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Indice articoli


Capitolo secondo

ARBILI / APRILE

Con aprile è veramente primavera. Il mese apre con un giorno dedicato al piacere degli scherzi e delle risate. Purché non siano eccessivi, gli scherzi - dicono i vecchi. E purché si facciano soltanto in quel giorno, ché dopo è tempo di lavorare, d'essere seri. "E it'est torrada, sa prima dì de arbili?" (E' forse tornato il primo giorno di aprile?) si ammonisce chi scherza fuori luogo.
Aprile apre le bocche al riso e le gemme alla fioritura. Arbili bogat sa beccia de su cuili, leva la vecchia dal letto, e torrat su lepori a cuili, e la lepre ritorna alla tana, con il bel tempo e se ne sta in osservazione.
E' Pasqua, Pasca. La resurrezione del Cristo coincide con la resurrezione della natura, dopo il letargo invernale. Questa ricorrenza viene detta più esattamente Pasca Manna (Pasqua Grande) per distinguerla dal Natale, detto Paschiscedda (Pasqua Piccola).
Una festa del Rinascimento che nel mondo contadino è visibile e vivibile nel rifiorire della natura e in ogni aspetto della vita di cui l'uomo non è soltanto testimone ma partecipe. I campi, le colture, gli orti, i cortili, gli animali, le case, l'abbigliamento e perfino l'arredamento si trasformano, si rinnovano. E' il ciclo eterno della vita che riprende dopo la stasi invernale.

SA BERBEI
Notizie sulla pecora

“Resa del latte. Adesso ci sono allevamenti che adottano la stalla razionale e campi irrigati a foraggera e c'è una maggiore produzione di latte. Tempi addietro, durante un anno, in media, annate buone e annate siccitose, una pecora produceva 140 litri, nel periodo naturalmente primaverile, durante la nascita degli agnelli. Questo almeno nella nostra zona, nei Campidani.

Su callu. Nasceva l'agnello, prime nascite a novembre. Andava avanti, cresceva pian piano e nel periodo di Natale si faceva la prima selezione, la prima macellazione. Che cosa facevano i pastori? Macellavano gli agnelli e conservavano lo stomaco. Nello stomaco c'è una parte di latte e una parte di erba, perché avevano cominciato a brucare, e si puliva dell'erba. Poi si teneva nella capanna ad affumicare, quindi si metteva in salamoia. Lo usavano per coagulare il latte, per fare il formaggio. Questo era su callu, il caglio. Ne tagliavano un pezzetto e lo avvolgevano in un pannolino; lo introducevano nel latte e con una mano lo spremevano, maggiormente con la mano destra, che è quella che lavora. Con il palmo della mano sinistra raccoglievano un po' di latte e sopra vi facevano stillare il caglio. E si osservava quanto tempo su per giù impiegava a coagularsi il latte sulla palma della mano. Allora si smetteva di metter quaglio. Si dava una frullata al latte del calderone e lo si lasciava riposare. Quindi si faceva il formaggio...”
(Testimonianza. Dolianova, 1982)

SU CASIDD' E MULLI (MUSSORGIU)
SECCHIO PER MUNGERE (SECCHIONE)

“Era un contenitore di latta, a forma di cilindro, detto anche lama o mustroxu. Si usava per la mungitura delle pecore, senza essere una misura di capacità specifica.
Quando si era in diversi pastori, tre o quattro, nello stesso ovile, per misurare la quantità di latte delle pecore di ciascuno non si usava il litro o il decalitro, bensì una bacchetta di legno diritta.
Si cominciava la mungitura con le pecore di un pastore, e il latte di sua proprietà finiva in su casiddu de mulli, nel grande contenitore di bandone. Ci si infilava allora la bacchetta e si faceva una tacca al livello del latte. Quindi si aggiungeva il latte prodotto dalle pecore del secondo pastore, si infilava la bacchetta e vi si faceva un'altra tacca. E così via. Si stabiliva così la percentuale di ciascuno.
Se per esempio si producevano in tutto cento litri di latte e ad uno ne spettavano venti litri, essendo un quinto si prendeva tutto il latte del giorno, che era l'equivalente della sua quota di cinque giorni. E così pure gli altri pastori, in rapporto alla quantità media indicata con quel sistema di misura.
Era una specie di cooperativa all'antica, una socceria che si chiamava a cumpangius, univano le pecore in un unico branco e usavano pascoli comuni e un ovile comune. Si fadiad a cumpangius, ci si organizzava da compagni, per aver più libertà, per non essere schiavi del lavoro. Ciascuno aveva un piccolo gregge di 3O pecore, li mettevano insieme e facevano un gregge di cento o duecento capi. Facevano i turni per custodire gli animali e potevano avere tutto in una volta una grande quantità di latte da lavorare per produrre ricotta e formaggio. Se si era in sei, significava lavorare un giorno alla settimana. Certo, quando era periodo di piena, andavano tutti quanti, di mattina, a fare la mungitura; ma poi ne restava uno, massimo due, a continuare il lavoro; e gli altri se ne andavano a svolgere magari altre attività. A quei tempi, il latte prodotto non veniva conferito ai caseifici. Veniva lavorato nello stesso ovile. Una minima parte veniva portato fresco, con is bandonis, recipienti di latta, a dorso di cavallo, in paese per uso familiare. La gran parte veniva cagliato e trasformato in ricotta e formaggio. Salatura e stagionatura si facevano in casa.”
(Testimonianza. Dolianova, 1982)

PECORA DI MONTAGNA E DI PIANURA

“In Sardegna abbiamo i Campidani e abbiamo le zone di altura, su Capesusu, le Barbagie. C'è un abisso di differenza fra il formaggio che si produce qui e quello che si produce lassù...
Cosa vuol dire? Che i pascoli migliori sono lì. Non saranno abbondanti, in certi periodi, ma sono ricchi. Come gusto, come resa, lassù il prodotto è sempre migliore, sia la carne siano i latticini.
Lì, la natura è più adatta. Appunto per questo è lì che gli allevamenti si sono sviluppati. La terra lì dà frutti meravigliosi al pastore! Macellando una bestia della stessa età, una nata e allevata nei Campidani e l'altra nata e allevata nelle alture del Gennargentu, la differenza della carne è un abisso. Si prenda per esempio l'osso di una pecora del Campidano, ha il midollo grosso, come questa penna da scrivere. Macelliamo invece una pecora di lassù, ha il midollo finissimo, perché ha l'osso più robusto.
Prendiamo due bestie a peso vivo, una di qui e una di là, poniamo che ognuna pesi 45 chili, bene: questa ha una resa e quella un'altra, migliore. Questa dei Campidani, una volta scuoiata, pesa 20 chili di carne netta; mentre quella del Nuorese pesa dopo scuoiata e pulita 22/23 chili di carne netta.
Una differenza c'è anche nel latte. Qui, 100 litri di latte danno 18/19 chili di formaggio fresco, pesato prima di metterlo in salamoia; lì, il latte di pecora rende dai 20 ai 22 chili di formaggio...E' tutta una questione di terra. Ogni terra dà i suoi frutti.”
(Testimonianza. Uras, 1980)

SU CASU MALZU
IL FORMAGGIO MARCIO

“Su casu malzu, il formaggio marcio, non si trova nelle botteghe perché ne è vietata la vendita. Dicono che è un formaggio avariato, ma non è vero. Quelli della finanza lo sequestrano...per mangiarselo loro. Per noi è un cibo prelibato, una vera leccornia.
Proprio l'altro giorno sono andato con un amico pastore al quale gli era scappata una cavalla. Gliel'ho ritrovata, presa no, perché era in mezzo a un branco di cavalli selvatici, nella zona dei Monti di Serpeddì. Quel mio amico ha pecore e capre e fa un po' di formaggio in casa, dopo chiusa la campagna di conferimento al caseificio. E gli ho detto: "O Luisu!" " Ou!" "Là ca bollu unu paghedd'e casu malzu; allogamindi". Conservami un po' di formaggio marcio. E lui: "Bai ca ge d'in d'allogu!", vai che già te ne conservo.
Si può produrre anche artificialmente, però è meglio quando viene al naturale. Quando si vede una forma gonfia...maggiormente d'estate. Il latte, nel periodo caldo, con i pascoli secchi, è più grasso, e questo grasso provoca un gonfiore al formaggio, si lievita. Ciò indica che tende a marcire. Se si vuole favorire la marcitura, abbreviarne il tempo, si fa un piccolo foro, si leva un tappino di buccia, e ci si mette un po' di pepe macinato e qualche goccia di olio d'oliva. Quindi si rimette al suo posto il tappino di buccia. Quella forma diventa così tutta marcia. Una vera specialità.
Naturalmente, nel periodo della marcitura si riempie di vermicini. Se si lascia stare, col passare del tempo, i vermi spariscono e rimane soltanto la buccia con dentro una crema.
Su casu malzu si mangia spalmato nel pane e richiede molto vino. Infatti si dice "Pani e casu e binu a rasu", pane e formaggio con vino fino all'orlo (del bicchiere).”
(Testimonianza. Sinnai, 1982)

SU CALLU DE CRABITTU
IL CAGLIO DI CAPRETTO

“Un'altra prelibatezza tipica del mondo pastorale consiste nel contenuto dello stomaco del capretto da latte, detto call' 'e crabittu.
Il capretto viene macellato quando mangia solo latte, niente erba. L'agnellino da appena nato va appresso alla mamma nel pascolo, succhia il latte e mangia erba. Il capretto invece da appena nasce resta nell'ovile, in un rifugio appositamente costruito che nella nostra zona si chiama aili. Non è da confondersi con l'ovile, che si chiama madau o anche cuile o istazzu che comprende tutto il complesso dove si tiene il gregge, la baracca del pastore, i chiusi per la mungitura, s'oprigu, la tettoia per riparare le pecore, e tutto il resto.
S'aili indica esclusivamente il serraglio, fatto in tronchi di legno a due schienali, lungo diversi metri e largo circa un metro e mezzo, ricoperto di frasche e di terra, dove vengono tenuti i capretti. All'interno, sulla terra battuta, si metteva uno strato di frasche di lentischio fresco e folto che proteggeva i capretti dall'umido e dalla sporcizia e veniva sostituito secondo la necessità e il numero degli animali.
Su callu de crabittu, lo stomaco del capretto, veniva e viene usato anche come caglio. Per mangiarlo, si sceglie pulito, perché se il capretto non va al pascolo qualche cosa la rosicchia nel serraglio, corteccia o foglia di lentischio, e soprattutto si rosicchiano l'un l'altro. Ed ecco perché si ritrovano peli nel suo stomaco.
Come gusto, su callu de crabittu assomiglia a su casu malzu, ma è molto più piccante.”
(Testimonianza. Dolianova, 1982)

LA TERRA SENZA ALBA
Una pagina di storia

“Nella gaiezza policroma della sua piazza - dove da molti anni le scritte DUX - REX ottenute con ben sforbiciati ligustri sono state sostituite da rosai e ortensie - Arborea, già Mussolinia, si sforza di nascondere al visitatore le lacrime, il sacrificio, il sangue che è costato alle povere comunità del Campidano. Voluta e nata da una sfida umana alla palude e al deserto; pensata e creata per la redenzione dalla schiavitù del bisogno, Arborea poco sa dire della sua storia, poco ha redento i servi della gleba. Il lavoro di migliaia di braccia, la vita di alcune generazioni, ha trasformato, ha bonificato una natura disordinata e avversa per arricchire soltanto un pugno di padroni che non possedevano neppure il merito di parlare la lingua dei Sardi. Questo, certo, non può dirlo il civettuolo giardino della piazza, su cui dominano le pietre grigie della chiesa a Est e il municipio a Ovest.

Arborea è qualcosa di più di un villaggio agricolo "modello" sorto, a dispetto della natura, su una palude bonificata: Arborea è stata ed è il banco di prova della volontà di rinascita dei Sardi, ed è il banco di prova della programmazione nel settore agricolo-industriale.
"Arborea - si dice commettendo un falso storico - è stata un'opera intelligente del regime fascista".

Il 1919 è un anno denso di fermenti sociali, di ansie di rinnovamento. Il tradimento delle promesse fatte ai nostri pastori e ai nostri contadini quando la patria subiva la disfatta di Caporetto; l'impegno non mantenuto di una giustizia economica e sociale a vittoria ottenuta; i profitti dei grassi borghesi arricchitisi a dismisura alle spalle del combattente; l'inflazione come ricatto e l'assoluta mancanza di potere di acquisto della lira; l'assenza di calmieri per i generi alimentari di prima necessità indignarono e maturarono la coscienza dei lavoratori a livello della protesta di massa - ancora disordinata e spontanea ma chiaramente rivoluzionaria. Alcuni tumulti scoppiarono anche nell'Oristanese, e centinaia furono gli arrestati, fra cui numerose le donne. Era il pretesto per gli Scelba di allora: L'ordine e le istituzioni sono in pericolo; necessita un governo forte.
Interprete della profonda esigenza sociale di rinnovamento fu un singolare personaggio, ancora idolatrato dalle popolazioni del centro dell'Isola: Felice Porcella. Avvocato estroso e pugnace, sindaco di Terralba, suo paese natale, pubblicista assiduo, assessore comunale della città di Oristano, deputato al parlamento per la corrente socialista riformista dal 1913 al '19, dedicò la sua opera intelligente alla soluzione dei problemi che travagliavano la sua terra.
"Io ero un assiduo lettore dei suoi articoli", ricorda un anziano socialista di Oristano. "Egli usava firmare i suoi articoli con lo pseudonimo di Satana, forse rifacendosi al simbolo progressista che questo nome aveva rappresentato per il Carducci nel suo noto inno giovanile."
"Sono stato al fianco di Felice Porcella in mille battaglie", testimonia il maestro Curreli di Oristano. "Il popolo era con lui, quando durante le elezioni politiche del '13 fu candidato in opposizione a Carboni-Boy (lo zio dello stesso che si vota adesso nella DC), dato che allora vigeva il sistema del collegio uninominale anche per la Camera. Felice Porcella non aveva santi in paradiso e pagava di tasca la campagna elettorale. Carboni-Boy, rappresentante dei reazionari, era protetto e foraggiato dal deputato uscente on. Parpaglia. Ricordo un comizio nel quale Porcella esclamò: - Carboni...bue, che ingrassa e prospera mangiando Par...paglia! - Immenso fu il giubilo popolare a elezioni vinte. La gente di Oristano e dei paesi vicini si recarono in massa sotto le finestre di casa sua in via Diego Contini per applaudirlo e se ne andarono soltanto dopo che egli parlò..."
"Egli era temuto e odiato dai reazionari di quel tempo. Egli volle la diga del Tirso, fonte di energia per una futura industrializzazione, ma più ancora per la bonifica e l'irrigazione del Campidano di Oristano. I padroni delle peschiere, i Carta, sostenevano l'inutilità della diga che avrebbe danneggiato con le loro peschiere l'economia della zona. "Testimonia il signor Satta. E conclude: "La stampa padronale, capintesta L'Unione Sarda, lo avversarono fino alla calunnia. Tutti sanno che sue perspicue opere furono l'acquedotto e le scuole statali di Terralba, opere eccezionali per quei tempi. Eppure ebbero tanta sfrontatezza da scrivere: - L'Onorevole Felice Porcella è giunto da Roma con un vestito nuovo di lana di Barberia color mattone - (Barberia era il fornitore dei laterizi per l'erigendo palazzo scolastico.) Ma il popolo non ha dimenticato che egli morì in grande povertà, quel 1931; dopo aver rifiutato onori e cariche che il fascismo reiteratamente gli offerse, alternando le offerte alle minacce."
Il nome di Felice Porcella resta legato alla più grande opera di bonifica che la storia della Sardegna ricordi: da Marceddì alla Tanca Marchesa, dal Sassu di Terralba al Cirras di Santa Giusta, dove regnavano paludi, desolazione, giuncaie, malaria e fame, egli sognò (e lottò con le sue genti) la redenzione e il progresso.
Costituitosi "L'Ente per la Bonifica della piana di Terralba e adiacenze", preparato un originale progetto di trasformazione idraulica e agraria, approvato in Parlamento e stanziati i primi contributi (Porcella riuscì a interessare vivamente al suo progetto i deputati veneti e del Meridione), si diede il via ai lavori.
Il primo lotto, la deviazione del Rio Mogoro (imbrigliato più a monte da una diga) a Sud di Terralba, si iniziò il '21 su progetto e direzione di Dionigi Scano - il noto storico - e dell'ing. Dolcetta.
Il comune di Terralba, intanto, stipulò un contratto con l'Ente di Bonifica: la cessione in enfiteusi per venticinque anni delle sue terre in cambio della trasformazione e valorizzazione delle stesse.
"Già nel 1920 si erano raccolti intorno a Dionigi Scano i pochi tecnici che avesse l'Isola allora: Paolo Melis, Guido Giovannangeli, Eleutèrio Dessì, Francesco Puddu, Efisio Maxia e ancora altri che la mia vecchia memoria non ricorda più." Ci ha scritto così uno di loro. "Furono i primi pionieri della Rinascita, quella fatta senza lapidi e senza fanfare. La manodopera venne prelevata in tutto il Campidano, interamente composta di Sardi".
Nel 1922, con base alla Tanca Marchesa, iniziarono i primi lavori di bonifica agraria, sempre con larga partecipazione di lavoratori sardi. "Non a caso", spiega un tecnico di allora, "ma in obbedienza al contratto di enfiteusi stipulato tra il Comune e l'Ente di Bonifica, che imponeva una forte percentuale di manodopera locale, fino al completo assorbimento della grande massa di disoccupati, riservando ai continentali soltanto quei settori di specializzazione per i quali i Sardi di quel tempo purtroppo non erano preparati".
"Terralba e paese limitrofi", testimonia un anziano operaio, "capirono e vollero con tutta la loro forza, a costo di enormi sacrifici, la grande Bonifica. E' vero, ci furono molti scettici all'inizio, nella popolazione; i poveri siamo fatti così, siamo diffidenti. Non si pensava, vivendo in tanta miseria e arretratezza, che si potessero possedere e usare strumenti tali da trasformare paludi salmastre in campi di grano e vigneti."
"La prova che i Terralbesi specialmente capirono quanto fosse importante per il loro avvenire la redenzione di tali plaghe paludose e malariche" - precisa un altro testimone - "è dimostrato dal senso di responsabilità, che è sacrificio, che essi ebbero accettando l'esproprio e la cessione dei loro terreni migliori (quasi tutti vigneti) per l'attraversamento del nuovo alveo del Rio Mogoro e per l'altre opere di canalizzazione esterne alla Bonifica ma essenziali alla realizzazione della stessa. Essi, i Terralbesi, contavano di rifarsi con la piena occupazione della manodopera, con il commercio, con la prosperità conseguente a una così grande mole di lavori, ma soprattutto con la valorizzazione dei terreni comunali, ceduti per venticinque anni, nei quali speravano allo scadere di questo termine di stabilirsi come mezzadri colonici o affittuari".
Queste, le legittime aspettative dei Terralbesi. Ma nello stesso 1922, la trasformazione dell'Ente di Bonifica per la piana di Terralba e adiacenze in Società Bonifiche Sarde, società per azioni con sede in Roma, fu il primo grave sintomo di una politica economica e sociale basata sul profitto del capitale privato che si sostituiva, vuotandola di contenuti progressisti, a una iniziativa popolare finanziata dallo Stato. Il capitale continentale, sostenuto più tardi dal fascismo che si andava consolidando nel Paese, avrebbe pochi anni dopo ridotto gli abitanti della zona - i veri promotori e padroni - al rango di indigeni da colonia: manovalanza da gettare negli acquitrini delle paludi; vite da spremere, da sfruttare per un tozzo di pane. E quando il duce del fascismo, tolti di mezzo gli oppositori, dopo il '26 sedette a braccia conserte sul soglio del potere applaudito e incensato dai padroni di tutt'Italia, la Società Bonifica Sarda vestì la camicia nera e la fece indossare a tutta la bonifica, alle idrovore e alle aie, ai canali e alle stalle, alle pinete e perfino ai pioppi e agli eucalipti...
La Società tanto fece e brigò che ottenne l'approvazione (naturalmente con i contributi) per l'edificazione di un villaggio. Mussolini si commosse e allargò la borsa al sentire che gli azionisti della S.B.S. lo dedicavano alla sua "divina" persona, chiamandolo "villaggio Mussolinia". Un villaggio che non arrivava a 500 abitanti, le cui terre pagate ai legittimi proprietari meno di 5O lire a ettaro, era soltanto il pretesto per derubare il comune di Terralba". Così dice un anziano amministratore del comune di Terralba.
Infatti, nel '29, il villaggio Mussolinia, frazione di Terralba, la carta su cui gli abitanti della stessa Terralba avevano puntato tutto il poco in loro mano, con un atto illegale e arbitrario, viene decretato comune autonomo. Perché la "ruberia" si compisse con una parvenza di legalità, era necessario che il podestà di Terralba firmasse l'atto di cessione. Quello in carica rifiutò, non lasciandosi intimidire da alcuna minaccia; fu allora dimesso e censurato. Il prefetto non tardò molto a trovare nella vecchia nobiltà spagnolesca un relitto morale da nominare nuovo podestà. La cessione si fece, l'enfiteusi venne stracciata, migliaia di ettari passano da Terralba al nuovo comune di Mussolinia e diventavano proprietà degli azionisti della S.B.S. i quali ora possedevano in effetti un comune tutto loro. L'ingordigia padronale era placata. Dei due milioni circa che il comune di Terralba avrebbe dovuto ricevere come indennizzo, soltanto un terzo venne effettivamente versato; gli altri due terzi rimasero come fondo cassa per il neo comune di Mussolinia - cioè a dire nelle tasche dei gerarchi di allora.
"La reazione dei Terralbesi e di tutto l'Oristanese fu grande e disperata", ricorda un testimone. "Essi capirono di aver perduto quanto Felice Porcella, i loro pionieri, i loro contadini espropriati e tutti i lavoratori avevano preparato in lunghi anni di lavoro e di sacrificio. Terralba aveva perso la sua mano destra. I paesi della zona restavano più poveri di prima. Mussolinia era diventata un pezzo del continente slegato dagli interessi dei Sardi - se non per la continua richiesta di manovalanza da gettare come canneggiatori nella costruzione di canali e di ponti, nelle opere di bonifica che si andavano allargando e potenziando con il massiccio intervento di contributi statali".
"Dal 1929 in poi", testimonia un geometra della S.B.S., "fu organizzata una vera e propria caccia al sardo. Allontanato l'ing. Dolcetta ne fu nominato un altro, di molto più modesto valore, autoritario e prepotente come volevano i tempi, con l'unico obiettivo di incamerare e moltiplicare i beni della propria azienda e di beneficiare accoliti e protetti che piovevano dal continente come avvoltoi su un gregge indifeso. Quattro sole, allora, su alcune centinaia, le famiglie di mezzadri sardi. I tecnici dei primi anni, allontanati o ridotti al rango di scrivani..."
Le conseguenze sono visibili e valutabili ancora oggi. Subentrata nel secondo dopoguerra l'ETFAS alla Società Bonifiche Sarde (espropriata con fior di miliardi, per una proprietà rubata!) i mezzadri veneti hanno venduto e se ne sono ritornati per la maggior parte nella loro regione. La crisi generale dell'agricoltura, la gestione dell'ETFAS manovrata dai politici, l'impossibilità per i lavoratori della terra di pagarsi i debiti con i miseri raccolti, il tradimento dei fini per cui era sorta la bonifica di Arborea, l'ex Mussolinia, lo spopolamento delle sue case coloniche e dei suoi campi.
Ora si chiamano i Sardi a salvare Arborea. Quegli stessi Sardi traditi, sfruttati, umiliati. Ma Sardi ce ne sono rimasti pochi. Molti sono morti di malaria vangando nelle paludi. I loro figli sono partiti disperati a ingrassare i capitalisti stranieri. Pochi vecchi e molti bambini sono rimasti - pieni di rancore, chiusi dalla diffidenza.
Eppure, e nonostante tutto, nei Terralbesi è ancora viva la volontà di riscatto. Essi hanno di recente rifatto la loro Piazza - il centro della vita sociale, l'Agorà del Sardo - una delle più vaste, più belle dell'Isola.
E io dico ai Terralbesi - e chi parla è un terralbese: Usciamo dai rancori e dalle diffidenze. E' ancora, e più di prima, tempo di lotta e di rivoluzione. Risorga Arborea per volontà e per mano dei Sardi. E per il profitto dei Sardi, stavolta. Risorga nella simmetria dei suoi campi, nelle sue officine e nelle sue industrie, nei suoi allevamenti e nei suoi commerci, nei suoi vigneti e nelle sue spiagge e nelle sue meravigliose pinete. Ma siano i Sardi attivi e presenti, siano essi uniti e affratellati nel lavoro e nella difesa del loro patrimonio.
E a conclusione, le parole scritte da uno dei pionieri di Terralba - la "terra senza alba" - che ha dato oltre quarant'anni di vita alla "grande Bonifica":
"E' stata una realizzazione di enorme portata. La trasformazione della zona è stata imponente. I giovani di oggi forse non capiscono quanto sangue occorra per fare di una immensa palude grigia un giardino fiorito - senza i mezzi meccanici di oggi, con la sola forza delle braccia. Chilometri e chilometri di strada, pietre su pietre gettate su un mare di fango...canali di raccolta e di irrigazione, scavati con le pale e con i picconi, per rendere feconda la terra sabbiosa salmastra...anni e anni sotto le tende e le baracche in un clima pestifero funestato dalla malaria, per edificare ville, case coloniche, stalle...il sole ha bruciato e scarnito schiere di lavoratori come schiavi perché attecchissero e allignassero gli alberi delle fasce forestali e fosse così frenato e imbrigliato il furioso salmastro vento del maestrale...Un inferno trasformato in un paradiso. Ma chi ha goduto, chi gode di questo paradiso? Una società di azionisti continentali, un'équipe di tecnici continentali, una colonia di mezzadri continentali. Una terra redenta, sì, ma anche una greppia dove per lunghi anni dirigenti e funzionari e mezzadri si sono avvicendati richiesti sempre dal continente; mentre gli isolani per non morire di fame partivano alla ricerca di un lavoro in terra straniera. Eppure, in Sardegna, se i Sardi realizzassero per i Sardi una decina di bonifiche come questa della piana di Terralba, integrate come questa con l'industria - basterebbero certo a evitare l'esodo delle attuali generazioni, basterebbero a realizzare il tanto ventilato Piano di Rinascita".
(Estratto da "Sardegna oggi" - Rivista quindicinale
n° 30 del luglio 1963 - Cagliari)

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