PARTE QUARTA
ISTADI / ESTATE
Nella variante campidanese l'estate è detta anche istadiali, simile al logudorese istadiale.
E' la stagione che conclude sa laurera, il ciclo produttivo dell'agricoltura, che vede mobilitate in un festoso rito collettivo tutte le componenti della comunità, dai bambini ai vecchi, in sa regorta e s'incungia, nel raccolto e nella conservazione dei cereali nei magazzini e nei solai.
Soltanto alla fine della stagione, per Ferragosto, festività che il contadino celebra in onore della Santa Maria Assunta, si hanno alcune settimane di pausa. I contadini più agiati o quelli che hanno il mare vicino, trascorrono in vacanza questo breve periodo, spesso con tutto il gruppo dei mietitori e delle spigolatrici. In riva al mare costruiscono is traccas, accampamenti di stile beduino.
I mesi de s'istadi, gli ultimi tre dell'anno sardo, sono lampadas, giugno; mesi de argiolas, luglio; austu, agosto. Lampadas, giugno, è così detto, secondo lo storico Spano, per i fuochi che tradizionalmente vengono accesi la notte di San Giovanni; secondo il padre Vidal invece deriverebbe dalle luminarie dei giochi secolari a Roma, svoltisi nel 248 d.c. durante l'impero di Filippo l'Arabo Marco Giulio (204-249).
Mesi de argiolas, luglio, significa letteralmente mese delle aie. E' detto anche treulas dai Logudoresi, dal verbo triulare, trebbiare.
Austu, è chiaramente una contrazione di augustus, il mese del calendario romano dedicato all'imperatore Augusto.
Capitolo Primo
LAMPADAS / GIUGNO
In Sardegna l'estate arriva d'un colpo e fa maturare rapidamente cereali e leguminose e negli alberi la frutta, specie i fichi e le susine di cui i Campidani erano assai ricchi. Nella Marmilla, regione collinosa dove l'agricoltura era un tempo curata e i fertili terreni, specie tra Villamar e Pauli Arbarèi, davano una resa media di grano del 40, a fine giugno le comunità abbondavano de pruna de Sant'Uanni, susine di San Giovanni, distinte in due varietà simili, una di color giallo e l'altra nera, polpose e zuccherine, che venivano vendute a imbudus, misura di capacità pari a tre litri.
Lampadas, mesi de ceresia, chi non comporas non d'has - Giugno, mese di ciliegie, chi non ne compra non ne ha. E' un detto popolare, diffuso nei Campidani dove, a differenza delle zone alte montuose, il ciliegio non fruttifica, ed esprime un concetto lapalissiano: chi non ne ha e non ne compra, è chiaro che non ne mangia. Il più diffuso tra questo gruppo di proverbi, diciamo lapalissiani, è questo che suona: "Fare come a Bosa, quando piove lasciano piovere"; una risposta che segue di prammatica l'esclamazione "Piove!" - anche se seguita dall'internazionale espressione "Governo ladro!"
SU SANTU JUANNI DE FLORIS
IL COMPARATICO DEI FIORI
“Se si domanda a una donna coniugata dei nostri paesi se ha qualche amico, si incorre in uno spiacevole malinteso.
"Amigu? Candu mai teniri amigu!? Oiamomia, t'arrori!" (Amico? Quando mai avere amico!? O mamma mia, che disgrazia!)
Se la donna alla quale si fa la stessa domanda è più aperta, risponde: "Amigu? Ita bolit nari? Ca tengiu fanceddu?" (Amico? Che vuol dire? Che ho l'amante?)
Per le donne coniugate, avere amici è tabù. Gli unici amici che le sono consentiti sono gli amici del marito, che può salutare per strada, con i quali può anche fermarsi a scambiare due parole, sempre in pubblico, ma che non è lecito ricevere in casa quando il marito è assente.
A questa regola fanno eccezione is gopais, i compari, che appaiono una istituzione funzionale, una valvola di scarico in una società sessuo-repressiva. Non si fa riferimento al comparatico da battesimo o da cresima, ma a quello tipico nei ceti contadini, che prende il nome di Santu Juanni de floris, comparatico di fiori. E' questo un legame che si crea tra giovani, nubili e celibi, con promessa di amicizia, sincerità e solidarietà per tutta la vita.
Su Santu Juanni de floris, il comparatico dei fiori, si celebra o dopo il periodo dei lavori agricoli, o dopo il periodo dei bagni al mare, o dopo il periodo dei balli di Carnevale - circostanze in cui si fa vita di gruppo, essenzialmente costituito da coppie di fratelli e sorelle. I giovani che si sono legati da una viva amicizia, celebrano questo romantico comparatico - che per altro può aversi anche tra giovani dello stesso sesso.
La comunità, i genitori e più tardi il marito o la moglie sono permissivi nei confronti di chi ha stipulato tale Santu Juanni, comparatico, e tra i due compari sono consentiti rapporti affettivi pari a quelli che è lecito avere tra parenti stretti e - si dice - anche di più. Sono per altro vietati i rapporti sessuali. Si ritiene che tale comparatico configuri nella pratica un rapporto extra coniugale di tipo platonico, sublimato, e in quanto tale consentito.”
(Da L. Mancosu - Inchiesta di comunità - Tesi di laurea - Cagliari 1973/74)
“Tra le giovani e i giovani che lavoravano soprattutto in campagna e per lunghi periodi, specie durante la mietitura, che dovevano trascorrere insieme non solo le giornate ma anche le notti, perché dormivano in campagna anche per quindici giorni di seguito, si creava un rapporto di amicizia molto profondo e a cementarlo si contraeva su Santu Juanni de floris, il comparatico dei fiori.
Con questo vincolo due amiche diventavano più che sorelle o più che fratelli, se erano di sesso diverso. Non dovevano mai bisticciare, né tradirsi, né parlar mai male l'uno dell'altra, ma rispettarsi in tutto.
Si chiamavano gopai e gomai, compare e comare, non più per nome - come se avessero battezzato o cresimato vicendevolmente un figlio.
Su Santu Juanni de floris si poteva effettuare anche tra giovani di sesso diverso. Di solito accadeva tra spigolatrici e mietitori e perfino tra domestiche e padroncini.”
(Testimonianza. Gùspini 1980)
“San Giovanni è patrono dei giovani, nume tutelare dell'amicizia. Viene festeggiato il 24 giugno, alle soglie del grande lavoro del raccolto del grano.
Il giorno della vigilia di San Giovanni si va alla ricerca dei fiori e di erbe aromatiche; quindi la sera si prepara un catino di acqua di fonte in cui si immergono foglie e petali di menta, marialuisa, malvarosa, rose e garofani.
Il catino viene lasciato all'addiaccio, in su serenu, nel cortile e la mattina dopo al loro risveglio tutti si lavano la faccia con quest'acqua aromatizzata per propiziarsi la benedizione e la protezione del Santo durante il lungo lavoro della mietitura e della trebbiatura: protezione dalle intemperie, dagli insetti nocivi, dal malocchio, e di buon auspicio nel procurare amicizie e affetti. Tale acqua rende morbida e vellutata la pelle del viso alle fanciulle.”
(Testimonianza. Gùspini 1980)
IS ISPIGADORAS
LE SPIGOLATRICI
Nel mese di giugno hanno inizio i lavori del raccolto dei legumi, prima le fave e i piselli, poi le lenticchie e i ceci. Già dalla primavera, le spigolatrici si sono accordadas, messe in accordo, con il mietitore e con il proprietario per avere il permesso di spigolare nei campi di loro competenza.
Le spigolatrici avevano cura di scegliere un mietitore esperto e stimato, che avesse contratti per un lungo periodo, o di scegliere un proprietario che avesse molte terre seminate a grano - così che la raccolta delle spighe residue fosse più abbondante. Nell'accordo, era previsto per la spigolatrice un suo contributo di lavoro, non retribuito, nel raccolto dei legumi; per consuetudine ne riceveva un po' dal proprietario per cucinarseli. Inoltre, durante la mietitura del grano, la spigolatrice aveva il compito di servire il mietitore, portandogli la fiasca dell'acqua quando egli avesse bisogno di bere, e dando una mano alla padrona o alla domestica, quando arrivava con il pranzo per rifocillare gli uomini.
Durante la trebbiatura, doveva ugualmente collaborare - in cambio le veniva trebbiato il grano che lei aveva raccolto spigolando. L'ultima incombenza della spigolatrice era quella di aiutare per s'incungiadura, il trasporto e l'immagazzinaggio del grano.
Una solerte spigolatrice raccoglieva una media di otto o dieci moggi di grano, dai tre ai quattro quintali a stagione.
ANDAI A ISCIUIAI
FARE LO SPAVENTAPASSERI
Nei paesi agricoli dell'Oristanese, tra i lavori riservati al fanciullo, è singolare quello detto andai a isciuiai, fare lo spaventapasseri. Tra le numerose attività tradizionalmente riservate ai piccoli, questa di andai a isciuiai è da loro preferita, perché vi si sentono responsabili e liberi, e non è pesante quanto altre, come il raccogliere olive o mandorle o diradare le piantine di barbabietola.
In che cosa consiste il lavoro del bambino-spaventapasseri? Le tecniche, per altro assai rudimentali, variano da paese a paese. Quando il grano è giunto all'ultimo stadio di maturazione, i passeri lo assalgono per cibarsene. I proprietari allora assoldano bambini per difendere il raccolto, dotandoli di rumorosi attrezzi.
Tali attrezzi consistono normalmente in un barattolo di latta che il piccolo tiene legato al collo con una cordicella e che percuote incessantemente con un sasso o un pezzo di legno, come tamburo. Naturalmente deve nel contempo spostarsi di continuo lungo la linea perimetrale del campo affidatogli in custodia. Altri, più progrediti, usano bombole di gas domestico vuote, sistemate ai quattro angoli, percosse in rapida successione con una verga di ferro. Altri ancora usano un rudimentale fucile così fatto: un tubo di ferro del diametro di circa un pollice; a una estremità, quella chiusa che poggia per terra, è la culatta forata sul cui fondo si pone un pizzico di miscela esplosiva (di solito zolfo e clorato di potassa); quindi una robusta bacchetta di ferro, che si infila nella canna e si lascia cadere affinché percuota e faccia esplodere la miscela. Questo attrezzo - su fusili po isciuiai - rumoroso e caro ai fanciulli che fanno gli spaventapasseri, è causa di non pochi infortuni.
Uno spaventapasseri testimonia
"Io vado a isciuiai il grano di ziu Antoni Peppi e prendo 500 lire. Vado di mattina presto perché gli uccelli sono pronti e si alzano presto. Bisogna battere nel botto (barattolo - ndr) e gridare forte, così scappano. Quando toccano le campane di mezzogiorno è ora di scappare dal lavoro perché gli uccelli sono saziati e a quell'ora si riposano dal caldo e io vado a casa. Io ritorno quando ritornano gli uccelli che hanno sciamigau (digerito - ndr). Quando comincia a fare buio gli uccelli si fanno stanchi e se ne vanno a dormire e allora torno anche io a casa, ceno e me ne vado a letto. Una volta mi sono bruciato la mano perché mi ha preso fuoco al clorato, allora il fucile non lo uso più per isciuiai perché mio padre ha detto al padrone che non vuole".
Ha testimoniato R. Z. di 11 anni, di Cabras, nell'Oristanese. Egli frequenta molto raramente la scuola e si esprime correttamente soltanto in lingua sarda. La testimonianza riportata gli è costata una mattina di duro lavoro scolastico per la traduzione in italiano. Interessante il rapporto "umano" che si viene a creare tra il fanciullo e i passeri che egli ha il compito di isciuiai: appare un reciproco rispetto per le funzioni e i bisogni dei due "antagonisti", ambedue rivestiti di una loro dignità.
BAMBINI SPAVENTAPASSERI
“Tempo fa, in una corrispondenza da Pechino, una studentessa italiana descrive in tono di meraviglia "la crociata antipassero" che in Cina, in certi periodi dell'anno, vede mobilitati i cittadini di ogni età e di ogni ordine sociale nella difesa dei raccolti cerealicoli. I passeri, in talune annate, si riproducono numerosissimi, tanto da costituire un tremendo pericolo per i raccolti. Le autorità, allora, ordinano la mobilitazione generale: a partire da un'ora X inizia, entro zone prestabilite, la guerra ai volatili. Ogni oggetto che faccia rumore è brandito: vecchie pentole e casseruole, barattoli e tamburelli. Chi non possiede tali "armi", supplisce con urla. I passeri, continuamente ricacciati in volo dai clamori che si levano da ogni dove (financo dai tetti degli edifici e dalle cime degli alberi), non potendo posarsi, frastornati, né potendo di conseguenza cibarsi, a mezza giornata cominciano a cadere, letteralmente fulminati da crepacuore. Per alcuni giorni le mense abbondano di passeri variamente cucinati. Il raccolto è salvo, e per di più si è mangiato senza incidere sul normale bilancio economico. Nessuna meraviglia: paese che vai usanza che trovi...
Da noi, in Sardegna, esistono, come professionisti, i bambini "spaventapasseri", i quali, a otto dieci anni, anziché andare a scuola vengono mandati per settimane a urlare e a battere su barattoli a difesa del raccolto del proprietario ricco. I passeri, naturalmente, (ma questo da noi non ha importanza), per rifarsi si posano sul campicello vicino del proprietario povero. Molti di questi bambini specializzati nel mestiere di "spaventapasseri" finiscono per farlo tutta la vita.”
(Tratto da Amsicora, alias Ugo Dessy, Costume - in "Sardegna Oggi" n° 26 del maggio 1963)
LO SPAVENTAPASSERI
"Gonario era l'ultimo di sette fratelli. I suoi genitori non avevano soldi per mandarlo a scuola, perciò lo mandarono a lavorare in una grande fattoria agricola. Gonario doveva fare lo spaventapasseri, per tener lontani gli uccelli dai campi. Ogni mattina gli davano un cartoccio di polvere da sparo e Gonario, per ore e ore, faceva su e giù per i campi, e di tratto in tratto si fermava e dava fuoco a un pizzico di polvere. L'esplosione spaventava gli uccelli che fuggivano, temendo i cacciatori.
Una volta il fuoco si appiccò alla giacca di Gonario, e se il bambino non fosse stato svelto a tuffarsi in un fosso certamente sarebbe morto tra le fiamme. Il suo tuffo spaventò le rane, che fuggirono con clamore, e il loro clamore spaventò i grilli e le cicale, che smisero per un attimo di cantare.
Ma il più spaventato di tutti era lui, Gonario, e piangeva tutto solo in riva al fosso, bagnato come un brutto anatroccolo, piccolo, stracciato e affamato. Piangeva così disperatamente che i passeri si fermarono su un albero a guardarlo, e pigolavano di compassione per consolarlo. Ma i passeri non possono consolare uno spaventapasseri.
Questa storia è accaduta in Sardegna."
(Tratto da Gianni Rodari - Favole al telefono - Torino 1962)
LAVORO INFANTILE E SFRUTTAMENTO MINORILE
La "singolare" attività lavorativa denominata isciuiai, svolta esclusivamente dai fanciulli dagli otto ai dodici anni nei villaggi del mondo contadino, può suscitare - come nel caso di Gianni Rodari - "nobili" reazioni di pietà e commiserazione, proprie di una certa cultura, come quella borghese, che si è sviluppata e arricchita con il razzismo e il colonialismo. Rimesse al Rodari alcune grossolane sviste sulla realtà della Sardegna (dove non esistono "grandi fattorie agricole" in cui i fanciulli svolgono la mansione di spaventapasseri, e dove non esistono intorno ai campi di grano fossati colmi d'acqua popolati di rane, tanto meno nel mese di giugno) resta la favola, che, riportata alla realtà e alla mentalità del fanciullo del suo mondo, è certamente apprezzabile, e per quel che mi riguarda stimola ad alcune, credo utili, considerazioni.
E cioè che è necessario fare una distinzione tra il lavoro del fanciullo nell'arcaica economia agricola e nell'attuale moderno sistema economico.
Nel vecchio e ormai quasi estinto mondo contadino, la cui organizzazione del lavoro è su basi artigianali e familiari, o al più di parentado o clan, ciascun membro, indipendentemente dall'età, è chiamato a dare il proprio contributo nella produzione del necessario al sostentamento del gruppo: contributo che ciascuno dà secondo le proprie forze e le proprie capacità. Per fare qualche esempio, la bambina più grande aiuta la mamma nella organizzazione domestica e nell'allevamento dei bambini di poco più piccoli. Il fanciullo accompagna e aiuta il babbo nei lavori di campagna, apprendendo nella pratica l'arte della coltura della terra. Così pure i vecchi si rendono in qualche modo utili, se non altro con lo svolgimento di mansioni adatte alle loro ormai deboli braccia e ai loro labili ingegni, con la presenza viva della loro esperienza. Tutti concorrono allo stesso scopo, nell'interesse di tutti. E anche quando il fanciullo, o altro membro della famiglia, presta la sua manodopera all'esterno, presso altra famiglia della comunità, tale prestazione d'opera o è di carattere straordinario (per far fronte a situazioni di emergenza) o rientra in quell'istituto residuo di una organizzazione sociale comunistica, di interscambio della manodopera, del lavoro e dei prodotti, vivissimo ancora specie all'interno del parentado o clan - le cui famiglie, oltre che da vincoli di sangue, sono tra loro legate da vincoli di carattere economici e mutualistici.
Ben diversa è la posizione, e la situazione, del fanciullo immesso prematuramente, e contro la normativa di legge, in un sistema produttivo come è quello moderno, capitalistico. Dove i rapporti di lavoro (padrone e salariato) sono basati sul massimo sfruttamento per il massimo profitto.
Mentre nel primo caso si può parlare di lavoro infantile, nel senso di attività riservate al fanciullo in una organizzazione economico-produttiva a carattere familiare; nel secondo caso è esatto parlare di "lavoro minorile", di vero e proprio sfruttamento del bracciantato infantile. Il cui lavoro produce - qualunque sia la quantità - benessere e profitto ai padroni del capitale. E' sfruttamento del lavoro minorile quello attuato per secoli dai padroni delle miniere - che tra l'altro pagavano al piccolo lavoratore un quarto e anche meno del salario già misero dell'adulto. Così pure quello cui venivano e vengono assoggettati i ragazzi e le ragazze in età scolare, reclutati dagli agrari o dalle industrie conserviere o dalle cooperative, per la raccolta dei pomodori e della frutta, per il diradamento delle bietole o per altro.
Il lavoro libero e svolto liberamente ai fini della realizzazione di sé non danneggia il fanciullo, anzi è la migliore delle scuole. Il lavoro nel sistema capitalistico, al contrario, e non soltanto per il fanciullo, è induzione alla prostituzione, è brutale sfruttamento, è degradazione della persona umana.
Capitolo secondo
MESI DE ARGIOLAS / LUGLIO
Mese de treulas, di trebbiatura, e de argiolas, di aie, di intensa attività agricola, di consuntivo. Che per su messaiu, per il contadino, è sempre negativo. Il lavoro della campagna non viene mai ricompensato dal reddito che ne viene con i prodotti raccolti. Serve giusto per sfamare la famiglia - dicono da sempre i contadini. E che la produzione del lavoro della terra sia giusto sufficiente per nutrire la famiglia, va inteso nel senso che "deve bastare per forza di cose". E' infatti il contadino, la sua famiglia, che adatta le proprie esigenze, il proprio appetito alla quantità e qualità di cibo che la terra gli fornisce in quella annata.
Annate grasse e annate magre. Le grasse ricorrono eccezionalmente e vengono ricordate come mitici avvenimenti dalla comunità. Le magre sono la regola, a causa delle difficoltà naturali e dell'arretratezza e primitività delle tecnologie di lavoro; ma più ancora a causa dello sfruttamento cui è sottoposto il contadino dal sistema, per cui ciò che guadagna è inferiore al costo del suo lavoro.
I lavori del raccolto, da luglio si protraggono fin quasi la metà di agosto. Nella fase della ventolatura dei cereali e delle leguminose - dopo la trebbiatura che veniva effettuata con gli animali da lavoro, specie cavalli, e per piccole quantità manualmente, con is mallus, manfani non correggiati - era necessario che soffiasse il vento, in modo non sostenuto ma costante. Con apposita pala di legno si lanciava in alto il cereale lordo: il grano ricadeva più vicino e la paglia, più leggera, più distante, dando luogo a due mucchi distinti, uno di paglia e l'altro di grano.
Famoso il detto "Cando si pesat su bentu, est prezisu bentulare" riportato nell'inno di Francesco Manno "contra sos feudatarios" esortazione al popolo perché si sollevi contro la tirannia nel momento favorevole: "Quando si leva il vento, bisogna trebbiare".
SA CABBIA PARADORA
LA GABBIA TRAPPOLA
Nel tempo della fanciullezza, dopo la chiusura delle scuole, la mia famiglia si trasferiva da Cagliari a Terralba, situato nel Campidano di Arborea.
Le lunghe e noiose giornate estive mi spingevano a partecipare con i miei coetanei a scorribande nelle assolate e deserte campagne. Non mi spingevo, di solito, specialmente all'inizio, molto lontano: a sud-ovest, verso le paludi e il mare, e a Nord-est, verso la pietraia tappezzata di asfodeli che precedeva i costoni cespugliati e le cime boscose del Monte Arci - nel territorio che anticamente costituiva il salto, su sartu, del villaggio, patrimonio naturale da cui la comunità attingeva liberamente per vivere. Le mie uscite in campagna - interessanti e istruttive, tanto da poterle definire "un fanciullo alla scoperta dell'universo" - erano circoscritte alla prima fascia agricola intorno alle abitazioni, coltivata a orti e vigne, intervallati da is cungiaus, terreni chiusi incolti dove si lasciavano a pascolo buoi, cavalli e asini da lavoro. Orti, vigne e maggesi erano delimitati da fitte siepi di ficodindia e rovo.
I ragazzi del luogo mi insegnarono a costruire le gabbie per uccelli utilizzando le bacchette del rovo, che fungevano da regoletti, per il telaio, e i giunchi che formavano le gretole, le piccole sbarre dorate della prigione. Più che l'uso che di queste gabbiole avrei potuto farne - ho sempre amato tanto la libertà da soffrire per la clausura di un animale - mi appassionavano la ricerca e la preparazione del materiale e la costruzione semplice ma impegnativa delle stesse.
Si usciva dunque in gruppo a cercare lungo le siepi le bacchette sarmentose del rovo; e intanto ci facevamo scorpacciate di more, che la natura provvidenziale faceva maturare prima dell'uva. I miei compagni mostravano competenza e abilità che io cittadino non possedevo, e seppure fossero rozzi e parlassero in sardo io ero con loro un allievo umile e attento. In s'arruargiu, il roveto, bisognava saper distinguere tra s'arrù mascu, il rovo maschio, a sezione circolare, e s'arrù femina, il rovo femmina, a sezione esagonale. Soltanto quest'ultima varietà e che fosse robusta e diritta, andava scelta e colta per ottenere i regoletti. Quindi si tagliavano alla misura voluta le bacchette e si lasciavano a essiccare, ma non troppo, prima di usarle.
La ricerca dei giunchi per le gretole ci costringeva a più lungo e periglioso viaggio fino ai margini paludosi degli stagni, verso il mare. Anche qui, i miei compagni distinguevano due varietà di giunco: quella che aveva in cima una infiorescenza, che chiamavano propriamente giuncu, e l'altra terminante con una punta acuminata, detta zinniga. Quest'ultima varietà era quella che occorreva alla fabbricazione delle gabbie, in quanto, dopo essiccata diventava rigida e si infilava con la sua naturale punta acuminata nel morbido legno dei regoletti di rovo.
Costruivamo due tipi di gabbia. Un tipo semplice, sa cabbia de cardanera, per tenerci le coppie dei cardellini, che si appendeva nel loggiato. Un altro tipo, doppia, sa cabbia paradora, con cui si prendevano altri cardellini. Sa cabbia paradora consisteva in una gabbia divisa in due scomparti. In quello in basso stava la cardellina da richiamo; nello scomparto in alto era la trappola: la parete superiore si apriva in due portellini trattenuti in bilico da due stecchi. Entrandovi la preda, il portellino si richiudeva per caduta.
SA MORTI GIUSTA
Contu
In sa parti de su muru facci a soli ddu est issu, Massimu, sterrinau - corpus chi non fait prus umbra - cun su brazzu in su fronti, po non biri s'orrori de sa terra oberrendisì niedda, orrorizzanti cumenti de unu puzzu senza de acabu.
Me' in s'origas suas, in su pistiddu suu muinant musconis birdis, arresis chi bint sa morti e cabant e si ci sezzint, abettendi passenziosus sa purdiadura. In su mentris, si cuntentant de sùspiri, de lingi stiddius callaus de su pagu sanguni chi su soli e su ventu e sa terra sidia hant lassau.
Tenit is peis in s'oru de su liminargiu de s' 'enna. Su corpus arruttu ghettendisinci a innantis zerriat orrorizzau de sa morti, lompia candu sa vida est durci che meli...Non ci dd'hat fatta a si fuiri. Non c'est omini po chi scipiat curri chi potzat binci sa morti in currera...Chi curreus, est cun issa chi curreus; chi si firmaus a pausai, est cun issa chi pausaus; chi amaus, est cun issa chi gosaus: ca sa morti est intra de nos, anniada in su callenti de su coru nostu. De candu nasceus dda portaus asuba: in dogna stiddiu de sanguni dda portaus, cumenti sa fragilidadi est in dogna pimpirida de birdiu de una tassa.
"Sa morti notzenti", dda nomenant is feminas candu un pippiu nascendi dda portat clara in su corpixeddu arrendiu arrubiastu.
"Sa morti giovuna", bianca che cera e lillus, is manus ingrusciadas asuba de sa gianchetta de sa festa, a cara dormia.
E "sa morti giusta", depida, a dentis in foras, a pungius serraus e a ogus obertus - ogus chi nisciuna manu podit serrai...cumenti sa morti de custus duus, inguni, zappulaus in terra, in sa cortilledda de una domu foras de bidda. E is bius andant a dda castiai, sa morti, po biri cumenti est fatta, po cumprendiri ita siat. E nudda acrarant, chi giai non scipiant. Nudda biint, chi giai non happiant bistu.
Mariedda est prus a innantis, a brazzus obertus. Sa morti sua est stada aici mala de dd'hai streccau sa conca - su cerbeddu est spartu in mesu de is perdas cumenti de mazzamini de carrabusu streccau asutta de una crapitta.
Unu carabineri de guardia est setziu in su murixeddu. Ma non c'est prus nemus, ingunis, in terra. Ni Massimu ni Mariedda ci sunt prus.
S'omini non est prus omini, chi non portat appizzus sa propia morti. Tot' 'e is duus issus portant appizzus sceti su muinai de is musconis birdis. E nimancu ddu sciint, ca ateru no sunt che mancias de sciaquadura, che duas pimpiridas de recatu chi su bentu e su soli e su famini de su baballoti hant a fai sparessi.
E sa proidura, candu hat arribai, si hat arribai, no hat essiri lagrimas de Deus - no dda poit prangi sa morti, chi no dda tenit; sa proidura, candu hat arribai, si hat arribai, hat essiri lagrimas de umanidadi, lagrimas chi hant a preni maris, salius de timoria e rancori.
Custa morti dda nomenant "sa morti giusta", dèpida.
"Fattu beni, beni fattu!
"Hant tentu sa morti chi depiant tenni!"
Clamant is feminas scrabionadas, currendi me in s'arrugas. Battallant cun larvas disumanas me in is boddeus burdellosus: dogna boxi zerriendi prus a forti de is ateras, po no lassai intendi zunchiu de raxoni.
"Ddu traisciant, a Paulu. Ddu traisciant...Hant tentu sa morti dèpida!"
"Ddi prasciat a si gosai su mascu! Sbregungia che egua in calori!"
"Immoi s'est gosada sa morti dèpida!"
Is pippius, spantau, siddius a is gunneddas frungias, forzis circhendi issus de cumprendi ita hiat bolli nai "sa morti giusta". Ma nemus arrennescit a dda cumprendi: nimancu Mariedda e Massimu, chi dd'hant tenta, ddu sciint.
Is ominis, issus puru, currendi, stumbendisì po is bias, clamant sa morti giusta. Su meri, su preidi, su zeraccu, totus dda zerriant a dd'avocant, casi chi no dda tenessint totus, unu po unu, in is ogus e in is manus, in is peis e in is brentis, finzas in sa prus minuda arrogalla de pezza, in su prus piticu stiddiu de sanguni.
"Toccat a portai respettu a is terras e a is pobiddas allenas! Sa morti ddis fiat dèpida!" Boxinat su meri.
"Sa morti dèpida est sa giustizia de Deus po is peccaus de lussuria!" Sclamat su preidi.
"Is feminas coiadas no si deppint toccai! Massimu ddu sciriat chi is feminas coiadas non si deppint toccai! Sa funi si dda est posta issu 'e totu in su zugu..." Zerriat su zeracu.
Fueddus senza de significazioni umana, senza de significazioni mancu de bestia. Fueddus de terra senza de anima, senza de umidori, senza de pillonis: fueddus de terra apperdada.
Su balenti hat accabau s'opera sua prodigiosa. Immoi, beni strantasciu, spalleri a brazzus ingrusciaus, arricit su triunfu.
Non is manus suas, non su coru suu, non sa voluntadi sua hant bocciu, ma unu gorteddu e una perda.
A is ominis in divisa, setzius a palas de una mesa, in caserma, ateru non sciit nai: "Massimu e sa fancedda han' tentu sa morti dèpida."
Non est malesa, a 'n di scidai cun is propias manus sa morti chi est a intru de su corpu biu de is fradis, cand'est sa morti dèpida cussa chi si 'n di scidat...
"Mi traisciant. Hant tentu sa morti dèpida."
Sa giustizia. Ddu narat sa giustizia...Est curpa de sa lei...Ma una lei podit imponi a s'omini de bocciri?...Podit bocciri, una lei?
"Cun su gorteddu e cun d'una perda de cortilla hant tentu sa morti giusta."
Sa duresa antiga misteriosa de sa rocca impenetrabili; is forzas de natura chi sunt ma non scint de essiri; sa furia de su bentu e su tronai e lampai de is rajus; totu su disisperu de is montis serraus asutta de unu celu sperdiu senza de isteddus: ddu streccant, ddu suffogant, ddu crepant, ddu faint a pimpirinas; dd'annuddant s'anima e ddi ponint in olvidu sa rascioni, finas a ddu mudai in gorteddu e in perda...Issu est unu pungiu de terra sidida, ca non c'est Deus chi ddu sciundat de prantu...
Issu boxinat senza de fueddus - movendi sa 'ucca bogat rumoriu, che unda de arriu chi tragat, che perda sprondida chi zumiat, che fogu tenendi chi zaccheddat.
Sa bucca sua movendi fait rumoriu; unu rumoriu chi narat: "Hant tentu sa morti dèpida. Hant tentu sa morti dèpida..." E repitit ancora e sempiri senza de tenni cunsienzia, senza de tenni anima: cumenti 'e rimbombu de arriu in prena, cumenti 'e zumiai de perda sprondida, cumenti 'e zaccheddai de fogu tenendi.
Sa genti scarescit luegu. Nemus regordat prus is fueddus disisperaus de Mariedda, una notti, in sa cortilla de zia Rita.
"No ddu bollu prus biri! No ddu bollu prus biri!" Prangiat cun arrabiu, cun sinzillesa e forzas mannas movias de su rancori e su dispreziu chi portat a Paulu, su meri suu.
Issu isfogat dogna merì su malumori, arropendidda a mazzocca, prena de merda de is brebeis ch'hiat portau a pasci. Isfogàt rancoris e tristuras, nobas e antigas: po s'erba bruxiada de sa geliscia, po is pestis chi pigant is brebeis famias, po sa bregungia de essiri poburu zeracu chi pagat sempiri de bucciacca sua, derremendi sa vida, is disgrazias puru chi su distinu mandat a su meri.
Issa, Mariedda, fiat che su muru de su prantu de is giudeus, fiat che setzidroxu de perda innui pausai sa stanchesa de meda camminu: unu oggettu a su cali non si podit donai teneridadi ne carignu, ma sceti rancori e amaresa appillaus in un'anima sola ispentumada in unu mari de perda. E issu, Paulu, non podiat bivi senza de issa; ca s'omini non podit bivi senza de unu Deus chi ghettit sanguni po issu, feriu de su matessi omini e cun is propias manus appiccau a una gruxi. Mariedda fiat su Cristus suu, prus accanta e prus cuncretu de su Cristus in cresia; poita Deus est su Cristus de totus: Mariedda fiat sceti una femina e de un'omini sceti podiat essiri.
"No ddu resistu prus! No ddu potzu prus suffriri!" Zerriàt Mariedda s'atera notti, vomitendindi s'anima sua disisperada a innantis de sa genti curta a dda biri, cun sa curiosidadi morbosa de chi circat de sgavai in su misteriu de s'agonia, curta cumenti currit in prazza a biri sa boccidura de su boi, po sùspiri mudamenti sa scoladura arrubia bia bia de su sanguni, chi calat a filu longu in mesu de s'imperdau, cumenti de unu riu senza de fini.
"No! non bollu atturai prus cun issu!" Zerriat foras de sei Mariedda, a ogus spiridaus.
Su mazzucu e is puntadas de pei fiant su pani suu. Pustis, issu, pasiau, s'arregordàt de essiri omini: dda pigat, ci dda strumpàt in sa stoja e dda coberrìat ancora cancarada de is corpus. Dda pigàt a forza, dogna borta cumenti a sa prima borta.
"No potzu, non ci dda fatzu prus a bivi aicci!" Naràt s'atera notti, muinendi scansolada, sciamiendi sa conca. E is feminas a giru mudas dda castiant e bidiant sa morti sua prus sigura, prus crara, cantu prus in artu zerriat sa beridadi. E faiant accinnu de dda cumprendi movendi sa conca: luegu sa morti dèpida hiat essiri benia a 'n di dda pigai de cussa agonia: sceti sa morti dèpida.
Cun sa cara sua trista e desolada, cun sa conca sua scrabionada, cun is brazzus suus obertus sciamiendi a isconsolu, s'atera notti, Mariedda fiat s'immagini 'era de sa morti dèpida.
Custu merì, a scurigadroxu, sa genti ddus hat accumpangiaus a campusantu.
Est s'ora po is feminas timoradas de s'inserrai aintru de domu; est s'ora in sa cali bessint de is tuppas de sa Jara is canis pudescias famias.
Ci ddus hant ghettaus asuba de una carretta de molenti, a isfregiu. Ci ddus portant a campusantu poita is criaduras battiadas no si lassant mai a pudexi me' in is fossus, che canis.
Sa carretta sumbullat me' in is foradas de s'imperdau, e is mortus mesu spollaus si movint cirdinus, ghettaus a pari, is faccis trempa a trempa - parrit chi siant castiendisì spantaus a bucca e a ogus obertus.
Avatu, sa genti sighit a brinchidus e a boxis malas, clamendi su deus de sa morti dèpida.
No est una pantomima de beffianus, mancai siant oscenus e de isfregiu is motettus chi cantat a izzerrius: ddu sciint beni issus puru, totus ddu sciint chi is mortus non sentint prus.
Forzis est su deus de is aquas chi bolint appasciai, in custu attongiu siccu, donendiddi duas vidas, derremadas amendisì, imprassadas, e po custu prus preziosas?
LA GIUSTA MORTE
Racconto
Dal lato del muro illuminato dal sole, c'è lui, Massimo, un corpo senza ombra, con la fronte sopra il gomito per respingere la vista di una terra che si apriva nera assurda, come una voragine senza fine.
Sulle sue orecchie, sulla sua nuca ronza un nugolo di mosconi verdi; quegli animali che vedono la morte e siedono sulle sue spalle aspettando pazienti la decomposizione. Per ora si accontentano di suggere quel poco sangue raggrumato che il sole, la brezza e la sete della terra hanno risparmiato.
Ha i piedi accanto all'uscio della casa. La sua figura, proiettata in avanti, grida l'orrore della morte giunta quando la vita stilla miele...Non gli è servito fuggire. Nessun uomo è tanto veloce da vincere la corsa con la morte...Se la fuggiamo, è con lei che fuggiamo; se sostiamo all'ombra dell'ulivo, è con lei che riposiamo; se amiamo, è con lei che godiamo; perché la morte è dentro di noi, annidata al caldo del nostro cuore. Non in una, ma in dieci, in mille forme diverse la portiamo dentro di noi. Da quando nasciamo, la portiamo addosso: come un bicchiere di vetro ha la fragilità in ogni frammento.
"La morte innocente", dicono le madri quando il neonato la porta visibile nel corpicino livido paonazzo.
"La morte fanciulla", bianca come la cera e i gigli, con le mani giunte sulla giacchetta nuova della festa, con il viso addormentato.
E "la giusta morte", violenta, con la bocca spalancata, con i pugni stretti, con gli occhi che nessuna pietà, nessuna mano può chiudere...come la morte di questi due, là, per terra, nel cortiletto di una casa fuori paese, che i vivi vanno a guardare per vedere come è fatta, per capire che cosa sia. Nulla scoprono che non sappiano già. Non vedono nulla che non abbiano già visto.
Marietta è più avanti: le braccia spalancate. La sua morte è stata tanto violenta da schiacciarle il capo il cui cervello grigio si è sparso su alcuni sassi vicini, come interiora di uno scarafaggio spiaccicato sotto la scarpa.
Un carabiniere è seduto sopra il muretto, di guardia.
Nessuno c'è più, lì, per terra. Né Massimo, né Marietta ci sono più.
L'uomo non è più uomo se non porta addosso la propria morte. Loro due hanno soltanto il ronzare delle mosche verdi, addosso. E non lo sanno, perché sono come due macchie di unto, come due gocce di minestra schizzata oltre una soglia, che il vento e il sole e la fame degli insetti asciugheranno.
E le piogge, quando verranno, se verranno, non saranno lacrime di un dio - non può piangerla la morte, colui che non la possiede; le piogge, quando verranno, se verranno, saranno lacrime di uomini, lacrime che riempiranno mari, salati di paura e di odio.
La gente chiama questa morte "la giusta morte".
"Fatto bene! Ben fatto!"
"Hanno avuto la giusta morte!"
Urlano le donne scarmigliate, correndo per le strade. Parlano con labbra inumane nei crocchi scomposti: ogni voce sempre più alta per sovrastare le altre, per soffocare il gemito della ragione.
"Lo tradivano, Paolo, lo tradivano...La giusta morte hanno avuto!"
"Le piaceva il gusto del maschio! Svergognata come una cavalla in calore!"
"Ora ha provato il gusto della giusta morte!"
E i bambini, smarriti, pendono dalle logore sottane, sforzandosi, loro, forse, di penetrare il significato della giusta morte. Nessuno riesce; neanche Marietta e Massimo, che l'hanno avuta, sanno.
Gli uomini, anch'essi, correndo, incrociandosi per le strade, urlano la giusta morte. Il padrone, il prete, il servo, tutti, la invocano, come se non l'avessero tutti, uno ad uno, negli occhi e nelle mani, nei piedi e nel sesso, fin nel più piccolo brandello di carne, nella più minuta goccia di sangue.
"Bisogna rispettare le terre e le donne degli altri! La giusta morte l'hanno meritata..." Urla il padrone.
"La giusta morte è la giustizia di Dio per i peccati della carne!" Urla il prete.
"Non si toccano le donne sposate! Massimo lo sapeva che le donne sposate non si toccano! Lui stesso si è dato la giusta morte..." Urla il servo.
Parole senza un senso umano, senza neanche un senso bestiale. Parole di terra che non ha cuore, né lacrime, né germogli, di terra diventata pietra...
L'eroe ha compiuto la sovrumana fatica. Ora, ritto in piedi, con le braccia conserte, raccoglie gli osanna.
Non le sue mani, non il suo cuore, non la sua volontà hanno dato la morte, ma un coltello e un sasso.
Alle divise sedute dietro un tavolo, in caserma, dice: "Massimo e l'amante hanno avuto la giusta morte".
Non è peccato destare con le proprie mani la morte che è nel corpo vivo dei fratelli, se è la giusta morte quella destata...
"Mi tradivano. Hanno avuto la giusta morte."
La legge. E' colpa della legge...Ma può una legge imporre all'uomo di uccidere?...Può uccidere, una legge?...
"Con il coltello e con i sassi del cortile, hanno avuto la giusta morte."
Il mistero di millenni di roccia impenetrabile, l'incoscienza primeva di elementi che sono e non vivono, la furia dei venti e il rimbombo dei fulmini, tutta la paura dei monti sovrastati da un infinito senza stelle lo soffocano, lo stritolano, lo sbriciolano, cancellano in lui l'anima, fino a farlo diventare soltanto un coltello, un sasso...un pugno di terra che ha sete, perché non c'è nessun dio che lo bagni di pioggia.
Egli parla senza parole - le sue labbra vibrano producendo suoni, come le acque di un torrente che scrosciano, come un sasso scagliato che sibila, come un legno ardente che crepita.
Le sue labbra vibrano, il loro suono dice: "Hanno avuto la giusta morte. Hanno avuto la giusta morte." Si ripete ancora, ancora e ancora, tenace, senz'anima, come lo scrosciare di un torrente, come il sibilare di un sasso scagliato, come il crepitare di un legno ardente.
Nessuno ricorda più le angosciate parole di Marietta, una notte, nel cortile di zia Rita.
"Non lo posso vedere! Non lo posso vedere!" Piangeva rabbiosamente, con un coraggio che era grande quanto l'odio che sentiva per Paolo; per suo marito.
Egli sfogava i suoi malumori ogni sera, picchiandola con il bastone di olivastro, sporco ancora dello sterco delle pecore riportate dal pascolo. Sfogava rancori e pene, il conscio e l'inconscio, l'erba bruciata dalla brina e la moria del bestiame inaridito dalla fame, l'umiliazione di essere un servo che rimborsa con il proprio sudore i danni che la natura fa al padrone.
Lei, Marietta, era il suo muro del pianto, era lo spuntone di roccia su cui riposare il corpo stanco per il lungo andare: l'oggetto su cui non si possono riversare tenerezze, su cui soltanto si riversano i rancori e le amarezze accumulati nel dolore e nella solitudine. Non poteva vivere senza di lei, Paolo; perché gli uomini non possono vivere senza un Dio che sanguini per loro, ferito dalle loro stesse mani, appeso dalle loro stesse mani a una croce. Lei era il suo Cristo, più vicino, più vero dell'altro in chiesa; perché può essere di tutti, un Dio: Marietta era soltanto una donna, poteva essere di un solo uomo.
"Non ci resisto più! Non ci resisto più!" Gridava Marietta quella notte, vomitando strazio e disperazione sulla gente accorsa a vederla, torbida, con gli occhi curiosi di chi vuole scavare nel mistero dell'agonia, accorsa come accorre in piazza quando si macella un bue, per bere mutamente il sussultare dell'immenso fiotto rosso che scorre sui ciottoli come un fiume senza fine.
"No, non voglio stare più con lui!" Urlava fuori di sé Marietta, con sguardo opaco, assente, lontano.
Il bastone e i calci con le scarpe dure di chiodi erano il suo pane. Poi, placato, lui, si ricordava di essere maschio: la portava sulla stuoia per coprirle il corpo illividito con la sua voglia. La violentava ogni volta come la prima volta.
"Non posso, non posso più restare con lui!" Diceva sommessa, scuotendo dolorosamente il capo, alle donne intorno. Queste la guardavano senza parlare; vedevano la sua morte più certa, più chiara, quanto più alte e più vere erano le sue parole. Esprimevano il loro pensiero con lievi cenni del capo: la giusta morte sarebbe presto arrivata a levarla dalla agonia; soltanto la giusta morte.
Con la sua faccia scarna, lacrimosa, con la sua testa scarmigliata, con il suo scuotere sconsolata le braccia, Marietta, quella notte, era l'immagine vera della giusta morte.
La gente, stasera all'imbrunire, l'ha accompagnata con l'amante al camposanto.
E' l'ora in cui le donne timorate si rinchiudono nella casta pietra delle case; la stessa ora in cui escono le svergognate fameliche cagne nei boschi della Giara.
Li hanno gettati sopra un carretto d'asino, per dileggio. Li portano in camposanto, perché, comunque, le creature battezzate non si lasciano in pasto ai cani, nei fossi.
Il carretto traballa lungo il viottolo dall'acciottolato sconnesso, scuotendo i due corpi mal coperti, rigidi come burattini, l'uno sull'altra, con le facce guancia a guancia, che pare si guardino stupefatti con bocca, con occhi spalancati.
Dietro, la gente danza e invoca il dio della giusta morte.
Non è una beffa, anche se oscene sono le parole che urlano ai morti. Lo sanno anche loro, tutti lo sanno, che i morti non sentono più.
E' forse il dio della pioggia che vogliono placare, in questo arido autunno, portandogli in olocausto due vite, sacrificate mentre si amavano, le più preziose?