazione da parte del potere italiano può significare l'istituzionalizzazione della lingua sarda in posizione subalterna. Può anche significare la modificazione della lingua del popolo in lingua ufficiale, in lingua di potere: una modificazione che la corromperebbe, vuotandola di tutti i contenuti rivoluzionari che le sono propri in quanto patrimonio dell'oppresso. Questa lingua, usata dal sistema, nelle sue istituzioni, non modificherebbe la sostanza e i fini violenti e oppressivi di queste stesse istituzioni. Il popolo finirebbe per rifiutarla, come espressione di un potere che aborre. Se ne creerebbe un'altra. Il caso del sindaco di Bauladu - su cui i sardisti si sono fatti belli spacciandosi per martiri - non ha alcunché di rivoluzionario. Il sindaco di Bauladu ha giurato fedeltà allo stato italiano, si è assoggettato al potere del colonialista, in qualunque lingua lo abbia fatto. E' comunque un atto di obbedienza, di sottomissione, un osculum obscoenum. Ich mein dass baciare il culo in sadru o in altra limba c'est la même chose. Finché i sardisti condividono il potere con il colonialista e insieme a questo compartecipano agli utili, essi sono nemici del popolo sardo.
Per il popolo, riappropriarsi della sua lingua significa liberarsi dallo sfruttamento economico e dalla oppressione culturale e politica. Ancor più chiaramente, riappropriarsi della sua lingua, significa riappropriarsi della sua terra, del suo patrimonio naturale e delle sue originali strutture economiche e dei suoi fondamentali istituti sociali. E contemporaneamente il rifiuto della lingua dell'oppressore nel rifiuto delle sue istituzioni e delle sue leggi. E a ben guardarci, è ciò che il popolo sardo fa già, per quanto può farlo. E allora dico agli intellettuali e ai politici in fregola di sardismo: prima di cominciare a parlare tutti quanti in sardo, è il caso di chiudere la bocca e muovere le mani per tutto il tempo necessario a buttare a mare i Moratti, i Rovelli e le loro petrolchimiche, i generali e le loro basi con tutte le armi, governanti e amministratori di ogni risma, prefetti e provveditori e questori e commissari e carabinieri e gabellieri e preti e finanzieri e magistrati e accademici e antropologi e sociologi e storiografi e venditori di fumo e politici e sindacalisti e ogni altra mala genia con la vocazione di comandare, rubare, uccidere, truffare, rappresentare il suo prossimo…
E' necessario ribadire che mai un popolo oppresso potrà riappropriarsi della sua cultura, stando e muovendosi all'interno delle istituzioni del sistema oppressore. La riappropriazione della sua cultura può aversi soltanto se correlata e contemporanea al processo di liberazione globale. La presa di coscienza della propria realtà di sfruttato è, nell'oppresso, contemporanea alla sua lotta di liberazione. E' anche necessario ribadire che la teorizzazione della lotta di liberazione di un popolo non può essere demandata al filosofo, al politico, all'educatore, all'intellettuale. E' il popolo stesso che, nel momento in cui il suo livello di coscienza e la situazione storica glielo consentono, agisce, si libera, teorizzando la propria liberazione. Nel popolo c’è chiaramente il rifiuto di ogni teorizzazione esterna (di ogni legge scritta), perché queste muovono sempre da una astrazione della realtà fatta da provveduti (oppressori) esterni (invasori) al fine di istituzionalizzare e sacralizzare, rendendolo immutabile nel tempo, il binomio oppressore-oppresso. Anche le teorizzazioni che scaturiscono da analisi corrette e che sembrano porsi fini rivoluzionari hanno sempre una natura paternalistica, autoritaria e idealistica, e si scontrano sempre, prima o poi, nella pratica, con gli obiettivi del popolo.
Il popolo agisce, non teorizza - come l'uomo si realizza vivendo, non teorizzando la vita.
E qui, se il lettore me lo consente, torniamo agli indiani. Ciò che dal fumetto non si ricava esplicitamente è che quando Toro-seduto e il suo stregone avessero ordito in combutta qualche inghippo ai danni della loro tribù, anche essi, sia pure in limba indiana, avrebbero parlato con lingua biforcuta - e qualunque squaw avrebbe potuto rinfacciarglielo, haug! Credo sia chiaro che cosa voglio dire: anche in lingua sarda si può essere biforcuti- se chi la parla è un viso pallido, uno sporco borghese compradore.
Esprimendomi con lingua diritta, è precisamente quel che penso della maggior parte dei politicanti che hanno dato la stura alla polemica sulla lingua, talvolta arrabattandosi a parlare e a scrivere una lingua che non è la loro.
Forse questi signori non si rendono conto che una cosa è la lingua parlata dal popolo che sacrifica la vita lavorando per ingrassare i padroni e i suoi lacché; e ben altra cosa è la lingua sarda parlata dalla borghesia compradora - politica, intellettuale o mercantili che sia - che la utilizza per farsi bella agli occhi del popolo e farsi dare una spinta nella scalata al potere. A questi signori che si sono scoperti oggi, in età di climaterio, la vocazione anticolonialista e nazionalitaria, che si esibiscono in limba per assomigliare ai pastori e ai contadini, ma vivono in lussuose ville e storcono il naso all'odore di una pecora; a questi signori che in qualunque idioma sai esprimano parlano sempre in lingua biforcuta, che è la lingua del potere, si può anche dare un nome, democristiani o comunisti, sardisti o gruppuscolari: sono tutti servi del padrone continentale.
Quando alcuni di questi signori sostengono che, legalizzando l'uso della lingua sarda nelle istituzioni dello stato italiano, essi stanno facendo la rivoluzione per il popolo sardo, mentono sapendo di mentire. La rivoluzione non la si fa entrando in quei vecchi casini che sono i partiti politici - l'istituzione statalista mediante la quale i ceti borghesi e intellettuali si avvicendano nella gestione del potere, ed è la copertura democratica per ingannare il popolo - per fotterlo con il suo stesso consenso. La sua rivoluzione il popolo se la deve fare da sé - quando la vorrà fare. Intanto, il diritto a parlare la sua lingua, il popolo se lo è già conquistato e nessuno può levarglielo. E sono certo, non ci tiene affatto a sentir parlare nella sua lingua padroni e politicanti, giudici e poliziotti, professori e preti: figurarsi la gioia di un pastore come Giuseppe Mureddu, sentirsi torturare e massacrare da commissari e poliziotti che parlano in sardo!
Il  diritto a parlare la mia lingua, come quello di pensare con la mia testa, non può essermi negato in alcun modo - nel momento che uso per esprimermi e realizzarmi come uomo, come sardo, come componente di una comunità oppressa. Come tutti i sardi parlo il sardo insieme alla mia gente.
E con gli stranieri, parlo l'italiano o io francese o il tedesco per farmi capire, quando essi, più ignoranti di me, non comprendono la mia lingua. E quando parlo per dire le mie ragioni, non mi importa quale lingua esprima queste ragioni: purché siano capite da chi voglio che le senta. Non mi batto dunque per parlare nella mia lingua, per un diritto che già possiedo e uso.
Mi batto per il diritto di sparlare nella mia lingua e in qualunque altra io sia capace e l'essenziale è la libertà formale, e peggio ancora imposta dalla legge, di usare la mia lingua per dire quel che mi fa dire la volontà dei padroni. A meno che non mi si voglia convincere che legalizzando l'uso della lingua sarda, io e la mia gente possiamo finalmente dire in "sardo ufficiale" e con "limba deretta" tutto quello che pensiamo di quella manica di furfanti, di ladri e di assassini al potere, facendo nomi e cognomi, senza finire in galera o sotto qualche scarica di mitra di un provocatore travestito da sbirro o da brigatista.

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