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Indice articoli


PARTE SECONDA


JERRU / INVERNO

Ierru, inverno. E' la stagione di Paschiscedda, di Natale, de is angionis, degli agnelli, de Carnovali o Carresegare, di Carnevale. E' il tempo delle attese e delle speranze, per il contadino. Che piova; che non piova troppo, da portarsi via terra e sementi e dover riseminare. Che il vento spiri da tramontana e pulisca il cielo e purifichi l'aria; che non tiri violento da maestrale indurendo il terreno, seccando i germogli, scoperchiando i tetti delle case. Che il cielo alterni sereno a nuvoloso, affinché nel maggese cresca l'erba per il bestiame, e che nelle notti stellate non cada la brina...


Capitolo Primo


MESI DE IDAS / DICEMBRE

I sardi pastori chiamano questo mese Nadale, in onore della nascita del Messia - seppure una leggenda narri che i pastori barbaricini non furono invitati dagli Angeli mandati a schiera sulla terra ad annunciare il lieto evento; e che così non poterono presenziare al divino evento, e soltanto molto, molto più tardi e non tutti conobbero e accettarono la nuova Legge dell'Amore.
Mese di Nadale anche per le pecore, che partoriscono i primi agnellini. E negli ovili e nelle case si fanno is casadas, le giuncate, dense cremose, confezionate con il latte - colostro aromatizzato con mentastro. E i bambini ritrovano al mattino risvegliandosi il buon latte caldo zuccherato, da inzupparci la fetta del pane brustolato alle braci del camino, e il loro visetto si fa roseo paffuto, anche se hanno i piedini scalzi e fa freddo.
Nelle giornate serene, totus a cambarada si andat a scutullai olia, si va in gruppo a bacchiare le olive. Ogni contadino ha nella vigna o in altro campicello qualche albero di olive, sufficienti a dargli l'olio per condire la minestra e s'olia cunfettada, e le olive da conservare in salamoia. Queste olive costituiscono con su casu e su sartizzu, il formaggio e la salsiccia, i fondamentali companatici del quotidiano desinare campestre.
A su messaiu ddi mancat totu ma no sa passienzia, al contadino manca tutto ma non la pazienza. Se in qualche appezzamento il grano non è nato, si accinge a riseminarlo. E se non ha più semenza, attinge al mucchio del solaio, riservato per il pane domestico, o se lo fa prestare dal commerciante usuraio, che lo vuole indietro raddoppiato a mes' 'e argiolas, a luglio, se è onesto.
Dalla legnaia situata all'aperto, una certa quantità di ciocchi e di fascine vengono trasportati in sa domu de su forru, sotto la tettoia del forno, perché asciughino, al riparo, e siano a portata di mano dalla cucina. Ne occorre tanta di legna, durante le lunghe serate d'inverno: per far cuocere il minestrone di ceci o di lenticchie per la cena e per allontanare l'umido dell'artrosi che si annida nelle giunture delle ossa.
Il fuoco continua a bruciare nel camino anche dopo la cena, e vede tutta la famiglia e gli ospiti, quando ci sono, seduti davanti a semicerchio. Brucia più libero, più allegro ora che la sua fiamma non ha più su trebini, il treppiede, con sopra il pentolone da far bollire, e invita i piedi e le mani ad allungarsi tese. Il babbo gioca con s'azzizzadori, con l'attizzatoio, spostando i legnetti fumiganti sopra il fiammeggiante o rivoltando nella cenere calda favette brustolite - caso mai fosse rimasto un angolino vuoto nello stomaco. E rimestando rimestando le braci del focherello, arrivano is contus de forredda, le favole evocate dalla magica fiamma del camino.
Durante la notte di Natale, nelle ore che vanno dal tramonto all'alba, si avvicendano tre momenti di particolare rilievo per tutta la comunità: sa Notti de cena, sa Missa de puddu e is ballus (il cenone della Vigilia, la Messa del gallo o di mezzanotte e i balli di apertura del Carnevale).

IS BALLUS - SA CUMPAGIA DE IS BALLUS
I BALLI - LA COMPAGNIA DEI BALLI

“Il periodo del Carnevale aveva inizio dal Natale fino al mercoledì delle Ceneri, inizio della Quaresima.
I giovani si mettevano d'accordo in anticipo, per formare un gruppo tra amici e parenti e trascorrere le serate del sabato e della domenica ballando. Di solito erano coppie di fratelli e sorelle oppure cugini e cugine; se qualcuno era fidanzato, siccome di notte le ragazze non potevano uscire sole con il proprio fidanzato, questo doveva portarsi appresso anche la cognata o qualche cugina della fidanzata o in casi estremi la suocera.
Il gruppo così costituito si riuniva nella casa nuova, ancora vuota di mobili, costruita da qualcuno dello stesso gruppo in vista del matrimonio. Se nel gruppo non c'era nessuno che sapeva suonare, si ingaggiava un suonatore ambulante, qualche povero cieco che di solito suonava la fisarmonica, per poter ballare. Si aprivano i balli verso le dieci di sera e si facevano le ore piccole.
La prima serata di ballo era la vigilia di Natale e si andava a ballare all'uscita della Messa di Mezzanotte.
E così per tutto il Carnevale.
Finita la Quaresima, il giorno dopo Pasqua, tutto il gruppo si recava in gita a picchettai, pranzando in campagna. Così si scioglieva la compagnia dei balli.”
(Testimonianza. Arbus 198O)

S'ACCABBADORA
COLEI CHE PRATICA L'EUTANASIA

"Sappiamo che presso i Sardi i vecchi che avevano passato i settanta erano sacrificati a Kronos dai loro stessi figli, i quali armati di verghe e di bastoni, a forza di percosse spingendoli sull'orlo di fosse profonde come baratri, barbaramente li uccidevano; e la crudele operazione accompagnavano con risa inumane."
(Pettazzoni - Paleoetnologia sarda - Africa - in Revue d'ethnograpie et de sociologie - 1910 - pag. 222)

Eutanasia, dal greco, significa morire bene, e per estensione morire dolcemente o felicemente, e anche morire a tempo debito. Nell'antichità, quando la natura non provvedeva a dare al moribondo una morte dolce oppure non provvedeva a eliminare un vecchio o altri socialmente inutili con una morte a tempo debito, interveniva la comunità, per mano di familiari, parenti o di addetti all'uopo. Nel primo caso si configurava una eutanasia agonica, nel secondo una eutanasia eugenica.
Il Pettazzoni, nel brano sopraccitato, dà notizia dell'uso della eutanasia eugenica praticata in Sardegna in tempi pre-cristiani. Il fatto è normale. Ciò che appare frutto di fantasia è certamente la descrizione di come i vecchi venissero soppressi, in modo barbaro, crudele e inumano.
E' noto che l'eutanasia eugenica era diffusa nel mondo antico pre-cristiano: una istituzione legale, moralmente lodevole, praticata non solo a Sparta e apprezzata non soltanto da Platone ("coloro che non sono sani di corpo li si lascerà morire"). In tempi moderni l'eutanasia eugenica è scomparsa come istituzione ed è moralmente riprovata. Tuttavia, in forme civili, è ancora largamente diffusa in tutto il mondo - per non dire del nazismo di Hitler con il genocidio degli Ebrei e dell'ebraismo di Israele con il genocidio dei Palestinesi. Contrariamente alle affermazioni di principio, cristiane e umanitarie, nelle società cosiddette civili i vecchi vengono abbandonati a se stessi, lasciati a morire d'inedia e di solitudine - quando non anche di stenti. Numerosi i casi di "pensionati" trovati morti dopo giorni nelle loro abitazioni, senza che nessuno abbia assistito alla loro morte - neppure per aiutarli a morire bene.
Pare che tra i Sardi fosse anche praticata, fino ai tempi recenti, l'eutanasia agonica - l'evitare al moribondo le sofferenze di una lunga agonia. Il mistero che circonda tale pratica, e quindi la mancanza di notizie storiche, è logico se non ovvio: sia perché la pratica è condannata da leggi esterne alla comunità che la esercita; sia per la discrezione e il silenzio dovuti a un compito di tanta gravosa pietas.
Per indicare le persone addette a facilitare il trapasso ai moribondi si conoscono due termini: quello in lingua logudorese accabbadora (secondo la grafia del Dizionario sardo dello Spanu), senza il maschile; l'altro in lingua campidanese acabadori (chiaramente derivato dallo spagnolo acabar = finire), senza il femminile. Ciò fa pensare a residui di una organizzazione matriarcale nel mondo logudorese-barbaricino.
Sas accabbadoras nel Nuorese e is acabadoris nei Campidani - rispettivamente finitrici e finitori - avevano il compito di facilitare il trapasso ai moribondi. Non sappiamo se tale pratica sia del tutto disusata.


IL PARRICIDIO RITUALE

"Lo scrittore sicelioto Timeo di Taormina, vissuto nel IV secolo a. C. e competente in storia occidentale (...) riporta una barbara consuetudine dei Sardi indigeni, consistente nell'uccidere i vecchi padri, accompagnandoli verso baratri, finendoli qui a colpi di bastone e poi precipitandoli fra risa feroci ed inumane in una specie di frenesia festiva. Questo rito, per noi crudele e orribile, dove il riso non è altro che la "restaurazione orgiastica" dell'angoscia derivata dal nichilismo della morte (agisce cioè come attivo elemento rigeneratore della vita), ha numerosi confronti in esempi di parricidi o, in genere, di uccisione di vecchi presso i popoli primitivi antichi e moderni (Africa, Australia, isole della Melanesia e Figi, Brasile, Antille, America settentrionale) e genti dell'antichità classica (regione caucasica e caspia; Irlanda) e medievale (Svezia). E, ciò che appare anche più interessante, si allinea con analoghe costumanze rituali di ambienti dove si pratica il cannibalismo. E. Volhard, che ha compiuto studi fondamentali sul cannibalismo, segna la cerimonia di appendere i vecchi genitori ad una pianta dalla quale vengono scossi come frutti maturi per poi essere uccisi e mangiati. Lo stesso Volhard vede il costume di non aspettare la morte naturale dei parenti prossimi anziani, sopprimendoli ritualmente (costume ovvio nella pratica sarda riferita da Timeo), connesso con la patrofagia, cioè con l'antropofagia del defunto: varietà di endocannibalismo, in relazione con l'obbligo rituale di identificarsi col trapassato addossandosene la morte, al fine della rigenerazione. Il costume riportato da Timeo per la Sardegna, che non v'è ragione di escludere dalla sfera psicologica prenuragica dell'Isola, non può applicarsi che ad uno stadio economico-sociale di civiltà rurale segnato da motivi magico-totemistici e da influenze matriarcali (potenza della donna-madre, matriarca, che si identifica con quella della natura vegetativa, e forza magica dell'antenato totem, cioè del vero padre genealogico, per cui scade, fino a essere soppresso, il padre naturale). La pratica protosarda assolve un obbligo morale inteso ad assicurare con l'esclusione violenta di chi dimostra più vicina la presenza della morte (cioè del vecchio padre), la liberazione dalla morte, in quanto la morte fatta subire coscientemente al vivente accelera la riproduzione della vita: di quella umana (discendenza) e di quella vegetale-agricola, insieme magicamente connessa. Sono innumerevoli gli esempi di relazione intima fra produttività delle coltivazioni agrarie e uccisioni umane, simboliche (tatuaggio, circoncisioni, mutilazioni varie) ed effettive (caccia di teste, sacrifizi umani, cannibalismo, ecc.). Si hanno residui anche nei riti cristiani: vicina al costume sardo riferito da Timeo, è la pratica di Bono - Sassari per cui il Santo Patrono viene accompagnato all'orlo di un burrone e minacciato di essere buttato giù se non concede la grazia d'un buon raccolto (all'uccisione reale si sostituisce l'uccisione simbolica)".
(Da Giovanni Lilliu "La Civiltà dei Sardi " 1963)

IL RISO SARDONICO

La sardonia o sardonica è un'erba delle ranuncolacee, velenosa, in latino sardonia, dal greco sardonion, derivato da Sardò, Sardegna, perché essenza comune in questa Isola.
Si dice che questa erba, ingerita, provocasse il riso sardonico, una convulsione sghignazzante dei muscoli facciali. Da qui, ancora oggi, il significato di riso beffardo, ironico, irrefrenabile.
Il riso da sardonia, nel pregiudizio di antichi colonizzatori, diventa il riso dei Sardi. Lo storico siciliano Timeo, precursore del Nicèforo, sostenne che il riso sardonico si accompagnava nei genitori o nei figli (non si capisce bene se in tutti e due) alla uccisione a randellate dei padri, non più in grado di produrre.
Risponde lo storico Ettore Pais in "Sulla civiltà dei nuraghi" - 19O9:

"Secondo un'antica tradizione raccolta dal celebre storico siciliano Timeo, i Sardi uccidevano i loro genitori quando questi erano divenuti vecchi. Nulla ci vieta di prestar fede a questo racconto, dacché analoghe tradizioni ed analoghi fatti sono riferiti per tanti altri popoli della terra viventi allo stato selvaggio. Per non estenderci in ampli ed oziosi confronti basterà ricordare come un costume siffatto ancora al tempo di Augusto vigesse fra gli abitatori dell'Irlanda. E per un'età più o meno coeva a quella dei nostri Nuraghi, una usanza barbarica di questo genere è riferita per gli stessi Romani i quali avrebbero avuto la consuetudine non di divorare, è vero, ma di uccidere coloro che avessero raggiunto i sessant'anni.
"Non vi sarebbe nulla di strano nell'ammettere che sino al periodo punico ed al tempo in cui fioriva la storiografia siceliota, in alcune parti della Sardegna vi fossero popolazioni dedite ancora all'antropofagia. Tuttavia, dall'accettare ad occhi chiusi questo racconto di Timeo ci trattengono due considerazioni: che il dottissimo scrittore siciliano discorrendo della Corsica e della Sardegna, era caduto, a detta di Polìbio, in una serie di gravi errori; e che stando a Demone, uno scrittore attico più o meno coevo ai tempi di Timeo, l'adagio riso sardonico non si spiegava, come quest'ultimo aveva detto, con il riso dei vecchi genitori Sardi uccisi dai figli, bensì con quello dei prigionieri Cartaginesi dimoranti in Sardegna che venivano sacrificati al dio Kronos. E' probabile che il riso sardonico non abbia nulla a che fare con una tradizione e con l'altra. Ma dalla divergenza dei due scrittori può nascere il sospetto che il racconto sulla barbara usanza dei Sardi sia stata originata dal noto costume punico di sacrificare al dio Kronos vittime umane."


TEMPO NUOVO

“Est istadu Cristos chi hat nadu: "Sos babbos los boccat su tempus"
E' stato Cristo che ha detto: "I padri li consumi il tempo"

“E un vecchio, un padre ormai inutile, andava alla morte: e la doveva ricevere in fondo al sentiero dalle mani dei suoi propri figli, dei quali due lo sorreggevano, tristi, nel camminare.
A metà del sentiero incontrarono uno sconosciuto che se ne stava sopra una specie di scranna di pietra.
Lo sconosciuto, al vederli, si alzò e chiese, con la sollecitudine nella voce, dove andassero con quel vecchio. Tutti li avevano visti partire, tutti sapevano dove essi erano diretti: soltanto quello sconosciuto, a quanto sembrava, doveva venire chissà da quale terra lontana, chissà da quale distanza, se aveva fatto quella domanda.
Uno dei figli, e precisamente quello al quale, dopo la morte del padre, doveva passare l'autorità sui fratelli, rispose: "Andiamo a liberare il vecchio dal peso dei suoi anni, che c'è ormai di più, come tu stesso vedi".
Allora lo sconosciuto si rivolse al vecchio con una voce alla quale non si poteva resistere: "Fermatevi un poco, venite, sedete a questa pietra, vecchio, siete tanto stanco, ognuno lo vede".
Il vecchio, con sorpresa sua e dei suoi figli, si diresse da solo alla scranna di pietra e, sedendosi, sospirò: "Comoda, questa pietra".
I figli cominciarono a sentire sdegno di quell'intruso che faceva loro perdere del tempo. Ma lo sconosciuto non diede loro modo di manifestare a parole quel loro sdegno, perché uscì nel dire: "Dalle mie parti i vecchi muoiono quando viene la morte a prenderseli".
"Da voi, dove?" chiese il figlio maggiore.
"Là" disse l'altro e indicò un punto dell'orizzonte.
"Come mai dalle tue parti può accadere quello che dici?" domandò incuriosito il figlio.
"Ma è cosa tanto naturale da noi, - rispose lo sconosciuto - perché cane non mangia cane, corvo non acceca corvo, albero non uccide albero. Del resto, vi comprendo: anche da noi, una volta, si faceva come qui. Ma poi rimanevano tristi, quelli che restavano: avevano paura d'invecchiare, perché, naturalmente, pensavano che i loro figli avrebbero fatto lo stesso".
"E’ dunque giusto che i miei figli facciano a me quello che io feci a mio padre" disse il vecchio.
"Ma tu, - gli fece lo sconosciuto - incontrasti per caso, quel giorno, chi ti facesse un discorso come quello che io ti ho fatto?".
"No, che non lo incontrai", ammise il vecchio.
"Dunque il caso è diverso, molto diverso: infatti, allora, tu non sapevi che altrove i vecchi si lasciavano fino a consumarsi".
"E' la verità, non lo sapevo".
"Ma ormai siamo a questo punto: che domani i tuoi figli non potrebbero dire a loro discolpa le tue stesse parole - continuò lo sconosciuto - sicché, io dico a voi che volete abbreviare la vita a vostro padre: lasciate scorrere il sangue verso la morte, come l'acqua scorre per natura sua al mare. Se così farete, sono pronto a garantirvi che non avrete più paura d'invecchiare. E se vi resta qualche dubbio che io vi inganni, io rimango con voi e, se vi avrò ingannato, farete di me quel che vorrete".
Divertito, il figlio, ma anche un po' turbato, disse: "E sia. Ma che garanzia ci offri, non solo a parole?"
"Questa mia stessa persona" disse fermo lo sconosciuto.
I figli avevano, per caso, bisogno proprio di uno che girasse loro la macina. E il figlio maggiore disse tutto interessato: "Bene, noi torniamo senz'altro lassù, col vecchio e con te: e finché il vecchio vivrà tu ci compenserai girando la macina; ti va?".
"Da questo stesso momento mi metto nelle vostre mani", disse lo sconosciuto.
Così il forestiero fu legato alla macina. Tutti i vecchi andavano a vederlo e da prima provavano soltanto curiosità, poi piacere con dolore, mescolati insieme, come gustassero del miele amaro: dolcezza di poter continuare a vivere; amarezza di quella fatica da schiavo alla quale lo sconosciuto si era condannato, per loro.
Venivano a vederlo anche dai luoghi più lontani: e tutti sospendevano la loro usanza fino a sapere l'esito di quello strano contratto.
Lo schiavo volontario penò a lungo, perché il vecchio a lungo durò, prima di consumarsi.
Era la prima volta che un vecchio moriva di morte naturale in quella terra. E il sole continuava il suo giro, la luna lo stesso, i fiumi continuavano a scorrere, la terra non cessava di dare le sue erbe, gli alberi i loro frutti: tutto rimaneva come prima. Era proprio un mistero, tanto più che lo sconosciuto continuava a girare la macina e non chiedeva di essere liberato. I giorni passarono, passarono i mesi: e i figli sentivano che il tempo scorreva e non li impauriva: e così sentivano tutti i figli che avevano padre entrato in vecchiaia.
Fu a questo punto che l'uomo misterioso scomparve, e già era cominciato un tempo nuovo.”
(Da "Miele amaro" di Salvatore Cambosu - Vallecchi 1954)

LA MORTE / Usanze campidanesi

“Il vecchio contadino quando si sentiva ormai stanco e sfinito si recava solo al campicello più vicino al paese, anche se non riusciva più a zappettare.
Quando sopraggiungeva qualche malattia se il medico lo riteneva opportuno, veniva chiamato il sacerdote per portargli "L'Olio Santo". E così come era vissuto, ossequioso alla volontà del Signore, si spegneva.
Veniva chiamato il suo barbiere, che era già pagato, perché i contadini usavano pagare al raccolto, naturalmente col grano, per fargli la barba per l'ultima volta; i parenti gli regalavano l'asciugamano buono che veniva usato solo il giorno.
Il morto veniva vestito con l'abito da sposo, già precedentemente preparato, che aveva usato poche volte nella sua vita: per Pasqua e Natale, per il Battesimo o le nozze dei figli; veniva disteso sul letto buono dove aveva dormito il giorno delle nozze e qualche rara volta che era stato malato, in attesa di venir collocato nella bara.
I parenti erano riuniti nella stanza accanto e tra un singhiozzo e l'altro elogiavano le buone azioni del defunto, ogni volta che veniva qualche conoscente a dare le condoglianze.
La salma veniva portata direttamente in cimitero, seguita dal corteo dei parenti; ed una volta tumulato, tutti tornavano a riaccompagnare i parenti e dar loro le condoglianze.
All'ottavo giorno dalla morte, veniva celebrata la messa in suffragio ed ancora, tutti si recavano a casa del defunto e veniva offerto a ciascuno un piccolo pane.”
(Testimonianza di E. M. - Alto Iglesiente 1948)

LA MORTE / Usanze barbaricine.

“Appena una persona sentiva il sopraggiungere della morte, veniva circondato dai parenti più stretti che recitavano le preghiere per lui. Una volta giunto il sonno della morte, le venivano chiusi gli occhi e le legavano un fazzoletto intorno alla testa per chiuderle la bocca.
Successivamente il morto veniva lavato e vestito a festa. Queste operazioni venivano eseguite dalle donne, e solo nel caso che il corpo del defunto fosse molto pesante, veniva chiesto l'intervento di un uomo per aiutare alla vestizione.
Il corpo veniva adagiato sopra un tavolo ricoperto con una tovaglia di lino, di colore bianco. Su di un altro tavolo, sempre ricoperto da una tovaglia in lino, bianca, venivano posti dei ceri accesi. Tutto ciò veniva eseguito nella camera migliore della casa. Una volta concluse queste operazioni, coloro che le avevano effettuate, si disinfettavano le mani riscaldandosele sulla brace ottenuta bruciando un composto di erbe aromatiche disposte su una tegola vecchia.
In cucina, le donne facevano e fanno tutt'ora la lamentazione funebre, "s'attitu o sa roda", ricordando il morto nei suoi pregi e nelle sue imprese.
Nella stanza dove si trova il defunto, arrivavano e arrivano le prioresse a gruppi per recitare il rosario. Queste per tutto il giorno si alternavano ad altre, ricominciando la recitazione del rosario una volta terminato il turno delle precedenti. Appena terminato, si recavano nella stanza dove vi erano i parenti per porgere le loro condoglianze. I parenti ringraziavano sempre sottoforma di attitos, attraverso i quali venivano ricordati anche i morti delle prioresse per invogliarle a piangere.
Gli uomini erano del tutto estranei a questi riti, infatti stavano in un' altra stanza, e solo la notte vegliavano il defunto.
Il morto veniva tenuto in casa, almeno ventiquattro ore.
La sera, si usava e lo si usa tutt'ora, portare la cena alle persone povere del paese, compresi il becchino e l'aiutante del prete. La cena consisteva in pane e formaggio per tre, cinque, sette, nove persone e anche di più a secondo delle condizioni economiche dei parenti del morto. Se si trattava di benestanti, si regalava anche carne di vitella.
Al rintocco delle campane, l'ultimo gruppo di prioresse si disponeva sulla soglia della camera dove era disposto il morto, per recitare il rosario finale. Le altre invece si recavano in chiesa per prendere le croci simbolo di ciascun gruppo di esse, e il parroco. Così insieme si recavano in casa del defunto per condurlo in chiesa. Una volta giunti, il prete provvedeva alla benedizione del cadavere, e poi la bara veniva caricata sulle spalle di quattro fra i parenti più stretti che si alternavano ad altri, e portata in chiesa in processione.
Terminata la cerimonia, tutti i partecipanti l'accompagnavano in cimitero, mentre i parenti stretti, per lo più fratelli e figli rientravano a casa per ricevere parenti e amici che porgevano loro le condoglianze. Per i parenti e i vicini di casa veniva fatto il caffè nero, fortissimo. "Caffè de sos mortos".”
(Testimonianza di M. M. - Orgosolo 1940)

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