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Capitolo terzo

MAJU / MAGGIO

Maju, dal latino maius, di Maia, divinità agreste associata al culto di Vulcano nell'antica Roma. Sostituita dopo il Cristianesimo con la Vergine Maria, cui questo mese è attualmente dedicato.
Allirgu che maju, si dice di persona oltremodo ilare, lieta, di buonumore, allegro che maggio.
Un mese benedetto, dunque, per l'uomo della terra, contadino o pastore che sia, che rinvigorisce, talché "in su mesi de maju dogna ronzinu est cuaddu, ogni ronzino diventa cavallo; giusto il detto latino "Nullus equus quin mense majo hinnitum edat".
Tuttavia, per persona tarda sonnolenta si dice "Longu che su mesi de maju, lento che mese di maggio, perché la sua mitezza di clima invita alle placide sieste pomeridiane nel riposante verde della campagna.
Secondo una tradizione ripresa dai Romani, il primo giorno di maggio veniva celebrato tra feste e canti.

PANE E DOLCI A QUARTU

Quartu Sant'Elena, la terza città dell'isola, è considerata il centro culturale del mondo contadino del campidano del Sud, di cui conserva usi e costumi e di cui è punto di riferimento e stimolo di crescita civile: e non esclusivamente sul piano del folclore.
E' fuori luogo, in questo volume, parlare della bellezza dei suoi costumi (in particolare del tradizionale abbigliamento femminile) che tanto interesse e ammirazione suscitano nei turisti ogni volta che appaiono in occasione di feste e sagre. Mi pare tuttavia doveroso un accenno al suo celebratissimo pane, ai suoi rinomatissimi dolci, che hanno come base le mandorle, alle sue squisite fritture, e infine a qualcuna delle sue saporose pietanze.


“Si ricordano quattro tipi di pane rimasti ancora nell'uso comune: su moddizzosu: è una grossa pagnotta cupolare confezionata con farina di semola. Durante la cottura viene inciso nella parte alta con una punta di coltello ottenendo una spaccatura.
Su civraxu: è un pane grosso (circa un chilogrammo) di base più o meno rotondeggiante. E' confezionato con la farina integrale, che contiene cioè una certa quantità di crusca. E' un pane diffuso in tutta l'isola e in particolare viene celebrato quello di Sanluri per la sua grandezza (anche due chilogrammi).
Su coccoi: è un pane di semola lungamente lavorato col palmo della mano sopra un tavolo (ciuergidura, gramolatura).
Su coccoi viene di solito sforbiciato o sfrangiato con sa serretta (rondella per tagliare la pasta sfoglia) onde ottenere un pane croccante. Talvolta su coccoi ha la forma di collana o di colomba. Se ne preparano per la Pasqua e soprattutto per il matrimonio.
Is cardigheddas: pane impastato con su scetti (la farina OO) a cui si dà la forma di una serpentina, assumendo dopo cotto l'aspetto di una rudimentale graticola.

Quartu offre anche una gamma vastissima di dolci, confezionati da numerose imprese artigianali, a conduzione familiaristica o anche a carattere semi-industriale. I dolci che elenchiamo e che sommariamente descriviamo hanno tutti una caratteristica comune nell'ingrediente principale, la pasta di mandorle, e inoltre sono cotti al forno.

Guefus: pallottole di pasta di mandorle macinate, zuccherate, e insaporite con acqua di fiori d'arancio, quindi avvolte in carta di seta multicolore sfrangiata ai bordi.
Is pastissus: dolcetti a forma di rombo, hanno un involucro di zucchero (decorato con treggea, diavoletti, minuscole palline di zucchero argentato) racchiudente pasta di sfoglia di mandorle. La sfoglia di mandorle si otteneva un tempo con speciale grattugia.
Is candelaus: sono scodelline di zucchero contenente pasta di mandorle aromatizzata come i precedenti con essenza di fiori di arancio. Spesso vengono lavorate in varie fogge, a forma di scarpette, di uccellini, di frutti diversi: pere, fichidindia, ecc.
Is bianchittus: meringhe, cioè bianco d'uovo montato a neve, infarcito di pinoli o mandorle tritate, le cui formelle vengono poi messe al forno. Di gusto delicatissimo, si sciolgono in bocca come zucchero filato.
Is pabassinas: si ottengono impastando farina, uva passa, mandorle tritate, sapa, zucchero, noci, quindi si compongono a forma di rombo o di cuore e glassate in superficie con zucchero, altrove bagnate nel miele.
Su pani de saba: grosso pane a forma di cupola, confezionato con farina, sapa e uva passa, da servirsi tagliato a fette come una torta.
Is pirichittus: delicati dolci a forma di palla ottenuti con impasto di farina e uova. Sono molto lunghi i tempi di lavorazione e di fermentazione per cui tali dolci aumentano di molto il loro volume "si gonfiano". Vengono ricoperti poi di zucchero glassato e di mandorle tostate.
Is amarettus: medaglioni di pasta di mandorle macinata, con aggiunta di mandorle amare, abbrustoliti al forno.
Is pistoccus: una sorta di pan di Spagna; hanno la forma di bastoncini rettangolari ricoperti nella parte superiore di glassa di zucchero e di cioccolato.

La maggior parte dei dolci da forno che sono stati descritti venivano decorati con traggea o traggera, diavoletti, microscopiche palline di zucchero argentate o colorate; specie is candelaus e is pastissus erano guarniti con ghirigori di zucchero filante.
Tra is fritturas, le fritture, si annoverano is zippulas, pasta lavorata e insaporita, quindi fritta nell'olio d'oliva; is meraviglias, le meraviglie, pasta sfoglia fritta. Sono dette altrove anche culirgionis de bentu o pillus frittus. Sono, tali fritture, tipiche del carnevale sardo.

Non si riportano alcune pietanze celebrate a Quartu perché comuni anche in altri paesi della Sardegna, come is malloreddus e is culirgionis e su brodu de pudda o pudda buddia, per descrivere sommariamente quelle tipiche.
Un antipasto "tutto quartese", e pare di gusto sopraffino, è costituito dalle grosse cipolle bianche lessate al dente e condite con olio e aceto (nel Campidano oristanese le stesse cipolle si cucinano al forno).
Un piatto per buongustai è quello di is caboniscus, galletti di primo canto rosolati in poco olio - alcuni sostengono che siano assai più saporiti di quelli Amburghesi.
Un piatto che l'Autore ritiene fra i più gustosi del mondo è lo spezzatino di agnello in salsa verde con uovo e limone. La ricetta di questa squisitissima pietanza è tenuta segreta dalle poche donne che la conoscono, tra queste mia madre: mi riprometto nel terzo volume dedicato alle feste di fornirla per la gioia dei lettori golosi.
Infine sa panada, una grande torta di pasta di grano impastata con lo strutto e riempita di carne di agnello e piselli in salsa rossa. Insomma una specie di enorme culirgioni.
(Quartu - Notizie tratte da una testimonianza di A. Curreli relative agli anni '30-'40).

IL PANE IN BARBAGIA
Racconto di Bonaventura Mameli

"La vigilia dell'infornata, sul tramonto, mia madre seppelliva in segreto una palla di pasta color terra nella farina intrisa con l'acqua tiepida e salata. Poi, disegnata con la punta di un dito una croce sul mucchio, non so quali parole o preghiere bisbigliasse muovendo appena le labbra; come si fa davanti a una sepoltura. Ma passavano pochi momenti, e lei ricopriva tutto con panni di lana, come faceva con noi bambini, quando cadevamo ammalati e, per guarire, dovevamo sudare.
Quella specie di fattura non mi lasciava prendere sonno subito, come le altre sere. Fantasticando finivo col mettermi al posto di quella palla e proprio allora mi addormentavo in un nido di lana.
Ai primi canti dei galli già si lavorava nella cucina. Già impastavano uccelli mai visti in volo; lune che invece di occhi e bocca avevano croci e candelabri; modellavano anche aratri e corni da caccia; mani ferite di Cristo o di San Francesco; simboli di fecondità. Ma la maggior parte della pasta veniva ridotto in grandi ostie per il pane di ogni giorno; ostie che al calore del forno si gonfiavano come otri.
Il forno acceso continuava a mandare dalla sua bocca il buon odore che tiene lontane la morte e le malattie. Si dice che risvegli perfino i morti. Certo fa cantare le donne e le fa parlare della loro età più fresca, degli amori che si aspettavano, e come sono venuti, e come si sono fatti aspettare invano.
Le assistenti dell'infornatrice aprivano queste ostie con la punta del coltello, come ho visto fare alle persone istruite quando tagliano i fogli di un libro nuovo, e accatastavano le due sottilissime lune. Terminata questa cottura, i fogli rotondi venivano introdotti di nuovo nel forno fiammante, per la tostatura. Avevamo i cani, i cani guardiani e i cani cacciatori: e se ne stavano lì, nella cucina calda, come ad attendere un momento della festa. Infatti quando si era finito di pensare ai cristiani, cuocevano le focacce per loro.
Verso l'alba arrivavano i mendicanti. Mia madre, soprattutto d'inverno, appena li sentiva, si affrettava, correva, quasi, a dare loro un pezzo di pane caldo. Le mie sorelle aspettavano la prima luce del giorno e facevano a gara, in ogni stagione, a recare ai parenti più stretti e agli amici più cari un dono del nostro pane. Era uno dei doni più graditi, ed essi ce lo contraccambiavano tutte le volte che accendevano il loro forno. Quel pane ci faceva meno irrequieti del solito per tutto il giorno, come se contenesse una sostanza miracolosa."
(Da "Miele amaro", di Salvatore Cambosu - Vallecchi 1954)

IS BECCIUS DE BIDDA MIA
I VECCHI DEL MIO PAESE

“Nelle belle giornate d'autunno, i vecchi meriggiano in piazza, esposti al solicello di novembre. Siedono sulle panchine, dove ci sono, o per terra, uno a fianco dell'altro, con le spalle al muro.
Il loro passatempo preferito è il colloquiare con i ragazzi - i quali, dal canto loro, nel mezzo della stessa piazza, sono intenti ai loro giochi: is birillas, sa bardufula, a cuaddus fortis, le biglie, la trottola, a cavalluccio.
La tradizione vuole che i vecchi del mio paese siano rispettati da tutti e in primo luogo dai piccoli, che hanno il dovere di ubbidire ai loro richiami e ai loro ordini.
Un vecchio che resti senza fiammiferi o senza sigaro, non ha problema: il primo fanciullo che capita a portata di voce: "Ei, su piccioccheddu! beni a innoi!" - Ei ragazzo! vieni qui! -
"E ita bolid, ziu?" - E cosa desidera, zio? -
"De cali razza ses, tui?" - Di quale famiglia sei, tu? -
"De Antiogu Crabittu, seu." - Di Antioco Crabittu, sono. -
"An, de sa razza de is Crabittus, ses...E a tui, ita ti narant?" - An, della famiglia dei Crabittu, sei...E a te, come ti chiamano? -
"Deu mi naru Paulu..." - Io mi chiamo Paolo... -
"E bravu, Paulu. E a iscola ge ddui andas? Ge hast essiri istudiosu, creu... Intendi, bai e curri a su stangu e comporamì unu zigarru. Frimadì: e dinari non di bolis?" - E bravo, Paolo. Ci vai a scuola, sì? sarai studioso, penso... Senti, vai e corri al tabacchino e comprami un sigaro. Fermati: i soldi non li vuoi? -
Quando non ci sono commissioni da far fare ai piccoli, anche come pretesto di dialogo, i rapporti con i piccoli vengono sollecitati per altre vie. Frequente la via delle facezie, de is contisceddus, i raccontini, delle burle, anche pesanti, per mettere alla prova e temprare le nuove sfornate della comunità.
Anche i piccoli - a ricordare le mie esperienze - non disdegnano l'incontro con i vecchi, che accendono la curiosità e l'interesse per quel loro essere tremuli cadenti eppur sicuri di sé, per tutto il mondo che hanno visto e sanno far riapparire.
Quando, bambino, passavo nella via di ziu Andria nel tardo pomeriggio, lo trovavo immancabilmente seduto sulla soglia di pietra della casa, a godersi l'ultimo solicello all'aria aperta. Mi faceva un cenno con il bacolo che teneva tra le ginocchia e le mani - lo usava per camminare ma anche per tenere lontani gli animali e i bambini impertinenti e per giocare con le formiche che girovagavano per la strada ai suoi piedi.
A quel suo cenno mi avvicinavo.
"Ti prascid s'arangiu?" mi chiedeva. Ti piace l'arancia? -
Ormai conoscevo il suo gioco e per assecondarlo rispondevo:"Sissi, gia mi prascid." - Sissignore, mi piace. -
E lui, allungando la mano con le dita aperte: "Scebera e piga!" - Scegli e prendi! -
Io dovevo scegliere una delle cinque dita. Qualunque dito scegliessi, tirandoglielo, ziu Andria mollava una sonora scoreggia, diversamente modulata: il mignolo era acuta da soprano, il medio pastosa tenorile, il pollice grave da baritono.
Era un formidabile scoreggiatore, ziu Andria, e ne andava fiero: poteva iniziare quel gioco in qualunque momento e poteva portarlo avanti all'infinito. La gente diceva, non senza ammirazione, che le loffe lui le aveva infibadas, infilate l'una dietro l'altra, come perle di una collana.
Ziu Andria era anche bravo a raccontare favole. L'avvio al gioco de contai contisceddus, di raccontar favole, era sempre lo stesso, e rivolto sempre al pubblico infantile.
"Ti prascint is contus?" - Ti piacciono i racconti? -
"Sissi, gia mi prascint." - Sissignore, mi piacciono. -
E avvicinando le dita aperte della mano: "Scebera e piga." - Scegli e prendi."
A ogni dito corrispondevano racconti il cui protagonista somigliava nel carattere a quel dito. Se si tirava il pollice, su contu, la favola, narrava dell'orco o de su para circanti, il frate questuante, che all'orco rassomigliava per via della bertula o del sacco che portavano ambedue a spalla. Se si tirava il mignolo, il protagonista de su contu era un ragazzino, sempre vispo e intelligente, che immancabilmente risolveva questioni da cui gli adulti, dopo essersici cacciati, non riuscivano a cavarne i piedi - frequentemente l'astuzia era rivolta a far fesso l'ufficiale giudiziario pignoratore o il carabiniere alla ricerca della refurtiva o lo strozzino venuto a chiedere il saldo di un prestito capestro. Con l'indice, il dito più forte della mano, uscivano storie di balentes, valenti, latitanti e banditi, crudeli nella vendetta, spietati con il nemico, teneri con le fanciulle e i bambini, prodighi con i poveri, paladini degli oppressi. La scelta dell'anulare invece dava la stura a romantiche novelle di fanciulle, quasi sempre tristi e lacrimevoli: amori contrastati, forzati matrimoni d'interesse, suicidi d'innocenti che davano luogo a disamistades, a vendette e a stragi. Al centro, sgorgavano dal medio i racconti del terrore, is contus de is tiaulus, de is animas mortas e perdias, e perdute, de is iscussorgius, dei tesori, e dei loro infernali custodi.
Erano questi ultimi i racconti che preferivo, che più spesso "sceglievo" tra quelle dita che costituivano le sezioni di una antologia della narrativa popolare.
Specialmente quand'erano in gruppo, stesi a meriggiare nel sagrato "incontro là dove si perde il giorno", i vecchi del mio paese si divertivano a burlare i piccoli.
"Ei, tui, piccioccheddu, beni a innoi!" - Ei, tu, ragazzo, vieni qui! -
"A mei?" - Dice a me? -
"Ei, a tui. Beni a innoi!" - Si, tu. Vieni qui! -
"E ita cumandad, ziu?" - Cosa comanda, zio? -
"E de cali razza ses, tui?" - Di quale famiglia sei, tu? -
"De Sarbadori Scanu, seu." - Son figlio di Salvatore Scano. -
"An, de sa razza de is Iscanus sesi. Ge' dd'assimbillas ei, a babbu tuu. Bravu, ge' ses unu bravu fillu. Bai e curri a s'apotecaria e comperamì cincu soddus de umbra 'e campanibi. Custu est su dinari." - Ah, sei della famiglia degli Scano. Gli assomigli sì, a tuo padre. Bravo, sei un bravo figliolo. Vai e corri in farmacia e comprami cinque soldi di ombra di campanile. Questi sono i soldi. -
Il fanciullo andava di volata in farmacia a comprare "cinque soldi di ombra di campanile". Naturalmente non ne trovava - il farmacista, avvertito, stava anche lui al gioco, e cordialmente rispondeva al fanciullo: "Mi dispiace, non ne ho più, ripassa un'altra volta." Tornava dal vecchio, con i cinque soldi stretti nel pugno.
"Had nau s'apotecariu ca dd"adi spacciada." - Ha detto il farmacista che l'ha finita. -
"Aicci est? Naraddi, insaras, de ti donai una scatula manna in d'una pittica." - Così è? Digli, allora di darti una scatola grande in una piccola. -
Nuova corsa in farmacia, nuova risposta negativa: esaurite anche le scatole grandi dentro le piccole, e nuovo ritorno davanti al vecchio burlone.
"Had nau s'apotecariu ca dd'as had spacciadas." - Ha detto il farmacista che le ha finite. -
"An. Insaras naraddi de ti donai unus cantus sogas de fregula ischidonada. Ma chi siad frisca, chi siad!" - Ah. Allora digli di darti alcuni tratti di fercolo, di semolino, schidionato. Ma che sia fresco, che sia! -
Naturalmente, neppure in farmacia era facile trovare schidionate di fercolo a mo' di salcicciotti, e fresche per giunta. E il gioco burlesco finiva con la restituzione dei cinque soldi, dei quali, almeno uno restava in regalo nella tasca del fanciullo. "Po ti comperai su bobboi... e saludamì a babbu tuu!" - Per comprarti il dolcetto... e salutami tuo padre! -
Nella norma comunitaria che regola non scritta i rapporti tra i vecchi e i fanciulli, le prestazioni che i piccoli sono tenuti a dare agli anziani non prevedono alcuna retribuzione: è assai disdicevole per il fanciullo accettare qualunque mercede per un favore reso. E' usuale invece, ma indipendentemente da una richiesta di favore, che un vecchio - purché del paese - faccia dono di qualche moneta a un qualunque bambino, per simpatia, affinché si compri il "Bobò".
(Santa Giusta di Oristano, 1936)


S'ORTULANU IN CELU
Contu

Ziu Richettu faiat s'ortulanu de candu fiat piccioccheddu. Sempiri incrubau marrendi cupetta, allu e perdusemini. Ci biviat puru in s'ortu, ziu Richettu, ci pappat e ci cenat, ca in ateru logu chi no fessit obertu ddi si serrat sa 'ucca de su stogumu.
Sempiri tirendi erba, in mesu de sa cibudda, de su cauli 'e flori e de is tomatigas. E ci dormiat puru, in s'ortu, ca inserrau in d'una domu ddi pigat a allupadura, senza de podiri dormiri. Aria bona che in Pizz' 'e Pranu non ci 'n di fiat atera. E mancu aqua, liggera e frisca, cumenti 'e cussa chi bessiat de sa mizza accant' 'e sa cresura, non si 'n di buffat in logu perunu.
Sempiri liendi su becciu po torrai a poniri su nou. E attentu a scutullai beni su semini de sa reiga longa, sas prus nodida, po dda torrai a ghettai e a prantai. Mancu sa bidda ddi prasciat prus, troppu burdellosa, cun genti travessa e machinas intiauladas, e piccioccus macus e feminas senz' 'e decoru: an chi ci ddus torrint a su corr' 'e sa furca!
Su mundu de ziu Richettu fiat s'ortu. Ne piticu ne mannu, una quarriscedda de terra. Dd'abbastaiat. E mancu genti ci mancaiat, po chistionai e po s'infromai. Beniant is nebodeddas, fillas de fillus, a cambarada, de mengianu a chizzi finzas a su mericeddu: chi boliat perdusemini e chi fenugheddu, ma sempiri calincuna cosa si dda portaiant: una burraccia de binu o unu civrasceddu o chi fessit pagu a su mancu unu risisceddu de coru.
Sa cenabara beniat fissu ziu Rafiei a ddu bisitai. Issu puru si fiat fattu becciu, e istraccu de s'atturai totu sa dì zapulau in prazza de cresia. Moviat a ora frisca, andendi a pagu a pagu, e una borta arribau si ddu i' stentat puru su sabudu. Si seziant accanta de pari, asutta de sa mattiscedda de olia, e castiant su logu a giru a giru, cumenti chi no ddu hessint mai bistu. Pagu chistionant, ca fiant tot' 'e is duus de pagus fueddus...
E toccat, una dì, ziu Richettu ortulanu s'est mortu. E ddi fiat a essiri disprasciu. No su morriri - ca sa vida non est nudda; ma su hai deppiu lassai s'ortu senza de curreggimentu, senza de ogus po ddu castiai. E chi si dda donat s'aqua e sa marra, o cupettas o afabicas o appius stimaus?
A interru accabau, bessendi de campusantu, biscinus e amigus saludant is fillus e is nuras e is parentis de su mortu.
"A ddu conosci in su celu!" Narant.
Unu modu de nai forzis interessau. Cumenti chi bolessint nai: "Ziu Richettu fiat un'omini bonu e de siguru est andau in su celu. Est unu auguriu a nosus de ddu podiri sodigai".
A ziu Richettu ortulanu, po sa beridadi, non di dd'importat meda de essiri sodigau de totu sa bidda.
Appena lompiu a celu, sa marriscedda a coddu - ca mancu de mortu si 'n di dd'hiant potzia tirai de manus: fiat cument' 'e 'n di ddi tirai unu brazzu - non si 'n ci podiat biri in cussu logu strangiu, plenu de animas passillendi che sennoris o cantendi a una bosci, a su sonu chi faiant is angiulus bola bola.
E luegu currit a circai Santu Sidoru. Dd'agattat e ddi narat:
"Gopai Sidoru, aggiudaimì fusteti ca seis stau messaju, a chi nuncas mi 'n ci ghettu a basciu e mi struppiu, nerimì sceti aundi potzu agattai unu arroghisceddu de celu pasiosu de ddu podiri marracocai."
"Eh, gopai miu", ddi respundit Santu Sidoru, "sa cosa non est arrungiosa. Cument' 'e in terra est in celu: genti meda ma totus a schina cirdina: sa terra a dda traballai non prascit a nemus ca est troppu in basciu. Logu de marrai 'n d'agattat cantu 'n di bolit. Allargu, però. Provit appizzus de cussas nuis..."
"No ddi fait nudda chi siat attesu...mi prascit su logu: Appizz' 'e Nuis assimbillat a Appizz' 'e Planu." Narat, e senz' 'e poniri tempus in mesu, saludat e si incarrelat a marriscedda a coddu, tocchendi cun sa punta de is didus sa farrancada de seminis chi portaiat in bucciacca, pensendi: "Calincuna cresura de figu morisca ge in d'happ'acciapai, po 'n di poniri nais e serrai su logu."
E aici ziu Richettu s'est torrau a fai s'ortu cun d'unu arroghisceddu de celu: ne pitticu ne mannu, una quarriscedda de nuis. Dd'abbastat, e iss'est cuntentu, totu sa dì marrendi allu, cibudda e perdusemini. E hat postu puru una mola de pruna aresti a spinas longas unu didu, ca si ddas hat recumandadas Gesugristu, e po sa Festa de sa Passioni, dogna annu, ddi preparat sa corona po s'Incravamentu.
E hat fattu amicizia cun Gesugristu, chi benit dogna cenabara a s'ortisceddu, ca s'est arrosciu de s'abarrai totu sa santa dì scavuau in Prazza de Celu, narendi Babbunostus. Movit a chizzi, Gesugristu, andat asi' asiu, e si pausat luegu arribau. Si sezzint accant' 'e pari, asutta de sa mattiscedda de s'olia, e castiant su logu a giru a giru, cumenti chi non dd'happant mai bistu. E pagu chistionant, ca sunt tot' 'e is duus de pagus fueddus...

L'ORTOLANO IN CIELO
Racconto

Zio Richetto faceva l'ortolano da quand'era ragazzo. Sempre curvo zappando lattuga, aglio e prezzemolo. Viveva anche, nell'orto, zio Richetto, vi pranzava e vi cenava, perché in nessun luogo che non fosse all'aperto riusciva a star bene.
Sempre togliendo erba fra le cipolle, i cavolfiori e i pomodori. E ci dormiva anche, nell'orto, perché al chiuso di una casa si sentiva soffocare, senza poter dormire. Aria fine come in Pizz' 'e Planu non ce n'era altra. E neppure acqua leggera e fresca, come quella che sgorgava dalla sorgente vicina alla siepe, non se ne beveva da nessun'altra parte.
Sempre a sostituire il vecchio con il nuovo. E attenzione a scuotere bene la semenza del ravanello - il migliore - per seminarlo e ripiantarlo. Non gli piaceva più il paese, troppo chiassoso, con gente scorbutica e macchine indiavolate, e ragazzi svitati e femmine spudorate: che ce li mandino alla forca!
Il mondo di zio Richetto era l'orto. Né piccolo né grande: uno starello di terra. Gli bastava. E non gli mancava la compagnia, per scambiare qualche parola e avere notizie. Venivano le nipotine, figlie di figli, a frotte, dal mattino presto fino alla sera: chi voleva prezzemolo e chi finocchi, ma sempre gli portavano qualcosa: una fiasca di vino o un pane o per poco che fosse un sorriso sincero.
Il venerdì veniva puntuale zio Raffaele a fargli visita. Anch'egli era invecchiato, e s'era stancato di starsene tutto il giorno buttato nel Piazzale della Chiesa. Partiva di buon mattino, camminando adagio, e una volta arrivato ci si tratteneva anche il sabato. Si sedevano vicini, sotto l'alberello d'oliva, e guardavano tutt'intorno, come se quel luogo non lo avessero mai visto. Parlavano poco, perché tutti e due erano di poche parole...
E così, un giorno, zio Richetto l'ortolano è morto. E deve essergli dispiaciuto. Non il morire - che la vita è nulla; ma l'aver dovuto lasciare l'orto senza cura, senza custodia. E chi ve la dà l'acqua e la zappa, o lattuga o basilico o sedano amati?
Finito il seppellimento, uscendo dal cimitero, conoscenti e amici salutano i figli e le nuore e i parenti del morto.
"A ritrovarci con lui in cielo!" Dicono.
Un modo di dire forse interessato. Come se si volesse dire: "Zio Richetto era un uomo buono e di sicuro è andato in cielo. E' un augurio che ci facciamo, di poterlo raggiungere".
A zio Richetto l'ortolano, per la verità, non gliene importava molto di essere raggiunto da tutto il paese.
Appena giunto in cielo, con la zappa a spalla - neppure dopo morto gliela avevano potuta strappare dalle mani: era come strappargli un braccio - non ci si poteva vedere in quel posto inusitato, pieno di anime che passeggiavano come signori o che cantavano in coro, alla musica che facevano gli angeli svolazzando.
E di corsa va a cercare Sant'Isidoro. Lo trova e gli dice:
"Compare Isidoro, aiutatemi voi che siete stato contadino, altrimenti mi scaravento giù e mi storpio, ditemi soltanto dove posso trovare un pezzettino di cielo tranquillo dove possa zappettare.
"Eh, compare mio", gli risponde Sant'Isidoro, "il problema non è difficile. Come la terra è il cielo: molta gente, ma tutti con la schiena rigida: non piace a nessuno lavorare la terra, perché è troppo in basso. Superfici da zappare ne trova quante ne vuole. Lontano, però. Provi ad andare sopra quelle nuvole..."
"Non m'importa se è lontano...mi piace il posto: Appizz' 'e Nuis assomiglia a Appizz' 'e Planu." Dice, e senza frapporre indugi saluta e si avvia con la zappa a spalla, toccando con la punta delle dita la manciata di semi in tasca, pensando: "Qualche siepe di ficodindia deve pur esserci, da prenderne qualche pala e fare il recinto."
E così zio Richetto si è rifatto l'orto con un pezzetto di cielo: né piccolo né grande, uno starello di nuvole. Gli basta, ed è contento, tutto il giorno a zappare aglio, cipolle e prezzemolo. E ha piantato anche un cespuglio di pruno selvatico con le spine lunghe un dito, perché glielo ha ordinato Gesù Cristo; e per la Festa della Passione, ogni anno, gli prepara la corona per la Crocifissione.
E ha fatto amicizia con Gesù Cristo, che viene ogni venerdì all'orticello, perché si è stancato di starsene tutto il santo giorno buttato nel Piazzale del Cielo, recitando Paternostri. Parte all'alba, Gesù Cristo, cammina adagio, e si riposa appena arriva. Si siedono vicini, sotto l'alberello d'oliva, e guardano tutt'intorno, come se quel luogo non lo avessero mai visto. E parlano poco, perché tutti e due sono di poche parole.

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