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UGO DESSY

SU TEMPUS CHI PASSAT
IL TEMPO CHE PASSA

Volume II

SA MEXINA - LA MEDICINA
IS OMINIS DE MEXINA - I Guaritori

ALFA EDITRICE - QUARTU SANT’ELENA 1989

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A mia madre
che mi insegnò a conoscere e amare
la mia terra e la mia gente.

Un ringraziamento a quanti hanno collaborato alla realizzazione di questa opera.

Seconda pagina di copertina:

L’uomo di oggi è caratterizzato dall’ansia che lo attanaglia: ha perso la reale dimensione del tempo, il suo naturale fluire. Il quotidiano vivere dell’uomo è un affannoso rincorrere se stesso proiettato in avanti come un’ombra demoniaca non mai raggiungibile: la luce del sole, l’essenza della vita, è sempre alle sue spalle… Questa civiltà basata sulla certezza matematica applicata ai termini e ai rapporti che costituiscono il potere (potere distruttivo misurabile in megatoni) produce nell’uomo insicurezza e angoscia… Ed ecco riemergere nel fondo dell’animo umano il bisogno della fede, per trovare sollievo all’ansia, vincere l’angoscia dell’insicurezza…


Terza pagina di copertina:

Biografia
Le attività di insegnante e di pubblicista, vissute con coerenza e impegno ideologico, vedono Ugo Dessy presente con la gente sarda nella continua lotta per il riscatto civile: nell'Iglesiente, con i minatori, per il Fronte Popolare; in Marmilla, con i contadini, per l'occupazione delle terre incolte; nell'Oristanese, con i pescatori, per la liberalizzazione degli stagni; in Barbagia, con i pastori, contro l'occupazione militare; con i giovani, per la loro crescita sociale e politica, nei Centri di Cultura AILC e MCC e con i gruppi extraparlamentari e libertari del '68; con i radicali per i diritti civili; con gli oppressi di tutto il mondo per la liberazione dell'uomo.

Bibliografia
Ugo Dessy è stato collaboratore e redattore di numerosi giornali e riviste. Tra questi Tempo presente, Sardegna oggi, Il Giornale, Il Punto della settimana, Nord e Sud, L'Astrolabio, Sassari sera, ABC, Mondo giovane, La Nuova Sardegna, A-Rivista Anarchica, Aut, Herodot, Umanità nova, L'Internazionale, Sa Republica sarda, e altri.
Narratore e saggista Ugo Dessy ha pubblicato tra l'altro Il Testimone - Fossataro - Cagliari, 1966; L'Invasione della Sardegna - Feltrinelli - Milano, 1969; Stato di Polizia, Giustizia e Repressione - Feltrinelli - Milano, 1970; Un'Isola per militari - Marsilio - Padova, 1972; Il Diario dello Stregone - Marsilio - Padova, 1973; La Rivolta dei pescatori di Cabras - Marsilio - Padova, 1973; Quali Banditi? - Bertani - Verona, 1977; La Maddalena, morte atomica nel Mediterraneo - Bertani - Verona, 1978; I galli non cantano più - Bertani - Verona, 1978; Segni della cultura popolare - Alfa Editrice - Cagliari, 1984; Informazione antimilitarista (antologia) - Livorno 1984; Un grande amore (antologia) - La Spiga - Milano, 1984.


Presentazione e piano dell'opera

INTRODUZIONE
Il TEMPO DELLA MALAFEDE

Una delle definizioni date al nostro tempo, la più calzante, e la più amara, è quella che ne dava l'amico Nicola Chiaromonte, il quale soleva ripetere che il nostro "è il tempo della malafede". Malafede da malizia tecnologica, principalmente. Esaltazione fino alla deificazione della macchina, per il potere e la presunzione di eternità che ne deriva a chi la possiede, a chi la conosce, a chi sa usarla, ma anche per il dominio assoluto che possesso, conoscenza e uso della macchina consentono sui popoli, alienati e degradati in un processo di sviluppo che di civile ha soltanto il nome. Malafede che non significa soltanto strumentalizzazione della fede per scopi illeciti e turpi (il potere è sempre illecito e turpe), ma anche e specialmente mancanza di fede.
L'era dei lumi è stata per alcuni versi portatrice di valori, cui l'umanità ha da sempre mirato, quali la conoscenza e la tolleranza, che vanno di pari passo e costituiscono le fondamenta della fratellanza e della giustizia sociale. Ma ha puntato le sue energie sulla "razionalità" (disgiunta e in conflitto rispetto alla "istintualità", mentre le è complementare in natura), per consentire a una classe mercantile l'accesso al potere, ridefinito e ristrutturato in chiave scientifica, e che insieme allo sviluppo della tecnologia e della economia ha portato alla mummificazione o alla devastazione o più spesso allo snaturamento della scienza intesa come arte, e quindi delle arti, della libera creatività umana.
L'attuale civiltà, esasperata e disperata risultante dell'era dei lumi (che illumina il mondo spegnendo la luce del sole), è, come la chiamava il grande Lawrence, "un illuminato inferno", dove le umane contraddizioni si sono moltiplicate all'infinito, con il conforto, per i dannati, di poterne conoscere e spiegare "scientificamente" le cause. Ma è una scienza, questa in funzione del potere, che sa spiegare le cause dei mali che affliggono l'umanità, che sa curarli - nel senso di sopire i mali per reintegrare il malato nel sacro processo produttivo dell'ordine costituito; ma non sa e non vuole, e forse non può, eliminarne le cause. In verità, la conoscenza delle cause di un male, di per sé non ne allevia le sofferenze. E' anche, se si vuole, una scienza al potere, che produce "civiltà" e "benessere" per una esigua parte di umanità, sulla degradazione della gran parte di umanità, mediante un processo di sofisticata barbarie. Ma anche, e forse soprattutto, all'interno della parte privilegiata, "civiltà" e "benessere" sono portatori e diffusori di un cancro da cui non c'è scampo, se non con il ritorno alla fede.
Quando la scienza, in funzione del potere, perde la sua ragione d'essere, che è quella di sostenere e di esaltare la vita, per diventare portatrice di cancro e di morte, allora non ha più credibilità, è da rifiutare.
L'uomo di oggi è caratterizzato dall'ansia che lo attanaglia: ha perso la reale dimensione del tempo, il suo naturale fluire. Il quotidiano vivere dell'uomo è un affannoso rincorrere se stesso proiettato in avanti come un'ombra demoniaca non mai raggiungibile: la luce del sole, l'essenza della vita, è sempre alla sue spalle. L'uomo patisce l'ansia schizofrenica della insicurezza. Questa civiltà basata sulla certezza matematica applicata ai termini e ai rapporti che costituiscono il potere (potere distruttivo misurabile in megatoni) produce nell'uomo insicurezza e angoscia.
La guerra non è più il naturale e momentaneo scontro tra gruppi rivali su un oggetto rilevante per la sopravvivenza - come poteva essere in passato. La guerra oggi è sterminio totale assurdo, su un oggetto umanamente indefinibile, e che non ha neppure importanza definire, se lo scontro significa certamente la fine dell'umanità.
Ed ecco riemergere nel fondo dell'animo umano il bisogno della fede, per trovare sollievo all'ansia, vincere l'angoscia della insicurezza. In un mondo "illuminato" come questo, diffusore - molto più che negli evi oscuri del passato - di morbi e pestilenze, la fede assume più che mai il suo originario valore terapeutico, ricostituente: "La fede è la chiave di ogni salute fisica e mentale".


CAPITOLO PRIMO

MEDICINA E MAGIA

La medicina è originariamente fondata sulla magia. Già il termine stesso di Mexina, nei riti terapeutici popolari indica uno specifico capace di guarire qualunque malattia; la medicina per antonomasia è dunque la panacea.
Malattia, malessere, è male; al contrario, salute, benessere, è bene. Le divinità buone e le malvagie, e gli spiriti da queste generati e governati, sono all'origine di ogni stato umano. La medicina popolare riporta ogni processo terapeutico alle cause che hanno originato la malattia.
Si fa una contrapposizione delle forze del bene con quelle del male, tra la magia bianca e la magia nera, tra guaritori e ammaliatori. Tuttavia, tali forze sono meno separate e antagoniste di quanto non sembri dalle diverse influenze che esercitano sull'uomo: ciascuna divinità rappresenta il bene e il male secondo l'atteggiamento che assume nei confronti dei mortali. Dio, a fin di bene - o se si preferisce per i propri imperscrutabili fini - può far del male all'uomo, diffondendo guerre e pestilenze. Il Diavolo - a fin di male - o, anche qui, se si preferisce, per i suoi imperscrutabili fini - può far del bene all'uomo, svelandogli tesori nascosti o rendendolo partecipe della Scienza. Nell'Olimpo del mondo classico, Apollo, che si confonde con Elios, dio della vita, è anche portatore di morte - i Greci ne sperimentarono il rigore subendo una terribile epidemia per aver offeso un suo sacerdote. Nel monoteismo, Dio che viene definito il bene in assoluto, è portatore di terrificanti malanni all'uomo che infrange la sua legge: talvolta la sua malvagità si manifesta con pestilenze che coinvolgono e affliggono interi popoli - come Jahvé con gli Egizi ostili a Mosè o con gli stessi Ebrei che lo tradiscono con Baal adorando il vitello d'oro.
Il sacerdote - stregone pur essendo primariamente un guaritore, ha anche capacità di ammaliare (nel significato vasto di ammalare, produrre mali). Egli, con le sue speciali virtù e con le sue arti magiche, è in contatto con le forze del bene, e all'occasione con le forze del male.
Per quel che ho potuto rilevare nel mondo della medicina popolare, non esistono due categorie distinte di stregoni "guaritori" e "ammalatori": lo stregone, il fattucchiere che guarisce può anche con opposto procedimento ammalare. Lo stesso sacerdote cattolico, nella credenza popolare, ha il potere di guarire, specialmente mediante la lettura dei suoi libri magici (is Vangeus, i Vangeli), ma con gli stessi può fare fatture che ammalano, anche in forma grave, fino a provocare paralisi.


GLI STRUMENTI DELLA MEDICINA

In ogni procedimento terapeutico, dal più semplice al più complesso, si distinguono: a) la materia; b) is brebus, le parole magiche; c) il rituale.
La materia, la medicina vera e propria che viene assunta dal malato in diversi modi, non ha alcuna efficacia se non è accompagnata dai brebus e da un preciso rituale. Chiunque può conoscere la materia, consistente per lo più in sostanze vegetali, animali o anche inorganiche, le più svariate, come pietre e acqua; ci si può anche impadronire del rituale, per averlo visto compiere; ma non è dato conoscere is brebus, le parole magiche, noti solamente allo stregone che li pronuncia. (Per altro, egli possiede particolari virtù e poteri, oltre alla conoscenza dei brebus, alla profonda conoscenza della materia e del rituale, che lo distinguono dai comuni mortali.)
La materia. Tutto ciò che esiste in natura, di animale, vegetale e minerale, ha influssi positivi o negativi, benefici o malefici. Nella pratica ogni sostanza tende a qualificarsi come buona o cattiva, positiva o negativa, tuttavia conserva una sua fondamentale ambivalenza: può produrre effetti diversi secondo lo spirito (o intenzione) che la anima e secondo le tecniche, i modi e i tempi, con cui la si usa. Per fare un esempio, su contravelenu (che è un antidoto costituito da uno scapolare contenente parti mummificate di animali venefici, che descriverò più avanti) guarisce le punture velenose con l'imposizione degli stessi animali, o di altri simili, che le hanno prodotte.
Talvolta invece la materia terapeutica è correlata alla malattia da una sorta di similarità. Pertanto, dal sapore, dalla forma o dal colore di una pianta si può determinare l'uso specifico che se ne può fare per guarire (o provocare) una malattia. Per esempio, contro l'itterizia gioverebbero i petali gialli di certi fiori; mentre erbe variegate guarirebbero malattie della pelle.
Le virtù terapeutiche di molte erbe sono state certamente rilevate e confermate dall'esperienza con il loro uso secolare - non dissimilmente la moderna farmacologia, che sperimenta su cavie anche umane, la validità dei suoi prodotti. Certamente da tempi preistorici, l'uomo ha imparato a conoscere il potere cicatrizzante o febbrifugo o stimolante o sedativo di certe sostanze vegetali; e la conoscenza e l'arte della fitoterapia si sono tramandate per generazioni di stregoni fino ai nostri giorni. E ciò, nonostante la feroce repressione cui l'antica medicina è stata sottoposta dal potere cosiddetto scientifico.
Ancora collegata alla legge di similarità è la diffusa credenza che mangiare il cervello di animali intelligenti fa crescere l'intelligenza, o che il cuore e il fegato sviluppino la forza. Così pure per ridare virilità ai vecchi o svilupparla nei giovani si sostiene che giovi mangiare i testicoli di animali colludus (che si può tradurre con "non castrati, ma integri"), quali il gallo, l'asino, il cavallo e il toro. Tale credenza è stata fatta propria anche dalla medicina moderna che cura l'impotenza maschile con estratti di testicoli bovini o di primati e culmina con gli innesti di organi o di parte di essi. Comunque, tutti gli innesti che si operano nel mondo vegetale seguono la legge della similarità.
La materia usata in quasi tutti i processi terapeutici consiste principalmente negli elementi di primaria importanza per la sopravvivenza. Abbiamo così con le erbe, l'acqua, la terra, il grano, il sale, il sangue, la saliva, l'alito, o parti vitali di animali: testa, o, per essa simbolicamente, dente o corno o anche lingua; e cuore, o per esso simbolicamente il sangue.
Nella terapia del malocchio ricorrono frequentemente alcune pietre dure, come l'ossidiana e la corniola, usate come amuleto, su cui va a scaricarsi il fluido malefico (umbra de caoru, fascino di serpente) de s'oghiadori, di colui che lancia il malocchio. Viene anche usato un amuleto ricavato da una sezione di corno di cervo, o più semplicemente da un nastrino verde, che è usato per proteggere anche animali e oggetti dalla "distruttività" dell'altrui invidia.
Nella terapia dei traumi psichici (azzicchidus, spaventi, striadura, ammaliamento da strige), consistente per lo più in s'affumentu, il suffumigio magico, ritroviamo come materie d'uso, il fuoco, l'incenso e la palma, e l'acqua benedetta.
I guaritori dei nostri paesi, che fanno gran consumo di acqua benedetta, usano rifornirsene attingendola nascostamente con una bottiglietta dall'Acquasantiera o dal Fonte battesimale in chiesa; quindi la versano in una capace damigiana piena d'acqua normale, essendo sufficiente anche una sola goccia di acqua santa per "santificare" qualunque quantità di acqua in cui venga mischiata. Non si può però conservarla troppo a lungo: in quanto, per alcuni rituali, deve essere bevuta; pertanto tale acqua deve essere potabile.
Is brebus. Letteralmente: le parole; dal latino verbum. Sono le parole magiche che accompagnano sempre la preparazione della sostanza terapeutica e quasi sempre l'uso della stessa sostanza. Sono possedute e recitate in segreto (normalmente vengono bisbigliate) dal guaritore. Consistono per lo più in versetti di carattere religioso, ripresi dalla liturgia cattolica, adattati al caso, o anche di filastrocche, sempre di carattere magico-religioso, di carattere popolare, attribuite a santi taumaturghi (Sant'Antonio e la Madonna specialmente) che, si dice, le recitarono per operare guarigioni.
Is brebus non possono essere comunicati ad alcuno, se non si vuole incorrere in terribili castighi. Possono essere comunicati soltanto in punto di morte a persona scelta dallo stesso fattucchiere, e chi li riceve deve fare solenne giuramento di non usarli mai a fini di lucro.
Il rituale è l'insieme di atti che determinano la cerimonia. Può essere semplice o complessa, secondo il tipo di terapia usata, in rapporto alla minore o maggiore gravità del male da guarire. O se si preferisce: in rapporto al grado di resistenza che gli spiriti del male o altre forze più o meno occulte oppongono alla volontà del guaritore durante il processo terapeutico-liberatorio.
Credo sia importante sottolineare che al di là della materia, dei brebus e del rituale, per lo svolgimento positivo del processo terapeutico è fondamentale il rapporto tra guaritore e malato. Devono essere ambedue animati dalla fede in ciò che fanno e devono essere uniti da reciproca simpatia.


LA PAURA E LA FEDE

La paura è uno stato d'animo assai complesso, presente in ogni uomo in quanto creatura fragile e limitata, effimera. Tanto più l'uomo vive in ambiente ostile, in situazioni aleatorie, di insicurezza, tanto più albergherà in lui la paura - che attanaglia talvolta con morsi feroci, e tal'altra rode, con sottile incessante crudeltà.
La paura può essere determinata non soltanto e non tanto da qualcosa di reale, quanto dall'irreale, da ciò che è immaginario o ignoto o indefinito. In quest'ultimo caso alla paura si associa l'ansia, uno stato patologico di angoscia che può produrre mutamenti di rilievo nella psiche: forti depressioni, ossessioni, allucinazioni auditive e visive, con disturbi anche di carattere fisiologico, specie nelle funzioni gastroenteriche, nella circolazione e nel ricambio della pelle.
La magia dello stregone-guaritore si innesta su questo sentimento di insicurezza, di paura dell'ignoto, di impotenza davanti alle oscure forze che animano la natura - sia che egli usi la magia nera, per "legare", compiere fatture e sortilegi "ammalianti", sia che usi la magia bianca per "sciogliere", rasserenare e guarire.
Il convincimento o anche il solo sospetto che un pericolo ignoto ci sovrasti (forze demoniache avverse, o la "fattura" di un invidioso, o la malevolenza di un poliziotto o di un superiore dai quali ci si aspetta un tiro mancino) è sufficiente a produrre, con la paura e con l'ansia, una nevrosi - la cui portata, le cui laceranti conseguenze nella personalità non sono facilmente prevedibili, né facilmente reversibili, con metodi e farmaci cosiddetti scientifici.
Sembrerebbe si debba applicare anche qui la legge della affinità: misteriosa è la causa che ha prodotto il male, misteriosa dovrà essere la terapia che eliminerà il male, stesso.
E misterioso è anche l'elemento fondamentale, la fede, conditio sine qua non per ottenere la guarigione. Un concetto ribadito più volte dal Gesù-guaritore nel comunicare l'arte del terapeuta ai suoi apostoli: con la fede guariranno i lebbrosi e gli storpi cammineranno. Nessuna terapia - e non soltanto nel campo strettamente psichico - è veramente efficace se colui che vi viene sottoposto non è convinto della sua validità: se cioè non ha fede nel guaritore e fiducia nel farmaco.
Nella medicina popolare - ma ciò è riferibile anche alla medicina moderna - il guaritore assume il ruolo di sacerdote, e i due ruoli finiscono per confondersi. Nella credenza popolare, il prete, in quanto sacerdote, non può non essere un fattucchiere, uno capace di fare magie, sia nera che bianca, per ammalare o guarire, legare o sciogliere. Is Vangeus, i Vangeli, il libro sacro del prete, contiene scritti is brebus, le parole magiche, necessari per fare, o per disfare le "fatture". Non sono pochi i sacerdoti - non solo cattolici - che nei nostri paesi si prestano alla "lettura de is Vangeus" in chiesa, lettura dei Vangeli secondo un apposito rituale, per liberare pazienti da mali oscuri (artrosi, coliche, inappetenze, anemie, spaventi, eccetera) provocati da fatture, jettature, ammaliature: effetti di pratiche di magia nera.


CORPO SANO IN MENTE SANA

Si sostiene che il popolo sia materialone, incapace di intendere i valori e i significati dello spirito. Niente di più falso. Nella medicina popolare il principio mens sana in corpore sano viene addirittura ribaltato. Il corpo è considerato l'involucro dell'anima, che è l'essenza della vita: l'eterno, o ciò che aspira all'eternità, costretto in caduca effimera sembianza, per una oscura condanna.
Pure avendo grande attenzione e rispetto per il corpo, in quanto "apparenza", modo di apparire dell'anima, è questa, l'interiorità, di cui ci si preoccupa maggiormente nell'arte della medicina popolare. Il cui principale scopo è quello di curare l'anima per mantenere sano ed efficiente il corpo. Una preminenza dell'anima sul corpo compare in tutto il complesso dei riti terapeutici popolari che ho osservato.
Ogni male che affligge il corpo è conseguenza di un male che si annida nell'anima - secondo un'evidente teoria medica psicosomatica - ed è l'anima che plasma a propria somiglianza il corpo; talché l'anima pura ha belle sembianze corporee. (E a questo proposito, il positivismo del Lombroso, del Ferri e del Niceforo restava molto al di qua, sostenendo che esiste un rapporto tra criminalità e forma del cranio e caratteri somatici.)
Febbre, foruncolosi sono sintomi fisici di un male psichico: lo spavento; anemie, inappetenza, pallore sono sintomi di ogu liau, malocchio a opera di jettatori; artrosi, cefalee, coliche, paralisi, lombaggini sono sintomi di "fatture" compiute da stregoni prezzolati da nemici, da gente "che vuol male", gente "invidiosa".
Largamente diffuso appare ancora l'uso terapeutico della musica, del canto e della danza, che si fondono spesso fra loro. Basti pensare al ballo della tarantola, su ballu de s'argia, una terapia contro il morso di un mitico insetto costituita da un rito collettivo basato su musica, danza e canto. O anche a is attitidus, le lamentazioni funebri che almeno in parte riescono a placare il dolore dei vivi per la perdita di un loro caro.
Tale terapia è rivolta essenzialmente ai mali dell'anima, seppure una melodia può rendere più tollerabile anche un dolore esclusivamente fisico.
Nella mitologia ritroviamo numerosi casi in cui si attribuiscono alla musica virtù terapeutiche, specialmente sedative. Orfeo ammansiva le fiere traendo melodie dalla sua lira. La malinconia, la noia dei potenti, viene confortata nelle corti dai canti dei menestrelli e dalle danze delle fanciulle. Canti e danze durante i pasti assicuravano agli stessi potenti il rinvigorimento dei loro appetiti primari, dello stomaco e del sesso.
Un caso classico di musico-terapia nella risoluzione di crisi acute di schizofrenia ci viene dalla Bibbia: Davide suona l'arpa per sedare la crisi di re Saul, che ci viene descritto come uno psicopatico che alternava fasi di profonda depressione a fasi di feroce aggressività. Non molti anni fa ho conosciuto un giovane schizofrenico, il quale riusciva a controllarsi e a placarsi sedendo davanti all'organo e improvvisando lunghissime e straordinarie melodie. A me che lo ascoltavo per ore, sembravano l'espressione, anzi i tumulti stessi del suo animo, i suoi pensieri e le sue emozioni che si liberavano. Alla fine restava come vuotato da ogni energia e insieme da ogni paura, da ogni ossessione. Credo che nessun farmaco sedativo raggiungesse in lui lo stesso risultato.


DEI E SANTI TAUMATURGHI

Agli dei pagani, il cattolicesimo ha sostituito i santi. Come nell'Olimpo greco gli dei si dividevano i ruoli, secondo gli attributi loro propri, diventando sovrintendenti alle varie arti e professioni e a ogni stato o condizione dell'uomo, così i santi dell'Olimpo cattolico. Abbiamo santi specifici che tutelano e proteggono professioni, arti e mestieri - in mancanza di una legislazione previdenziale sociale dello stato. Abbiamo perfino santi che proteggono i ladri, i militari e le prostitute. Santa Barbara è addetta agli esplosivi. San Luigi Gonzaga e San Domenico Savio proteggono la purezza dei fanciulli e quella delle fanciulle è guardata da Santa Maria Goretti, mentre San Martino oltre a custodire le botti del vino è il protettore dei mendicanti. C'è poi tutta una categoria di santi rurali che sovrintendono alla semina, al raccolto, e perfino alla difesa di colture specifiche, come Santa Fara protettrice del grano. Tra questi, i più famosi, San Francesco d'Assisi che tutela nel suo insieme la natura - e deve avere un bel gran daffare in questi tempi di inquinamento e degradazione ecologica; San Bernardo, che bada alle api; San Benedetto da Norcia, che si occupa di bonifiche; San Romualdo, che attende alle foreste; Sant'Isidoro, all'agricoltura; e così via.
Altrettanto numerosi i santi che sovrintendono alla medicina, praticamente uno per ogni morbo. A questi, come nella organizzazione terrena delle Unità Sanitarie Locali, ci si rivolge secondo il male che si ha e la specializzazione propria di ciascun santo guaritore. Tuttavia, alcuni santi maggiori hanno poteri curativi a largo spettro d'azione e ad essi ci si può rivolgere come può farsi con il medico generico, di famiglia. Così alcuni dei del passato, come Esculapio per i Greci e Serapide per gli Egizi, sovrintendevano alla medicina in generale, erano supremi guaritori, ai quali ci si rivolgeva per la soluzione di ogni malattia. Numerosissimi erano gli attestati che documentavano nei templi a lui dedicati le guarigioni operate da Esculapio figlio di Apollo. Non men numerose di quelle che si attribuiscono in tempi attuali in Sardegna a Santa Vitalia, di Serrenti, il cui santuario è ricolmo di ex-voto, che annualmente si rinnovano ad ogni pellegrinaggio.
Nell'antichità, il dio Thoth era prevalentemente associato alle malattie degli occhi; attualmente il compito di proteggere la vista è stato assunto da Santa Lucia. E con tali accostamenti, per significare quanto del passato continua a vivere pressoché immutato, si potrebbe continuare a lungo.
La medicina, nata come magia, resta ancora oggi correlata per gran parte alla religione, al sovrannaturale che regge e governa il naturale. Medicina e religione traggono la loro sostanza dalla magia. Il sacerdote e il medico in effetti sono considerati due guaritori: uno cura il corpo e l'altro l'anima. Ma così come i confini tra la sfera del fisico e dello psichico si confondono, così pure tendono a confondersi le professioni dei due guaritori.
I moderni guaritori, i "luminari", che fondano ogni loro intervento sulla conoscenza scientifica, nelle cliniche di loro proprietà o da loro dirette, consentono la presenza di rosari santini scapolari e amuleti di ogni genere, che la gran parte dei pazienti indossano o tengono in testa al letto, che costituiscono un aspetto chiaramente psicoterapeutico. Senza questi magici, sacri amuleti, ben difficilmente lo stesso paziente accetterebbe di sottoporsi ai trattamenti scientifici di cura, e ben difficilmente gli stessi trattamenti raggiungerebbero, in quei pazienti, l'effetto voluto. Non c'è medicina senza un fondo di magia; non c'è guarigione senza la presenza di un guaritore carismatico, oggi rappresentano dal "luminare" che "opera miracoli", senza il contemporaneo sostegno di una divinità, di un santo, di una forza sovrannaturale, che dia il benevolo assenso alla guarigione.
Gesù - figlio incarnato di Jahvé, dio degli Ebrei e dei Cristiani - agli occhi dei suoi fedeli non è tanto colui che ha predicato una rivoluzionaria dottrina sociale fondata sulla fratellanza, ma il Sommo Taumaturgo, un prodigioso guaritore, che può cancellare tutti i peccati e guarire tutti i mali. Egli non guarisce soltanto i mali dello spirito, scacciando i demoni dal corpo degli invasati trasferendoli nei porci, ma anche lebbrosi e storpi e arriva fino a operare resurrezioni, come avvenne con Lazzaro. Egli, Gesù, conosce l'arte della medicina magica, la cui potenza taumaturgica è data dalla fede, e la trasmette, prima della sua morte, ai suoi continuatori.


S'AQUA ABREBADA

S'aqua abrebada è l'acqua miracolosa, resa tale con is brebus, le parole magiche. E' l'elemento che maggiormente ricorre nei riti terapeutici popolari.
La fede - come si è detto - sta alla base dell'efficacia di molte terapie nell'antica medicina, quando si riteneva che le malattie fossero provocate dalle possessioni di spiriti maligni o di loro influssi. La forza terapeutica della preghiera, della invocazione al Sommo Guaritore, è sottolineata in tutti i testi religiosi. Anche attualmente la chiesa sostiene che una preghiera, una invocazione espressa con profonda fede produce il miracolo della guarigione. Le fortune del Santuario della Madonna di Lourdes, che può considerarsi un immenso policlinico dove si pratica la magia terapeutica, sono legate a questo concetto di fede.
Un concetto simile era proprio della medicina druidica: ogni terapia si svolge nelle fede, che deve essere nel guaritore e deve essere nel malato.
Non è difficile riconoscere, anche in numerosi riti terapeutici che attualmente si usano in Sardegna, la derivazione dal druidismo.
La religione dei druidi - che da tempi remoti si diffuse nell'Europa - nei suoi aspetti di dottrina medico-magica non è stata mai sostanzialmente soppiantata dal cristianesimo, e ha continuato a conservarsi nei secoli fondendosi con elementi della nuova dottrina religiosa.
I sacerdoti celti erano maestri nelle arti magiche e il loro ruolo primario era quello di guaritori. La medicina popolare, specialmente diffusa tra i ceti contadini, è chiaramente derivata dalla medicina druidica, le cui tecniche terapeutiche sono simili a quelle in uso tra i nostri guaritori. In primo luogo i riti dell'acqua.
I guaritori druidici, per allontanare gli spiriti maligni dal corpo di un malato, usavano avvicinare al paziente un recipiente d'acqua e versarvi dentro alcuni carboni accesi, pronunciando nel frattempo gli scongiuri di rito; l'invocazione agli spiriti del bene affinché sorgessero dai quattro angoli della terra e operassero la guarigione, scacciando gli spiriti cattivi.
Una diffusa diagnosi dei sacerdoti druidici consisteva nello scavare per terra due fossette e di riempirle di acqua. Quindi si portava il paziente e lo si sdraiava tra le due fossette d'acqua; una rappresentava la vita e l'altra la morte. Se il paziente, in stato d'incoscienza, si voltava verso la buca di destra, egli si sarebbe salvato; se al contrario si fosse voltato sulla sinistra, egli sarebbe morto.
Le fonti d'acqua erano per i druidi fonti di salute, nel senso che dall'acqua essi traevano ogni loro forza per operare le guarigioni. I pozzi erano sacri e venivano segnalati da pietre erette, simbolo maschile, di segno opposto all'acqua, simbolo femminile. La terapia per ogni genere di malattia, dell'anima e del corpo, mediante l'immersione o le abluzioni, era assai diffusa.
Ritroviamo l'acqua in molti dei riti terapeutici descritti in questo lavoro. In taluni di questi riti è richiesta l'acqua santa, che il guaritore prende in chiesa o si fa benedire da un sacerdote carismatico. In altri è sufficiente l'acqua comune che viene resa "santa", e quindi taumaturgica, recitando gli appositi brebus.
Anche in Sardegna i pozzi, di norma consacrati a qualche divinità, e dopo il cristianesimo a venerabili santi, sono ritenuti potenti risanatori. Molti incantesimi si fanno o si sciolgono con l'acqua dei pozzi. Anticamente si dice che risolvessero i disturbi mentali; ma la loro funzione più nota era quella di dare l'eterna giovinezza. Altri pozzi erano rinomati per la loro acqua capace di guarire l'artrosi deformante. Io stesso, qualche anno fa, ho visto una lunga coda di macchine in sosta sui tornanti dei monti di Dolianova, dove quotidianamente la gente attingeva acqua da una sorgente, che ha il potere - si dice - di guarire tutti i "mal di pietra", le calcolosi ovunque localizzate, reni, vescica, fegato.
Nel singolare rito di s'imbrusciadura (l'avvoltolarsi rituale per guarire dagli spaventi, che ho scoperto negli Anni Cinquanta in un paese dell'Oristanese), in una delle sue varianti usa una o anche quattro fossette piene d'acqua su cui il malato si avvoltola.


I NUOVI STREGONI

Intorno al XV° Secolo, al suo sorgere, la medicina moderna trovò non poche resistenze al suo affermarsi nella medicina pratica, ben radicata nell'uso e nel costume popolare, con il suo contorno magico-simbolico. Non si trattò probabilmente tanto di uno scontro di idee, metodi, impostazioni di scienze mediche opposte, quanto di rivalità tra nuove e vecchie caste di guaritori, queste tendenti a conservare i privilegi soprattutto di carattere morale che dalla loro arte veniva loro; le nuove caste, forti del crisma che veniva loro dalla Scienza, nel dare la scalata per il monopolio nell'arte del guarire, ne vedevano soprattutto i privilegi economici e di potere che ne avrebbero potuto trarre.
La nuova medicina dunque per sgombrarsi il terreno dai loro antichi e ancora robusti concorrenti muove dapprima con le accuse di ciarlataneria, poi di malvagità e infine di stregoneria. Facendo ciò la medicina moderna puntava ancora una volta sulla superstizione: voleva far credere che in quanto stregoneria tutta la medicina antica (fatte alcune eccezioni per due o tre mitici guaritori che nominò precursori scientifici) era da considerarsi magia nera, diabolica; assumendosi quindi il carattere di magia bianca, sostenuta dalle forze del bene.
La Chiesa, il cui apporto ebbe un gran peso nello scontro, (contrariamente alla sua ostilità e diffidenza nei confronti della nuova scienza basata sulla verità matematica), si schierò dalla parte dei nuovi stregoni, dai quali in cambio avrebbe ricevuto l'ambito crisma di scientificità che nei secoli futuri le avrebbe consentito di continuare a vivere e a prosperare. In virtù di questa alleanza, la scienza ufficiale - che in privato considera il cristianesimo niente di più che superstizione e ignoranza, in pubblico rilascia patenti di scientificità e verità ai miti della Chiesa. Ogni qualvolta la Chiesa necessita di acquistare credito in un mondo fattosi scettico, la scienza ufficiale si dà agli studi archeologici per situare con precisione dove si trovi il Monte Ararat e in quale punto approdò l'arca di Noè, o in quale sito del Sinai furono date a Mosè le Tavole della Legge, o si dà a studi di alta ricerca biochimica per individuare le sostanze componenti la manna che Jahvé mandò nel deserto al suo popolo o per dimostrare l'autenticità del sudario che avvolse il Cristo dopo la sua deposizione dalla croce o quali fra le centinaia di migliaia prodotti fossero i veri chiodi estratti dalla croce di Gesù. E poco conta che nessuno storico riporti l'usanza di inchiodare i condannati alla crocefissione: si vuole che per Gesù fosse stata fatta una eccezione. Per altro, la questione dell'inchiodamento usato in sostituzione della legatura con corde, ha dato luogo a diatribe, anche recenti, sul punto del polso, e non della palma della mano, in cui i chiodi sarebbero stati conficcati, per poter sostenere il corpo dell'appeso. La repressione della "stregoneria" (il termine è improprio in quanto indicava tutto il patrimonio culturale di antiche civiltà conservatosi a distanza di quindici secoli dall'avvento del cristianesimo) fu consumata in un mare di sangue. Certamente la situazione di estrema miseria e degradazione di quel periodo ne favorirono l'attuazione. L'umanità attraversava uno dei momenti più bui della sua storia: ignoranza, fame, epidemie, funestavano le campagne. Si era persa ogni sicurezza nel presente e ogni speranza nel futuro. Si viveva in uno stato di profonda insicurezza che si traduceva in una sorta di ansietà patologica di massa, di cui un sintomo era il fanatismo religioso e le isterie collettive. I rapporti sociali, ridottisi a rudimenti, gli stessi rapporti affettivi ne erano avvelenati e distorti; l'unica valvola alle tensioni era la creazione, di volta in volta, di capri espiatori, di presunti responsabili, definiti demoniaci, dei mali di qualunque natura che affliggevano la comunità.
Le carestie, i morbi, le pestilenze erano opera di spiriti del male: ora tali demoni si erano incarnati negli antichi guaritori, nei veggenti testimoni di antichi culti religiosi, molti dei quali esercitavano l'arte della medicina. Costoro, dunque venivano additati come i diffusori di ogni male, costoro erano dunque gli "untori" che bisognava colpire, eliminare. Distruggendo i loro corpi con il fuoco li si liberava dalla possessione demoniaca, e gli stessi demoni perdevano l'elemento per materializzarsi e quindi la possibilità di compiere le loro nefandezze, spargendo il terrore con infernali pestilenze.
Il termine di stregoneria resta da allora sinonimo di magia nera. Le vittime della grande caccia furono principalmente le donne guaritrici, dichiarate streghe, succubi lussuriose di Satana, il grande Caprone, torturate e mandate al rogo. A nulla valsero le appassionate difese (assai rilevanti per quei tempi oscuri) che tentarono di sostenere queste donne-strega dichiarando che esse praticavano magia bianca, che ricorrevano a terapie naturali, quali le erbe, che inserivano nelle terapie la pratica religiosa secondo l'ortodossia, e infine che erano del tutto disinteressate, non pretendendo mai compensi dai loro assistiti. Ed era forse quest'ultimo punto che più pesava nel giudizio che le mandava a morte.
Tuttavia, nessuna persecuzione, neppure le stragi di streghe che dal XV° Secolo si protrassero, in alcuni paesi come la Spagna, fino al XIX° Secolo, riuscirono a sradicare nel popolo i suoi antichi riti terapeutici, le sue formule mediche, i suoi carismatici guaritori - mentre i nuovi guaritori, gli stregoni scientifici, dovettero contrastare una vasta categoria nata nel loro stesso seno: quella dei ciarlatani.


GLI AMULETI

Osservando nei suoi aspetti formali la medicina popolare, ritroviamo di frequente, insieme ad alcune sostanze ricavate da piante o animali ritenuti sacri o demoniaci, numerose pietre. Accanto al pezzo di corno di cervo o a su scrittu (scapolare contenente parole magiche), per tenere lontano il malocchio troviamo alcune pietre dure, specialmente ossidiana, corniola, ametista. Provenienti dalla necropoli punico-romana di Tharros, erano diffusi tra i ceti benestanti gli scarabei sacri, amuleti in pietra dura di squisita fattura egizia. Molte pietre dure o preziose avevano sia valore scaramantico, protettivo, sia valore terapeutico per diversi disturbi legati alla sfera psichica, quali l'ipocondria, o per il mal di capo, eccetera.
Anche i monili d'oro e d'argento, di cui è ricco l'antico costume sardo, specie quello della donna, hanno la funzione di amuleti.
Si può anche parlare, se vogliamo, di metalloterapia, quando da metalli e pietre venivano staccate minute particelle, messe nell'acqua che poi veniva bevuta come medicamento.
Dovunque l'oro è un metallo di valore, è comune l'attribuzione ad esso della virtù di rafforzare l'intelligenza - e non soltanto per il potere che dà a chi lo possiede. E' d'uso, per non dire che è d'obbligo da parte dei padrini regalare al neonato un oggettino in oro di carattere personale, quali anellino, braccialetto, orecchino, collana, come augurio di benessere.
Amuleti e talismani per tenere lontani gli spiriti del male e i loro influssi nefasti, o per accattivarsi gli spiriti del bene, sono ancora assai diffusi. Tentarne un elenco sarebbe troppo lungo. Tutto, in pratica, può avere valore scaramantico o curativo, o per affinità e simpatia o per la legge degli opposti che si respingono l'un l'altro. Così, tutto ciò che è ritenuto sacro respinge tutto ciò che è ritenuto demoniaco. Tuttavia, tutto ciò che è ritenuto demoniaco contiene una sua forza che può essere impiegata contro altra forza ugualmente demoniaca, se si riesce a piegarla alla propria volontà.
Anche i colori hanno poteri talismanici: il verde protegge dal malocchio, dalle calamità in generale; il rosso provoca turbamenti psichici fino all'ossessione. Il bianco è simbolo del bene, della purezza; il nero è simbolo del male, della malvagità. Ai bambini, ma anche ad animali di pregio e perfino alle sedie della camera bella, si legano fiocchetti di color verde.
Il nostro contadino, con la lama del proprio coltello, premendola di piatto sulla ferita provocata da un animale ritenuto venefico, ne annulla gli effetti.
Una semplice foglia d'erba può, in una situazione di emergenza, placare un gonfiore o i crampi di una colica, se applicata sulla parte dolente o se ingerita.
E per finire, lo stesso abbigliamento può assumere valore e funzione talismanici. E' diffuso il convincimento che l'indossare un capo di biancheria a rovescio preserva dal malocchio, o più in generale protegge dagli spiriti del male. Gli stessi effetti si ottengono facendo il segno della croce con la mano sinistra o sputando per terra.


GLI OPERATORI DELLA MEDICINA POPOLARE

Is ominis de mexina, gli operatori della medicina, ancora presenti nei nostri villaggi, appartengono quasi sempre ai ceti contadini poveri e a quella età che si potrebbe definire del pensionato - con le debite eccezioni, soprattutto per coloro che appartengono al sesso femminile, dove si riscontrano soggetti più giovani.
In rapporto allo stato civile, nei maschi prevalgono nettamente i celibi, che mostrano spiccate vocazioni sacerdotali con una visione mistica della realtà. Nelle femmine, nubili e coniugate si equivalgono numericamente, ma predominano le vedove. A seconda dello stato civile di appartenenza si rilevano differenze nei diversi settori di intervento.
In rapporto al sesso vi è una notevole prevalenza delle donne. Ciò credo sia dovuto anche al ruolo sociale che esse hanno nella comunità, di minore responsabilità nella produzione, e di conservatrici e diffonditrici dei valori tradizionali.
I guaritori e le guaritrici non vengono mai nominati dalla loro gente con gli epiteti che abbondano nel linguaggio popolare, quali bruxu, stria per strega, mazina, spiridada, oghiadori, e altri; ma vengono chiamati con il loro nome e cognome, cui sempre si premette "ziu" o "zia" con significato di rispetto; talvolta anche viene usato l'appellativo di "omini santu" o "femina santa".
Pur essendo tutti, ciascuno nel proprio settore, considerati guaritori (secondo il principio che le malattie sono originate da spiriti cattivi), colui o colei che ha la capacità (o come si dice qui sa forza) di guarire comandando agli spiriti demoniaci, così pure essi possono ammalare, comandando agli stessi spiriti di intervenire. In poche parole: chi ha il potere di sciogliere ha anche quello di legare; pertanto chi pratica la magia bianca può anche usare la magia nera.
Tali operatori, secondo la credenza popolare, sono dotati di poteri sovrannaturali, per concessione di Dio o del Diavolo, su intercessione di santi o di diavoli minori, pur essendo all'apparenza persone comuni. Una delle caratteristiche che viene loro attribuita è quella di possedere una particolare energia fluidica, positiva o negativa, che essi possono comunicare anche a distanza, ma che da essi si sprigiona con maggior efficacia attraverso i sensi della vista e del tatto. Da qui l'usanza di far toccare da chi ha fama di essere oghiadori la persona o l'animale che siano stati involontariamente guardati o ammaliati. Da qui anche deriva la tecnica terapeutica della imposizione delle mani, che è pratica assai diffusa riservata specialmente ai guaritori che possiedono un particolare fascino magnetico, chiamato umbra de caoru, che si potrebbe tradurre con "fascino di serpente".
E' propria del sacerdote l'imposizione della mano in segno di benedire, conferire un crisma, liberare o preservare dal male: un gesto rituale comune tra i "potenti".


CAPITOLO SECONDO

IS OMINIS DE MEXINA - I GUARITORI


RITI TERAPEUTICI

In tutti gli strati sociali sono diffusi, a diverso livello, antichissimi riti terapeutici, cui si innestano elementi formali della tradizione cattolica. In particolare tra i contadini sono numerosi guaritrici e guaritori, feminas e ominis de mexina, i quali officiano i loro riti liberatori apertamente e discorrono volentieri della loro arte. Sono però tutti estremamente gelosi delle formule rituali e dei brebus, parole magiche, sacre. Qualcuno si limita a dire di aver appreso l'arte da un genitore o da altri cui erano legati da vincoli di amicizia, in punto di morte. Il numero delle guaritrici è preponderante su quello dei guaritori - ciò farebbe supporre che in tempi antichi l'arte della medicina fosse esercitata dalle sole femmine.


SU CONTRAVELENU

Il contadino M. possiede alcuni ettari di terra da grano, cavallo e carretta. Abita una casupola di mattoni crudi in una stradetta buia e fangosa di periferia - appena prima di uno dei tanti letamai pubblici che circondano l'abitato di questo paese dell'Oristanese. L'uomo è piccolo mingherlino, con occhi grigi a spillo in un viso furbo. Siede davanti al camino acceso, in compagnia delle sue due figliole, approssimativamente sedici e vent'anni. E' vedovo da alcuni anni e, avendo due figlie femmine che badano alla casa e a lui nel lavoro, non si è risposato.
M. cura con su contravelenu, l'antidoto, le punture o i morsi di animali velenosi o ritenuti tali nella credenza popolare. Su contravelenu consiste in un sacchetto di pelle, simile a certi scapolari che contengono reliquie di santi o scritti magici di antico uso per preservare dai malanni e dalle palle dei carabinieri. Nel caso di su contravelenu, il sacchetto contiene resti di insetti e di rettili mummificati. Il guaritore lo tiene appeso al collo e non lo lascia mai: specialmente in campagna qualcuno può averne urgente bisogno.
Dice: "Io l'ho conosciuto da mio padre. Da quando lui è morto vengono da me a cercarlo. Chiunque può farlo e può usarlo, purché ne abbia sa voluntadi, la volontà. Si deve preparare in tempo di luna giusta, quando sta per finire. Si va in campagna e si cerca e si prende una testa di vipera, de rana pabeddosa, di rospo, una testa de pistilloni, di geco, e una pettapudiga, una blatta… unu de cussus zerpius nieddus chi tenint fragu malu, uno di quegli animaletti neri che hanno brutto odore. Poi si lasciano seccare queste teste con la lingua fuori e si chiudono nel sacchetto. Qualunque animale velenoso che faccia male ad anima bia (anima viva, nel linguaggio comune significa persona vivente e si contrappone ad anima morta, l'anima del defunto - per lo più dannato - che vaga sulla terra), questa viene guarita mediante su contravelenu. Si impone strofinandolo per tre volte in segno di croce, prima sulla terra e poi nella mano o nella faccia o in qualunque altra parte del corpo dove abbia morso l'animale velenoso. Se ci viene molta gente? Altro che, se ne vengono! Io non lo nego a nessuno…"


SU PINNADEDDU

N. un artigiano di Riola dichiara di essere un libero pensatore, uno che non va mai in chiesa.
Dice: "In Dio già ci credo. Ci credo, eccome! e anche nei Santi credo… ma se il parroco aspetta di vedermi in chiesa bisogna che la barba gli diventi bianca."
Egli ha la botteguccia al centro del paese e si fa aiutare da uno dei suoi figli, che seguirà la professione paterna. Quando egli deve accudire ai lavori di campagna, il figlio lo sostituisce del tutto nella bottega.
N. è un uomo emarginato. L'isolamento cui lo ha condannato la comunità lo ha reso scontroso e polemico.
Dice: "L'avrà sentito dire in giro che ho ucciso un uomo. Ma se un uomo le entrasse in casa di notte, lei cosa farebbe? Io non sapevo che intenzioni avesse, e ho sparato…"
E' stato in prigione per alcuni anni, convinto di avere subìto una ingiustizia. Ha il dente avvelenato con quelli del suo paese, che non gli hanno perdonato di avere ucciso un ladro. In effetti ha infranto la legge comunitaria, per la quale rubare può essere una necessità e un ladro può essere bastonato ma non ucciso.
Dice: "Io sono scettico su molte cose, però a s'oghiadura ci credo. E' un fluido che certi possiedono. Io possiedo molto fluido nelle mani e negli occhi. Molta gente l'ho guarita col solo tocco della mano. Da giovane leggevo molti libri, di quelli che parlano di spiritismo, e ho imparato molte cose, come si fanno le magie. So come si guarisce una persona che ha avuto s'oghiadura, il malocchio, come si prepara su pinnadeddu, l'amuletto che preserva dal malocchio."
Spiega: "Su pinnadeddu serve contro il malocchio. Per esempio, una mamma ha un bambino e teme per s'oghiadura, per il malocchio. Ce ne sono tanti che danno il malocchio. Allora questa mamma va da uno che lo sa guarire. Dice is brebus, parole segrete, e influenza un pezzo di corno di cervo. Questo pezzo di corno di cervo, come una rotellina, viene legata al collo del bambino, e il malocchio si scarica lì. Se però su pinnadeddu, l'amuleto, non è fatto nel giusto tempo di luna, quando sta calando, alla fine, perde tutta la sua forza."
Il figlio sui vent'anni, ascolta attentamente il discorso del padre. Una sola volta interviene per tradurre in italiano, ma viene vivacemente redarguito: "Zitto tu, voi giovani non sapete nulla e vi volete sempre mettere in mezzo. Tuo padre sa le cose che dice e in sa bia aundi seu passau deu, tui ddu depis ancora passai, e nella via dov'io sono già passato tu devi ancora passarci."
Su pinnadeddu è una efficace protezione nei confronti de s'oghiadori, dello jettatore, di colui che dà il malocchio?
Risponde: "Certamente. Oggi la gente lo usa di meno perché is oghiadoris, coloro che danno il malocchio, non sono più tanti come prima. Un tempo c'erano molte famiglie, famose e temute; e quando passava una di loro bisognava stare attenti ai bambini, alle ragazze, al bestiame e alle cose di valore. I più forti erano i P. gli M. e gli O. che si tramandavano il fluido di padre in figlio. Questo fluido negativo si dice umbra de caoru, ombra di serpente.
Interviene il figlio: "E' proprio vero. Quando ero bambino, nonna mi aveva messo su pinnadeddu al collo. Un giorno, mentre giocavo sull'uscio di casa era passata una donna di una di queste famiglie nominadas po oghiadura, di famosi datori di malocchio. Come è passata si è sentito un crac…
Mia nonna, che era vicina e aveva sentito il crac, era corsa subito a guardare il mio pinnadeddu. Si era spaccato in due pezzi: il fluido malefico si era scaricato lì e mi aveva salvato."


S'OGHIADORI

Sr. ha nomea di oghiadori, di jettatore. Cosa ne pensa delle qualità che il paese gli attribuisce? Come reagisce?
Dice: "Io…mi ci diverto. E che altro posso fare, se no? Certo che me ne capitano di belle, ogni santo giorno. E non soltanto con persone ignoranti. Come quella volta che R. il muratore insieme a suo cognato mi avevano chiamato d'urgenza perché avevano il bambino con la febbre alta, e pensavano che io gli avessi liau ogu, dato il malocchio. Io ci sono andato per accontentarli e sempre per accontentarli ho anche toccato un paio di volte il bambino. Neanche a farlo apposta, sarà stata una combinazione, subito dopo è sfebbrato. E la mamma del bambino ne ha sparso la voce… Altre volte me ne succedono con gente istruita. Ricordo un giorno che avevo un malato in casa. Vado dal dottor M., quello che chiamano Pillonedda di soprannome. Gli dico se per favore può venire subito. Lui stava salendo in macchina e dice: "Proprio adesso vieni? o non lo vedi che sto andando a Oristano con le figliole. Quando ritorno ci passo." Io me ne sono tornato a casa. Ed ecco, neanche cinque minuti dopo me lo vedo arrivare a piedi, nero come la pece. Senza neppure guardarmi in faccia, dice: "Questo a me, Sr., non me lo dovevi fare!" A queste parole io sono rimasto a bocca aperta. Dico: "E ita, su dottori? E che cosa, dottore?" E lui: "Già lo sai bene, lo sai: non avermi lasciato partire la macchina! Questo a me proprio non me lo dovevi fare!"


IL GUARITORE

Ziu Chiccheddu, detto s'omini santu, l'uomo santo, ha 73 anni, è analfabeta, sposato senza figli, celeberrimo e stimatissimo fattucchiere guaritore a livello di provincia.
Z., il fotografo del paese, deve recarsi da s'omini santu per consultarlo su una certa malattia di cui soffre un suo bambino. Ha fissato un appuntamento per il tardo pomeriggio.
Il vecchio guaritore attende sull'uscio di casa. Dice: "Buongiorno, entrate, entrate."
Nell'ingresso, di faccia al visitatore, appare un altarino sopra un tavolo ricoperto di pizzo, con una Madonna dentro una teca di vetro a portelli, con la coroncina a sette luci simboleggianti i sette dolori, e vasi a stelo lungo con garofani bianchi. I muri di lato sono tappezzati con immagini di Santi.
Ci fa entrare in un secondo locale, reso più angusto da una scala di cemento grezzo incastrata nella parete. Il vecchio si siede sopra un gradino della scala e a noi clienti riserva due vecchi scanni.
"Per chi è?" domanda.
"E' per un bambino di dodici anni", risponde Z.
"E che cosa patisce?" continua a informarsi il guaritore.
"Ha il mal di testa e debolezza, da qualche mese."
"A letto è?"
"No, a letto non è. Però forze non ne ha."
"E il dottore, fatto cosa gli ha?"
"Sì, il dottore lo ha visto e gli ha dato delle pastiglie."
"E profitto gli hanno fatto?"
"Niente, gli hanno fatto."
Ziu Chiccheddu, s'omini santu, non chiede altro. Ora, con la collaborazione della moglie - una vecchietta minuta che funge da sacrista - prepara gli oggetti e la materia per compiere il rito detto de s'aqua licornia, acqua taumaturgica; un rito che nella prima fase è diagnostico e dopo is brebus, le parole sacre, è terapeutico - risolutore di traumi psichici, malocchio e altri oscuri mali.
Si fa portare dalla moglie un panchetto e se lo mette davanti tra le gambe. Sopra il panchetto arriva un grosso bicchiere colmo d'acqua, quindi una ciottola con del grano. Il vecchio si concentra, immobile, a occhi chiusi, per qualche minuto. Il rito de s'aqua licornia ha inizio.
Il guaritore sceglie nove chicchi di grano ben secchi e maturi, del tipo che non galleggiano. Li sceglie con estrema attenzione, palpandoli lentamente uno a uno con i polpastrelli della mano destra e li depone ordinati su tre file sopra il panchetto. Ne risulta un quadrato con tre chicchi per lato e per diagonale. Quindi, ieratico e solenne, si fa il segno della croce e prende tra il pollice e l'indice il primo dei nove chicchi di grano, lo tiene sospeso a mezz' aria come fa il prete con l'ostia al momento dell'elevazione, bisbigliando incomprensibili brebus. Senza interrompere il concitato sommesso bisbiglio, traccia con le due dita che tengono il chicco dei veloci segni di croce sull'orlo del bicchiere. S'interrompe ora per portarsi alle labbra il seme che tiene ancora tra le dita: lo tiene così, immobile, a contatto delle labbra, per un poco; quindi riprende a bisbigliare is brebus e a tracciare sempre più rapidamente i segni di croce sull'orlo del bicchiere. Infine, immerge il chicco nell'acqua, ponendolo al centro della circonferenza. Il chicco va a posarsi lentamente sul fondo del bicchiere.
Per nove volte quanti sono i chicchi, ziu Chiccheddu, s'omini santu, ripete l'operazione.
E' giunto il momento diagnostico. Egli osserva scrupolosamente la posizione del grano sul fondo del bicchiere. Si nota che un seme ha una bollicina d'aria in punta che lo tiene ritto. Tutti gli altri sono adagiati in senso orizzontale. Dopo qualche minuto arriva il responso.
Il guaritore solleva lo sguardo e rivolto a Z. dice: "Sunt dus azzicchidus, sono due spaventi. Il primo è una fuga lunga, si vede bene, fatta per strada, a causa di persona o di animale. Il secondo è spavento preso in luogo chiuso, in cucina o nell'andito… può essere anche in campagna, ma sempre in luogo chiuso. Poi c'è s'ogu fissu, malocchio. Vede questo grano che sta sulla punta? Vuol dire che qualcuno che ha la forza, la capacità malefica, ha dato malocchio al bambino."
Z. ascolta il responso del guaritore con attenzione reverenziale, annuendo con la testa.
S'omini santu prescrive la cura: "Prenda quest'aqua licornia, terapeutica, e la metta in una bottiglia…"
Evidentemente il recipiente è a carico del paziente, perché vedo Z. estrarre una fiaschetta dalla tasca interna della giacca. La moglie del guaritore - che in tutto questo tempo se ne era rimasta in piedi a guardare - si affretta a fornire un imbuto.
"A questa acqua", spiega il vecchio, "ne può aggiungere altra, quanta ne occorre per tre giorni, ché non perde l'effetto. E' come l'acqua benedetta."
La vecchia travasa il contenuto del bicchiere nella fiaschetta.
"L'acqua la divide in due parti. Metà per i lavaggi, da fare sempre contropelo, sulle guancie fino alle tempie…" Così dicendo indica le parti che vanno frizionate. "Questo bisogna farlo una volta stasera, poi domani mattina e dopodomani di notte, per tre giorni a ore diverse. L'altra metà è da bere. Il bambino può berne quando ha sete. Ma non basta. Siccome oltre il malocchio il bambino ha preso azzicchidu, spavento, gli consiglio di farsi affumentai, suffumigare."
Z. domanda se per s'affumentu, il suffumigio terapeutico, può andare da zia Crabudda.
A quel nome s'omini santu scatta come morso dalla tarantola. "No!" esclama "Da zia Crabudda no! Non è capace, quella. Vada da zia Giuannica, che lo sa fare. Ci va anche mia moglie, quando ne ha bisogno."
Ci alziamo per andarcene. Z. chiede quanto deve dare per il disturbo. L'uomo santo dice che non fa nulla, che lascia sempre fare al buon cuore del cliente.
Il "buon cuore" di Z. sborsa trecento lire - circa un quinto di una visita medica in ambulatorio. La moglie del guaritore si affretta ad allungare la mano e a far sparire le tre monete nella tasca della gonna.
Mentre ci avviamo verso l'uscita, chiedo se ha appreso da molto tempo l'arte di preparare s'aqua licornia.
"Eh, sì," dice, "l'ho imparato da mio padre, quando ero giovane. Ci ho messo diciotto anni, per imparare. Non per le parole, che le ho imparate in pochi giorni, ma per l'altro…"
Non vuole spiegarmi in che cosa consista l'altro.
Nell'ingresso dove sta l'altarino, apre le due ante a vetri della teca e accende le luci. La Madonna di gesso vivacemente colorata, ornata di fiocchetti e ammennicoli per grazie ricevute, si illumina a giorno. Egli, con le mani giunte, in posa sacerdotale, si mette a un lato: desidera una foto ricordo, vista la macchina che ho a tracolla.
Sull'uscio trattiene ancora Z. per le ultime raccomandazioni: "Vada anche da un prete, è meglio, con il bambino, per fargli leggere is vangeus, i vangeli. Vada dal vice parroco, non cerchi altri."


ABUSIVI DEL MESE MARIANO

Ziu Chiccheddu s'omini santu ha fatto parlare di sé anche sulla stampa.

"Un vecchio analfabeta di Cabras, in provincia di Cagliari, noto come s'omini santu, ha officiato per lungo tempo le funzioni serali del mese mariano. Riscuoteva maggior credito del sacerdote ufficiale, e fu diffidato dal continuare a far funzioni in concorrenza con la chiesa cattolica. Trattandosi di un abusivo, dovette piegare il capo e accontentarsi di operare nella sfera dei riti terapeutici popolari. "
(Da Sassari Sera n.13 - 1/15 settembre 1968)

E' anche celebrato come uno dei protagonisti del tumulto popolare anticlericale di Cabras del 1944, cui si riferisce il racconto che segue.


IL TUMULTO

Alle dieci del mattino, la Confraternita dello Spirito Santo e il suonatore di piffero e tamburello attendevano da più di mezz'ora l'uscita del santo.
Antioco il maniscalco, che reggeva il Cristo nero con una bretella di cuoio, s'asciugò il sudore sulla manica della tonaca ornata di pizzo rosso.
"E cosa aspettano a tirarlo fuori? Aiutatemi a scaricarmi da questo Cristo!", disse rivolto ai compagni.
Due lo aiutarono a sfilare la pesante croce dalla guaina e insieme lo poggiarono al muro.
Anche i fedeli, in chiesa, attendevano l'uscita del santo, del parroco e del Comitato dalla sacrestia, per formare la processione.
Le donne si erano sedute sul pavimento, sgranando Gloria Patri per ingannare l'attesa.
Gli uomini, stanchi di guardare i soffitti e le volte decorati, s'erano messi a chiacchierare del più e del meno, della campagna, della troppa acqua piovuta, dei fitti, della moria del bestiame, e il loro brusio iniziale si andava facendo frastuono.
Soltanto i più vicini alla sacrestia tacevano, con le orecchie tese per afferrare qualche parola che spiegasse i motivi di tanto ritardo.
In sacrestia, don Gesuino, il parroco, e Nicodemo, il presidente del comitato di Sant'Antonio, si fronteggiavano, spalleggiati rispettivamente dalle Dame di carità e dai dieci membri del Comitato.
"Ho detto di no, e resta no!" sbraitava don Gesuino; e per dare più forza alle parole batté un pugno sul piano dell'armadio rovesciando un'ampolla e un ostensorio.
"Ma con il vecchio parroco era sempre andata così!" si lamentava Nicodemo. E aggiunse: "Così vuole la tradizione del paese ..."
"Va bene la tradizione", interloquì donna Mariangela, la presidentessa delle Dame, "ma in fondo ciò che don Gesuino vi chiede è giusto: due terzi alla chiesa e un terzo al santo."
"Il santo ha diritto alla metà e la metà ci teniamo. Ecco qui: sono ottantamila... e queste sono quarantamila. Prendere o lasciare! La tradizione va rispettata!" finì urlando Alceo, il vice presidente.
"La tradizione, vero? La prendete su questo tono, vero? E allora, sapete che vi dico? Fatevela voi, la processione! Ma senza di me e senza santo. Io da qui non mi muovo!"
Don Gesuino e Nicodemo si erano guardati fisso negli occhi in atto di sfida, poi si erano voltati repentinamente le spalle.
"Bisogna prendere una decisione..." intervenne uno del Comitato, "La gente è stanca di aspettare..."
"Che se ne torni a casa la gente!" borbottò stizzito il parroco. "La messa è finita!"
Qualcuno di fuori cominciò a bussare alla porta.
"Don Gesuino, glielo dico per il bene di tutti e per l'ultima volta: si vesta e ci lasci prendere il nostro santo... oppure..." disse Nicodemo a denti stretti.
"Oppure che cosa?" gli andò addosso il prete. "Si, certo, da voi, beduini eretici, ci si può aspettare di tutto... Avete perso la misura, avete! Ma, badate bene, io, sotto la tonaca, ci ho calzoni. Capito?"
"Ah, sì?" replicò Nicodemo, "gli eretici siamo noi, vero? Avete sentito? Siamo eretici, noi!... L'eretico è lei che non porta rispetto alle tradizioni e neppure a sant'Antonio... Ma stia attento! Sant'Antonio ne ha già messa a posto parecchia di gente con il collo rigido!"
"Andate, andate..." disse don Gesuino assumendo atteggiamento e tono da martire, con gli occhi rivolti al soffitto, "perdòno loro perché non sanno quello che fanno!"
"Don Gesuino, badi.."
"Andate, zoticoni, andate... Gente che porta in giro i santi per le strade come...!"
Alle parole blasfeme, quelli del Comitato si segnarono. "Costui è veramente un prete eretico." Pensarono tutti, e tutti insieme spalancarono le porte della sacrestia, infilandosi a furia di spallate nella folla.
Quando la gente vide il presidente del Comitato, seguito dai suoi, salire i gradini dell'altare maggiore, capì che succedeva qualcosa di molto grave e fece immediatamente silenzio.
Tutti gli sguardi si appuntarono sulla faccia pallida e irata di Nicodemo che aveva aperto le braccia in un largo gesto: "La festa non si fa più. Il comitato si scioglie." Annunciò.
Dopo il primo momento di silenzioso stupore, qualcuno dalle prime file domandò:
"E perché mai?"
"Che cosa è accaduto?"
"Il parroco si è sentito male?"
"Sant'Antonio non vuole uscire dalla nicchia?"
"C'è che il parroco non vuole rispettare la tradizione del paese. Perciò io e gli altri del Comitato ci ritiriamo." Fu la risposta.
Gli ultimi, che non avevano sentito, si informarono dai primi:
"Ma che diavolo mai sta succedendo, oggi?"
"Il prete non vuole che i cavalli seguano il santo!" si rispondeva.
"Ma che razza di prete ci ha mandato Monsignore, se non conosce le costumanze?"
"Dice che la Confraternita deve stare di dietro e non davanti!"
"Matto è? ma quando mai?!…"
I commenti si diffondevano e si moltiplicavano; col chiasso aumentava la confusione.
Ad un tratto si udì una voce forte sovrastare tutte le altre: "Cacciamolo via!"
In un baleno il grido riecheggiò da ogni parte: "Cacciamolo via!"
La marea umana ondeggiò indecisa, poi si scatenò contro la sacrestia.
Fra i primi c'erano Peppe e Anselmo che iniziarono a dare spallate contro la porta che il parroco aveva sprangato.
Quando la serratura cedette, si trovarono faccia a faccia con donna Mariangela e le altre Dame, che brandivano minacciose vecchi crocefissi e candelabri di alpacca. Qualcuna si era armata di lamette da barba, trovate chissà dove - come si capì dopo dagli abiti trinciati.
"Pazzi siete? Mai pace né in terra né in cielo avrete, se oserete mettere le mani sopra un ministro di Dio!"
"Levatevi di mezzo, bigotte!"
"Eretici! Ecco che cosa siete, eretici! Eretici e scostumati!" si difendevano le Dame.
"Eretico è lui, con il diavolo che ci ha in corpo!"
"Preti come quello vanno impiccati!" replicavano dalla chiesa. Ed uno, con malizioso riferimento a donna Mariangela, aggiunse: "E anche altro, vorrebbero…!"
La resistenza durò appena il tempo di scambiarsi tali improperi. Però, frantumato il baluardo opposto dalle Dame, la gente riversatasi in sacrestia si avvide che il parroco era sparito. Inutilmente lo cercarono dentro gli armadi e nei mucchi dei santi smessi. Don Gesuino, vista la mala parata, scavalcata la finestra, era corso a barricarsi in casa sua.
Al prete non ci pensarono più:
"Che vada in malora! La processione la faremo lo stesso…"
Ma gli anziani obiettarono:
"Una processione senza prete è come senza santo."
Allora una donna lanciò l'idea, così, senza parere:
"E perché non ci mettiamo Chiccheddu? Sa leggere il Vangelo e sa guarire spaventi e malocchio meglio di un prete."
L'idea venne raccolta, brevemente discussa e accettata.
Nicodemo mandò la nipotina scema a cercarlo: doveva essere lì attorno.
Trovatolo, lo trascinarono in sacrestia dove lo misero al corrente della questione, intanto gli mettevano addosso i paramenti sacri.
"Ma io… io non sono degno… ecco… " si schermiva Chiccheddu. "E la Giustizia, poi?… " borbottava preoccupato.
Non aveva resistito a lungo. Infine, convinto e compiaciuto, si era inginocchiato segnandosi con un ampio lento gesto, chinandosi fino a baciare le tavole del pavimento, come aveva visto fare ai preti sull'altare.
"Sia fatta la volontà di Dio!" mormorò.
"Ora devi prendere sant'Antonio dalla nicchia e devi metterlo sulla portantina… " gli suggerirono Nicodemo e gli altri del Comitato.
"So io quello che si deve fare!" rispose secco Chiccheddu e avanzò lento e ieratico fino alla nicchia, aprì con compunzione rituale la teca a vetri dopo essersi segnato tre volte, si inginocchiò a recitare tre Pater, tre Ave e tre Gloria prima di toccare sant'Antonio che dall'alto gli sorrideva con gli occhi azzurri e gesto benedicente.
La gente si accalcava attorno, muta e riverente, osservando in ogni particolare il compiersi del rito. E quando il santo, se pure con una certa fatica, fu incastrato nella sua sede sulla portantina, i clamori di gaudio furono immensi.
"Soltanto un prete o un'anima benedetta da Dio può toccare sant'Antonio senza cadere fulminato… " spiegava ai giovani un vecchio barbuto.
Le donne piangevano di commozione.
La processione si compose nel piazzale di chiesa secondo la tradizione: la Confraternita davanti con il Crocefisso nero; i cavalli bardati a festa e il santo portato a spalla da quelli del Comitato; Chiccheddu coi paramenti sacri sotto il baldacchino di seta gialla frangiato d'argento; infine tutto il popolo, prima gli uomini, a capo scoperto, dopo le donne e i bambini.
"Meglio di un prete è!" commentavano, ammirando Chiccheddu nell'incedere lento e solenne, nell'intonare le preghiere con voce profonda di basso.
E per dispetto, la processione passò due volte nella strada di don Gesuino, il quale spiava dietro la finestra del primo piano, rodendosi impotente dalla rabbia.


S'AFFUMENTU

Il caso vuole che invece di andare da zia Giuannica, la raccomandata del guaritore, finisca in casa di zia Maddalena - una delle tante che praticano la magia de s'affumentu, del suffumigio.
Arrivo in tempo per assistere a un suffumigio rituale che verrà operato su una bambina di una decina di anni. S'affummentu, il suffumigio terapeutico è diffusissimo per risolvere is azzicchidus, gli spaventi, ma viene usato anche contro il malocchio e le fatture.
Zia Maddalena, vecchia incartapecorita, è ancora sana e vispa. Le attribuiscono una ottantina d'anni. Mi riceve cordialmente, facendomi accomodare nello scanno migliore. La cucina è pulita; il tetto di canne è appena brunito dal fumo che sfugge al camino - dove ora brucia un mucchio di frasche.
S'affumentadora, la terapeuta suffumigatrice siede su uno scanno molto basso, e la bambina su uno più alto di fronte a lei. S'affumentu non può aver luogo - non avrebbe valore il farlo - se non in un locale con due porte. Ciò perché l'ammalato "non esca da dove è entrato", perché uscendo dalla stessa parte da cui è venuto si riprenderebbe il male che aveva.
La vecchia prepara il materiale occorrente: una comune tegola di terra cotta, un mucchietto di brace viva a portata di paletta nel camino, un involto contenente palma consacrata la Domenica delle Palme, incenso, pezzetti di cera e fiori presi dall'altare maggiore dopo una funzione religiosa che li abbia benedetti. Infine, una bottiglietta contenente acqua santa.
Dopo avere spruzzato un po' d'acqua santa sul viso della bambina, s'affumentadora raccoglie le braci e le mette sulla parte concava della tegola. Quindi prende un pizzico della mistura benedetta, tenendolo tra le dita sospeso sulle braci mentre recita sommessa is brebus, le parole rituali. Traccia quindi tre segni di croce sulle braci lasciandovi cadere alla fine la mistura che tiene fra le dita.
Un fumo denso aromatico si sprigiona dalla tegola, che la guaritrice solleva verso il viso della paziente; e questa, immobile e come affascinata, ne viene avvolta. Intanto s'affumentadora recita altri incomprensibili brebus; infine versa dalla bottiglietta acqua santa sulle braci, che si spengono fumigando. Il vapore viene ugualmente insufflato dalla vecchia sul viso della azzicada, della piccola che ha preso uno spavento.
Si rimettono nuove braci sulla tegola e si ripete la stessa operazione per tre volte.
A conclusione, zia Maddalena spruzza ancora acqua santa sul viso e sui capelli della piccola paziente, raccomandandole, mentre se ne va, di uscire dalla porticina che dà sul cortile - dato che è entrata dall'ingresso principale.
Per le sue prestazioni non chiede denaro. Accetta offerte in olio, grano, formaggio.
E' possibile conoscere is brebus rituali?
Il solo chiederli è una sconvenienza. Ma zia Maddalena è tollerante. Sorride - non si capisce bene se per compatimento o lusingata dalla altrui curiosità. Dice: "Lei è istruito e io sono una donna ignorante. Ma lei, anche se studia tutta la vita, queste parole non potrà leggerle in nessun libro."


S'AFFUMENTU
Variante

M.A. una giovane donna madre di tre marmocchi mi accompagna da zia Gina e da zia Efisia che officiano una s'affumentu e l'altra s'aqua abrebada, secondo il rituale maurreddinu, della regione iglesiente. La mia accompagnatrice ha il più piccolo con sintomi di unu azzicchidu, di uno spavento abbastanza gravi: febbre, eruzioni cutanee, specialmente in testa, e sonno agitato.
Entriamo in una casetta rifatta a nuovo, linda e ornata di fiori come è difficile trovarne in questa zona del Campidano di Arborea. Zia Gina - come zia Efisia - è di origine iglesiente, figlia di un vecchio contadino-minatore in pensione.
Zia Gina è vedova, sui cinquant'anni. E' molto aperta al dialogo, quasi espansiva. Racconta dei suoi nove figli, tutti laboriosi e onesti. Il primo - dice con orgoglio - ha cavallo e carretta.
Sa quale uso intendo fare di ciò che vedrò. Affinché possa seguire meglio i particolari della cerimonia mi fa sedere a qualche passo da lei. Praticherà s'affumentu sul marmocchio di tre anni azziccau, che ha preso spavento.
Secondo la guaritrice - che ha osservato attentamente il piccolo, rilevando is pibisias in conca, le pustoline in testa - si tratterebbe di umbra. Umbra, spiega, è uno spavento ricevuto dall'anima di un defunto, anima morta, ed è differente da s'azzicchidu, dallo spavento causato da persone o animali, animas bias, anime vive.
S'affumentu di zia Gina, dell'Iglesiente, è una variante più semplice di quello precedente eseguito da zia Maddalena. Il malato-azzicau viene seduto su una seggiola e ricoperto dalla testa con uno scialle nero. Ai piedi del piccolo, sul pavimento, viene posata la tegola con le braci. La donna officia il rito in piedi. Per tre volte si fa il segno della croce, quindi recita i seguenti brebus:
"Aundi ses ti biu - ovunque sei ti vedo
ca t'happu affumentau, - che ti ho esorcizzato,
non timas, fillu miu, - non temere figlio mio,
a timongia e a lau - con incenso e alloro
a timongia e a cera. - con incenso e cera.
Sa santa Gruxi vera - La santa Croce vera
sa vera santa Gruxi: - la vera santa Croce:
Deus ti dongad luxi - Dio ti doni luce
luxi ti dongad Deus, - luce ti doni Dio,
santu Giuanni, Luca e Matteu. - san Giovanni, Luca e Matteo."
Recita tre volte i versetti mentre lascia cadere sulle braci le erbe aromatiche benedette - quelle che vengono sparse lungo il percorso della processione del Corpus Domini - incenso e cera. Quindi impone le palme delle mani sul capo del piccolo malato, esercitando continue e forti pressioni. Si china allora fino a sfiorare il capo del bimbo con le sue labbra e sullo stesso capo traccia con le labbra tre segni di croce. A conclusione - liberatolo dallo scialle che lo ricopriva - la guaritrice sputa tre volte sui capelli del pupo.
Zia Gina è la prima, e l'ultima, delle tante guaritrici visitate che ha svelato alcuni dei brebus magici.
Quale è il significato, e il potere, di questi magici versetti?
Dice: "Queste sono le parole che Nostra Signora aveva pronunciato quando il Bambino Gesù era scappato per andare nel Tempio, e Lei si era spaventata."


S'AQUA LICORNIA
Variante

Zia Efisia prepara s'aqua abrebada. Così viene chiamata l'acqua resa taumaturgica dai brebus, parole magiche rituali. Equivale a s'aqua licornia del rituale oristanese e a s'aqua medalla del rituale guspinese. Per s'aqua abrebada si usano tre chicchi di grano, anziché nove come nella variante oristanese, e inoltre tre grani di sale.
"No, non si possono svelare is brebus. Li ho appresi con un fiume in mezzo, io da una parte e chi me li ha insegnati dall'altra. L'acqua si è portata via le parole nel mare e nessuno le può conoscere. Non voglio male né a lei né a me: molte disgrazie sono successe per una vana curiosità."
Zia Efisia officia in piedi, col portamento del sacerdote davanti all'altare. E' nubile, sulla quarantina, molto devota. Vive - come si dice - inter domu e cresia, tra casa e chiesa.
Con le mani giunte, le braccia tese, leva alto davanti a sé il bicchiere d'acqua. Il suo gesto è lento misurato. Il suo volto è intenso assorto ieratico.
Sceglie con cura i tre chicchi di grano e traccia con ciascuno rapidi segni di croce prima di immergerli nell'acqua del bicchiere. Singolarmente, prende e tiene i chicchi di grano tra il pollice e l'anulare. Recita is brebus sottovoce, e il suo bisbigliare è intenso - mentre i suoi occhi si socchiudono e tra le ciglia balugina il bianco, e il suo volto appare teso come dolorante… Come con i chicchi di grano, ripete con i grani di sale.
Alla fine del rito, riprende la sua normale sorridente espressione. Fa uno strano effetto la sua voce dopo tanto intenso bisbiglio di brebus, intervallato da lunghe profonde silenziose gestuazioni. L'acqua del bicchiere è ora abrebada, resa taumaturgica. Usata nei dovuti modi guarirà malocchi o spaventi, oghiaduras o azzicchidus, o anche effetti di fatture non molto forti.
Nel caso descritto, un ogu liau, malocchio, che ha colpito una graziosa fanciulla sui sedici anni - forse toccata dal fluido malefico di qualche vecchio caprone jettatore che le provoca continui mal di testa e svenimenti.
Zia Efisia immerge il pollice e l'anulare nell'acqua del bicchiere e tenendoli sempre uniti e bagnati traccia con queste dita il segno di croce sulla fronte, sulla mano destra e sul piede sinistro della fanciulla. Quindi pesca i tre grani di sale, non del tutto sciolti, e glieli pone sulle spalle.
Congedando la fanciulla, le consegna metà dell'acqua affinché la beva; la rimanente la versa nel fuoco del camino. Spiega: "Va messa in luogo dove mai nessuno possa posare i piedi, per evitare che qualcun altro possa raccogliere il danno."


IS BREBEIS OGHIADAS

I pastori risultano particolarmente vulnerabili alle oscure trame di fattucchieri e oghiadoris, iettatori, senza scrupoli.
Il Sinis, la vasta penisola cui fanno capo le economie di base di alcuni paesi dell'Oristanese, fino ai tempi recentissimi, (1950), era utilizzato comunitariamente dai contadini e dai pastori. I quali, secondo una millenaria consuetudine, vi alternavano la coltura di cereali con il maggese per il pascolo. La sola comunità di Cabras (dall'antico toponimo Masoni de cabras, Ovile di capre), negli anni precedenti la seconda carneficina mondiale, contava un patrimonio ovino di circa 35.000 capi, ridotti (al 1950) a 7.000 - senza contare bovini ed equini, del tutto scomparsi. Il depauperamento - che continua verso l'estinzione - del patrimonio zootecnico tradizionale (ovini) è specialmente dovuto al dissennato processo di dissodamento delle terre incolte a mezzo trattori e ruspe, che negli anni tra il 1948-50 si proponeva di favorire i braccianti senza terra, e che invece, qui, ha finito per favorire e impinguare i già ricchi proprietari terrieri, ricacciando i pastori e le loro greggi su sempre più limitate e sterili superfici pascolative. La penisola del Sinis, ormai spoglia a mare della sua naturale vegetazione, è ancora qua e là punteggiata di masonis - termine che può tradursi con gregge ma che ha, qui, il significato più usuale di ovile, in questa zona, estremamente rudimentale: baracca o tettoia di frasche che riparano malamente dalle intemperie pecore e pastori, entro recinti di sterpi spinosi.
Non si può rientrare in paese ogni volta che si ammala una pecora. Le morie sono frequenti: le greggi vivono alla stato brado, soggette a tutte le intemperie, senza controllo sanitario. "L'avessero almeno i cristiani!" - commenta qualcuno. Così il pastore, da sempre, ha dovuto imparare a curare da sé le pecore.
Alcuni malanni che colpiscono le bestie vengono spesso attribuiti ai fattucchieri e a is oghiadoris, agli iettatori. I pastori proteggono il loro bestiame con su pinnadeddu, l'amuleto contro il malocchio, inserito nella correggia del sonaglio o appeso intorno al collo con una fettuccia verde (anche questo colore ha di per sé poteri esorcizzanti). In particolare vengono così protetti i capi selezionati, che si presume siano quelli maggiormente presi di mira da gente invidiosa o comunque malefica.
Indipendentemente da tale precauzione, quando una o più bestie si ammalano si manda di corsa un pastorello in paese. Non dal veterinario, che vive in città e non è facilmente reperibile, e che anche a trovarlo e a convincerlo a venire costerebbe più di quanto non valga la bestia malata; si va dal fattucchiere, che faccia d'urgenza s'aqua licornia. Il fattucchiere ha pertanto il vantaggio sul veterinario di poter curare a distanza e di costare poco o nulla.
L. M. A., pastore quarantenne di Nurachi testimonia:
"Certamente c'è qualcuno che fa quelle cose (oghiaduras e fatturas)… Quest'anno (1960) ho avuto dieci pecore sgravate prima del tempo, una dietro l'altra nello spazio di pochi giorni, e cinque altre mi sono morte in una notte. Certo è ogu, malocchio o fattura. Quando succede noi andiamo da quelli che sanno fare s'aqua licornia, l'acqua taumaturgica, e la spruzziamo addosso alle bestie o la mettiamo nell'abbeveratoio, e quasi sempre ci siamo trovati bene. Agli agnelli specialmente usiamo mettere su pinnadeddu, un pezzo di corno, anche di montone. Con quella roba sono più salvi…"


SA SPIRIDADA

Is ispiridadas, le spiritate, le invasate da spiriti, costituivano una categoria influente, dato anche il loro numero limitato, nella medicina popolare. In questo campo avevano la funzione di svelare le cause di mali oscuri, per lo più causati da fatture, mali che i comuni guaritori non erano riusciti a risolvere.
Ma assai più spesso le consultazioni a is ispiridadas, che possiamo definire di tipo oracolare, avevano lo scopo di conoscere trame esistenziali segrete (amori corrisposti o meno; nascite da tempo attese; esito di viaggi; investimenti patrimoniali) nonché notizie su preziosi persi o rubati o su persone care scomparse e predizioni sul futuro.
La funzione di is ispiridadas in quest'ultimo ruolo ricorda quello di alcune famose sacerdotesse del dio Apollo, quali la Pizia a Delfi e la Sibilla a Cuma.
Pur senza eguagliare la fama degli oracoli greci e romani dell'antichità, operava in tempi moderni, in Sardegna, sa spiridada de Masuddas, divinatrice di Masullas. Ancora qualche decennio fa, i supplici con i loro cestini colmi di ogni ben di dio facevano la fila per sentire l'oracolo. Come è noto, nell'antichità, un sistema di consultazione oracolare era quello della incubazione, consistente nella pratica di stendersi a dormire e attendere la risposta del dio mediante il sogno. Sa spiridada de Masuddas usava rispondere ai postulanti mettendosi a letto a dormire, e nel sonno parlavano per sua bocca gli spiriti che aveva in corpo. Sempre in tempi recenti era nota una spiridada anche nella città di Oristano. A questa fa riferimento la testimonianza che segue.
O. P., contadino, di trentacinque anni:
"Un fatto che mi è accaduto mi ha messo sulla strada di crederci. Mia moglie era malata. Era incinta di quattro mesi. La visita un dottore e non la riconosce. Neanche la levatrice la riconosce. Una vicina di casa, Maria S., un giorno mi aveva detto: "Vai a Oristano dove c'è una donna grassa che ti può aiutare." Io ci sono andato. Ho trovato il posto e mi ha fatto entrare. "Levati il berretto e fatti il segno della croce!" mi ha detto. Io le ho dato la fotografia di mia moglie, senza dirle però che era mia moglie. Lei l'ha presa in mano e ha cominciato a soffiare con la bocca e col naso, con gli occhi chiusi come se le fosse preso un attacco di epilessia. Ci aveva le vene del collo grosse come il pugno, ci aveva… Io mi ero tutto spaventato. Dopo mi ha detto: "Questa donna è malata da molto tempo e sta spendendo un mucchio di soldi inutilmente coi dottori, e nessuno la sa guarire…" Aveva indovinato tutto, aveva. Poi ha detto ancora: "La donna è incinta e farà un parto bellissimo, senza nessun disturbo…e questa è tua moglie." Ho avuto paura sul serio, quando le ho detto di no, che non era mia moglie, perché lei ha gridato forte: "Perché mi dici bugia? questa è tua moglie!…" Questa donna non è ni bruscia ni coga, né fattucchiera né strega, ma una spiridada che fa ancora su spensoriu de sant'Antoni (forse il pendolo di sant'Antonio, cui si ricorre per ritrovare oggetti smarriti - n.d.A.). Non so come fa, esce fuori di conoscenza, tutta bagnata di sudore, soffiando dal naso, e non bisogna parlare, solo se interroga lei. Hat a portai tiaulus in corpus! Porterà diavoli in corpo!"
Oristano, 1961


TESTIMONIANZA I

E. M. laureata, di Oristano.
"Quando sento parlare di fattucchiere, di stregoni mi viene da sorridere. Molte persone si scandalizzano di essere chiamate con tali appellativi, anche se nella loro semplicità compiono azioni che solo fattucchierie si possono chiamare. E poi che male fanno? Suggestionano il malato e questi è convinto che quell'erba o quell'acqua gli hanno fatto del bene. Un mal di capo, una svogliatezza possono non essere un vero e proprio disturbo fisico. E allora? Non c'è forse della poesia in questa primitività?
Di solito sono i bambini che vengono guariti. E chi non ama i bambini e cerca per loro tutti i rimedi?
"Io sono cresciuta in mezzo a questi riti; eccome, ci credevo! Quando la sera, bambina, stanca di giocare rientravo in casa, accanto al caminetto affumicato, nella semioscurità distinguevo il volto triste di mia madre e posandole la testa sul grembo, desiderosa di essere considerata, le dicevo: "Mamma, mi fa male la testa, mi faccia l'acqua bella." Ed ella, senza accarezzarmi, mi rispondeva: "Lascia, figlia mia, domani viene zia Grazia e te la fa lei l'acqua bella e tu guarirai." E io sollevavo la testa ed ero già guarita. Ma non lo dicevo. E il giorno dopo, quando veniva zia Grazia mi lamentavo subito, prima che mia madre se ne dimenticasse.
"Quasi un quarto d'ora durava la preparazione de s'aqua patena, dell'acqua medaglia. Dopo, lei stessa me la metteva sulla fronte, immergendo nel bicchiere l'indice e il pollice, segnandomi con esse delle piccole croci, e poi sul mento, sulle orecchie, sul collo, sulle mani… e mai nessuna carezza mi era parsa più dolce.
"Anche mia madre sapeva fare s'aqua patena, ma non aveva una patena, medaglia, così bella e grande come quella di zia Grazia, e poi le sue dita erano ruvide e mi davano fastidio… ma quella vecchia! oh, come la ricordo…"

Nota. La testimonianza di E. M. è illuminante nella funzione che alcuni riti terapeutici popolari hanno nella risoluzione di traumi e frustrazioni psichici infantili. E' abbastanza chiaro che nella piccola E. M. si è prodotta una depressione psichica dovuta a carenza affettiva da parte della madre e che la stessa piccola ritrova un equilibrio operando il transfert nella vecchia guaritrice.
Che non vi fosse un rapporto affettivo soddisfacente con la madre si rileva chiaramente. Quando la piccola cerca un contatto appoggiando la testa sul grembo della madre, attirando la sua attenzione col pretesto del mal di testa, si sente rifiutata perché non le viene fatta l'acqua bella, né riceve una carezza.
Viene a mente lo psicologo Spitz, il quale, nei suoi studi sull'età evolutiva, sostiene che spesso, quando vi è un rapporto affettivo carente, il bambino attira le attenzioni della madre, provocando certi fenomeni che intuisce o sa che muovono immediatamente la sua preoccupazione - nel nostro caso il mal di testa.
La presenza della guaritrice zia Grazia è risolutrice di depressioni anaclitiche, che a lungo potrebbero sfociare in nevrosi gravi, che vengono evitate col transfert - le dita della madre erano "ruvide e mi davano fastidio" mentre quelle della zia Grazia erano "una carezza come mai nessuna mi era parsa più dolce".


TESTIMONIANZA II

P. D'A., laureato, di Oristano.
"Io ci rido su. Ma ci sono dei fatti che fanno dubitare. A mio suocero, un po' agricoltore e un po' pastore, è accaduto di recente un fatto singolare. Possiede un bel montone, di quelli selezionati. Un giorno, il servo pastore viene ad avvertirlo che il montone si è ammalato. Non si regge in piedi, sembra stia per tirare le cuoia. Non è roba da chiamare dottori - dice il servo - deve essere malocchio, così bello com'è; e bisogna fargli subito s'aqua licornia. A mio suocero piangeva il cuore, per il suo montone. Lui, come me, non ci crede; però ha voluto tentare, dando retta al servo pastore. Bene: ha fatto fare s'aqua licornia, l'hanno spruzzata addosso al montone, che lì per lì si è alzato, guarito, sano più di prima… Come si fa, davanti a fatti come questi, a non dubitare?"


TESTIMONIANZA III

R. S., studentessa, di Santa Giusta.
"Ero stata a trovare una puerpera che si era alzata da poco dal letto. Nell'entrare vidi che le porte e le finestre erano spalancate, e mi affrettai a chiuderle perché la madre e il piccino non prendessero un malanno. Ma una vecchia autoritaria, che trafficava nella stanza, me ne distolse, imponendomi di sedere e di tacere. Ero arrivata mentre si celebrava un rito solenne: su affumentu po sa partoxa, il suffumigio per la puerpera.
La madre, con la piccola creatura in braccio, era in mezzo alla stanza. Per terra vi era una tegola con delle braci vive, su cui bruciavano erbe aromatiche, timo, rosmarino, menta e palma consacrata, miste a sale che scoppiettava e a zucchero. Dal tutto si sprigionava un fumo denso e aromatico, e su questo, per tre volte, la madre fece passare tenendolo fra le braccia il bambino, descrivendo una croce. Poi, per altrettante volte, ella stessa passò scavalcando la tegola fumigante, descrivendo ancora delle croci. Infine, sedette in un angolo, mentre le braci, vivificate dalla corrente d'aria che passava attraverso la porta e le finestre aperte, finivano di consumare le erbe. Non è l'unica volta che ho assistito a questo rito."

Nota. Il rito di s'affumentu, come si è visto, non ha mai valore diagnostico come l'aqua licornia, o abrebada, o patena, ma soltanto terapeutico, risolutore di disturbi non gravi della sfera emotiva (spaventi) o provocati da malocchio o fatture semplici. In questa testimonianza lo ritroviamo in una variante riservata alle puerpere. La tradizione popolare vuole che anche Maria Vergine si sia fatta affumentai, suffumigare, prima di riapparire in pubblico dopo la nascita di Gesù.


TESTIMONIANZA IV

Per fattucchiere si dovrebbe intendere, a rigore di termine, colui che fa le fatture; e per guaritore, colui che disfa le fatture, che ne guarisce gli effetti. La gente usa il termine fattucchiere (cogu, brusciu e anche fattucchieri) tanto per chi fa, quanto per chi disfa le fatture.
In altre parole, nella credenza popolare, colui che possiede il potere di guarire possiede anche quello di ammalare. E' il concetto elementare e profondo del perenne dualismo che è nell'uomo, mai totalmente buono o totalmente cattivo.
La fattura provoca danni più gravi e complessi del malocchio. Il malocchio viene dato da alcuni individui, quasi sempre maschi di una certa età, detti oghiadoris, iettatori. Costoro possiederebbero umbra de coloru, fascino di serpente. La loro azione malefica può esplicarsi anche involontariamente, e di norma, toccando l'oggetto o la persona caduti involontariamente sotto il loro influsso, evitano i possibili danni di s'ogu liau, della iettatura.
La fattura invece è sempre volontaria, e presuppone conoscenza delle arti magiche - oltre, logicamente, il possesso della cosiddetta forza o fluido, come spiegano alcuni.
La fattura può colpire chiunque o qualunque cosa. Si ritiene che i rimedi siano rari; la disgrazia è data quasi come irreparabile. C'è una sola e unica via di salvezza: trovare la fattura e farla sciogliere dalla forza o fluido di un fattucchiere, che nelle arti magiche abbia più conoscenza di chi l'ha fatta.
La fattura si fa con un pupazzetto che rappresenta il soggetto da ammaliare, da colpire per ferire o per uccidere. Con il progresso, il pupazzo viene anche sostituito con una fotografia. Per tale ragione - credo - si è molto gelosi della propria immagine stampata.
Nel maggior numero dei casi sono le donne a essere oggetto di fattura. In primo piano le giovani da marito; vengono poi le vedove e le donne in menopausa. Infine i bambini, anch'essi in larga misura.
Come materia per costruire il pupazzo, si usa su carrucciu de figu morisca, la pala del ficodindia, ritagliata configurando una sagoma umana stilizzata. Oppure, lana o cotone o lino non filati. Il pupazzo che se ne ottiene si trafigge con spini, spilli o chiodi. Nel cuore per ammalare d'amore, nel capo per produrre nevralgie o far uscire di senno, nelle articolazioni per provocare artriti o paralisi, e così via.
Non è facile penetrare nel mondo della fattura. Se i fattucchieri-guaritori sono noti e facilmente avvicinabili, i fattucchieri-ammalatori è assai arduo conoscerli - pur non essendo di numero inferiore ai primi, anzi potrebbero logicamente individuarsi gli uni negli altri. Ciò è ovvio: colui che fa o fa fare la fattura per danneggiare un nemico o per sedurre una fanciulla riottosa o accalappiare una vedova danarosa e sospettosa, non ha nessun interesse a raccontarlo in pubblico. Chi subisce la fattura può avere dei dubbi, ma non saprà mai con certezza per mano di chi è rimasto affatturato.
Oristano, 1962


TESTIMONIANZA V

La signora T., quarantenne, di Riòla, sposata a un agiato commerciante, costretto dal suo lavoro ad assentarsi di frequente, è spesso malata. Ella è convinta che il suo male - che i medici non riescono né a diagnosticare né ad alleviare - sia dovuto a una fattura.
Di recente si è recata nel Nuorese, dove esercitano alcune famose spiridadas, invasate da spiriti, capaci di sciogliere i malefici, oltre che divinare il passato e il futuro. L'esito è stato negativo. Ultimamente ha conosciuto un fattucchiere di Oristano, sul quale la donna ha riposto le sue ultime speranze.
Qualche tempo dopo, la donna, non si sa fino a che punto casualmente, ha trovato nel proprio cortile, malamente ricoperta di terriccio, una fattura: una rozza bambola, con spilli e chiodi conficcati nel capo. Immediatamente, senza toccare la fattura, viene chiamato il fattucchiere oristanese. Costui raccoglie la fattura, la esamina attentamente e a lungo, e dichiara infine che è stata fatta da una forza molto grande, e che per scioglierla sono necessari molto tempo e molti soldi. Egli promette che tenterà con tutta la sua arte. Così, in breve tempo, egli ha ricevuto per prestazioni professionali, oltre trecentomila lire.
Riòla, 1963


S'AFFUMENTAU
IL SUFFUMICATO

In fondo alla cucina, nel tratto tra l'angolo e il focolare, deposto sulla stuoia di falasco, ricoperto di orbace bianconero, Roberto, dodici anni, rabbrividisce di febbre.
Tre giorni fa è venuto il medico. Otto chilometri con il calesse. Piccoletto rubizzo, barbetta, occhiali, borsa e odore di tintura di iodio. Un batter di nocche sulle costole scarne, un pigia pigia nelle viscere, una guardata in fondo alla bocca spalancata. Borbottii e scuoter di capo: probabile tifo. Succo d'arancia e di limone con zucchero e una pastiglia gialla ogni quattro ore.
Zia Elvira, quando le faccende di casa glielo consentono, siede sul pavimento, a lato della stuoia. "Figlio mio, tu stai bruciando!" dice accorata, e allunga una mano al panchetto, prende la tazza dell'acqua zuccherata, solleva il capo del fanciullo. "Bevi, figlio mio. Bevi che ti passa la febbre."
Maria, quindici anni, la più grande della nidiata, seduta vicino alla porta che dà nel cortile, rattoppa calzoni gonne maglie. Ha una pertica accanto, che impugna e agita ogni tanto verso l'uscio per tenere lontano galline e conigli. E ai bambini dice: "Andate via, andate fuori a giocare voi. Andate via, che Roberto ha la bua grande e si attacca anche a voi."
E i fratellini ignari a correre rumorosi in frotta nel cortile assolato, a punzecchiare con una canna il tacchino che gurguglia dispettoso gonfiando la pappagorgia, riaffacciandosi ogni minuto sull'uscio della cucina: "Mamma, ho fame, dammi pane."
"Credete che si trovi a ogni angolo di strada, il pane; benedetti ragazzi! stomaco senza fondo avete. Tieni una fetta, tieni anche tu… Meglio spendere in pane che in medicina… Bevi, Roberto. Come ti senti? Neanche la forza di parlare hai. Bevi, Roberto. Come sei caldo, figlio mio bello!"
All'imbrunire, ziu Efisi rientra dalla campagna con il giogo dei buoi. Depone in silenzio la bisaccia sopra il tavolo. "Ave Maria", saluta, e siede ai piedi di Roberto - senza neppure un sculacciata affettuosa alla turba dei bambini che frugano la bisaccia, per i cardi e le lumache.
"Ci mancava anche questa, Sant' Iddio, ci mancava! con il cielo senza una nuvola e il grano giallo, fiorito prima del tempo."
"Come Dio comanda", dice comare Assunta in visita di dovere, seduta di fronte a zia Elvira, con le mani sul grembo. "E sa mexina 'e s'ogu, fatta fare gliel'avete?"
Ci aveva pensato ieri, zia Elvira. "Malocchio gli hanno fatto, al fiore della mia casa! Gente invidiosa del mio bene, dev'essere stata." E aveva mandato Maria di corsa da zia Cabriolu, la vecchia che possiede medaglie miracolose e conosce is brebus.
Tre chicchi di grano e tre chicchi di sale si immergono nell'acqua limpida del bicchiere. Novantanove segni veloci di croce tracciati con la medaglia di ottone lucente. Infine, is brebus misteriosi compiono il prodigio. Miracolosa è l'acqua conservata nella fiaschetta che Maria stringe al petto sotto lo scialle. "Che il bambino ne beva tre sorsi oggi e tre domani e tre posdomani. Con la restante che gli si segnino la fronte, le labbra, il cuore, e poi la palma delle mani e la pianta dei piedi. Ciò che dovesse avanzare di quest'acqua abrebada la si versi sul fuoco."
Ogni notte, zia Elvira stende un'altra stuoia accanto alla stuoia di Roberto. "No, non ti lascio solo, cuore mio, a bruciare di febbre. Ti tengo la fronte con le mie mani, per farti passare il male. Che passi a te che sei piccolino e venga a me, che ho l'ossa dure io…"
"Nelle mani di Dio siamo. Lui ci ha fatto e noi dobbiamo abbassare la testa sotto il Piede suo," dice comare Giuseppina, anche lei in visita di cortesia, accoccolata curva sotto lo scialle nero. "E sa mexina 'e s'azzicchidu, fatto fare gliel'avete?"
"Eh, sì, qualche foruncolo in testa già ce l'ha. E anche nel collo ne ha. L'ho guardato bene in tutto il corpo. Sì, durante la notte lo vedo scuotersi d'improvviso, spalancare gli occhi e le braccia e anche gridare, lo sento… Qualche spavento grande deve aver preso, il garofano bianco del mio giardino. Dimmi, chi è stato a darti spavento, usignolo della mia primavera? Dimmi, che cosa è stato a darti spavento, vigna della mia tanca?"
Gliel'hanno fatto fare di pomeriggio, s'affumentu contra s'azzichidu.
Le donne hanno avvolto il fanciullo in una coperta e l'hanno seduto su uno scanno a lato del camino acceso, di faccia a zia Cabriolu accoccolata per terra. Ciondola prostrato, il capo di Roberto, e Maria amorevolmente lo sostiene.
"Non timas, fillu miu, / aundi ses ti biu / ca t'happu affumentau; / non timas, fillu miu, / a timongia e a lau, / a timongia e a cera. / Sa Santa Gruxi 'era, / sa vera Santa Gruxi: / Deus ti 'ongat luxi, / luxi ti 'ongat Deus, / santu Giuanni, Luca e Matteu".
Stanno in disparte i bambini, in silenzio, attenti al compiersi del rito, con la fetta del pane sbocconcellata dimenticata nella mano pendula.
Le erbe aromatiche bruciano fumigando sulle braci vive raccolte nella tegola: cera dell'altare maggiore, fiori della santa Patrona, incenso della sacra Arca e palma benedetta della Settimana Santa. Il fumo denso aromatico avvolge il viso lacrimoso di Roberto, si diffonde per tutta la cucina.
"Piangi, figlio mio, piangi. Piangi e tossisci. Che lo spavento grande ti esca dal cervello e dal cuore e se ne ritorni ai diavoli che lo hanno partorito! Piangi e tossisci forte, spiga dorata del mio campo! che lo spavento brutto ti esca dalle viscere e possa tu dormire senza incubi, germoglio della mia terra! Sputa lo spavento nero, che devi crescere e lavorare, figlio mio. Oh, che tu possa vedere mucchi di grano alti come montagne nelle aie d'agosto e greggi tante, spinte dai cani e dai bacoli, da meravigliare Orune!"
Ziu Efisi, ogni notte, cena accanto alla stuoia di Roberto, con la scodella delle fave lesse sulle ginocchia.
Non piove da mesi. Il cielo è sempre terso, di un azzurro sfocato all'orizzonte; le zolle si sono fatte grigie, dure come cenere impietrita.
"Lacrime non ce ne sono più, figlio mio: non ce ne sono per la tua febbre, non ce ne sono per l'arsura del tuo grano. La volontà di Dio sia fatta!"
Mogoro 1945


CAPITOLO TERZO
ALL'INTERNO DEL BENE E DEL MALE


SU BENTU DE SOLI
IL LEVANTE

Io del veterinario sono nemico, perché bestiame nel mio poco ne ho sempre allevato, qualche bestia ce l'ho ancora e ne allevo. Quando vedo una bestia malata, guardo un pochino di che si tratta. Il maiale, per esempio, è soggetto soprattutto alla polmonite, lo conosco da lontano se soffre la polmonite… Ci sono veterinari che non lo riconoscono. Io ho un nipote veterinario, laureato cinque o sei anni fa, che viene spesso a trovarmi. Tempo fa avevo una scrofa prossima al parto e non so come si è buscata la polmonite. Viene questo mio nipote mentre ero intento a riscaldare dei sacchi di sabbia e di crusca per metterli sui fianchi della scrofa, sdraiata per terra. Mi ha visto e dice: "E che cosa sta facendo, zio?" "Cosa sto facendo?! sto curando questa scrofa perché si è presa la polmonite." "Ma chi te lo ha detto?" Lui risponde. "Chi me lo ha detto? Io l'ho detto. La conosco abbastanza bene, la polmonite è una cosa lampante, si vede a occhio nudo senza usare strumenti, dal respiro, si vede…" "Ma che cosa ne vuoi sapere tu che non hai studiato?… " "No? Aspetta un pochino. Tu hai ragione che io non ho studiato, però sono stato allevato in mezzo a questo bestiame e ne ho avuto tante di quelle esperienze e io uso questo sistema: quando la bestia è colpita da polmonite bisogna riservarle un posto caldo al massimo e non farle prendere colpi d'aria, perché un colpo d'aria la fulmina. Io qui chiudo per bene, aria non ne deve entrare per niente e sono convinto di rianimarla così." E lui dice: "Ma no, zio, aspetta che vado a prendere un paio di punture…" "No, no, lascia stare le punture, sono cose tue, alle cose mie ci penso io, non inserirti…" E difatti ce l'avevo fatta.


SA CRASTADURA
LA CASTRAZIONE

Una volta, tempo fa, dietro sua insistenza, l'anno che si è laureato, ho voluto usare il sistema dei veterinari quando si deve fare la castrazione del maiale maschio, perché da adulto, se non è castrato, la carne non è buona, ha un odore… e un saporaccio insipido, non si può mangiare, quindi per il maiale da macellazione si deve fare la castrazione. In altri tempi si castrava e basta, invece adesso si usa la puntura antitetanica, prima della castrazione, per evitare infezioni. Io questo lavoro lo sto facendo da quando avevo tredici quattordici anni, me lo aveva insegnato un uomo di Sinnai, ziu Pascali Cuccu, e questo qui però mi disse: "Guarda, devi fare così e così". Me lo ha fatto vedere e dopo me lo ha fatto fare. Però ricordati di questo: se soffia il levante guai a fare questo lavoro perché è pericoloso, ti muore la bestia." Io ho sempre avuto queste preoccupazioni prima di fare il lavoro, mi guardo bene che non stia soffiando il levante… Dunque, proprio l'anno che si è laureato mio nipote, ne avevo tre da castrare, in casa. Uno era grande, dell'età di quattro anni, gli altri due erano piccoli, di un annetto circa. Vado da mio fratello e gli dico: "O Giovanni!" "Aou!" "Lo sai se Pinuccio deve venire questi giorni che ho tre maiali da castrare e vorrei che mi procurasse le punture antitetaniche? Le ho cercate in farmacia qui e non le ho trovate." "Gli telefono e ti do una risposta." Il padre gli ha telefonato e mio nipote Pinuccio gli ha detto: "Vengo domenica, dì a zio che mi aspetti che io arrivo con le punture, perché qui le abbiamo". Allora mio fratello mi ha detto: "Ascolta, fai una cosa, faglielo vedere tu a Pinuccio come si castra un maiale, perché lui è prossimo a laurearsi ma non ne ha ancora fatto di questi lavori. Faglielo vedere e fagliene fare uno anche a lui." "Va bene, va bene", ho detto. Infatti, la domenica è arrivato presto, è venuto a casa, ha salutato, e io gli ho detto: "La sai una cosa? Il lavoro non lo facciamo più". "Perché?" "Sta soffiando il levante". "Ma zio, anche tu sei come mio padre, credi ancora a queste cose… Ma che c'entra il levante col ponente e col maestrale? non c'entra niente. Ci sono le punture qui, no?" "No, non lo faccio il lavoro, perché questo vento di levante è nocivo per tutto." "Ma non farci caso, che non è niente". "E io invece ti dico che è così". "Ma non è vero affatto". "Beh", gli ho detto io, "allora facciamo una cosa, li facciamo, anche se muoiono tutti e tre, per insegnarti a castrare, perché sei venuto apposta per questo, no?" E così abbiamo fatto. Bene, abbiamo fatto la puntura, due li ho castrati io, uno lo ha fatto lui, gliel'ho fatto fare io, gli ho fatto vedere prima come si fa… fai così e così… lui era un po' affifato…" "Non affifarti, fai così e così, anche se muore non fa niente, non succede nulla, ce lo mangiamo…" gli dicevo. Comunque, non sono morti, però hanno preso il tetano tutti e tre, nonostante la puntura. Una cosa che a me non è successa mai, senza fare la puntura. Allora, per salvarli ci ha dovuto pensare lui, a forza di penicillina e altri diavoli. Però il tetano lo hanno preso, quindi vuol dire che il levante per queste questioni è molto pericoloso…


SU TRIGU
IL GRANO

Quando sta maturando il grano, se soffia il levante lo fallisce, lo distrugge. Da tempi antichi, molti esperti coltivatori sanno che nel momento della maturazione del seme il levante ddu fait ottizzu, ddu avvallit - naraus nosus in sardu, lo vuota, lo rinsecchisce - diciamo noi in sardo… Luna crescente gobba a ponente, luna calante gobba a levante…così si dice? I lavori della terra sono legati, eccome! alla luna. Tutti i contadini esperti di un tempo osservavano queste cose, il vento… Anche nella semina, per esempio, se stava soffiando il levante e se ne poteva fare a meno, non si seminava. Ecco qui. Questo è uno. Poi, possibilmente, seminavano sempre a luna piena. Quando la luna ha fatto il suo ciclo, ha girato, dopo quattordici giorni, allora fa la luna piena: al quattordicesimo giorno usano fare la semina. Però attenzione che non soffiasse il levante. Se oggi soffiava il levante e dovevano seminare la terra smettevano e aspettavano che smettesse. Dopo un paio di giorni seminavano. Però sempre a luna piena.


SU PRESUTTU
IL PROSCIUTTO

Guai, guai al levante. Io per fare il prosciutto ci sto attento. Nella nostra zona specialmente è sommamente pericoloso, ci vuole moltissima attenzione, perché si guasta. Io ho imparato a fare il prosciutto da quando ero giovanotto; lo faccio, lo faccio tutti gli anni a casa e ci sto molto attento. Il giorno che devo macellare il maiale, se non soffia il maestrale io non lo macello. Aspetto che soffi il maestrale. Mi preparo tutto prima e il giorno che soffia il maestrale macello, perché la carne si asciuga subito. Invece se c'è il levante e si macella il maiale e lo si appende, all'indomani quando si taglia la carne la si vede sgocciolare acqua… Se invece si macella quando sta soffiando il maestrale questo non succede, si asciuga direttamente. Anche le salsicce non vengono bene… Il prosciutto è sicuro che nelle nostre zone specialmente con il levante va male, perché noi qui in Campidano siamo poco più del livello del mare e quindi abbiamo un'aria più pesante che nel Capo di Sopra. Perciò non sempre il prosciutto riesce, bisogna stare attenti. Io che queste precauzioni me le prendo sempre, il prosciutto lo faccio da moltissimo tempo e a me non si è guastato mai… Qualche prosciutto è vero ha tentato di guastarsi, io lo conosco, lo controllo tutti i giorni oppure un giorno sì e uno no: a me non mi frega, no, balla! Lo busso, come si bussa la pezza di formaggio. Si bussa. Se tende a guastarsi, allora fa il suono vuoto. Allora cosa si fa? Si prende il coltello e si apre. Si vede il pezzo che sta tentando di andare in malora, si taglia e si butta via. Si condisce di nuovo nella parte tagliata, e così si salva. Anche nel Capo di Sopra, anche lassù se ne guastano. A Orgosolo che è Orgosolo. A Villagrande, ad Arzana che sono paesi famosi per i prosciutti, anche lì se ne guastano. Si vede che quelli che li fanno qualche volta si fidano perché hanno aria buona. Ripeto che la macellazione del maiale per provvista di famiglia o che si deve conservare per vendere o per fare prosciutto: mai quando soffia levante.


SU MESTRUU
IL CICLO MESTRUALE

Un'altra cosa: se c'é una donna di mezzo che deve mettere le mani nella lavorazione della carne del maiale, se deve aiutare l'uomo a fare determinati lavori, si deve essere sicuri che non abbia il ciclo, perché altrimenti è una cosa pericolosissima che a quanto pare fa l'effetto del levante. Lo stesso per il pane e per il formaggio e per i dolci… per tutte le cose che vengono conservate. Molti a queste cose non ci credono, non ci prestano fede, dicono che è impossibile. Invece è vero.


PANI E DURCIS
PANE E DOLCI

Qualche anno fa si è sposata un'amica di famiglia nostra. Siccome noi abbiamo in casa il forno sardo, che mi sono fatto io, ci hanno chiesto il favore di lasciarli fare il pane e i dolci delle nozze, dato che gli invitati erano molti. C'erano cinque o sei giorni facendo questo lavoro, dolci e pane di moltissime qualità, e sono venuti meravigliosi. Un giorno che non ero di lavoro, rientro a casa e trovo tutte queste donne allarmate, imbestialite e inquiete. "Che cosa ci avete?" dico. "Oggi abbiamo fatto due infornate di dolci e non sono venuti, sono rimasti schiacciati", dicono. "E allora che cosa gli è successo?" dico io. "E che cosa gli è successo? Il perché noi non lo sappiamo". "Ma non lo avete visto il vento?" "E che cosa vuol dire?" "Vuol dire che è levante, e per questo non ci siete riuscite." Ed era così: un levantaccio caldo stava soffiando e i dolci non erano riusciti. Quindi vuol dire che il levante è nocivo per tutto.


SU CASU
IL FORMAGGIO

Questa è una cosa ormai stabilita. Io ho lavorato diciassette campagne in caseificio, e quando soffiava il levante il formaggio gonfiava sempre. Invece, quando o era calmo il vento o era maestrale, il formaggio veniva bene.

(Testimonianze di pastori e contadini del Sarrabus - 1982)


S'OGHIADURA
IL MALOCCHIO

S'oghiadori è chi anche senza volere liat ogu, dà il malocchio alle persone, agli animali e anche alle piante, tanto più se sono belli o pregiati o rari.
Contro s'ogu liau si fa sa mexina de s'ogu, la medicina contro il malocchio. Si usa anche il fiocco verde.
Sulla questione del malocchio in casa mia è successo questo. Cinque o sei anni fa, non ricordo bene, avevo in casa quattro scrofe figliate e dovevo macellare i maialetti per Pasqua. Siccome per dormire al maialetto piccolo non si mette mai paglia, perché assorbe la polvere e lo intossica, per tenerli puliti e in salute ci vogliono frasche di quercia o altrimenti carcuri, saracchio, quell'erba che cresce nelle paludi. Quindi ho detto a mio figlio, domenica mattina andiamo in campagna con il carretto e prendiamo un po' di frasche di quercia e le mettiamo ai maialetti, perché li voglio puliti per Pasqua ché li devo macellare.
Prima di partire ho dato da mangiare alle scrofe. Hanno mangiato bene e siamo partiti la mattina presto. Siamo andati vicino, tre chilometri dal paese, abbiamo tagliato un po' di frasche, le abbiamo messe nel carretto e siamo tornati in paese. Siamo arrivati verso le dieci, dieci e mezzo, abbiamo staccato la cavalla e subito abbiamo messo le frasche dentro le loggette delle scrofe. Come mi sono affacciato dentro, ho visto la prima scrofa con i peli della schiena dritti così… i maialetti tutti che si attaccavano alle mammelle, ma lei non allattava. Dava sintomi di malessere, e c'era un maialetto morto. Accidenti! che cosa ci avrà questa qui? ho preso il maialetto morto, era sui cinque sei chili di carne… Guardo l'altra scrofa: la stessa cosa. Come la prima, così la seconda. Era nervosa e non allattava i figli, che grugnivano tutti quanti. E uno anche lì era morto. Le altre due scrofe ugualmente, tutte e quattro così. Però maialetti morti ce n'erano soltanto due. Ho chiamato mia moglie: "Vieni qui, che cosa hai dato ai maiali?" "Io niente, non gli hai dato da mangiare tu prima di uscire?" "Sì, ma guarda come sono…"
Beh, per farla breve, sono andati male tutti quanti, questi maialetti. Erano trentadue, quattro scrofe avevano trentadue maialetti, me lo ricordo sempre. Non ho aspettato che morissero tutti, molti sono morti da soli, gli altri li ho macellati io. Come li ho aperti avevano la membrana che copre il cuore piena di sangue. Tutti quanti così. Più avanti, mia moglie, pensandoci, dice: "Ma, ci è venuto Eugenio... si è affacciato, li ha guardati… Ogu ddi s'hat pigau! e io non ho pensato di cercare subito qualcuno e di fargli fare la medicina contro il malocchio." Neppure io ci avevo pensato. Ho pensato solo a darmi da fare e a macellarli. Comunque sia era malocchio, e questo Eugenio il malocchio lo dà, lo dicevano sempre da molti anni… Non si era avvicinato nessun altro ai maiali.
Quando una sa che dà il malocchio deve toccare ciò che pensa di poter colpire. C'era un uomo che io ho conosciuto vecchio, Cicciu Podda, che dava il malocchio e aveva sempre un bastone, non ce l'aveva né per appoggio né per altro, perché camminava bene. Incontrava uno camminando, per esempio a cavallo: "Ah, bel cavallo ci hai!" e glielo toccava con il bastone. Vedeva un giogo di buoi: "Ah, belli! Dove li ha comprati?" e li toccava. Chi ha questo potere non ne ha né merito né colpa: è la natura che glielo ha dato. E' nato così e nessuno può disfarlo.

(Testimonianza di un pastore. Dolianova 1982)


PUNTAS E AZZICCHIDUS
COLICHE E SPAVENTI

S'affumentu, il suffumigio terapeutico, lo faccio anche io per il cavallo quando gli vengono is puntas, diciamo noi in sardo, cioè il mal di pancia. Allora, questi disturbi possono venirgli sia al pascolo sia in stalla, secondo che cosa mangia, oppure per un colpo d'aria che gli provoca una cattiva digestione. E allora, che cosa succede? I sintomi si conoscono perché il cavallo si butta a terra e comincia a sbattersi da una parte all'altra. Allora si fa così: si fa entrare il cavallo in una stanza della casa, si accende un piccolo fuoco mettendo piantine secche di aglio, che contengono una sostanza fortissima che fa calmare i dolori, e così passano le coliche.
Sa mexina de s'azzicchidu, la medicina contro lo spavento, assomiglia alla medicina contro il malocchio. Un bambino, un ragazzo, un giovane si sentono male, questo capita in gioventù e basta, quando uno diventa grande non si verifica più. I sintomi sono chiari, ma se si chiama il dottore non ci capisce niente. La gente dice: "Allà ca dd'hant liau ogu, a su pippiu!" (Guarda che gli hanno dato il malocchio, al bambino!) Oppure, "Dd'hant stumbada, sa picciocchedda e 'n d'hat pigau azzicchidu!" (L'hanno investita, la fanciulla, e si è presa spavento!) Si chiama la persona che fa la medicina, sa bruxa, e il malocchio o lo spavento guariscono.
Anche mia mamma sapeva fare sa mexina de s'ogu. Prendeva il bambino in mezzo alle ginocchia, gli sputava in testa, gli faceva il segno della croce e gli diceva is brebus. Cosa gli dicesse non lo so.

(Testimonianza di un contadino. Marmilla 1980)


SA MEXINA DE IS PILLONIS
LA MEDICINA CONTRO GLI UCCELLI

Ci sono dei ragazzi che vengono pagati per fare gli "spaventapasseri". Usano un barattolo con un bastone, battono sul barattolo e gli uccelli scappano via, nel periodo in cui sta maturando il grano.
Altri proprietari invece fanno sa mexina de is pillonis. Non so come sia questa medicina, però so che ci sono uomini e donne che la sanno fare. Vicino a casa mia ci sono due campi divisi solamente da un solco, non c'é né siepe né altro, e saranno quattro o cinque anni fa che erano seminati a grano: uno lo hanno sterminato completamente i passeri, l'altro invece è rimasto sano, gli uccelli non ne hanno toccato neppure una spiga, perché il proprietario di quest'ultimo gli ha fatto fare la medicina. E questa è una cosa vera ed è da prestarci fede.
Si fa anche per altre colture. Quando io abitavo ancora in casa di babbo, avevamo filari di uva da tavola, nella vigna, e tutti gli anni ci andavano gli storni e se la mangiavano tutta. Un anno io non c'ero e mia moglie ha parlato a Luisu Pani, un uomo che c'era in paese, e gli ha raccontato cosa succedeva all'uva. Lui le ha detto: "Ascolta, domani mattina non venire presto, vieni un pochino sul tardi, perché presto alla vigna ci vado io e devo essere solo". Mia moglie è andata sul tardi e a ziu Luisu Pani non lo ha neppure visto, però ha trovato tutti quegli storni sopra le siepi del ficodindia che circondavano la vigna, ma sui ceppi d'uva non ce n'era neppure uno. Questi storni erano come bloccati e gridavano…


CONTRA S'AQUILA E SU MARGIANI
CONTRO L'AQUILA E LA VOLPE

Un uomo, ziu Franziscu Antoni Agus, siccome era allevato in montagna, aveva sempre bestiame. Nelle nostre montagne, e ovunque in Sardegna, a quei tempi c'era l'aquila rapace che si avventava sui capretti, sui maialetti, sugli agnellini, ne prendeva uno, se lo portava via e se lo mangiava. Maggiormente in periodo di covata, quando aveva gli aquilotti piccoli, aveva bisogno di cibarsi lei e contemporaneamente i figli. Questo uomo, quando vedeva l'aquila (adesso dicono che sono estinte, che non ce ne sono più, però io ne conosco ancora molte): lui faceva una medicina con is brebus e l'aquila non toccava il bestiame. Lui garantiva, quando faceva la medicina a qualcuno: "Non te ne tocca, sta tranquillo che l'aquila non si avventa al tuo branco. Gli ho fatto la medicina io e non ne toccano!"
La stessa cosa per la volpe. Quando la volpe si imbizzava (letteralmente si viziava, cioè prendeva la cattiva abitudine) a un branco, andava di notte e sterminava tutto quanto. Ziu Franciscu Antoni le faceva la medicina con is brebus e la volpe non si avvicinava più.


SA MEXINA DE SU FUSTIGU O DE IS BREMIS
LA MEDICINA DEL FUSCELLO O CONTRO I VERMI
 
Esiste una mosca grigia e piccoletta con le ali un po' aperte, che si chiama musca de ghettai (mosca inseminatrice). Vola intorno al bestiame nei mesi caldi, da giugno a settembre, ogni tanto si avvicina agli animali, o anche agli uomini, e schizza dei vermi che si annidano nelle parti umide del corpo, bocca, occhi, naso soprattutto. Qui stanno a dimora e crescono per nove giorni; poi decrescono per altri nove giorni fino a scomparire. Provocano formicolio, come se si fossero infilati in tutta la testa. Danno anche febbre.
Questa mosca cresce nei cespugli di murdegu, cisto. Nei germogli nuovi si forma della schiuma ed è lì che si forma. Quando si ha una primavera piovosa, la pioggia lava via questa schiuma e mosche non ce ne sono. Quando non piove, invece ce ne sono molte.
Le capre sono molto attente e sensibili, e quando sentono sa musca de ghettai oppure la vedono incominciano a starnutire e l'allontanano. Se capita che la mosca riesce a schizzare loro addosso i vermi, le capre cominciano a sfregare il muso dappertutto, finché non se ne liberano.
Le pecore, che sono meno intelligenti, si fanno fregare di più. L'uomo può difendersi per esempio con il fumo della sigaretta oppure tenendo in bocca un ramoscello di moddizzi, lentischio, perché il suo continuo movimento le allontana.
Questi vermi si eliminano con sa mexina de su fustigu. Mio padre quando una bestia si feriva in una gamba o in qualunque altra parte, durante l'estate, e nei tagli le mosche deponevano i vermi, mio padre prendeva una bacchetta e diceva: "Guarda quella pecora che ha i vermi". La riconosceva perché la vedeva irrequieta. Io l'acchiappavo, la guardavo e infatti aveva i vermi nella ferita. "Non toccarla, però, guarda solo se ha i vermi". "Sì, ci sono". "Lasciala andare." E mio padre allora prendeva l'asticciola di legno, la infilava in un formicaio e diceva is brebus, intanto che le formiche salivano e scendevano lungo il legnetto. Nello stesso momento i vermi che erano nella ferita della pecora cadevano. Appena finiva di dire is brebus mi diceva: "Prendi di nuovo la pecora e guarda per vedere se ha ancora i vermi". Andavo, la prendevo e i vermi non ce li aveva più.
Questa medicina glielo ho vista fare tante volte, però lui è morto e non ha lasciato is brebus a nessuno, perché diceva che ai figli non si possono lasciare. Si possono tramandare queste medicine dall'uno all'altro, soltanto ai giovani che dimostrano di avere attitudine o fede in queste cose, ma ai figli no. Si fa di solito in punto di morte.
La medicina contro i vermi non si può fare al cane. Facendola al cane si perdono i poteri. Il perché nessuno lo ha mai saputo spiegare.

(Testimonianze di contadini e pastori di Domusnovas, 1982)


CAPITOLO QUARTO
S'ARGIA, il mitico ragno socializzatore


S'ARGIA
LA TARANTOLA

Argia in campidanese o arza in logudorese indicano nella cultura popolare la tarantola, un ragno dicesi comune nelle campagne, oggi estinto, non più grande di qualche centimetro, con macchie gialle, rosse o brune sul dorso, secondo la specie.
S'argia - animale mitico dell'area del Mediterraneo - provocava con la sua velenosa puntura il tarantolismo, un fenomeno dalla patologia assai varia e complessa, così come varia e complessa era la rituale terapia di gruppo che ne seguiva, ma con il ballo comune in tutte le forme. Si hanno sostanziali differenze, sia nella definizione dei caratteri del mitico aracnide, sia nella organizzazione ed esecuzione della terapia rituale di gruppo, tra una comunità e l'altra e in particolare tra il mondo barbaricino-pastorale e il mondo campidanese-contadino.
Nel Nuorese, secondo alcuni, si individuava una sola specie di arza, tarantola.
Invece lo Spanu ne distingueva due: masciu e vidua, maschio e vedova. "Arza masciu, falangio maschio, la di cui puntura è più atroce dell'arza viuda o battia (che) dicesi così per essere a vari colori pintata, o screziata". Sempre secondo lo Spanu, il termine arza deriverebbe da barzu, vario, di colori diversi, dal latino varius.
I tarantolati dell'arza nuorese - secondo le descrizioni che ne sono state fatte, per altro molto approssimative quando non fantasiose - trovavano rimedio in una sorta di ballo di cui erano conduttrici sette vedove, sette spose, sette zitelle.
Al contrario, in altre descrizioni più attendibili, i tre stati civili erano gli attribuiti di tre differenti specie di arza, vedova, sposa, zitella, che davano con il loro veleno tre diversi quadri patologici riferibili appunto allo stato di vedova, di sposa, di zitella. Il ballo terapeutico di gruppo si modificava in rapporto alla sintomatologia.
Nel Nuorese s'arza colpiva prevalentemente soggetti maschi, dai 20 ai 40 anni, che mostravano una possessione di entità femminile, perdendo la propria identità virile; e diventavano nel corso della cerimonia rituale, un po' lo zimbello della comunità - sia del settore femminile che dirigeva il rito, sia del settore maschile che ai margini fungeva da coro, da spettatore attivo. Nella complessità di significati, ne emerge uno: la figura del tarantolato, che assume sentimenti e comportamenti propri della donna, adombra l'omosessualità - che nella morale del mondo barbaricino è valutata molto spregevole ed è ferocemente repressa. Come si vedrà nella testimonianza che segue, sotterrando il tarantolato nel letamaio e/o infilandolo nel forno, durante la rituale danza, tra risa e scherni e rumore di barattoli e coperchi di pentole, lo si restituisce al grembo materno; e solo quand'egli sia riuscito a ridere - evidentemente di se stesso insieme agli altri - lo si fa rinascere estraendolo guarito.
Sostanzialmente differente nella sostanza e nella forma è su ballu de s'argia nel mondo contadino. Nei Campidani, in particolare in quello di Oristano, dove ha una più larga diffusione, s'argia colpisce indistintamente maschi e femmine in giovane età, con evidenti turbe psicosessuali che vengono risolte con una terapia di gruppo sessuo-libertaria, come si può desumere dalla seconda testimonianza che segue.


a) SU BALLU 'E S'ARZA DEL NUORESE

"L'anno in cui fu morso dalla tarantola mio nipote Bore era stato molto siccitoso. I pastori erano disperati perché anche nelle vallate più basse era impossibile trovare pascolo.
A quel tempo Bore faceva il servo pastore ed era nell'ovile di *** già da quindici giorni, quando in un pomeriggio di levante lo avevano portato in paese avvolto in un sacco nero. Subito erano andati a cercare le donne per fare il ballo, mentre gli uomini avevano portato Bore nel campo vicino dove c'era il letamaio. Lì avevano scavato una fossa e dopo avergli tolto i vestiti, lasciandolo in mutande e camicia, lo avevano sotterrato fino alle spalle.
Allora erano arrivate le donne e ce n'erano zitelle e sposate e vedove e altra gente del nostro vicinato che avevano cominciato il ballo al rumore di pentole, coperchi e barattoli.
Le donne si prendevano per mano facendo cerchio attorno al tarantolato, ballando una specie di ballo tondo un po' sconclusionato, mentre gli uomini da una parte aizzavano le donne e facevano tutto quel rumore con grida…cercavano di distrarre il paziente dal dolore e di farlo ridere. Ne dicevano di tutti i colori, allusioni, metafore, e anche frasi oscene, e lui niente, con una faccia che era una maschera di dolore e di sudore.
Sudando sudando il suo viso si andava distendendo e cominciava a guardarsi attorno. Allora la danza e il rumore diventavano frenetici. Le donne ballavano come matte e gli uomini saltavano e ridevano e lanciavano frizzi e battute sempre più pesanti, senza un attimo di pausa, fino a quando il giovane non cominciò a ridere.
Quando cominciava a ridere e rideva era guarito. Allora lo si toglieva dal letame e le donne tenevano pronte un lenzuolo per avvolgerlo e un sacco nero per coprirlo perché era tutto sudato e non prendesse freddo durante il tragitto fino a casa."

Testimonianza di P. Z., pastora di 64 anni di Orune.


b) SU BALLU DE S'ARGIA IN S'ORISTANESU

"Ci fiant tanti tipus de argia, ci fiad sa bagadia e sa viuda. Fiad manna aicci, cumenti 'e una punta de didu, niedda niedda candu fiad viuda e pintiniada candu fiad bagadia.
Cand'unu fiad spizzulau de una viuda ddi circanta una picciocca bistia de nieddu po ddi donai recreu; candu fia spizzulau de una bagadia ddi circanta una picciocca bistia allirga o chi fiad giovanedda meda dda bistiant de biancu.
Cand'unu beniad spizzulau de s'argia ddi beniad una spezia de crisi, si 'n ci ghettada a terra… mala viad sa viuda: sa viuda fiad sa prus mala… appena spizzulada, mischinus, ddus cancarada e 'n di ddus bettiant a bidda cumenti 'e marturus.
Sa spizzulada de s'argia si connosciad subitu a is movimentus chi faiad; e de cussus movimentus si cumprendiad cali argia dd'haiad spizzulada, si bagadia o viuda. E insaras, ita fadiant? Zerriant su sonadori de launeddas e issu sonada e faiant su ballu a giru a giru… po sa badadia si sonada musica alligra e sa genti scraccaliad puru, a prexu; mentris po sa viuda si sonada unu ballu nau sa viudedda, unu pagheddu seriu ma sempiri movimentau.
Nosus heus tentu su fillu de connau, Franziscu Melis. Teniad unus trint'annus e fiad bagadiu. Ci andiaus meda a domu de zia Filomena, sa mamma 'e Franziscu… a nosus s'haiant zerriau in domu. Fiad benia sa mamma prangendi: "Benei, benei ca fillu miu est ammacchiendisì, deu non sciu ita ddi fai a custu fillu!" Gei ddu scidiant sì ca fiad s'argia. Ddi narant: "Bisongiad a ddi fai calincuna cosa!" Si bidiad ca su piccioccu fiad arrendiu… e tott'a una borta dd'heus biu baddendi baddendi, tottu baddendi…
Dd'hant deppiu donai una picciocca po dd'accansai. Mi regordu ca boliad sa filla de nonnu Casula, su chi had battiau a mei; boliad cussa a picciocca e dd'hant bistia e dd'hant fatta andai, mischina, e fiad deppia atturai in domu de issu. Ddi narant… non mi recordu… Est issu, chi dd'hat pretendia; e cussa picciocca est depida andai po dd'accuntentai, po dd'assisti, poita chi no si marturizzada, mischinu… tottu si trottosciada e tott'a un d'unu dd'afferrada e dda pigada a baddai a baddai, tottu a baddai…
Deu mi regordu ca mi 'n ci fia fuida… fia picciocchedda, depia teniri un doxi annus. Hemu tentu timoria… non mi prasciant cussas cosas, non si scid mai, non fiant giustus in cussus momentus.
Eh, gentixedda ddu andada! Sa mamma prangiad… su ballu dd'haiant fattu in d'unu stanzoni mannu e sa genti andada a biri e puru po baddai, cumenti a una festa.
Durada tres diis, non si faiad atra cosa, scetti sonai e baddai. Accadeiad sempiri in s'istadi, in tempu de messa. Custas argias andant meda a is manigas de trigu. Candu fia picciocchedda, in tempu de messa, in bidda nosta 'n di ddui fiant quattru o cincu dogni annu, mascus e femminas; dogni annu… No, beccius no e nemancu pippius, scetti de is dexiott'annus is susu. Chi fiad mascu boliad una picciocca, bagadia o viuda chi fessit, dda bistiant de alligru o de nieddu, e abarrada cun issu po ddi fai cumpangia e abarrad puru a dormiri in domu sua… Chi sa spizzulada fiad una femina, certu boliad un omini, cussas puru… ma non ddu regordu beni cummenti si faiad… non mi regordu de 'n d'hai biu.
Mi regordu beni sa borta de Franziscu. Haiant baddau in sa sala e in cotilla po tres diis tottu su merì finzas a mesunotti a pustis, finia sa festa, su babbu e sa mamma dd'haiant croccau e sa picciocca puru dda croccant innia… Po fai luxi in cotilla usanta is acetilenas, a carburu, e po aintru usanta sa lantia a quattru corrus… si fadiad su losingiu aicci, cun d'unu arrogu de zappulu. Nosus teniaus meda olia e usiaus sa murghidda, pagu s'ollu de seu… ollestincu no, a is partis nostas, in aterus logus sì, dd'usanta…"

Testimonianza di Anna C. contadina di 86 anni, di Santa Giusta - 1980


b) IL BALLO DELLA TARANTOLA NELL'ORISTANESE

"C'erano tante specie di tarantola, c'era la nubile e la vedova. Era grande così, come la punta di un dito, nera nera quando era vedova e variegata quando era nubile.
Quando uno veniva pizzicato da una vedova, gli cercavano una giovane vestita di nero per dargli sollievo; quando era pizzicato da una nubile gli cercavano una giovane vivacemente vestita o se era molto giovane la vestivano di bianco.
Quando uno veniva pizzicato dalla tarantola, gli veniva una specie di crisi, si lasciava cadere per terra…cattiva era la vedova: la vedova era la più cattiva… appena pizzicava, poverini li paralizzava e li portavano in paese come fossero paralitici.
Il pizzico della tarantola si riconosceva facilmente dalle reazioni che provocava; e da quelle reazioni si comprendeva quale tarantola lo avesse pizzicato, se nubile o vedova. E allora, che facevano? Chiamavano il suonatore di launeddas; egli suonava e faceva il ballo tondo… per la nubile si suonava musica allegra e la gente dava in esclamazioni di giubilo; mentre per la vedova si suonava una danza detta la "vedovella", un po' più seria ma sempre movimentata.
Noi abbiamo avuto il figlio di mio cognato, Francesco Melis. Aveva una trentina d'anni ed era celibe. Frequentavamo molto la casa di zia Filomena, la madre di Francesco… a noi, ci avevano chiamato a casa. Era venuta la madre, piangendo: "Venite, venite perché mio figlio si sta ammattendo, io non so che cosa fargli, a questo figlio!" Lo sapevano sì, che era la tarantola. Dicevano: "Bisogna fargli qualche cosa!" Si vedeva che il giovane era snervato… e tutto ad un tratto l'abbiamo visto ballare, ballare, muovendosi tutto…
Gli hanno dovuto dare una giovane per calmarlo. Ricordo che voleva la figlia di padrino Casula, colui che mi ha battezzato; voleva lei, come ragazza, e l'avevano vestita e l'avevano fatta andare, poverina, ed era dovuta restare in casa di lui. Si chiamava… non mi ricordo… è lui, che l'aveva pretesa; e questa ragazza è dovuta andare per accontentarlo, per assisterlo, ché altrimenti si paralizzava, poverino… si contorceva tutto e d'un tratto l'afferrava e la prendeva per ballare, ballare, ballare…
Io ricordo di essere scappata… ero ragazzina, avevo si e no dodici anni. Avevo avuto paura… non mi piacevano quelle cose, non si sa mai, non erano del tutto coscienti in quei momenti.
Ci andava tanta gente! La mamma piangeva… il ballo l'avevano fatto in uno stanzone e la gente andava a vedere o anche per ballare, come a una festa.
Durava tre giorni, non si faceva altro, soltanto suonare e ballare. Accadeva sempre in estate nel tempo della mietitura. Queste tarantole si trovavano specialmente nei mannelli di grano. Quando ero bambina, durante la mietitura, nel nostro paese, ce ne erano quattro o cinque ogni anno, maschi e femmine, ogni anno… no, vecchi no e nemmeno bambini, soltanto dai diciotto anni in su. Chi era maschio voleva una ragazza, nubile o vedova che fosse, la vestivano a festa o di nero, e restava con lui per fargli compagnia… e restava anche a dormire in casa sua… se la tarantolata era una femmina, certo voleva un uomo, pure loro… ma non lo ricordo bene come si faceva… non ricordo di averne visto.
Ricordo bene quella volta di Francesco. Avevano ballato nella sala e nel cortile per tre giorni tutta la sera fino a mezzanotte; e dopo, finita la festa, il padre e la madre l'avevano messo a letto e anche la ragazza la mettevano a letto lì… per far luce nel cortile usavano la lampada a quattro lumignoli… il lumignolo si faceva così, con un pezzo di straccio. Noi avevamo molto olio e usavamo la sansa, poco l'olio di sego… olio di lentischio no, dalle nostre parti, in altri luoghi sì, si usava…"


S'ARGIA CABRARISSA
LA TARANTOLA CABRARESE

A Cabras distinguono quattro specie di argias, di tarantole: sa viuda, sa bagadia, sa partoxa, sa martura - rispettivamente, la vedova, la nubile, la puerpera, la paralitica. Qui, non si capisce bene se il ragno sia sempre lo stesso, dato che tale distinzione viene fatta esclusivamente dai sintomi del male che ne deriva dal morso.
Nei casi di tarantolismo rilevati nella comunità di Cabras, e che hanno come luogo di insorgenza la penisola del Sinis, si evidenzia la scomparsa quasi totale del ballo rituale terapeutico, anche quando il malefico ragno continua a mietere le sue vittime. Scomparendo il rituale magico del ballo si farà scomparire anche il mitico aracnide. La gente del luogo attribuisce la scomparsa del fenomeno al dissodamento delle terre cespugliate che avrebbe distrutto l'habitat di s'argia, e quindi l'estinzione della stessa.
C'è della verità in questa affermazione, ma nel senso che le trasformazioni agrarie dell' ultimo dopoguerra, e i profondi stravolgimenti nelle strutture produttive hanno modificato il mondo contadino, segnando il declino di usi e costumi di comunità vecchi di secoli.
Ora, infatti, il tarantolato è semplicemente un malato che cerca di risolvere le sue crisi nevrotiche con lo psichiatra. Il moderno guaritore che ricopre di cenere le braci con le sue analisi e le sue pillole (quando non con il letto di contenzione e l'elettroshock), sostituisce con la scienza della medicina civile la scienza della medicina popolare, che risolveva empiricamente le nevrosi con la terapia di gruppo. Una terapia, questa, giova rimarcarlo, che la psichiatria più avanzata va riproponendo in forme che non possono che essere inautentiche, artificiose e palliative - dato che la comunità de su ballu de s'argia non esiste più.


S'ARGIA VIUDA
LA TARANTOLA VEDOVA

"Stavo tirando fave nel Sinis, tra maggio e giugno, diversi anni fa. Sono stato punto al dito indice. E' passato neanche un minuto che subito il male mi ha colpito alle braccia e alle gambe. Non potevo più reggermi in piedi. Mi venivano contrazioni dei muscoli e mi agitavo non potendo star fermo né coi piedi né con le mani. Mi hanno caricato sulla carretta e portato a casa. Durante la notte, a letto, avevo strappato le lenzuola e le coperte a causa degli attacchi nervosi che mi erano venuti. Io non lo ricordo molto bene; me l'hanno raccontato quelli che mi hanno assistito."
Era rimasto vittima di una argia viuda, tarantola vedova. Le sofferenze di colui che è stato morso da tale specie di aracnide vengono alleviate e risolte, sempre positivamente, con uno specifico rituale terapeutico di gruppo: tre giorni e tre notti di danze capeggiate da vedove autentiche o simulanti, nell'abbigliamento del lutto, che inseriscono nella danza lamentazioni funebri. Una scena di massa approntata dagli esperti con la partecipazione del vicinato. Il rito si svolge normalmente all'aperto - s'argia, la tarantola, colpisce esclusivamente nel periodo caldo, prevalentemente durante i lavori del raccolto - in un cortile ampio, con maggiore presenza e partecipazione la sera e nelle prime ore della notte. Mentre ci si dà il cambio attorno al tarantolato sofferente, nella rappresentazione di un dolore vedovile, cui lo stesso tarantolato è sollecitato a partecipare.

Testimonianza di Salvatore C. contadino sessantenne, sposato due volte, senza figli.


S'ARGIA PARTOXA
LA TARANTOLA PUERPERA

"Mi ha morsicato nel Sinis. C'ero andato ad aiutare mio fratello contadino a mietere, a tirare fave nella zona di Su archeddu 'e sa canna. Subito mi sono accorto, quando mi ha punto nella mano e mi ha fatto l'effetto. Mi veniva da piangere e gridavo che volevo un bambino, se no mi gettavo nel forno acceso… Mi hanno fatto subito un bambolotto con stracci, mio fratello e altri che c'erano. Io l'ho preso in braccio, e mi sono calmato un po'…"

Testimonianza di Francesco D., pastore trentaquattrenne, scapolo.

Qui abbiamo un caso - abbastanza raro e poco noto o addirittura ignorato nelle altre regioni dell'Isola - di tarantolato da argia partoxa, tarantolato puerpera. Tale specie di ragno si vuole che provochi in individui di sesso maschile comportamento propri della femmina appena sgravata. La terapia popolare risolve il caso mettendo un bambolotto tra le braccia del paziente, il quale è portato a riversare affetto e cure materne su quel simulacro di neonato.
Nel più ampio e generalizzato contesto rituale de su ballu de s'argia, del ballo della tarantola, si inserisce lo specifico relativo alla specie del ragno, in questo caso partoxa. Per i rituali tre giorni e tre notti, il tarantolato è assistito dai vicini, mentre culla, vezzeggia, cura il neonato - senza cui le sofferenze potrebbero portarlo fino al suicidio. Si specifica che tenderebbe a uccidersi gettandosi dentro un forno acceso. Da qui una motivazione conscia per spiegare il momento del complesso rituale in cui il tarantolato viene avvicinato alla bocca del forno e, secondo altre testimonianze, anche infilato in un forno tiepido.


S'ARGIA BAGADIA
LA TARANTOLA NUBILE

M. R. è rimasta vittima della specie argia bagadia, tarantola nubile, mentre lavorava in campagna. Vive nella casa di sua proprietà facendo la perpetua a un vecchio prete suo inquilino. E' molto sospettosa con chi non appartiene alla ristretta cerchia dei suoi conoscenti. E' un poco sorda e si rivolge alla persona che mi accompagna, a lei nota, che funge da tramite durante il breve colloquio. L'inquilino prete per fortuna è assente, e la persona che mi accompagna riesce a convincere la vecchia che "non c'è niente di male" a raccontare come fu che s'argia l'avesse morsa e quel che accadde poi.

"Stavo in campagna, da ragazza. Allora c'erano molti pastori nel Sinis, ed ero ospite con la mia famiglia in una masoni, in un ovile di amici. Stavamo seduti per terra a far merenda, quando mi ha punto. Ho gettato un grido e mi ha preso subito a tremare a tremare alle gambe, alle braccia e in tutto il corpo. Mi faceva saltare e ballare come una matta, perché fiad un'argia bagadia, perché era una tarantola nubile, e pigad aicci, e dà questi sintomi. Ita si faiad appustis? che cosa si faceva dopo? Po fai passai cussu mali si ballad, cantendu e sonendu tottus paris po tre diis e tres nottis, per alleviare il male si ballava, suonando e cantando tutti insieme per tre giorni e tre notti. Soltanto in quel modo la tarantolata può trovare sollievo…"

Testimonianza di M. R., contadina di circa ottanta anni, nubile.

Viene riferito da altri testimoni che nel caso di tarantolata da argia bagadia, tarantola nubile, la gioventù ne approfittava per raccogliersi in cortili spaziosi, illuminati la notte da lamparas a carburu, lampade ad acetilene: circondavano la paziente distesa sopra una stuoia e danzavano a festa al suono di launeddas per i rituali tre giorni e tre notti.


S'ARGIA MARTURA
Testimonianza di C. P., contadina, nubile di trentotto anni.

E' sola in casa con l'anziana madre. Come di consueto sono accompagnato da persona intima nella famiglia da visitare, ed è stato scelto il momento del giorno più favorevole: quando la persona da intervistare è sola o quasi.
Le due donne ci fanno passare nella cucina, un locale angusto, con una parete occupata interamente dal camino. Sul pavimento davanti al fuoco sono stese alcune stuoie di falasco. Sulle braci, a un lato del camino, un tegame con olio che frigge pesci. La vecchia accudisce la frittura, accoccolata alla turca: infarina i pesci e li immerge nell'olio bollente, e man mano che si indorano li estrae abilmente dalla padella con una forchetta e li ammucchia in una conchetta. La giovane siede accanto a noi sull'altra stuoia. E' lei la tarantolata. Ha un faccione florido beato e il sorriso facile. Chiacchiera volentieri.

"E' stato poco tempo fa nel Sinis, dove ero andata a spigolare. Era il tempo della mietitura e stavamo in gruppo, a fare merenda, prima di riprendere il lavoro. Mentre ero seduta sentivo una cosa che mi camminava sul piede e dopo sulla gamba. Siccome c'era gente, avevo vergogna a sollevarmi la gonna per vedere cos'era. Quando mi è arrivata al ginocchio ho dato un colpo con la mano per schiacciarla. Credevo che fosse qualche babboi (nome generico che qui si dà a insetti che fanno paura - n.d.A.) e appena l'ho toccato mi ha pizzicato. Ho gettato un grido e sono balzata in piedi… Se ho visto com'era? Era una specie di babboi con la pancia grossa, grande come un'unghia, pieno pieno di piedi lunghi lunghi… Si sono spaventati tutti quanti. L'hanno capito subito: "Ti ha morsicato s'argia " hanno detto. Non abbiamo fatto in tempo a spostarci nel campo vicino per riprendere il lavoro, quando mi sono venuti i dolori. Io non ricordo bene come mi ha preso, lo so dalla gente che c'era. Gridavo, gridavo ed ero tutta rannicchiata così, come uno che gli è venuta una paralisi. Mi scappava il pianto. Mi hanno caricata sul carro ed era quasi sera quando mi hanno riportata in paese. Me l'hanno detto gli altri che nel carro gridavo: "Portatemi via da questo camposanto! portatemi via da queste croci! portatemi via!" Ci sono voluti quattro uomini per accompagnarmi dentro casa…"
Interviene la vecchia: "Era rannicchiata così, con le braccia strette intorno alle ginocchia, e gridava e piangeva dai dolori che ci aveva. Dd'haiad spizzuada s'argia martura, era stata pizzicata dalla tarantola paralitica… Che cura ha fatto? Siamo andate dal dottore. Ha detto che bisognava fare l'iniezione adatta. Ma qui non ci sono. Bisognava andare a Sassari. Io ho una figlia suora, proprio a Sassari. Lei è andata a dirlo al vescovo che subito ci ha fatto avere le iniezioni, anche senza pagare. Alla prima che il dottore le ha fatto le è passato tutto. Se ne abbiamo ancora di queste iniezioni? Certo. Vai a prenderle ca sunt allogadas in su parastaggiu, che sono conservate nel guardaroba…"

(Testimonianza di C. P., contadina, nubile di trentotto anni)

La figlia si alza, sale per le scale che danno nel solaio e poco dopo ritorna con una scatola. Una confezione da sei fiale che reca la scritta Soluzione sterile per iniezioni.


CAPITOLO QUINTO
S'IMBRUSCIADURA, un singolare rito terapeutico


S'imbrusciadura (letteralmente: l'atto dell'avvoltolarsi per terra), fra i riti terapeutici praticati in Sardegna contro s'azzicchidu, lo spavento, riveste un particolare interesse per la dinamica rituale, perché è ignorato dalla etnologia ufficiale (se ne parla soltanto in una comunicazione accademica che è un plagio di questo mio studio), e infine perché è rilevabile nel solo centro di Cabras, dove è diffusissimo, e in alcuni paesi limitrofi, dove se ne osservano pochi casi.
Il termine azzicchidu, che si traduce con spavento, è generico e serve per indicare un qualunque trauma psichico. E' chiaro che la minore o maggiore gravità del trauma-azzicchidu non varia tanto in rapporto alla causa che lo ha provocato, quanto a seconda del soggetto e della condizione psichica in cui egli si trova in quel dato momento.
Dagli abitanti di questi paesi vengono fatte delle distinzioni sulla natura del trauma-azzicchidu in rapporto alle cause che lo hanno provocato. Si hanno così: azzicchidu de anima bia, spavento da anima viva, e azzicchidu de anima morta o de umbra, spavento da anima morta o da fantasma.
Alcuni fanno anche distinzione di luogo: logu opertu, luogo aperto, e logu serradu, luogo chiuso.
Tali distinzioni determinano le varianti nel rituale di s'imbrusciadura, in particolare nel numero di volte che va compiuta: da una a tre, a nove.

Un ragazzo, Peppino C., figlio di contadini, racconta:
Una volta, mio fratello, mentre riposavo a letto, aveva preso una boccata d'acqua e, per farmi uno scherzo, me l'aveva spruzzata in faccia. Mi ero svegliato e mi sembrava di affogare e avevo preso un azzicchidu forte, un brutto spavento. Ricordo che era il giorno di san Giuseppe, e mio padre mi aveva portato al fiume per fare s'imbrusciadura sulla riva…"
Racconta un altro ragazzo, Pinuccio M., pastore: "Era una notte disastrada, spaventosa. Tuoni e lampi uno dietro l'altro. Le pecore lo sentono da lontano il tempo brutto e sentono anche le anime dei morti, e allora si stringono tutte a un mucchio voltando le terga. Io cercavo di coprirmi, come meglio potevo per ripararmi dall'acqua e dal vento, quand'ecco proprio davanti a me, alla luce di un lampo, vedo una figura d'uomo tutto vestito di bianco. Più lo guardavo e più diventava grande. Non potevo neanche muovermi dalla paura. Poi, di colpo, è sparito… Sono rimasto molti giorni a letto con la febbre e con la testa tutta piena di foruncoli, dall'azzicchidu, dallo spavento che avevo preso. Mio padre, quando ha saputo cosa mi era successo, mi ha detto che era umbra, fantasma, e che bisognava fare s'imbrusciadura vicino al cancello del camposanto."


UN RITO DI FACILE USO

A differenza di altri riti terapeutici, s'imbrusciadura può essere facilmente praticata da chiunque, per la semplicità della formula, per l'assenza di brebus, parole magiche segrete, per la materia occorrente (per lo più un po' d'acqua comune), e infine perché occorre un officiante, che possiede conoscenze rituali e virtù taumaturgiche.
Chiunque compia s'imbrusciadura è nello stesso tempo medico e paziente. Ho notato però che i bambini sono di solito guidati nello svolgimento della terapia da un adulto, e che soltanto più tardi, quando ne hanno appreso la tecnica e ne hanno riconosciuto l'efficacia, fanno s'imbrusciadura da soli, subito dopo aver preso unu azzicchidu, uno spavento.
Non di rado, mi è accaduto di vedere per strada bambini buttarsi e rotolarsi per terra, quindi rialzarsi e rimettersi a giocare - lasciando per terra s'azzicchidu. Alla mia curiosità, rispondevano: "Mi 'ndi si seu azziccau!" - Mi sono spaventato!
S'imbrusciadura si fa con naturalezza, anche pubblicamente, specialmente i bambini. Se lo spavento è di rilievo, vengono accompagnati sul luogo del trauma dalla loro madre (più raramente dal padre) oppure da una vicina di casa, una delle tante esperte nella materia. Zia Cabriou è una di queste. E' appena rientrata dall'aver imbrusciau un marmocchio del vicinato. Mi spiega:

"Con gli azzicchidus, con gli spaventi, non bisogna scherzare. Un azzicchidu tenuto dentro può anche far venire la paralisi o portare a Villa Clara (Manicomio di Cagliari - n.d.A.). Zia R. - può anche chiedere in paese - è rimasta dieci anni a letto martura, paralitica, per uno spavento. Uno può anche morire… Io appena vedo un bambino che ha preso azzicchidu lo porto subito a farsi s'imbrusciadura."


I SINTOMI DI S'AZZICCHIDU

Alcuni sintomi del male provocato da un azzicchidu - così come mi sono stati descritti o come io stesso li ho osservati - sono: insonnia e vaneggiamenti; inappetenza e vomiti; volto pallido emaciato; sguardo fisso assente (spriau, scioccato); foruncolosi, specialmente in testa; sonno agitato; febbre anche alta, con delirio.
L'ammalato, e con lui i familiari e i vicini di casa più intimi si preoccupano di frugare nel passato, una sorta di anamnesi, fino a puntualizzare momento, luogo e causa del trauma-azzicchiddu. Talvolta, questa ricerca impegna il gruppo in un lavoro di ricostruzione mnemonica che può durare giorni. Il più delle volte, se non ricorda il malato, è facile trovare un testimone - va tenuto presente che nelle nostre comunità i rapporti interpersonali sono vivi e reali, ognuno sa ciò che fanno gli altri, e la ricostruzione di un trauma occorso a un membro del gruppo non è una inchiesta della polizia, che è sovrastrutturale, esterna ed estranea. Ne consegue che non è difficile situare il luogo e definire il tempo de s'azzicchidu. Per quanto concerne la causa si fanno congetture, se l'ammalato è incerto; e spetta agli esperti, ai guaritori, individuarle con più precisione.

Ho documentato diversi casi di azzicchidus di particolare gravità, in cui i sintomi si manifestavano violenti, con febbre alta e delirio, esattamente alla distanza di un anno.

Racconta M. S., insegnante elementare, celibe:
"Diversi anni fa, mi ero recato alla spiaggia di San Giovanni del Sinis. Mentre facevo il bagno vicino a una barca, i soliti spiritosi fecero lo scherzo di mandarmi sott'acqua all'improvviso. Ricordo di aver cominciato a bere, annaspando nell'acqua, senza riuscire a tenermi a galla. Ormai ero andato… non speravo più di salvarmi, anche perché pensavo di essere rimasto solo e non riuscivo a gridare. Per mia fortuna qualcuno aveva visto e capito che mi trovavo in seria difficoltà. Mi salvarono in extremis…
"Trascorsero dal fatto giorni e mesi. Io non ci pensavo più ormai. Ma ecco, trascorso un anno esatto, nello stesso giorno, alla stessa ora, mi assalì un febbrone. Ricordo di essermi affacciato sull'uscio di casa: mi pareva che sulla strada corresse un lungo fiume verde in piena. Cominciai a vaneggiare… I familiari e gli amici che mi hanno assistito ricordano tutte le mie frasi sconclusionate di quel pomeriggio. Mi misero a letto. Mio padre e i miei familiari ricollegarono subito il mio male con il fatto accaduto un anno prima. E così fu deciso di portarmi il giorno dopo sulla spiaggia di San Giovanni per farmi s'imbrusciadura.
"Misero un materasso sulla carretta, mi avvolsero in una coperta e partimmo. Quando giungemmo ad alcune centinaia di metri dal punto in cui avevo avuto l'incidente, sentii dei lunghi e violenti brividi di freddo. Ricordo che mi misero addosso altre coperte. Poi, man mano che ci avvicinavamo al luogo, cessavano i brividi, la febbre e il delirio. Mi fecero fare s'imbrusciadura sulla sabbia. Quando rientrai in paese, ero completamente guarito."

Quando finisce di parlare, M. S., insegnante, figlio di umile contadino, mi scruta con un sorriso incerto. Forse pensa che si possa giudicarlo superstizioso: ancora parte nobile di una realtà ritenuta a torto miserabile, da cui egli, come altri, ha creduto di riscattarsi studiando. Dice:

"Alcuni ridono delle nostre cose, chiamandole fattucchierie, ignoranze. Anche io, solo per il fatto che ho studiato, non davo molta importanza ai vari riti che si compiono nel mio paese come rimedio contro gli spaventi e le loro conseguenze. Le psicoterapie alla Freud qui da noi sono arrivate in ritardo… A Cabras, per quel che ne so, sono centinaia di anni che si curano alcuni traumi psichici con il metodo della analisi e della presa di coscienza delle cause… oltre, naturalmente, ad una buona dose di autosuggestione."

Appunto per non dover ricorrere in extremis ai rimedi, quando il male troppo a lungo covato ha provocato gravi danni, con il pericolo, inoltre, di non ritrovare il luogo e la causa dello spavento, le mamme si preoccupano di fare subito s'imbrusciadura, non appena rilevano in essi i primi sintomi.
Confida una mamma:

"Anche se non ci fosse veramente un azzicchidu, male non gliene fa a ddus umbruscinai. Mellus a timì chi a provai! - Meglio temere che subire!… Io, tanto per non sbagliare, se mi accorgo che la bambina o il bambino tornano a casa un po' strani, e a me sembra spavento, chiedo subito che cosa abbiano fatto o visto e dove siano stati. Li riporto subito nel posto; quasi sempre stanno giocando nella strada dove passano macchine, carrette, biciclette, e li faccio imbrusciai. Così mi sento tranquilla e tornano tranquilli anche loro."


I BAMBINI E IL RITO

Interrogando i bambini, si ottiene un quadro molto vivace del fenomeno.

Giancarlo C., nove anni: "Un giorno, mentre accendevo una lampada, la corrente mi aveva tirato via e io ero spaventato e mi avevano fatto fare s'imbrusciadura e mi era passato lo spavento…"

Rita C., undici anni: "Un giorno avevo visto un carro. Arrivato a un fosso si era rovesciato dall'altra parte. Tutti si erano spaventati e si erano fatti male. Il giorno dopo erano ritornati dove si era rovesciato il carro e s'imbrusciarono…"

Luigi F., otto anni: "Una bambina stava andando per la strada e c'era un uomo nascosto in un fosso. Quell'uomo ci aveva un coltello in mano, è uscito fuori dalla strada e quella bambina si era spaventata ed era scappata a casa. La mamma le ha fatto s'imbrusciadura. Prima ha fatto una fontana piccolina e ci ha messo acqua dentro, e quella bambina si è coricata sopra, si è rotolata e ha bevuto l'acqua…"

Angelo P., dieci anni: "Un giorno un manovale ritornava a casa e aveva incontrato una vecchia. E a quel ragazzo gli sembrava un demonio in persona ed era scappato a casa gridando forte. La gente vide quel ragazzo gridando forte e una donna aveva un bicchiere di acqua in mano e gliela spruzzò in faccia e gliene fece anche bere. Un giorno dopo, quel ragazzo ripassò con la sorella grande e gli fece s'imbrusciadura. Lo rotolarono nel tappeto e lo fecero rotolare a destra e a sinistra, e da quel giorno non ebbe più paura della gente vecchia."

Maria Bonaria E., dodici anni: "Un giorno un camion stava vicino a investire una bambina. L'hanno vista due donne e le hanno detto: Spaventata ti sei? E quella bambina ha risposto di sì, e l'hanno imbrusciata. Dove l'hanno imbrusciata hanno fatto una chea (fossetta) piena d'acqua e l'hanno fregata lì, e aveva tutto il vestito sporco di fango…"

Giorgio C., nove anni: "Una volta ero andato a una casa vicina e stavo giocando e mi è entrata una lucertola nelle spalle. Mi ero levata la camicia e la lucertola era caduta per terra e il cane l'aveva mangiata. Il giorno mi ero imbrusciato e dopo mi avevano fatto fare la croce."

Gianni P., dieci anni: "…Un uomo della nostra via era caduto da un albero e gli avevano fatto s'imbrusciadura. L'avevano portato al posto dov'era caduto. Avevano portato un lenzuolo, l'avevano messo per terra e l'avevano fatto rotolare nel lenzuolo."


VARIANTI DEL RITO

Andando con ordine, dal più semplice al più complesso, si possono distinguere cinque varianti dello stesso rito.

A) Imbrusciadura semplice.
Su azziccau, chi ha preso lo spavento, si avvoltola per terra tre volte. Alcuni usano spruzzare sul volto del paziente dell'acqua comune, prima o durante o dopo s'imbrusciadura.

B) S'imbrusciadura con aqua abrebada, con acqua taumaturgica.
Si scava nel luogo del rito una fossetta e la si colma di aqua abrebada. S'azziccau si avvoltola sul terreno in cui è compresa la fossetta, tracciando una croce col proprio corpo disteso. A conclusione beve un sorso dell'acqua contenuta nella fossetta, dopo di che questa viene ricoperta di terra.

C) S'imbrusciadura fatta in casa.
Quando s'azzicau per ragioni speciali non vuole e non può recarsi nel luogo dove ha ricevuto il trauma, si va lì e si raccoglie un pugno di terra del luogo. Questa terra si sparge sopra una coperta preventivamente stesa in casa. Sulla coperta cosparsa di terriccio si fa s'imbrusciadura.
Questa variante - usata di solito da giovinette e da vecchie, alle quali non è decoroso esibirsi in tal modo in pubblico - è molto complessa, sia che venga eseguita dalla sola paziente, sia che venga assistita da una esperta. Si dà molta importanza, per l'efficacia del rito, l'avvoltolarsi nude coperte da un lenzuolo. Si devono di regola effettuare tre imbrusciaduras, secondo i tre bracci di una croce immaginaria, per poi sollevarsi e uscire dalla coperta sulla linea del quarto braccio. E' altresì necessario scuotere - facendo molta attenzione a non voltarsi indietro - le falde del lenzuolo con cui si è ricoperte: affinché s'azzicchidu resti nel terriccio.
Zia Pisabella, ritenuta in paese un'esperta della materia, mi ha spiegato che a conclusione de s'imbrusciadura è sempre opportuno gettare, nella camera dove si è svolto il rito, un gatto o un cane o un qualunque altro animale. Questo assorbirebbe, senza alcun danno, s'azzicchidu lasciato dalla paziente nel terriccio e nessuna creatura umana, che ne venisse a contatto, correrebbe alcun pericolo. Comunque, il terriccio contenente s'azzicchidu viene sempre gettato nel fuoco del camino o in luogo dove nessuno possa venire a contatto. Zia Pisabella puntualizza: "Per maggior sicurezza, qualora lei ne avesse bisogno, si ricordi sempre di raccogliere dopo, o di far raccogliere la terra che ha sparso sulla coperta. La raccolga senza toccarla, sollevando i quattro capi, e la butti in un fossa sotto terra, perché nessuno ci metta i piedi sopra, oppure la getti in un pozzo dove nessuno ci beva."

D) S'imbrusciadura in camposanto
Viene praticata di solito nelle prime ore del mattino, anche fuori, davanti al cancello, quando non è possibile accedere all'interno del camposanto.
E' ritenuto risolutivo nei casi di spavento causato da umbra, fantasma, spirito dannato.

La signora M., moglie di un agiato commerciante, me ne descrive il rituale:
"…Si traccia una croce per terra e alle quattro estremità si scavano quattro buchi che si riempiono d'acqua. S'azziccau s'imbrusciad rotolandosi prima verso destra, fino ad arrivare alla fossetta d'acqua dove ne beve un sorso; si avvoltola poi verso sinistra, fino all'opposta fossetta dove beve ancora un secondo sorso d'acqua. Si sposta quindi col proprio corpo sul secondo asse della croce, ripetendo quanto ha fatto precedentemente: rotola verso destra e verso sinistra, bevendo dalle altre due rispettive fossette. Quando ha finito, si alza facendosi il segno della croce."
S'imbrusciadura in camposanto, oggi, è molto meno frequente che in passato, e viene sempre fatta in ore in cui è possibile evitare gli sguardi curiosi di eventuali estranei.

E) S'imbrusciadura collettiva
Quest'ultima variante è innestata alla tradizionale festività del Corpus Domini. Per tale ricorrenza è costume erigere e addobbare una cappella presso ciascuna delle monumentali croci che si trovano nelle varie piazze del paese. La processione, partendo dalla chiesa, si snoda secondo un percorso che tocca le varie croci-cappelle infiorate e abbellite di tappeti e arazzi.
La cappella dove s'imbrusciadura collettiva assume ancora un aspetto di rilievo, per il gran numero di azziccaus di tutte le età che vi affluiscono, è quella detta S'Arruga de su Pilloni (testualmente: La Via dell'Uccello), denominazione derivata - pare - da un uccello che sormonta la singolare croce monumentale, dalle cui braccia pendono i simboli della Passione.
Nei loro temi scolastici, così descrivono s'imbrusciadura collettiva due scolari di dieci anni:

Efisio M.: "Il giorno di Corpus Domini avevano messo i tappeti per fare s'imbrusciadura vicino alla cappella e poi avevano messo i vasi sopra i tappeti e in mezzo avevano messo la croce e poi avevano messo rami di alloro e avevano preparato tutto. E poi i ragazzi, i bambini, bambine, donne, giovani, tutti quelli che si erano spaventati facevano s'imbrusciadura..."

Angelo P.: "Ogni anno per Corpus Domini in S'Arruga de su Pilloni fanno una cappella e ci mettono dei lumicini e tanti fiori. Per terra ci mettono tappeti e quando passa la processione tutte le persone che si sono spaventate fanno s'imbrusciadura. S'imbrusciadura, per esempio, si fa a un bambino che si spaventa: lo portano nella cappella e gli fanno s'imbrusciadura, gli mettono un lenzuolo e poi lo rotolano in mezzo e lo fanno rotolare a destra e a sinistra. Ecco perché si fa s'imbrusciadura, e prima di rotolare, le persone si bagnano la faccia."


DIFFUSIONE DEL RITO

Da un'indagine fatta su campionatura (1960), rappresentati tutti i ceti sociali, risulta che nella comunità di Cabras s'imbrusciadura è diffusa nell' 85% della popolazione - nel senso di praticata, con maggiore o minore frequenza.
In relazione ai ceti, la massima diffusione si ha tra i contadini e i pastori; la minima tra gli intellettuali e i pescatori del golfo.
In rapporto all'età, vengono per primi i bambini, seguiti dagli adulti dai 45 anni in su. Gli ultimi, i meno imbrusciaus risultano i giovani dai 16 ai 22 anni. In tutti i casi: i maschi meno delle femmine - esclusi i bambini.
Considerando il sesso - come ho accennato - il rito è più diffuso tra le femmine, a partire dai 14 anni in su.
Le femmine hanno il ruolo di depositarie della tradizione rituale. D'altro canto, essendo affidata esclusivamente ad esse la tutela e l'educazione dei piccoli (i quali, per altro, scorrazzano in libertà per le strade e per la campagna), sono le diffonditrici del rito nelle nuove generazioni. E queste, oggi, superata l'età scolare (10-12 anni) acquistano una mentalità in conflitto con la vecchia cultura della loro comunità, rifiutandola. La rivoluzione provocata dall'arrivo dei nuovi strumenti di diffusione delle idee e dai prodotti della civiltà industriale provocheranno nel breve volger di anni la quasi totale estinzione di questo singolare rito - o lo ridurranno - come sta già accadendo - in termini sempre più privati e simbolici, togliendogli gran parte del suo potere terapeutico, che gli veniva dall'essere esercitato in pubblico, e che dava una sicurezza ai rapporti interpersonali.
Nella città di Oristano, distante sette chilometri da Cabras, s'imbrusciadura è rara. Così nel centro di Santa Giusta, dove è più usato, come terapia contro s'azzicchidu, s'affumentu, il suffumigio - ma anche is vangeus, lettura del vangelo fatta da un prete.
Nei paesi che costeggiano gli stagni e il Sinis di Cabras, Riòla, Nurachi, e Donigala, s'imbrusciadura è ancora diffusa per il 30-40 per cento della popolazione, prevalentemente tra i contadini e i pastori.
Uscendo da questi paesi verso l'interno dell'Isola si nota la completa assenza di questo singolare rito terapeutico.


CAPITOLO SESTO
CHIESA E STREGONERIA - Cronache del 1968
Guaritori ed esorcisti con l'imprimatur


1 - Vendesi posto in Paradiso

A Terralba, questi giorni scorsi, i carabinieri hanno denunciato due donne e un prete che hanno raggirato una vecchia benestante sottraendole la casa d'abitazione del valore di dieci milioni. Uno dei tanti fatti di cronaca… Quante truffe, quanti raggiri, quante circonvenzioni a opera di religiosi passano sotto silenzio? Fino a che punto, ancora oggi, si fa confusione tra religione e stregoneria?
Ci sono società, come la nostra, basate sul privilegio medievale di caste sacerdotali, militari e politiche… L'arte dello sfruttamento della miseria, insieme all'arte della circonvenzione della sprovvedutezza si diffondono corruttori. Anche la religiosità - esigenza radicata in ogni umana creatura - viene strumentalizzata per fini lucrosi e turpi. La paura umana della morte, la speranza di una nuova vita immortale, il bisogno di trascendere da una realtà di brutture e di inganni, le sofferenze di malati, di affamati, di nevrotici - che dovrebbero spingere l'uomo all'amore del Vangelo di Cristo, alla giustizia della dottrina socialista - spingono canaglie senza scrupoli ad acuire la furbizia del profitto.
A Terralba, un prete cattolico ha speculato su due aspetti sacri nella vita umana: la vecchiaia e la fede nella giustizia. La vecchia derubata ha 85 anni. E' religiosa. Attende il meritato riposo, il giusto premio degli onesti, dei poveri di spirito. Il prete si recava spesso, con le due sue complici, in casa della vecchia. Si riunivano a pregare. E il prete, durante le preghiere, compiva riti religiosi, benedicendo la vecchia, per garantirle, con il suo mandato divino di legare e di sciogliere, un posticino in Paradiso. Un posticino salato, per una vecchia di un paese povero come Terralba: dieci milioni, la casa e il cortile…
C'é un aspetto della vita della nostra gente che è considerato ancora un tabù: la religiosità. Della religiosità si conoscono soltanto aspetti stereotipi, quali ci vengono illustrati dai catechismi con l'imprimatur delle curie, e aspetti folcloristici descritti dalla etnologia colonialista. Oggi, affrontare il tema della religiosità fuori dagli schemi tradizionali è ancora non facile: i tartufi parrocchiali - gli stessi che raggirano vecchi e irretiscono donne isteriche - dichiarano scandalizzati il vilipendio alla religione di stato. Né c'è da fare affidamento sul laicismo ufficiale - per intenderci quello rappresentato dal marxismo dialogante e dal liberalismo massone e baciapile - che gioca sull'equivoco della religione fatto personale epperciò materia privata, confondendo la religiosità fatto sociale epperciò materia pubblica.
E' soprattutto dagli aspetti della religiosità di un popolo che si possono trarre valutazioni sul suo livello culturale e civile. E non è la mancanza di religiosità che fa civile un popolo.


2 - Quando c'è la vocazione

Gode fama di grande guaritore un sacerdote di fede ortodossa. Al quale il braccio secolare della chiesa cattolica non può vietare l'esercizio delle sue funzioni perché egli ha legale licenza. Il Nostro ha chiarissime virtù sacerdotali. Basta scorrere il suo curriculum vitae.
Fin dalla tenera età fu attratto dal fascino degli arredi sacri, dal mistero delle funzioni religiose. Seguì la carriera di sacrista in una basilica romanica di questa zona. Veniva da lontano, e per il suo fare umile e dimesso la gente lo aveva soprannominato su ghioghittu de sant'Antoni, il giullare di sant'Antonio. Alcune guarigioni cominciò ad operarle proprio in quel periodo: spaventi e malocchi infantili: un guaritore pediatra.
Un'attività che gli valse - si dice - un'accusa di corruzione di minorenni. Da qui una più profonda crisi mistica sfociata in una clamorosa conversione alla chiesa ortodossa.
Forse il suo sogno recondito era di poter tornare da messia in quel paese da cui era stato cacciato come sacrista. Se non che i sogni hanno da fare i conti con la realtà: in questo caso con il vicino vescovado che non lascia spazi vuoti a un concorrente di santa romana chiesa - indipendentemente dalle virtù terapeutiche che un sacerdote può possedere.
Comunque, un vuoto fu rilevato e subito occupato in una comunità periferica - instabile e insofferente sotto molti aspetti, dove dalle barricate popolari per ottenere l'autonomia amministrativa sono sorti umori eretici. Fermatosi in casa delle sorelle Z. R. - due vecchie ben presto convertite alla nuova religione - il missionario fondò la sua chiesa. Morta una delle sorelle, la seconda lasciò tutti i suoi beni alla nuova chiesa. Oltre trenta famiglie, chi per far dispetto al parroco e chi attratto dalle virtù sacerdotali del missionario, abbracciarono l'eresia, che in questo caso si chiama ortodossia. I n quello storico periodo di zelo neofita era in voga lo slogan "O Roma o Costantinopoli!"
Oggi, gli eretici ortodossi hanno il loro posticino riservato in cimitero; possiedono una vasta area su cui intendono edificare una basilica; vantano inoltre molte più grazie ricevute di quanto non possano i cattolici. Il martedì, in particolare, è il giorno in cui si ricevono le grazie. In treno e in pullman o con mezzi propri, si snoda un corteo eterogeneo di fedeli piovuti da ogni dove, per ottenere grazie e guarigioni. Non pochi sono fanciulle affatturate, zitelle in cerca di marito, sposi o amanti dalle ridotte capacità amatorie.


3 - Impotenza e bicarbonato

Un male assai diffuso - e per il quale la gente si rivolge ai sacerdoti, anziché al medico - è l'impotenza. Segue la verginità forzata, ovvero il mal della zitella. A *** paese del Nuorese, un sacerdote giurisdavidico si è specializzato nella cura, appunto, dell'impotenza e del mal della zitella. Si tratta del sacerdote Giovanni Casula, il quale per una delle sue prestazioni è finito in tribunale sotto l'accusa di truffa. Ha chiesto una somma eccessiva: pare oltre trecentomila lire, per officiare il rito.
Una sera si presentò a lui una zitella trentacinquenne, pregandolo di fornirle un elisir in grado di accalappiare un marito. Possibilmente giovane e belloccio. Il buon prete le consegnò una porzione di volgare bicarbonato di sodio, previo sciorinamento di rituali magici brebus.
La zitella, in virtù del magico bicarbonato, trovò marito - un sessantacinquenne, un po' malandato, ma pur sempre un marito. Al quale propinò diverse dosi della miracolosa polverina, con l'intento di virilizzarlo (evidentemente una medicina tuttofare, per la credulità). Ma stavolta la polverina non funzionò. Il vecchio non fu in grado di consumare il matrimonio, quantunque la volontà non gli mancasse.
La ex zitella, delusa, cominciò a pensare che, forse, la polverina utile per acchiappare mariti agisse al contrario dopo le nozze, che cioè debilitasse la virilità. Tornò quindi dal prete giurisdavidico Casula, il quale ascoltò pazientemente il nuovo caso. Niente paura - disse. E fornì la donna di uno speciale terriccio da spargere sulle lenzuola del talamo nuziale. Il vecchio sposo avrebbe ballato come un satiro.
A una settimana di distanza, la donna tornò ancora. Il terriccio aveva fallito. Lo sposo non ce la faceva proprio. Certamente abbisognava di un trattamento più forte. Il prete prese gli attrezzi del mestiere e si recò di persona sul luogo. Fece disporre gli sposi ancora novelli sul talamo, e osservandoli ristette in profonda meditazione. "Forze occulte stanno preparando a vostro danno terribili mali!" - borbottò ieratico. E tratti dalla borsa tre candelabri li depose sopra il letto e li accese; indi prese tre grossi libri sacri e li situò nei punti chiave tra i candelabri. Infine posò la sacra stola sul capo dello sposo, esorcizzando i demoni dell'impotenza. Demoni terribili davvero se, nonostante tutto, rimasero abbarbicati ai lombi dell'infelice vecchio. Il quale ha finito per denunciare il prete d'essere lui la causa del male.


4 - L'esorcista

Un altro sacerdote, di Iglesias, si sposta periodicamente nei paesi della zona per operare guarigioni. Si è specializzato in vergini isteriche - quei soggetti cui allo sfogo dei tradizionali brufoletti si aggiunge irrequietezza psichica sfociante in crisi mistiche. Ma dato che il nostro prete predilige compagnie particolari, egli cura soltanto le fanciulle che hanno fratelli piacenti.
Nell'agiografia del sant'uomo, si narra che egli sia stato chiamato in un certo paese per un caso urgente. Una diciassettenne veniva perseguitata da un demonio concupiscente che non le dava requie. Durante la notte, il demone aveva la sfacciataggine di trasformarsi in un marcantonio e di infilarsi sotto le sue lenzuola. La poveretta doveva soggiacere contro voglia alle turpitudini del demone, e questo la prostrava tanto da toglierle ogni forza per accudire durante il giorno alle faccende domestiche. Un fenomeno che, oltre ad essere immorale, era negativo per l'economia familiare.
Il sacerdote - si narra - giunse nel tardo pomeriggio, accolto con tutti gli onori dalla famiglia. Egli si accinse subito all'opera visitando uno per uno i componenti. A esame effettuato, disse: "Qui, miei cari, il demonio non ha invasato il corpo della ragazza, ma del suo fratello. E' lui che bisogna esorcizzare. Sarà una faccenda difficile e lunga. Ma con l'aiuto del signore e dei santi apostoli Pietro e Paolo ce la faremo. Intanto lasciatemi solo con il ragazzo, in camera sua, non prima di averla fornita delle cibarie occorrenti per almeno una settimana, dato che il mio compito potrebbe prolungarsi per tanti giorni."
Così fu fatto. Per cinque lunghi giorni il guaritore lottò contro il demone lascivo che si era impadronito del contadinotto, e alla fine riuscì a sfiancarlo. Di quanto dura dovette essere la tenzone ne faceva testimonianza il volto sofferto del sacerdote, dagli occhi fondi cerchiati. Il ragazzo appariva completamente vuotato e ripulito da ogni demoniaca possessione. E per un mese buono la fanciulla dormì sonni tranquilli.
Il demone concupiscente - si narra in fine - riprese a molestare la fanciulla allo scadere del mese. Nuova chiamata al celebre guaritore. Nuovo esorcismo e nuova severa punizione al demone del ragazzo.


5 - Le nuove chiese

La caduta del fascismo, l'avvento della democrazia, la presenza del dollaro e altri fattori che in questo scritto non è il caso di esporre, hanno visto un fiorire di nuove confessioni - purtroppo soffocate dalla radicatissima vegetazione cattolica.
Un fenomeno positivo se fosse valso a rompere un monopolio, che invece si è articolato e sviluppato seguendo le orme della tradizione cattolica: si è fatta leva sulla miseria, sull'ignoranza e sulla superstizione per fondare nuove chiese. Tanto che in quei nostri paesi dove sono presenti diverse confessioni, si dice che un prete vale l'altro.
Un sacerdote che vorrebbe essere al di sopra delle parti sostiene: "La gente crede nelle virtù terapeutiche della preghiera, che nella religiosità dello sprovveduto assume i caratteri della formula magica. E crede pure che santi e arredi sacri abbiano di per se stessi il potere di operare guarigioni. Non si tratta precisamente di superstizione, ma di religiosità allo stato infantile."
Una tesi poco convincente. E non perché la Chiesa accetta, a livello di comunità, tali credenze popolari, ma perché ci specula, per scopi spesso turpi, e perché su tale presunto potere di sciogliere e di legare fonda in realtà il suo dominio temporale.
Laddove esistono confessioni religiose in concorrenza tra loro, la lotta per l'egemonia non si svolge sul confronto e sul dibattito delle "verità" teologiche, sulla "bontà" della dottrina. Come già ai tempi della Patristica, nei meandri della politica, è sulla base di presunte capacità miracolistiche che si cerca il consenso e si ottiene la supremazia. Resta attuale il celebre epigramma di Luciano, poeta satirico del II secolo: "Quando una prestigiatore pagano si fa cristiano è sicuro di far carriera."
(In "Sassari Sera" 1-5 Settembre 1968)


IL FENOMENO AUTORIZZATO

Un volantino - che circola insieme ad altri illustranti l'attuale difficile congiuntura economica, le benemerenze della Dante Alighieri, l'efficacia del vaccino Sabin - avverte che "Dopo un lungo giro in Italia si è stabilito con successo a Marrubiu il fenomeno, il più grande sapiente Cavaliere dell'Accademia di San Giorgio di Antiochia, Direttore Regionale dell'Accademia dell'Alta Cultura… studioso di Scienze Occulte e Psicologia Applicata; Apostolo dello Spirito, Premiato con Medaglia d'Oro per Alti Meriti Scientifici."
Il fenomeno si è stabilito a Marrubiu per mettere a disposizione di tutti la sua "Scienza Occulta" e la sua "Psicologia Applicata", in cambio di sole cinquecento lire a seduta.
Quali problemi e quali drammi sia in grado di risolvere e di appianare, si apprende leggendo il manifesto: "Spiega scientificamente qualsiasi notizia di parenti vicini e lontani, matrimoni, affari di commercio. Dà tutte le spiegazioni del vostro passato, presente e futuro, malattie, prigionieri, ecc. V i spiegherà quale dovrà essere il compagno della vostra vita per evitare vedovanze o separazioni, vi dirà quali sono i mesi propizi per non sbagliare i vostri affari; quale sia il vostro destino nella vita terrena, l'anno propizio per i vostri studi, se sarete promossi. Anche senza essere presente la persona, spiega il suo destino e i mali che lo affliggono."
Non c'è poi troppo da meravigliarsi di tanta capacità divinatoria in un "Direttore" sia pure solo "Regionale" dell'Accademia dell'Alta Cultura, eccetera eccetera. La meraviglia è che costui, il fenomeno, sia regolarmente autorizzato dalla Questura. Questa regolare autorizzazione può significare soltanto due cose: o che alla Questura si autorizzano le truffe autorizzate ai danni della gente sprovveduta; oppure che nello stesso luogo si crede, come può credere l'ultima delle pinzochere, alle fenomenali capacità del "Direttore Regionale dell'Accademia dell'Alta Cultura".
(Costume di Amsicora in "Sardegna Oggi" n. 49 -1964)


CAPITOLO SETTIMO
SA TUVA - LA QUERCIA CAVA


LA QUERCIA SACRA

"La sacra scrittura e la storia antica profana ci dicono che i patriarchi israeliti, cananei, e della maggior parte dei popoli orientali dell'antichità, professavano una grande venerazione per le querce. Rachele fu sotterrata ai piedi d'una quercia chiamata dalla sua nutrice la quercia dei pianti… L'angelo che apparve a Gedeone si sedette su d'una quercia… Del pari su una quercia Giosuè piantò la testimonianza, cioè il suo altare…
Nel citare questi passi di differenti epoche, rilevo che la quercia era venerata fin dall'epoca più remota, come lo fu tra i Druidi e presso le antiche popolazioni scandinave e celtiche della Germania, della Bretagna, dei Galli e degli Erinni. Il rispetto superstizioso dato a quest'albero, considerato giustamente, come il più venerando e il più bello del regno vegetale si è perpetuato in Sardegna fino ai giorni nostri. La quercia non è venerata dai Sardi come una specie di divinità occulta, ma è istintivamente considerata come un essere benefico, un testimone augusto delle più importanti azioni della loro vita, che esercita una influenza misteriosa su tutto ciò che avviene alla sua ombra. Sarei anzi maggiormente nel vero, dicendo che i Sardi si rendono conto del sentimento che provano per la quercia, e in questo, come in tutte le loro usanze nazionali, subiscono unicamente l'influenza delle tradizioni."
(Tratto da Emanuele Domenech - Pastori e Banditi - 1867)


LA GIUSTIZIA ALL'OMBRA DELLA QUERCIA

"Sotto la quercia piantata di faccia alla chiesa o in una piazza del villaggio, i Sardi stipulano i loro contratti, progettano i loro matrimoni, stabiliscono i prezzi della loro mercanzia, discutono i loro interessi e rendono la giustizia alla quale la magistratura non assiste. Una quercia, l'aria aperta, la vista dei campi, delle montagne, e il cielo turchino, valgono pur la sala lugubre d'un tribunale, ornata di figure ridicole o malvagie, degli abiti neri dei giudici, degli stivaloni dei gendarmi, dei banchi sudici, e piena d'una atmosfera nauseante.
Quando si tratta di un delitto capitale, la procedura diventa palpitante d'interesse, per il carattere patriarcale che prende. Nella Gallura, quando un uomo muore di morte improvvisa o violenta, i suoi parenti si riuniscono dopo i funerali per cercare il presunto autore dell'assassinio. Una volta accordatisi per designare il colpevole, scelgono due anziani per giudicarlo. I parenti dell'accusato scelgono anch'essi due anziani, i quali si riuniscono agli altri due per istruire il processo.
Dopo essersi accordati, i quattro giudici eletti stabiliscono un giorno per discutere il processo; intimano quindi alle parti interessate di comparire davanti al tribunale, che si tiene sotto una quercia, al levar del sole. I giudici sono digiuni, e non bevono né mangiano finché la sentenza non sia stata pronunciata.
Aperta l'udienza, i due giudici scelti dal parente del defunto dichiarano all'accusato che egli è sospettato d'essere l'autore dell'assassinio. Il più prossimo parente del morto, si leva quindi e formula la sua dichiarazione con queste parole rivolte all'incolpato:
"Sei tu che l'hai ucciso"
"No" risponde il preteso colpevole.
Dopo questa risposta, le due parti sono allontanate dal tribunale e le sole famiglie discutono davanti ai giudici. Ciascuno parla a sua volta e dà, pro o contro la colpabilità, tutte le ragioni, siano pure le più lontane dall'argomento, che possono favorire il successo della causa. Qualunque sia il sesso o l'età dell'avvocato improvvisato, egli non viene mai interrotto dalla parte avversaria.
Questo patrocinio primitivo e naturale ci mostra che tali liti formerebbero in Francia pessimi deputati; giacché da noi, allorché un oratore dice qualche cosa che non piace ai suoi avversari, tutti l'interrompono e parlano contemporaneamente, da gente che conosce poco i modi civili e onesti. Ma i modi patriarcali non sono ancora penetrati nel Corpo legislativo; non c'è dunque da meravigliarsi se i dibattiti della Camera sono più tumultuosi, e se hanno minor dignità di quelli di cui sono testimoni le querce.
Finita l'istruzione e la discussione del processo, i quattro anziani si consultano, richiamano con un fischio l'accusatore e l'accusato, e pronunziano la sentenza pro o contro la colpabilità.
Nel primo caso, la sentenza dichiara che l'accusato è sospettato di aver commesso l'assassinio o per i suoi malefici causato la morte del defunto, e ch'egli ha venti giorni di libertà durante i quali gli si deve l'acqua e il fuoco.
Durante questi venti giorni, nessuno può fargli male. Egli ha diritto al nutrimento e all'ospitalità anche da parte dei nemici, che non gliela rifiutano mai. Finito questo periodo di tempo, se non ha lasciato il villaggio, può essere sicuro di venir ucciso dal primo parente del morto che lo troverà; perciò approfitta di quello spazio di tempo concessogli per salvarsi nelle montagne e mettersi al riparo dai colpi di quelli che su di lui hanno diritto di vita e di morte per la sentenza del tribunale popolare.
Se la sentenza è favorevole all'accusato, l'accusatore gli stringe subito la mano, e le due parti avverse bevono alla salute dell'uno e dell'altro, e si separano più amiche di prima.
La decisione dei quattro anziani è senza appello; essa è accettata da tutti gli aventi causa con un rispetto religioso, e nessuno cerca di sottrarvisi portando il processo dinanzi ai tribunali regolari."
(Tratto da Emanuele Domenech - Pastori e Banditi - 1867)


IL CULTO DEL FUOCO

Sant'Antoni s'eremitanu, l'eremita, viene più comunemente detto Sant'Antoni de su fogu, del fuoco. Nelle descrizioni e raffigurazioni agiografiche e del culto appare come un vegliardo situato sullo sfondo di un deserto, con accanto un porcellino (per alcuni simboleggiante il diavolo). In altre raffigurazioni vi si aggiungono altri animali indigeni, quali il bue, il cavallo, l'asino, la capra e la pecora. Ai suoi piedi vi è un focherello ardente. Tiene in una mano un bastone di ferula.
Nella credenza religiosa, Antonio l'eremita è insieme il protettore degli animali domestici e il mitico personaggio, che come il Prometeo, carpì il fuoco agli dei per farne dono agli uomini.
Nella mitologia cristiana si racconta di un Antonio abate, detto il Grande, nato in Egitto intorno al 250, il quale all'età di vent'anni se ne andò a vivere nel deserto della Tebàide, dove più tardi lo seguirono diversi altri giovani, desiderosi di far vita romita e ascetica. Per ciò gli si attribuisce il merito di essere il padre fondatore del monachesimo, che contribuì non poco a dar prestigio alla Chiesa usandolo come contraltare alla corruzione dell'alto clero.
Si dice che il santo eremita pagasse a caro prezzo la scelta di un'esistenza solitaria e contemplativa: il Demonio lo perseguitò senza soste, ossessionandolo con terribili tentazioni, per lo più di carattere erotico, con apparizioni di fanciulle tentatrici che mettevano - è il caso di dire - a dura prova la sua virilità repressa.
Nelle leggende cristiane relative a questo santo, non c'è uno specifico legame tra lui e il fuoco, se non nella denominazione di "fuoco di Sant'Antonio" o "fuoco sacro", data all'ergotismo cancrenoso, assai diffuso in Europa tra i contadini. La denominazione "fuoco di sant'Antonio" viene anche usata per indicare diverse malattie infettive della pelle.
In Sardegna, singolarmente, il santo è legato al culto del fuoco, a riti e credenze che si perdono nella notte dei tempi. E' evidente che Antonio l'eremita si sovrappone ad altra ben radicata figura mitica, un Prometeo autoctono: colui che rubò il fuoco agli dei avari e malevoli nei confronti dell'uomo.
Una leggenda di cui si conoscono diverse varianti, tutte assai simili nel contenuto, narra che Sant'Antonio venne in Sardegna in tempi remoti e vide la triste condizione in cui versavano i suoi abitanti: intristiti e decimati dal gelo; costretti a cibarsi di cibi crudi per la mancanza di fuoco. Mosso a compassione, il Santo scese nell'inferno, dove c'era abbondanza di fiamme. Con il pretesto di essere intirizzito dal freddo, riuscì a commuovere i diavoli di guardia che lo lasciarono entrare con il porcellino, affinché si sedesse e si scaldasse accanto al fuoco.
A questo punto, con abile sotterfugio, Antonio riuscì a impossessarsi del fuoco: facendo finta di attizzarlo con la punta del suo bastone di ferula, che, come è noto, contiene un midollo infiammabilissimo.
Ritornato sulla terra il Santo agitò il bastone da cui si levò la fiamma, e con esso accese il focolare dell'uomo. La stessa leggenda afferma che egli, nell'agitare la ferula esclamasse: "Fogu fogu po dogna logu! Linna linna po sa Sardinna!" (Fuoco fuoco in ogni luogo! Legna legna per la Sardegna!) Quindi, chiamati a raccolta contadini e pastori, insegnò loro l'uso del midollo della ferula (sa feurra) come esca per accendere il fuoco in campagna. Il che ancora oggi essi fanno: battendo tra loro due pietre focaie (perda sitzia) mandano le scintille sul midollo di ferula che si incendia.
Nella leggenda originaria, il Prometeo autoctono, sostituito dal cristianesimo con il sant'Antonio, dovette rubare il fuoco agli dei, che nella versione cristiana diventano diavoli. Ciò perché Dio, definito padre buono e misericordioso, non avrebbe negato ai suoi figli un così importante elemento di benessere.
Assai diffuso nell'Isola il culto popolare del Santo donatore del fuoco. Il 17 gennaio si registrano quasi dappertutto cerimonie legate all'antico culto del fuoco. Nel mondo pastorale della montagna ha luogo sa tuva, un rito pagano propiziatorio in cui si brucia una quercia cava, detta appunto sa tuva. Nel mondo contadino della pianura, si accende su fogadoni, il falò, in cui si brucia una ingente quantità di legna.


SA TUVA
LA QUERCIA CAVA

Tuvu è ciò che è cavo. Tuvudu si dice di albero o di radice o di frutto che all'interno siano cavi o spugnosi. Sa tuva sta a indicare la quercia cava, che è tale perché è secolare: sacra regina del bosco sardo, protagonista della cerimonia propiziatrice in uso il 17 gennaio, festa di Sant'Antoni de su fogu. Is tuvas indicano anche le cataste di legna che si ammucchia intorno alla quercia cava, a cui verrà dato fuoco.
Il 16 gennaio, giorno della vigilia, il comitato della festa e quanti altri della comunità vogliono concorrere, si recano con i carri in zona boscosa e tagliano a colpi di scure una quercia secolare, che abbia la particolarità di essere cava ma viva, e viene caricata sul primo carro. Sa tuva non può essere abbattuta con altro strumento che la scure. Dietro il primo carro seguono tutti gli altri carichi di legna: ceppi, frascame, cespugli.
Giunti in paese, sa tuva viene scaricata e posta in piedi al centro del piazzale di chiesa, ornata di fiori ed erbe aromatiche, quali rosmarino, lavanda e timo, e frutti di stagione, specialmente arance. Nella sua cavità è stata sistemata l'esca, cui il prete, dopo averla benedetta darà fuoco. Altrove, ad appiccare il fuoco è il presidente del comitato.
In alcuni paesi, dove evidentemente c'è più abbondanza di bosco, is tuvas, le querce cave, possono essere anche più di una, o tre o cinque. In tali casi, si collocano con la più grande al centro, e tutt'intorno a sa tuva o a is tuvas si raccoglie la legna del falò.
Le fiamme di sa tuva ardono per tutta la notte, e durante tutto questo tempo si svolgono alcune cerimonie rituali collettive: la cena, la sfilata del bestiame, i balli e l'accensione dei focolari domestici.
In casa o nel cortile del priore della festa (o presidente del comitato), tradizionalmente un capo-pastore, viene imbandita già dal tramonto una tavolata stracarica di cibarie, carni arrostiste, verdure crude e frutta, salsicce e prosciutto, con abbondanza di vino. E' un continuo via vai dal luogo della festa a questa imponente tavolata, dove ci si ferma giusto il tempo per rifocillarsi e riprendere posto intorno al falò.
Altro momento di rilievo è la sfilata degli animali da lavoro e da cortile, rappresentati da esemplari di pregio, perché il Santo (o sa tuva?) li preservi dal freddo e dalle pestilenze.
I balli, che si aprono appena dopo il tramonto, durano finché arde il falò: in pratica tutta la notte. In alcuni paesi si fa un ballo particolare, detto su bicchiri, simile alla danza che i sacerdoti fenici facevano davanti al dio Baal.
La mattina del giorno dopo si usa accendere il fuoco di casa utilizzando le braci del falò di Sant'Antonio. Alcuni studiosi di folclore hanno voluto trovare in questo gesto non pochi fantasiosi significati. In verità è verosimile che le donne di casa, almeno per quel giorno, trovino comodo utilizzare per il proprio focolare un fuoco già acceso e di cui c'è abbondanza. Tanto è vero che non poca gente della comunità, come io stesso ho potuto constatare, per maggiore comodità si portava in piazza la carne o il pesce e se li arrostivano alle braci residue dell'imponente falò.
Vorrei aggiungere che è proprio degli intellettuali alienati, avulsi dal concreto, trovare significati reconditi, profondi e ancestrali, nelle consuetudini del popolo, che sono invece semplicemente espressioni di una logica pratica, di esigenze materiali.
La cerimonia di sa tuva, nelle prime sue fasi, del taglio della legna e di preparazione del falò e della accensione, è strettamente riservata ai maschi; mentre successivamente vede la partecipazione anche delle femmine e dei piccoli e diventa sempre più chiaramente una manifestazione orgiastica, una occasione di festa in una giornata del mese più rigido dell'inverno: stare attorno al fuoco per scaldarsi, mangiare, danzare e divertirsi insieme.


SU FOGADONI
IL FALÒ

Riprendendosi l'un l'altro, gli studiosi di folclore sardo associano l'accensione di falò ai
festeggiamenti per Sant'Antonio l'eremita. In verità, il fuoco è strettamente legato a ogni manifestazione di festa collettiva che si tenga all'aperto, specialmente, ma non soltanto, d'inverno. Nelle feste il fuoco è sempre presente nelle sue molteplici utilizzazioni, pratiche e simboliche: sia come residuo di antichi riti del culto del fuoco, simbolo di vita e di metamorfosi; sia pure per scaldare, rallegrare e stimolare gli animi all'intimità, ai balli; sia infine più prosaicamente per cuocere i cibi tradizionali, immancabili in tali occasioni: il porchetto, il capretto o l'agnello, i muggini e le anguille.
Praticamente in tutti i paesi a economica agricola - esclusi alcuni tanto poveri di legna da ardere da non potersi permettere il "lusso" di accendere un falò - il Sant'Antonio e altri santi con il San Sebastiano di Tuìli vengono commemorati con su fogadoni - dove è assente sa tuva, la quercia cava.
Imponente il falò che veniva allestito a Santa Giusta di Oristano, che ci viene descritto da una vecchia testimone.

"In paese su fogadoni si accendeva la sera della vigilia nella piazza della chiesa. Dalla mattina presto partivano tutti quanti a fare legna, chi con un carro, chi con molti carri e chi a piedi, secondo i mezzi che ciascuno possedeva. Era già una grande festa vedere rientrare tutti gli uomini carichi di legna di ogni specie. Maggiormente si usava l'alloro, che serviva anche per abbellire le vie del paese, con i rami a festoni. Ma c'era anche grande quantità di lentischio, leccio, corbezzolo, fronde di ginepro, ceppi di vecchi alberi che venivano lasciati in campagna per l'occasione.
All'imbrunire si dava fuoco alla catasta in un coro di grida di augurio, con la folla messa in cerchio. Quasi subito i giovani formavano dei gruppi che aprivano i balli al suono de is launeddas e de is pipaious. La gente portava carradeddas de binu, carni macellate e pesci e anguille dello stagno, specialmente bidimbua e fillatrota e si mettevano lì ai margini di su fogadoni ad arrostire sulle braci, e tutti mangiavano, cantavano, bevevano e ballavano per tutta la notte…
Il falò era così grande che il suo fuoco durava anche sette otto giorni, e tutto il paese in quei giorni lo usava, sia portandone a casa a bracieri e sia usandolo direttamente sul posto, fin quando ce n'era."

(Testimonianza di Anna C. D. di 85 anni. Santa Giusta 1983)

"Il giorno di Sant'Antonio de su fogu tutto il vicinato era in subbuglio. Si cominciava dalla mattina presto, i ragazzi più grandi andavano al monte a portare fascine di legna e noi più piccoli passavamo di casa in casa a raccogliere legna, noci castagne, fave e ceci da arrostire sulle braci. Tutti contribuivano generosamente.
La legna raccolta veniva ammucchiata al centro dell'incrocio tra due strade: prima la legna grossa, i ceppi e le radici; poi tutto attorno le fascine di lentischio, di corbezzolo e per ultime quelle di cisto. A un lato della strada, sopra un tavolo venivano disposte le corbule di giunco con le noci, le castagne e i legumi da arrostire.
Subito dopo pranzo ci si riuniva tutti in cerchio intorno al mucchio di legna; i grandi venivano e si complimentavano con noi per la quantità di legna raccolta, pronosticando il tempo della sua durata.
Devo dire che nel mio paese, che è grande, si faceva un falò per ogni rione. L'usanza era stata però abbandonata dai grandi e la mantenevamo viva noi giovani e ragazzi. Questo fino agli anni Cinquanta.
Nel pomeriggio davamo fuoco alla legna, appiccando le fiamme in vari punti in modo da avere di colpo una grande vampata. Il cerchio dei presenti si allargava contemporaneamente al diffondersi del calore del rogo, tra le grida festose dei piccoli e l'approvazione dei grandi.
Finita la fiammata delle fascine, lentamente bruciavano i ceppi, e noi iniziavamo a raccogliere le braci ai margini per arrostire le castagne, le fave, i ceci. La gente, portati gli scanni e gli sgabelli da casa, si sedevano al caldo tutto attorno. Alcuni gruppi di giovani attaccavano a cantare; altri restavano a chiacchierare fino a notte tarda. Vi erano anche donne che, sul tardi, venivano con i bracieri e se li riportavano a casa pieni di fuoco.
Ricordo che era considerato sacrilegio spegnere quel fuoco: doveva essere lasciato a consumarsi da solo. A pensarci bene, non solo questo fuoco era considerato sacro, ma ogni fuoco in genere, che non veniva mai spento nelle nostre case. Mia nonna prima ancora di insegnarci ad accendere il fuoco, ci insegnò a ricoprire con cura i resti del fuoco della sera, affinché li ritrovassimo vivi l'indomani mattina, e rinnovare la fiamma aggiungendo nuova legna."
(Testimonianza di L. M. di 35 anni - Guspini 1980)


CAPITOLO OTTAVO
TIALUS E DIMONIUS - DIAVOLI E DEMONI


Il mondo del sardo, apparentemente spoglio e deserto, si popola di magiche creature, le quali appaiono e si manifestano di volta in volta, alla luce del sole o nel buio della notte, in sembianze umane o animalesche o più spesso ambigue e mostruose. Tali magiche creature svelano nell'uomo il bene e il male, convivono e partecipano, dall'inizio alla fine, in ogni momento, dell'umana esistenza - o come malefiche portatrici di traumi, di malattie e di morte o come nunzie di pericoli e di sciagure incombenti o come benefiche soccorritrici, nel porgere rimedi e cure, nel favorire il buon andamento del lavoro, nel ritrovare oggetti perduti, nello svelare tesori nascosti.
Le fantastiche creature della mitologia dei Sardi si possono distinguere in diurne e notturne, secondo che vivano e si mostrino all'uomo durante le ore del giorno o della notte. Sono di tipo diurno gli spiriti simboleggianti la vita, espressione di forze creative della natura, misteriosi abitatori delle acque, dei boschi e dei monti, che hanno la loro apparente dimora in crepacci, in anfratti, in grotte, nei pozzi e nei garroppus (gorghi d'acqua) e nelle querce. Al tipo notturno appartengono gli spiriti demoniaci in qualche modo legati all'idea del sonno e della morte, esseri tenebrosi scaturiti nella metamorfosi dell'umano nel bestiale, e in specie is tiaulus, i diavoli, o più propriamente is dimonius, i demoni, emanazione di Luzziferru, Lucìfero, il Diavolo per antonomasia, il Principe delle tenebre.

Su tiaulu, il diavolo. E' il signore del male. Vive nell'inferno, dal quale non può uscire se non mediante sue emanazioni che prendono forme mostruose, per lo più di animali compositi, cornuti e caudati (caprone, bue, cervo, gallo, gatto, scarabeo, serpente, pipistrello, eccetera). Dal canto suo, neppure Dio, il signore del bene, può lasciare il proprio regno se non con emanazioni di sé, assai riduttive per altro, mostrandosi all'uomo nelle sembianze di angelo o di vecchio o di fanciullo, o di colomba, e nelle specie di "fiamma che brucia senza fuoco".
Su tiaulu, il diavolo, vive dunque in s'inferru, l'inferno, il luogo di punizione riservato alle animas malas, anime cattive. Is animas cundennadas, le anime condannate, sono dette le anime che espiano i loro peccati nel purgatorio - delle quali si dirà più avanti. Per i Sardi, s'inferru, l'inferno, più che un grande braciere, più che la classica bolgia, è una grande fossa arida e senza vita piena di pibaras e colorus, vipere e bisce, dove i dannati vengono tormentati da is tiaulus, i diavoli, con fiocine e forconi, dentro cardaxus de pixi buddendi, caldaie di pece bollente.
Nella credenza popolare, le anime dei dannati raggiungono s'inferru passando per l'imboccatura di misteriose grotte. Ve ne sono alcune, naturalmente inesplorate, che sono dette appunto bucca de s'inferru, bocca dell'inferno, e non è prudente avventurarvisi.

Is tiaulus, i diavoli, sono le creature infernali che specialmente durante la notte emergono sulla terra, confondendosi con uomini, animali e piante. Talvolta sono presenti anche come umbras (ombre, fantasmi), forme senza corpo. Prendono nomi diversi secondo il compito che svolgono, e possono assumere forme e sembianze diverse. Abbiamo così numerosi dimonius e dimonieddus, demoni e demonietti, su nemigu, il nemico, coa longa, coda lunga e coitedda, codina, s'ammuntadori, l'incubo, e così via.
Su dimoniu o su nemigu, il demonio o il nemico, prende per lo più forme animalesche composite e strane: corna di caprone, piedi d'asino, occhi di gatto, bargigli di gallo. Quasi sempre gli spuntano da dietro le spalle due piccole ciminiere fumanti. Oltre che nelle forme proprie di bue, di cane, di gatto, di gallo su dimoniu si mostra agli uomini, specie di notte, sotto le ingannevoli sembianze di frati e suore, di bambini smarriti e piangenti o di fanciulle bisognose di conforto dall'apparenza verginale. Talvolta lo si vede correre come un cavallo nero o infilarsi nella macchia come cinghiale dalle zanne mostruose. Non di rado, il demonio detto coitedda (codina), si diverte a fare dispetti, nascondendo gli aghi o le forbici o le chiavi alla massaia, la quale fa gli scongiuri esclamando: "Toh, maladittu Coitedda!" (Che tu sia maledetto Codina!). Lo stesso coitedda, durante la notte, diventa il lussurioso tentatore: assunte ingannevoli sembianze di giovane aitante, appare nel sogno alle fanciulle e alle vedovelle, tentando innominabili approcci.
L'esorcismo più potente, e più diffuso, per difendersi dalle apparizioni diaboliche è il segno della croce. Le fanciulle dormono sogni più casti e più tranquilli se portano appesa al collo una piccola croce d'oro o d'argento. Se l'apparizione (in forma umana o animale) esorcizzata con il segno della croce scompare trasformandosi in un cuaddu de fogu (in una vampata), si è certi che si trattava di un demonio. Nello stesso modo scompaiono is umbras o pubas, le ombre o fantasmi, esorcizzati con il segno della croce o con altri potenti scongiuri, quali l'acqua santa o appositi amuleti costituiti da scritti o reliquie di santi o sostanze benedette. Giovano anche alcune erbe, come la ruta, e certe pietre, come l'ossidiana. Così pure is brebus, le parole magiche, o versetti recitati come scongiuro.
Assai diffusa la credenza che is dimonius si nascondono dietro gli specchi (si dice che essi amino specchiarsi); da qui l'avvertimento delle madri alle fanciulle, di evitare di starsene a rimirarsi davanti allo specchio. Altro luogo, affine al precedente, dove is dimonius sono soliti apparire, è sa funtana, la fonte, e in generale gli specchi d'acqua. Chi si avvicina a una fonte per bere, deve prima recitare gli scongiuri per esorcizzare il maligno in agguato.

Sa jana è termine non traducibile se non come una specie di fata tipica della Sardegna, da non confondersi con sa fada, la fata propriamente detta. Secondo alcuni il termine jana deriverebbe dal nome della divinità greco-romana Diana; secondo altri da nana. Is gianas (o janas) rappresentano fantastiche creature femminili, di grandezza e aspetto diversi, abitanti di quelle grotte che prendono il nome di domus de janas, case delle Jane. Tuttavia, esse abitano anche pozzi e gallerie abbandonate, nuraghi e antichi ruderi.
Is gianas vengono variamente descritte: ve ne sono di piccolissime, vere e proprie donnine miniaturizzate, e di gigantesche, di grazioso o di orribile aspetto, di carattere cattivo, irascibili, e di buone, dolci e affettuose. Se ne raffigurano simili a streghe e a fate, simili a maghe e sirene. Le gianas buone danno buoni consigli alle donne e talvolta si prestano a anche ad aiutare nei lavori domestici, specie nella lavorazione del pane. Le cattive arrivano anche a succhiare il sangue dei bimbi che dormono incustoditi o non protetti da sacri amuleti. Il bimbo è il patrimonio più prezioso della famiglia, ed è anche l'oggetto più vulnerabile agli attacchi demoniaci: si spiega così il dispiegamento attorno alla sua culla di amuleti e talismani e di sacre reliquie o di oggetti benedetti - ramoscelli d'olivo e di palma, pietre dure e coralli e cornetti e manufiche pendenti al polso o al collo da nastrini verdi, e centomila altri oggetti che hanno il potere di preservare il piccolo dal male.
L'immagine più diffusa che si ha delle gianas è quella di fanciulle bellissime vestite nel tradizionale costume sardo delle feste; ma il loro fascino, la loro grazia non sono mai usati in senso erotico. Al contrario si citano casi di gianas-streghe che usano adescare il maschio: lo sottopongono a incantesimo, si ddu cuaddigant, se lo cavalcano, e gli succhiano il sangue.
Is gianas vengono variamente descritte anche dagli studiosi. Secondo i quali ve ne sarebbe una specie più simile a strega che a fata, dotata di enormi mammelle, che esse si getterebbero dietro le spalle per allattare da tergo i loro piccoli o per non inciampare mentre lavorano. Un'altra specie, assai simile ai vampiri nelle abitudini, si nutrirebbe di sangue umano, alimento a loro necessario per potersi riprodurre.

Sa fada, la fata. Così definisce is fadas, le fate, G. Calvia: "Erano…donne bellissime e ingenue che abitavano le piccole caverne montane. Cambiavan spesso il loro umano aspetto in quello di graziosi animali, ed avean potere e virtù di fatare le persone. Vivean esse negli antichi tempi e sparirono quando la malizia penetrò nel mondo".
Le nostre fadas somigliano dunque alle fate di tutto il mondo, creature fantastiche legate alla realtà di un mondo ideale in cui non esiste cattiveria. Ma la nostra gente è tendenzialmente ottimista, se è vero che crede che is fadas esistono ancora - relegate chissà in quale sotterranea profondità, pronte a riemergere, a ripopolare la terra al primo cenno di amore tra gli uomini.
Is fadas, come tutte le fate, compaiono in numerose leggende - che sembrano più adatte agli adulti che ai fanciulli.
Abitano prevalentemente nelle grotte, di varie dimensioni - dato che, secondo la tradizione, le misure delle fadas sono rapportate all'ampiezza del luogo in cui vivono. Esse amano anche frequentare i boschi, specie a primavera.
Si attribuisce alle fate la diffusione della conoscenza delle tecniche dei lavori donneschi, in particolare il cucito e il ricamo (vedi il detto "avere mani di fata"), la confezione del pane coccoi (di semola) e perfino l'uso del lievito. Esse, dunque, furono le mitiche progenitrici - in senso culturale - della donna-casalinga. Alle fadas, in pratica, vengono attribuite al massimo grado le virtù che dovrebbero essere proprie della fanciulla timorata e della sposa "angelo del focolare". E a questo punto - da parte femminista - si potrebbe sostenere, non senza buone ragioni, che le fate siano state inventate dal maschio nell'intento di definire e istituzionalizzare il ruolo subalterno della donna. Ma c'è una obiezione a questa tesi: per alcuni, is fadas costituiscono una razza di donne sole, capaci di riprodursi per partenogenesi, oppure, sulla linea delle mitiche Amazzoni, nemiche del maschio, costrette all'accoppiamento per riprodursi, eliminando alla nascita l'altro sesso - e ciò costituirebbe memoria di antiche organizzazioni matriarcali. C'è anche da aggiungere che le fadas sono ritenute per tradizione assai suscettibili ai comportamenti "maschilisti": sono numerose le testimonianze della "malasorte" subita da giovani che osarono offendere con parole o con gesti o con tentativi di approccio le verginali creature.
Is fadas, infine, presiedono al destino delle creature nate in terra, e hanno anche poteri divinatori (in questo somiglianti alle mitiche veggenti della mitologia classica, come la Pitzia e la Sibilla).

Mamas e Marias, Mamme e Marie. Le forze arcane della natura, il sole e la luna, le rocce della terra e le fonti d'acqua che da queste scaturiscono, il tuono e i fulmini, il vento e la pioggia, nel loro essere e manifestarsi all'uomo costituiscono la presenza di potenze magiche, sante o demoniache, nel bene e nel male. Potenze magiche che prendono in molti casi l'appellativo di mamas, mamme, e con l'innesto del culto cristiano di Marias, Marie. A me pare che in questi casi il termine mama indichi l'origine profonda del fenomeno che si constata: abbiamo così nei modi di dire popolari sa mama de su sonnu, la madre del sonno, o Colei che concilia il sonno ai mortali; sa mama de su bentu, la madre del vento, o Colei che muove il vento. Abbiamo ancora Maria alluta, Maria accesa, che indica sia la fiamma viva di un fuoco che la vampa del sole di mezzodì; Maria pampori (da pampa = vampa), Maria avvampante, indicante un calore forte afoso, del suolo, del fuoco o del levante estivo; Maria abbranca, Maria ammaliatrice, che attira a sé e ghermisce, indicante baratri o pozzi profondi o gorghi d'acqua.
Si noti anche che nella lingua del popolo si dice mama de caffei, madre del caffè, il fondo della stessa sostanza macinata che resta nella caffettiera. E che in riferimento a qualità del carattere, negative o positive, si dice ses sa mama de sa mandronia, sei la madre della poltronite, per indicare un poltrone; ses sa mama de s'allegria, per indicare persona allegra; o mama susunca, madre dell'avarizia, per indicare l'avaro.
L'appellativo mama, madre o mamma, lo ritroviamo usato anche come suffisso nei nomi di diverse essenze arboree ed erbe che hanno proprietà medicamentose. Per citare due casi assai diffusi, in logudorese mama de chercu, madre della quercia, è detta la sua corteccia, mentre in campidanese mama de axedu (e anche mama agheda nell'Oristanese), cioè "mamma dell'aceto" è detta l'acetosella.
Il mondo della mia infanzia è popolato di Marias. Ogni momento del giorno, dal risveglio alla colazione, dal lavarsi al vestirsi, dal giocare all'eseguire i doveri propri di quell'età, fino a prendere sonno dopo cena e al dormire sereni evitando incubi notturni, era presieduto e regolato da vigili Marias, figure di donne: talvolta giovane e bella, dalle carezze materne eppur conturbanti, tal'altra matura e severa, con i suoi richiami alle regole del buon comportamento. Ricordo Maria lenzoru, Maria lenzuolo, che veniva a rimboccarmi le coperte durante la notte, per tenere caldo il mio sonno invernale e veniva poi di mattina a togliermele di dosso per farmi alzare senza cincischiamenti; Maria pettini, Maria pettine, che interveniva con le sue mani delicate sul pettine per evitare dolorosi strappi ai miei riccioli annodati, rendendo piacevole tale igienica incombenza; e Maria puntaoru, Maria punteruolo (?) (ma forse punta de coloru, punta di biscia), che interveniva davanti ai pasti di cui ero ghiotto per avvertirmi di essere parco, perché se mi fossi riempito troppo sarebbe poi venuta durante la notte a bucarmi la pancia per prendersi lei il di più…

Su carru de nannai, letteralmente il carro del nonno, indica il tuono, quel suo rotolio rimbombante simile al rumore delle ruote ferrate di un carro lanciato a gran carriera su strada selciata. Intendi, su carru de nannai (senti, il carro del nonno), dicono le mamme ai fanciulli quando rimbombano i tuoni, nunzi del prossimo temporale; e allora i piccoli si fanno il segno della croce, spaventati eppur curiosi, attratti da quel misterioso rimbombare tra i lampi, affacciandosi nei loggiati.

Zius, gopais e gomais, zii, compari e comari. Is animas, gli spiriti, sono onnipresenti e sovrintendono a ogni aspetto della vita umana. Essi albergano nelle piante e negli animali, e da essi non di rado l'uomo deve dipendere, e per ingraziarseli li chiama usando l'appellattivo di rispetto, ziu, zio, o gopai, compare (al femminile, zia e gomai).
Singolare è il rapporto che l'uomo di campagna instaura con la volpe, alla quale vengono attribuiti caratteri antropomorfi maschili. E' chiamata con nomi diversi: margiani, mazzone, gradessiu e altri, preceduti dall'appellativo di rispetto ziu o gopai . Con questo animale, il contadino o il pastore effettua un comparatico (detto su santuanni de margiani), onde propiziarselo ed evitare i danni che potrebbe produrre alla vigna o al gregge.
Tale singolare comparatico viene così descritto in alcuni paesi del Campidano: il contadino (o il pastore) prepara un piatto contenente del cibo gradito a ziu margiani, a zio volpe, mangiandone la metà e lasciando l'altra metà nel piatto che porrà in campagna, ai margini della vigna (o dell'ovile). Se il cibo verrà mangiato, e quindi gradito come dono dall'animale, tra questo e l'uomo si sarà instaurato il comparatico - con tutti i doveri reciproci inerenti a tale istituto: gopai margiani non danneggerà gopai messaiu e viceversa. Il contadino lascerà alla volpe scricchillonis, racimoli quando vendemmierà, o se è pastore lascerà qualche residuo di macellazione; la volpe rispetterà la vigna e l'ovile del proprio compare.
Ziu margiani, zio volpe, è animale mitico cui si attribuiscono in massimo grado qualità umane, in particolare l'astuzia. Tante sono le novelle in cui egli, protagonista, riesce sempre a superare ogni difficoltà.
Altro animale cui molto frequentemente vengono attribuiti caratteri antropomorfi è ziu molenti, zio asino: i suoi attributi tipici sono quelli della virilità e dell'intrigo al fine di soddisfare la sua inesauribile libidine. Nel poemetto in lingua campidanese Sa giorronada de Conchiattu, sotto il titolo "Incontro con il centauro sardo" viene burlescamente introdotto l'incontro campestre tra il contadino detto Conchiattu e ziu molenti.
Un'anima che incute un profondo timore è su baboi, detto anche baballotti, marrangoni, maimoni e mammoti. Tali voci indicano un animale mitico, evocato talvolta per spaventare i bambini cattivi: chi non fais a bonu benit mammoti! (Se non fai da bravo viene mammoti!). Con i termini di baboi e baballotti si indicano anche genericamente insetti repellenti: scarafaggi, ragni, tarantole e parassiti ematofagi quali i pidocchi.
Gli appellativi di ziu e gopai sono frequentemente usati non solo per gli animali, ma anche per le piante con le quali l'uomo entra in contatto e crea un rapporto. Se passando vicino a una macchia di rovo qualcuno viene punto dalle sue spine, c'è chi gli dice "Là chi ziu orrù (oppure gopai orrù) pungit! (Guarda che zio rovo (oppure compare rovo) punge!).
Frequente è anche l'attribuzione all'uomo di caratteri ritenuti propri di un animale, come si rileva dai seguenti modi di dire: paris unu pruppu= sembri un polpo (cioè senza carattere): ses che unu cani = sei come un cane (cioè incapace di controllarti); ses siddiu che sirboni = sei chiuso come un cinghiale (cioè immusonito); parrit una egua = sembri una cavalla (cioè si comporta da puttana).

Survile, in logudorese indica una sorta di strega. Secondo alcuni demonologi sa survile (che essi chiamano surbile) sarebbe una donna vampiro, ovvero Dràcula al femminile. Il suo nome deriverebbe dal verbo surbiri = sorbire (sangue, naturalmente), ma anche da surbiai = fischiare, un atto che ha in comune con il succhiare l'atteggiamento delle labbra allungate in avanti "a culo di gallina".
Per fortuna degli abitanti dei Campidani nella loro lingua non esiste il termine survile (né surbile) - il che può far supporre che tale mostruosa creatura ematofaga non funesti con la sua presenza l'area contadina (per altro funestata da una miriade di altre demoniache creature ematofaghe, quali zanzare con o senza plasmodium, comprese le specie dell'habitat governativo).
Secondo G. Calvia (in Esseri meravigliosi e fantastici - 1903) le surviles appartengono ai due sessi e si dovrebbero perciò distinguere in streghe e vampiri. Egli scrive:

"Le surviles sono uomini o donne che nascono con un pezzo di coda d'acciaio, e succhiano il sangue ai lattanti e soffocano i bambini nella culla. Si ungono con un certo olio fatato e pronuncian questa formula: A pili esse e pili in fache, in domo de comare mi che agatte. Fatto e detto ciò cambiano di forma e penetrano nelle case, non rispettando neppure il sangue proprio. Sono molto temute dalle donne che allattano bambini, le quali per scacciarle tengono sotto il guanciale sa pastagna de sas surviles. Io vidi uno di questi amuleti autenticato dal papa e colla scritta Ex praecordiis S. Philippi Neri. Altro rimedio è quello di porre sulla cenere del focolare (foghilaja) un tripode rovesciato, o collocare una falce coi denti rivolti in alto. Se la strega penetra allora nella casa, non potrà più partirsene, senza che la falce o il tripode sian rimessi a posto. (Secondo altri bisogna approntare un recipiente contenente latte vicino alla soglia della porta, così che la survile entrando si accontenti di bere il latte risparmiando di svenare i piccoli - nota del redattore). Alle volte questi vampiri si tramutano in uccelli e si appollaiano sugli alberi. Chi è nato di febbraio ed è il primogenito ha il potere di farli comparire, infilandosi le brache (sas ragas, veste sarda) alla rovescia, e gridando in tono di venditore ambulante: lea ragas, le'. A Monteleone Rocca Doria tramutasi in gatto nero; a Sassari sono chiamati pizoni di la strea."

Su boe muliache o bue mugghiante (muliare = mugghiare) è altra fantastica, e orrorosa, creatura demoniaca che vive quasi esclusivamente nel Nuorese, nel mondo barbaricino. Se ne hanno tracce anche nel Campidano di Oristano, dove la stessa orrenda creatura viene chiamata boi mulliaccas,che si potrebbe tradurre con bue che munge vacche.
Nella credenza popolare su boe muliache, il bue mugghiante, sarebbe il prodotto demoniaco di una misteriosa e penosa metamorfosi dell'umano. Vi sarebbero certi uomini che nelle notti di plenilunio si trasformerebbero in un mostruoso bue mugghiante - dando così vita a un nuovo essere infernale che si aggiungerebbe ai mille altri che dopo il tramonto emergono dagli Inferi popolando le notti. Una presenza che è monito alla gente timorata, affinché al primo calar delle tenebre si rintani entro le mura domestiche, evitando incontri e coinvolgimenti con gli spiriti del male - c'è chi dice che le ronde armate dei carabinieri abbiano il compito di vegliare il sonno dei mortali, proteggendoli dai demoni del crimine e dalla sovversione; ma è, questa, credenza poco diffusa tra la gente sarda.
L'orrendo essere metamorfico detto su boe muliache rappresenta un penoso dramma esistenziale per colui che ne è il soggetto (il termine usato è destinau, destinato) e costituisce un pericolo mortale per la comunità. Colui che sente il suo terrificante mugghio può prendersi spreu, spavento, tanto forte da trascinarlo nella tomba. Pochi sono per fortuna coloro che possono vederlo: anime di innocenti, per lo più, e dotati di particolari protezioni celesti, per cui non ne subiscono danni. A loro si devono le descrizioni, anche particolareggiate, che si hanno di tale "bue mannaro".
Dai racconti che ne fa la gente sembrerebbe che questo "bue mannaro" (a differenza del continentale licantropo) non sia aggressivo, non se ne vada per le notti di plenilunio alla ricerca di vittime da sbranare, ma simile ad anima dannata cerchi la solitudine mugghiando il proprio strazio. Su boe muliache è principalmente nunzio di morte. Le sue fugaci apparizioni e il suo doloroso mugghio sono tristi presagi per tutta la comunità - e non ci sono scongiuri che valgano perché egli non fa che anticipare ciò che è già scritto nel gran libro del destino.

Is panas. Pana (e Partera) indica la partoriente. La credenza popolare vuole che le donne morte di parto possono diventare creature demoniache notturne, dette is panas (le puerpere). Sembrerebbe che queste infelici donne, morte dando alla luce un figlio vivente, vengano condannate da un singolare destino a far le lavandaie, a restare attaccate alle cure di un bimbo dal quale sono state così violentemente e disumanamente staccate. Esse si ritrovano lungo i corsi d'acqua a lavare pannolini da neonato, battendoli con uno stinco di morto.

"Affinché una donna morta durante il parto non diventi lavandaia notturna - scrive G. Calvia - si usa metterle nella bara un ago col filo senza nodo, un pezzo di tela, un par di forbici, un pettine e un ciuffo di capelli del marito. E ciò perché essa abbia una scusa legittima da rispondere alle altre panas, che la inviteranno a recarsi alla vasca per lavar le fasce del lattante. Le panas le diranno: "Comà, a benides?" (Comare, venite?). Ed essa risponderà: "Nono, chi so cosende, nono chi so ispizzende a maridu meu" (No no, che sto cucendo, no no che sto spuntando i capelli a mio marito.)"

Giorgia, cui segue spesso l'attributo di rajosa, radiosa, è il nome di una specifica fata. Da come viene chiamata, Giorgia rajosa fa pensare a una fatina sorridente dagli occhi cerulei e dalla carnagione lattemiele, nonché fornita delle classiche "operose manine di fata". Niente di tutto questo. Giorgia abita in profonde e orride spelonche e nell'aspetto è lercia e simile a una orchessa. Inoltre è malvagia ed è famosa per la sua avarizia.
Secondo alcuni demonologi dell'Ateneo di Cagliari Giorgia sarebbe una fata da classificare nella specie delle gigantesse che costruirono e popolarono i nuraghi. Ad esse in particolare si attribuiscono quelle enormi lunghe mammelle che caratterizzano le fadas zigantes, fate giganti. La nomea di avara, Giorgia se la sarebbe fatta in quanto custode di tesori, nascosti nel profondo delle spelonche o giù nei cunicoli dei nuraghi dove ella è solita abitare, tesori di cui sarebbe gelosissima, privandone i molti poveracci che se li sognano e li cercano nella speranza di migliorare il loro stato.

Sa Giobiana, da Giobia, giovedì, quindi letteralmente "la Giovediana", nel pantheon delle demonesse sarde ha un posto a sé. Come fa intuire il suo nome, ella sovrintende alla giornata di riposo settimanale della massaia, giornata che cade di giovedì. Per sua grazia, in quel giorno, le donne dovrebbero smettere di cucire, filare, rammendare. E se talvolta una povera donna con numerosa prole non potesse astenersi, neppure il giovedì, dal metter mano al cucito o al rammendo, potrebbe accadere che le appaia Sa Giobiana, per aiutarla cortesemente a compiere tali lavori.

S'ammuntadori, letteralmente "il Copritore". E' uno degli incubi che maggiormente ricorre nel sonno degli umani. Prende anche i nomi di carrigadori e carrogonzu. La descrizione che viene fatta di questo demone notturno varia tra le persone che hanno subìto il suo abbraccio soffocante; tutte sono però d'accordo nel dargli sembianze umane di maschio, assai peloso e nerboruto. In quanto maschio, s'ammuntadori appare e insidia prevalentemente le donne (ma, si dice, anche i fanciulli e anche adulti dal sesso incerto): mentre dormono, si avvicina quatto quatto al letto, e posandosi sopra di loro le stringe in un abbraccio che toglie il respiro. Colei che viene visitata da s'Ammuntadori si sveglia di soprassalto con un senso di soffocamento, ansimando, urlando. I familiari, in simili circostanze, pensano subito a s'ammuntadori e ricorrono ai riti terapeutici d'uso. Aspergono il volto della fanciulla (tra le donne sono quelle maggiormente prese di mira) con acqua, meglio se "santa" oppure prendono con il polpastrello dell'indice un po' di saliva dalla propria bocca e le umettano la gola; ancora, la proteggono con amuleti, e se già ne avesse aggiungendone altri di rincalzo; infine recitano appropriati scongiuri. Per maggior precauzione, il giorno dopo, la fanciulla verrà sottoposta a s'affumentu contra s'azzicchidu, il suffumigio magico contro lo spavento.

Su ercu, il cervo mannaro, e sa prummunida, l'asino mannaro, sono come su boe muliache, il bue mannaro, creature demoniache originate da metamorfosi dell'umano, ma di questo meno frequenti. l male oscuro che tramuta l'umano in bestiale colpisce esclusivamente uomini, in età giovanile o media - mai bambini o vecchi.
Tanto su ercu che sa prummunida appaiono prevalentemente di notte, e la loro è sempre una apparizione fugace e strana, come si conviene a essere demoniaco che poco spazio lascia ad esami particolareggiati e approfonditi. Ambedue gli esseri metamorfici sono premonitori di sciagure o di morte per la comunità. C'è chi sostiene che se si riesce ad acchiapparli e a gettarli nell'acqua, riprenderanno la loro originaria forma umana. Nelle favole che i vecchi raccontano solitamente ai piccoli nelle notti d'inverno, ricorrono spesso storie che hanno per protagonisti tali fantastici esseri e uomini coraggiosi che incontratone qualcuno riuscirono a impastoiarlo e legarlo strettamente a un tronco d'albero; e che ritornati nello stesso luogo dopo l'alba, al posto dell'animale-demone ritrovarono un giovane tremante spaurito, ignaro della drammatica metamorfosi subìta.

Is nanus, i nani, sono misteriosi folletti, abitatori di piccole grotte e anfratti. Somigliano agli gnomi delle leggende del Continente, ma a differenza di questi non amano abitare in casette edificate nei boschi e non usano insidiare le fanciulle - neppure in stato di necessità, come nella fiaba di Biancaneve. Is nanus de Sardigna hanno il gravoso compito di custodire scussorgius, tesori di marenghi d'oro, accumulati e nascosti dalle anime nere dei potenti, evitando che finiscano nelle mani bucate dei contadini e dei pastori.

S'orcu, l'orco, nella leggenda popolare ha l'aspetto di un omaccione ispido e peloso, incolto e selvatico, crapulone. Vive dentro caverne in luoghi impervi, accumulando ingenti tesori frutto di rapine. Non è battezzato e si ciba prevalentemente di carne arrosto, privilegiando quella di teneri fanciulli. Suole rapire fanciulle trovate sole nelle campagne, le ammalia e le rende succubi utilizzandole come serve e in amorosi sollazzi. Molte le favole che hanno per protagonisti s'orcu e fanciulli o fanciulle da lui rapiti, che talvolta riescono con l'astuzia a sfuggirgli e a beffarlo. Di uso comune il proverbio "Essiri riccu che s'orcu", Essere ricco come l'orco.

Is gigantis, i giganti, sono una mitica specie di demoni antropomorfici di taglia gigantesca e di forza eccezionale. Laboriosi e pacifici, si attribuisce loro la costruzione dei nuraghi e la messa in opera de is perdas longas, pietre sacre megalitiche indicanti un'area sepolcrale, dette appunto "tombe di giganti". Demoni buoni, vengono descritti nelle leggende come infaticabili trasportatori di enormi macigni e travi in pietra dalla montagna alla pianura, dove edificavano le loro eccezionali abitazioni e le loro misteriose tombe. Usavano come cavalcatura is cuaddus birdis, i cavalli verdi, giganteschi - conformi alla taglia dei loro cavalieri.

Su scutoni e sa cananea sono demoni dalle mostruose sembianze, abitatori di antri e spelonche, che divorano i malcapitati che vanno a finire nei pressi delle loro tane. Su scutoni viene descritto simile a un drago con sette teste: di giorno dorme nella sua tana e di notte esce in cerca di cibo. Sa cananea è simile a un enorme e orribile serpente dai movimenti lenti e goffi. Andai che sa cananea, andare (strascinando) come la cananea, è una invettiva popolare diffusa, un malaugurio a chi ci vuol male.

Animas e spiritus, anime e spiriti. Il mondo specie quello notturno, è invaso da anime e spiriti, che coinvolgono gli umani nel bene e nel male, talvolta fino a modificarne la vita, determinando quindi il destino. Tra le animas si annoverano le seguenti:
Is animas de is pippius no battiaus, le anime dei bambini morti senza ricevere il battesimo, che vagano come folletti nell'aria come in una sorta di limbo: la sorte di "color che son sospesi", non dannati e non eletti, ma restituiti alla natura da cui ebbero origine.
Is animas de su purgadoriu, le anime del purgatorio, che scontano i peccati commessi da vivi recando sopra il capo o sulle spalle pesanti fardelli e cun is pabas tuvas, con le spalle cave, entro cui brucia un fuoco; si mostrano talvolta ai viventi nelle loro mortali sembianze, tristi e doloranti, questuando preghiere che possono abbreviare il periodo della loro penitenza.
Is animas malas o cundennadas, le anime cattive o dannate, di solito appartenenti a ricchi sfruttatori e avari, condannati per legge di contrappasso a custodire tesori che accumularono da vivi e che nascosero per avarizia, tesori di cui non potranno più godere. Li si può talvolta incontrare durante la notte mentre vagano tormentati dal loro destino, con un sigaro acceso in bocca o con una piccola ciminiera fumante, piantata tra le scapole.
Is sizzimurreddus, i pipistrelli, prendono diversi altri nomi: abadepeddi (aladipelle), tiriolupedde, rattapignata, zurrundeddu. Sono incarnazioni proprie di su tialu, del diavolo. Vanno uccisi e bruciati in un rogo acceso all'aperto, in piazza o per strada - dopo recitati i debiti scongiuri.
Animas sono anche i fuochi fatui, le luminescenze mobili che appaiono specie nei cimiteri (prodotte da emanazioni di idrogeno e fosforo). Sono le animas dei defunti, che emergono da sotto la terra e vagano nel mondo dei vivi.
Nulla si ha da temere da is animas bonas, le anime buone, che vigilano e proteggono i viventi che amarono e continuano ad amare, come padri e madri la loro progenie; ma non è facile distinguerle da is animas malas, le anime cattive - perciò sempre, quando si incontra un'anima, è bene farsi il segno della croce e recitare debiti scongiuri: se l'anima così trattata scomparirà in d'unu cuaddu de fogu, in una fiammata, vorrà dire che si trattava di anima mala o intranniada a su mali, anima selvaggia o venduta al demonio.


INDIMONIAUS E SPIRIDAUS
INDEMONIATI E SPIRITATI

In lingua italiana, indemoniato e spiritato sono sinonimi: indicano persona posseduta dal demonio, e per iperbole persona furente e molto agitata. In lingua sarda vi è una sostanziale differenza tra i due termini, indimoniau e spiridau - una differenza che va ricercata nei relativi termini da cui questi aggettivi derivano: dimoniu e spiritu.
Su dimoniu, in qualunque forma o modo si manifesti, è sempre emanazione di su tialu, del diavolo, Signore del male. Indimoniau è dunque colui che è posseduto dal demonio, dal male, e pertanto è "nemico", è pericoloso, perché agisce per volontà del maligno che lo ha invasato e lo domina. Davanti a su indimoniau, anche quando tenti di farsi passare per creatura buona, non resta altro che ricorrere all'esorcista, il quale, con il favore delle opposte f orze del bene, scaccia e allontana il demonio dal corpo in cui si è insidiato. Talvolta l'esorcista ricorre a una sorta di avatar, di passaggio di anima da un corpo a un altro, costringendo il demonio esorcizzato a impiantarsi nel corpo di unu arresi, un animale repellente, scarafaggio o rettile.
Su spiritu, lo spirito, per antonomasia è santu, santo, emanazione di Dio, il supremo bene. Non esistono pertanto spiritus malus. Su spiridau o sa spiridada, l'uomo o la donna che in sé albergano spiriti, hanno poteri positivi con particolari capacità taumaturgiche e divinatorie. Essi ricoprono un ruolo importante e benefico tra gli uomini, e costituiscono una sorta di istituzione, simile a quella degli oracoli nell'antica Grecia. In Sardegna si avevano - e ne sopravvive ancora qualcuna - famose spiridadas, che venivano consultate sia come veggenti che come guaritrici. Assai celebrata nei Campidani sa spiridada de Masullas. Masullas, la località che aveva dato i natali alla spiritata-veggente, era meta di numerosi pellegrini provenienti da ogni parte dell'Isola.


IL DIAVOLO IERI E OGGI

E' opinione diffusa che il diavolo - con tutte le sue fantastiche diavolerie - sia un prodotto dell'oscurantismo e della ignoranza, e che sia destinato a scomparire come nebbia al sole della scienza e della ragione. Di questa opinione è Massimo Gorkij, il quale sosteneva che il "diavolo non esiste" e che "è una invenzione della nostra mente" creata "per giustificare la turpitudine umana". Egli, il diavolo, sarebbe una sorta di capro espiatorio su cui l'umanità scaricherebbe le proprie tensioni, i propri sensi di colpa. Siamo alle soglie del fideismo marxistico nella scienza: con la conoscenza si risolvono le contraddizioni - ovvero il partito esorcizza con il potere della dottrina del materialismo dialettico il demonio-capitalista, che una volta spodestato determina l'avvento del paradiso proletario. A guardar bene le malizie del Signore delle tenebre, non c'è corpo o sostanza in cui il diavolo ami incarnarsi, migliore della scienza - legata come è alla politica, al denaro e al potere; a una scienza che è in definitiva strumento primario di un sistema di oppressione e di sfruttamento, di tale brutalità e ferocia da far dubitare che l'inferno di Lucìfero sia fatto a misura di questo.
Al di là delle estensioni iperboliche del satanico nel campo della politica, è facile constatare che non c'è creatura mitica come il diavolo così intimamente presente nella vita dell'uomo. Neppure Dio, l'eterno antagonista del male, gode di altrettanta presenza, direi di altrettanta popolarità. Mentre Dio - questo vecchio saggio dalla barba bianca che somiglia molto al monarca di un impero a regime assolutistico - appare staccato dalle umane umili vicende quotidiane e tuttavia incombente con la sua spada di giustiziere creando mille paure e mille sensi di colpa; il diavolo, al contrario, che pure incarna il male in assoluto, e nonostante le orribili sembianze cui gli si attribuiscono, riesce più simpatico, è più alla mano, sa farsi umano intrufolandosi nell'umano, stipula contratti e fa baratti, e non di rado - povero diavolo anch'egli - si fa buggerare dai furbi e dai potenti, che lo utilizzano per farsi togliere le castagne dal fuoco. Talvolta il diavolo si fa perfino coinvolgere nelle vicende umane, assumendo il ruolo progressista, del rivoluzionario, del sobillatore di plebi - ingenuo populista sacrificato dallo stesso popolo, quando la repressione si fa insostenibile, e per evitare il peggio davanti alle angeliche armate coorti del Padre Eterno si aprono le cacce alle streghe, ai banditi, ai terroristi.
Il diavolo - in ruoli diversi - è però presente in ogni ceto e livello culturale, in ogni tempo e in ogni luogo. Nell'arte figurativa, nella narrativa e nella poetica compare nelle forme più inusitate, più strane, più fantastiche. Può essere chiunque e ogni cosa. Non soltanto in ciò che è di per sé reputato malvagio e perverso o brutto, ma anche in ciò che è inesplicabile, misterioso - e addirittura in ciò che è povero e meschino. Egli, nell'assumere la natura e l'aspetto del "povero diavolo", del derelitto, dell'oppresso, diviene il sale della terra, il simbolo della redenzione; e non teme la concorrenza del Cristo, di un Dio che si fa uomo e immortale, che si fa rivoluzionario, che si fa crocifiggere, nel tentativo di accattivarsi la fiducia degli uomini, e così salvarli dal peccato e assumerli in paradiso. Un "povero diavolo" è e resta sempre più umano, più miserabile di un "povero Cristo" - che stringi stringi è della razza dei padroni. L'uomo "povero" tende meglio e più facilmente a identificarsi con l'eresia, con la rivolta, che con l'ortodossia, con l'ordine costituito. Ma non dimentichiamo che il diavolo sa assumere egregiamente anche le sembianze del bene e del bello. Per raggiungere i suoi scopi (che in definitiva è di far proseliti) diventa frate o bigotta, recita le preghiere, fa le sue elemosine e dà suggerimenti morali. Egli infine predilige assumere le forme di bellissime conturbanti fanciulle le quali mostrandosi in trasparenti veli a santi vegliardi, riescono a mettere in crisi saggezza e castità faticosamente guadagnate in lustri di ascetismo e penitenza.
Dicevo del diavolo nell'arte. Tutta la letteratura ne è piena. Il diavolo è lo starring più quotato, sia nel dramma che nella commedia. Sono da considerarsi inimitabili le sue interpretazioni nel Faust e nel dottor Jekyll. Per non dire del Satana progressista del Carducci, nella veste di una locomotiva, simbolo della moderna tecnologia. Per il grande Lawrence, Satana si è incarnato in tutto ciò che è l'attuale civiltà: egli ha allargato il suo impero tenebroso e folle abbracciando tutta la terra civilizzata, divenuta "illuminato inferno" (Definizione in cui "illuminato" è riferibile tanto ai "lumi" della ragione - che sarebbe pertanto un attributo diabolico - quanto ai "fuochi" infernali in cui bruciano i dannati.)
Tutta la politica è condotta da personificazioni del diavolo. Sataniche sono le menti degli statisti più famosi, dei condottieri più audaci (talvolta raffiguranti Arcangeli Gabrielli dalla vindice spada di fuoco stretta nel pugno, quando prima o poi perdono la guerra diventano demoni, cavalieri dell'apocalisse). Napoleone viene definito "demone della guerra". Il Bogino, ministro di giustizia piemontese in Sardegna, diventa sinonimo di demonio - oltre che di boia. Hitler era posseduto da Satana in persona - non si spiegherebbe diversamente ciò che ha fatto; così pure Mussolini, seppure considerato diavolo di livello inferiore, diciamo provinciale. Demoni sono detti tutti gli oppositori politici e demoniache le ideologie praticate dalle opposizioni. Tanto più demoniache quanto più danno fastidio al potere. Insomma, sembrerebbe che il diavolo ispiri le menti degli statisti nel governare e nel legiferare; e che insieme ispiri le menti del popolo a infrangere quelle leggi e a ribellarsi a quel governo.
Per questo, non è corretto attribuire al diavolo esclusivamente ruoli negativi e malvagi, appiccicargli l'etichetta di rivoluzionario, cospiratore, assetato di sangue padronale. Dobbiamo riconoscergli la virtù dell'ambivalenza (che manca a Dio, il quale non sa commettere il male neppure a fin di bene), riconoscendogli cioè che egli è l'ispiratore delle leggi che governano il mondo e dell'ordine che lo governa.
Io credo - e mi pare una opinione fondata - che Gorkij avesse torto sostenendo che il diavolo non esiste ma che "esistono soltanto Dio e gli uomini". In verità, per quel che possiamo constatare, Dio si mostra agli uomini tanto poco da far davvero dubitare della sua esistenza; mentre esiste certamente, per quel tanto di pandemonio che fa, il diavolo; ed esistono anche gli uomini, certamente. Anzi, esistono precisamente soltanto gli uomini con tutti i diavoli che hanno in corpo.
A proposito di "avere il diavolo in corpo" - prerogativa che non è soltanto della Brigitte Bardot, dato che di irrefrenabili pruriti è afflitto l'intimo umano - vi sono psicologi (e per quel che li riguarda anche sociologi) i quali sostengono che è dannoso all'equilibrio della personalità attribuire al diavolo tutto ciò che in noi vi è di proibito, di sovversivo, osceno o comunque ritenuto "male", scaricando così sul diavolo responsabilità che invece dovremmo assumerci in proprio. Tirare continuamente in ballo il diavolo, per giustificare i nostri errori (classico l'esempio di Adamo ed Eva, del serpente, con tutto il putiferio connesso), significa non soltanto porci in una situazione di irresponsabilità e di richiesta di tutela (di cui finisce per godere la consorteria al potere assumendosi il ruolo di paladino anti-diavolo), ma alla fin fine condiziona la nostra psiche al fatalismo e all'impotenza.
Per gli psicoanalisti (e per la moderna psichiatria in genere) il diavolo si è ridotto a diventare modello di padre che ciascun uomo si porterebbe dentro di sé. Più precisamente - se non ho capito male - al tipo di padre che ci viene imposto con l'educazione (quale "padre nostro che sei nei cieli", che tutto vede e tutto giudica reprimendo e premiando, identificabile simbolicamente con il "superego") si aggiunge un archetipo di padre, un satanasso scaltro e, come si dice in sardo, intranniau a su mali, connaturato al male, che si può identificare con l'inconscio. Essi spiegano così le presenze demoniache nelle schizofrenie, nelle isterie e nelle nevrosi in generale, promuovendo i loro processi terapeutici con l'analisi, mediante i quali libererebbero il paziente dal diavolo "rivoltando" l'inconscio come una tasca - cioè chiarendo, mettendo in luce i casini profondi della psiche. Processi liberatori dove per gli stregoni moderni "conoscere" è uguale a "esorcizzare".
L'immanenza del diabolico nell'umano è dunque così in un modo o nell'altro suffragata anche dalla scienza attuale. Da quella stessa scienza che ha promosso e promuove la caccia alle streghe, quella che dopo i lumi dei roghi esaltava i lumi della ragione, che a suon di razionali fanfare ha cacciato il diavolo dalla porta per farlo rientrare dalla finestra. E lui, il diavolo, certamente ci si diverte. Come sostiene Baudelaire - cui non mancavano affinità elettive con Satana - quando scrive che "lo scherzo più bello del diavolo è quello di convincerci che non esiste".
Sul Signore delle tenebre sono stati consumati fiumi d'inchiostro, e non presumo di aver nulla di nuovo da aggiungere se non di fornire al lettore qualche spunto per piacevoli riflessioni. Ricorderò così la massiccia presenza del diavolo nel linguaggio corrente, elencando alcune delle più diffuse espressioni in cui ricorre.
"Il povero diavolo", come si è accennato, è il simbolo dell'oppresso, della vittima dell'autoritarismo di ogni genere. E' un "povero diavolo" il suddito tartassato dalle tasse; il soldato angariato dal caporale; il marito angustiato dalla moglie o suocera "megere". "Diavolo tentatore", si riferisce al Gastone-Uomo-di-mondo, raffinato e peccaminoso, che induce in tentazione fanciulle timorate e spesso anche zitelle stagionate. "Diavolo scatenato" è riferibile, pronunciando con differenti tonalità, sia a bambino pestifero che a poliziotto ligio al proprio dovere, e genericamente a persona dal carattere violento. "Fare il diavolo a quattro" è sinonimo di far casino o bordello che dir si voglia. "L'aver un diavolo per capello" è proprio di chi è incazzato nero (dove il "nero", come attributo, ripropone il diavolo). Quando non riusciamo a comprendere lo stato d'animo, gli umori di qualcuno, gli chiediamo poco garbatamente "Che diavolo hai", o "Che diavolo ti è accaduto", o "Che diavolo vuoi", o "se il diavolo ci prende" gli chiediamo "Che diavolo ha fatto", concludendo con un "Ma vai al diavolo" o "Che il diavolo ti porti". Può anche accadere che il nostro prossimo si aspetti da noi qualcosa che non gli arriva, e se ne stia lì, speranzoso, sentendosi invece apostrofare "Ma che diavolo aspetti". Spesso cerchiamo qualcosa senza riuscire a trovarla - magari si tratta degli occhiali che abbiamo spostato sulla fronte o della pipa che abbiamo in bocca. Ci chiediamo allora seccati "Ma dove diavolo si sarà cacciata".
Una situazione di confusione e di chiasso si definisce "pandemonio", radunata di demoni, e anche "confusione del diavolo". Qualunque birbonata o tiro mancino, specie se abilmente congegnata e inaspettata è una "diavoleria". Questo termine indica però qualunque marchingegno di cui ci sfugge il funzionamento, qualunque frase o parola di cui ci sfugge il significato. Per i selvaggi erano "diavolerie" gli archibugi e gli specchietti dei conquistatori; per questi lo erano i totem e i riti religiosi dei selvaggi.
Frequente è la contrapposizione del "diavolo" e "l'acqua santa"; che nei Vangeli si esprime nell'affermazione che non si possono servire insieme "Dio" e "Mammona", ossia il diavolo.
Si può essere diavoli anche in senso atletico, come si stente dire nei commenti alle partite di calcio, in cui i "diavoli della Juve" o i "diavoli rossoblù" hanno segnato un mucchio di reti.
"Casa del diavolo" è un luogo impervio, lontano e difficile da raggiungere. Nonostante i moralisti avvertano che non c'è niente di più facile, specie per le belle donne, arrivare all'inferno.
"Avere il diavolo in corpo" non ha niente a che vedere con le angosciose possessioni e gli esorcisti ieratici di certa letteratura; significa semplicemente avere una voglia matta di fare l'amore.
Altre volte, nonostante ci facciamo il segno della croce al solo nominarlo, dimostriamo di tenere il diavolo in grande considerazione, come quando esclamiamo con ammirazione: "Accidenti, che diavolo d'uomo" - complimento che perfino Andreotti, un timorato di Dio, gradirebbe certamente.
Chi, stando in compagnia, è solito fare il rompiballe, viene normalmente apostrofato perché fa "la parte del diavolo"; anche se siamo sicuri che con tutto il suo diabolismo, non riuscirà mai "ad afferrare il diavolo per le corna" e tanto meno "ad afferrarlo per la coda" - impresa, dicono, impossibile, mentre facile il baciargli il culo.
Per quel che riguarda l'uso che del termine tiaulu o dimoniu viene fatto nella lingua sarda, mi pare di poter affermare che la mia gente lo scomoda principalmente nelle invettive, e tende sempre più a confonderlo, a torto o a ragione, con quelli che stanno al potere.


CAPITOLO NONO
RITI MAGICO-RELIGIOSI


SU ACCAPPIAI E SU SCIOLLIRI
IL LEGARE E LO SCIOGLIERE

Impossibile una elencazione esaustiva de is fatturas, delle fatture, degli atti di magia, bianca o nera, dei gesti di scaramanzia, degli esorcismi, delle tecniche, modi e tempi delle terapie (scioglimento) o degli ammaliamenti (legamento) che possono essere compiuti da coloro che possiedono o hanno acquistato il potere di sottomettere spiriti demoniaci o spiriti buoni alla loro volontà, o comunque di essere con tali spiriti in rapporto tale da potersi valere del loro aiuto sovrumano.
L'aiuto degli spiriti (che si invoca o si pretende) non è quasi mai sufficiente a portare a compimento un atto di magia (a fin di bene o di male), sia di "legamento" che di "scioglimento": ciascuno di tali atti deve seguire un determinato rituale, più o meno complesso secondo l'importanza dello scopo che si vuole ottenere, e raggiunge una più completa efficacia con gli specifici brebus o verbus, parole o versetti magici, invocativi o esorcizzanti, per lo più segreti.
Alla conoscenza di tali fenomeni (e quindi alla loro diffusione) ha dato contributo la Chiesa cattolica - che aveva e ha tutto l'interesse al controllo e al monopolio della materia. Quando il Cristianesimo (ideologia) si fa Chiesa (organizzazione politica-economica), in particolare con Costanzo II, mette fuori legge il culto pagano e nel contempo si impadronisce non soltanto del patrimonio economico della vecchia religione ma anche del suo patrimonio culturale, modificandolo quel tanto che basta per adeguarlo alla propria dottrina (o anche adeguando questa alle credenze, ai rituali di quella, ancora radicata nel popolo).
D'altro canto, nel tentativo di demonizzare e criminalizzare il culto pagano, i teologi di santa madre Chiesa hanno fornito alla propria milizia sacerdotale lunghi e particolareggiati elenchi di "superstizioni" da condannare e eliminare, con il risultato di dare comunque credibilità e legittimazione all'esistenza di una miriade di esseri demoniaci - contro i quali imponeva in contrapposizione e in sostituzione coorti di propri santi: dava così una patente di scientificità, e validità, a quanti, streghe o stregoni, officiavano riti di magia, bianca o nera.
Tra i documenti ufficiali della Chiesa sulla materia, di rilevante interesse è quello che porta il titolo di Decisio de superstizione, del 1702, compilato tra il 1696 e il 1700 da un certo Padre Prospero Domenico Maroni da Cagli sulla base di decisioni prese dalla Congregazione dei Casi, presieduta da un Vescovo. Nella Decisio vi sono elencate oltre centocinquanta forme di "superstizione", relative alle Marche, ma diffuse - come vedremo - con qualche variante di forma, in aree contadine europee e in particolare in Sardegna. Si tratta di "superstizioni" che la Chiesa afferma di "riprovare" e di "condannare", ma che la stessa Chiesa, accettandone l'esistenza e l'efficacia, contribuisce ad accreditare e diffondere - sostenendo, in ultima istanza, il suo diritto al controllo e all'uso della materia, affermando una presunta propria autorità sul sovrannaturale e ordinandola con proprie leggi.
Nella lunga elencazione figurano gesti e parole di valore invocativo e scaramantico, atti e cerimonie e riti comunemente definiti di magia bianca o nera, secondo gli spiriti buoni o malvagi chiamati a presiederli e secondo gli scopi che si vogliono raggiungere. Si va dal semplice gesto scaramantico del toccarsi i genitali o del far le fiche, dal toccar amuleti ricavati da corna o dal far corna con le dita, dallo sputare e dal recitare brebus, speciali parole, anche in esclamazioni semplici quali "Crepa!" o in versetti o filastrocche, fino a cerimonie assai complesse, che necessitano di esperti con funzioni sacerdotali o di medium, dotati di particolari poteri e conoscenze nella magia - come per esempio, nel rito detto de is treixi lantias, delle tredici lampade, che descriverò più avanti, in questo stesso capitolo, o alcune varianti di s'affumentu, il suffumigio magico-terapeutico, o s'imbrusciadura, altro rito terapeutico, o nelle fatturas, fatture, di particolare rilevanza nella materia da "legare" o da "sciogliere".
Gli scopi che tali atti "superstiziosi" si propongono di raggiungere sono molteplici, e investono in pratica ogni settore e ogni momento della vita umana, individuale e sociale: hanno il potere di influenzare, se non di determinare i fenomeni della sfera affettiva, sessuale, economica, psichica, fisiologica; possono finanche agire, direttamente o indirettamente, sulla proprietà, sulla produttività, sui fenomeni meteorologici, in definitiva su ogni aspetto dell'ambiente dove si vive.
E' evidente che alla base di tale complessa e diffusa dinamica sociale del magico sta - nonostante i duemila anni di decantato monoteismo cattolico - una credenza animistica, di tipo naturalistico; sta una concezione del mondo dominato dalla presenza di spiriti del bene e del male in perenne conflitto tra loro - dove l'uomo si sforza di trovare un proprio equilibrio esistenziale in una sorta di pacifica convivenza con tale pandemonio. E se è vero che - in virtù della morale che il potere dominante impone all'uomo - siamo sollecitati ad allearci con gli spiriti del Bene e ad opporci agli spiriti del Male; è anche vero che coinvolti spesso nostro malgrado in un conflitto tra forze trascendenti l'umano, superiori a noi, conserviamo ugualmente un sacro timore per i demoni del male. Per evitare le ire di questi, spesso l'uomo è costretto ad alienarseli dimostrando loro rispetto; talvolta giunge anche ad allearsi con essi, per ottenere vantaggi maggiori di quelli che possono venirgli dall'alleanza con gli spiriti del Bene. D'altro canto, questi "santi spiriti" che fanno capo a Dio e alla Chiesa, spesso si dimostrano sordi alle invocazioni umane, sono bigotti e moralisti, attaccati al lavoro e al sacrificio, predicano la castità e l'astinenza, privilegiano le virtù spirituali e disprezzano i piaceri della carne, e pertanto risultano assai noiosi.
Illustriamo, qui di seguito, qualcuna della "superstizioni" definite "riprovevoli" dalla Chiesa, ancora abbastanza diffuse specialmente nel mondo contadino.

1 - Su bendi s'anima a su tiaulu, il vendere l'anima al diavolo. Comprende gli atti di coloro che, in anima o in corpo, si danno in potere al Signore delle Tenebre, in cambio dei suoi favori: ricchezza, amore, potenza, longevità, o anche qualcosa di più futile come onori e fama. Tra i favori che il diavolo concede in cambio dell'anima è compreso quello della sapienza - statisticamente poco richiesta.
Comprende il tenere sotto il proprio dominio - con strumenti, scritti o parole magici - demoni o spiriti infernali, evocandoli per utilizzarli per scopi di magia nera.
L'esercitare attività di mago, stregone o guaritore; presiedere cerimonie o compiere riti religiosi riservati ai sacerdoti di santa Madre Chiesa.
Professare il culto del Diavolo, contraffacendo il culto dovuto a Dio, secondo la dottrina cattolica apostolica romana. Questo punto comprende non solo la condanna delle cosiddette messe nere, parodia delle messe eucaristiche, ma tutti i diversi riti o gesti rituali (come il segno della croce, l'atto del benedire o l'imposizione della mano), le preghiere e i versetti sacri, che se eseguiti o pronunciati "a rovescio" assumono carattere "negativo" (diabolico), ottenendo effetti opposti (malefici). Per esempio, farsi il segno della croce o benedire con la mano sinistra significano rispettivamente esorcizzare o maledire. La parola amore, pronunciata a rovescio, eroma, modifica la propria sostanza positiva per diventare odio satanico.
Infine il fare scongiuri o compiere atti di magia invocando il Diavolo o altre forze infernali.

2 - Usai aqua santa o cosas de cresia, santas o benedittas po fai bruxerias, usare acqua santa, oggetti o arredi di chiesa, cose sacre o benedette, come reliquie, per far magie.
L'elenco dei materiali sacri o benedetti di cui la Chiesa fa divieto d'uso profano è lunghissimo, e ovviamente equivale a una statistica delle materie d'uso nei riti terapeutici o magici della medicina popolare. Citiamo alcuni tra i più diffusi, escludendo da questo elenco, la miriade di "oggetti sacri" il cui uso, a fin di bene, è consentito dalla stessa Chiesa, che anzi ne cura la produzione e il commercio (crocefissi, medaglie, immagini e immaginette, statue e statuine, riproduzioni di luoghi sacri, santuari e basiliche, e così via); acqua santa; parti di arredi sacri, breviari e messali, cera delle candele benedette degli altari; incenso benedetto estratto dal turibolo; palme benedette; ostie consacrate; paramenti sacri d'uso del sacerdote; ornamenti degli altari, come tovaglie e centrini.
E' condannato anche come superstizione usare la Chiesa o altri luoghi consacrati al culto ufficiale, compresi le Cappelle del Corpus Domini e i Camposanti, per compiere magie o riti terapeutici. Non pochi incantesimo, filtri d'amore, fatture, riti terapeutici, scongiuri e giuramenti vengono fatti nascostamente in chiesa, perché ritenuti più efficaci. Le cronache dicono di "promesse di matrimonio" fatte sotto giuramento davanti all'altare, che avrebbero un particolare valore, quasi quanto quello di un matrimonio celebrato davanti al prete; talché è stato usato non poche volte da amanti diabolici per convincere una fanciulla riottosa a concedere le sue grazie. Si dice anche che una fattura fatta in chiesa sia assai "potente" e assai difficile da "sciogliere". Su Santu Juanni de floris, il comparatico dei fiori, che si contrae tra giovani di uguale o diverso sesso, che lega i due con un rapporto di amicizia a vita, viene assai spesso stipulato in chiesa. S'imbrusciadura, lo strofinarsi per terra, un rito terapeutico contro i traumi psichici (azzicchidus, o spaventi), in alcune varianti si compie nella Cappella benedetta durante la processione del Corpus Domini, o davanti al Camposanto, se non è possibile dentro, in ore notturne.

3 - Mexinas e fatturas, brebus e scrittus po accappiai mascu e femina, po sanai s'impotenzia e po impringiai sa femina, medicine e fatture, parole e scritti sacri per legare uomo e donna, per guarire l'impotenza (del maschio) e la sterilità (della femmina).
Preparare e dare filtri e beveraggi; spargere il letto matrimoniale di sostanze magico-afrodisiache; far fatture con pupazzi e con scritti e con altri mezzi e arti, al fine di dare potenza o produrre impotenza sessuale al maschio, di favorire o impedire il regolare svolgersi del coito matrimoniale, di rendere fertili o di rendere sterili o di far abortire la femmina.
Influenzare negli stessi modi o con altri una gravidanza determinandone il sesso. Esistono, su questo punto, numerose credenze. Si ritiene di poter determinare il sesso di un nascituro, assumendo certe posizioni nel coito, con l'imposizione della mano della fattucchiera, o di una donna che ha partorito gemelli, sul ventre della partoriente.
Aumentare o ridurre, fino a "seccare" il flusso del latte di una puerpera, con suffumigi magici o con altre fatture.
Rendere impotente uno sposo girando a rovescio un suo indumento intimo, calza, mutanda o maglia.
Annodare una cordicella o una stringa, meglio se fatta di capelli sottratti alla persona che si vuole colpire, per impedire un matrimonio o la consumazione dello stesso.
Mettere campanacci o altri aggeggi rumorosi, con l'intento di esorcizzare gli spiriti del male e favorire il buon andamento del coito. (Mi pare che l'attuale costume di legare barattoli all'auto degli sposi si possa far derivare da tale cerimonia scaramantica e propiziatoria.)
Ingerire o portare indosso come talismani certe sostanze ritenute idonee a favorire l'ingravidamento o affinché il frutto dell'ingravidamento acquisti certi caratteri. (E' leggenda che le donne sarde gravide ingeriscano una scheggia di granito per rendere duro il cuore, il carattere del nascituro.)
Fare attenzione a non aggrovigliare il filo del cucito, o la lana della tessitura, per non "legare" (impastoiare, rendere impotente) il proprio uomo, o altro maschio di famiglia.
Far bisticciare o riappacificare una coppia mettendo a rovescio arredi sacri in chiesa.
Influenzare la volontà di un uomo (o di una donna) che si desidera conquistare, recitando versetti magici o pensandovi intensamente all'Elevazione del Santissimo durante la messa. (Altrettanto diffuso ma più noto far la stessa cosa per lo stesso scopo nel momento in cui la notte "cade una stella".)
Correlato a fini di armonia matrimoniale, il ritenere che vi siano giorni fausti e giorni nefasti per compiere certe attività domestiche - come il cucire, il rammendare, il tessere, il fare il pane, preparare gli insaccati, macellare un animale da cortile, lucidare utensili di metallo, e in particolare l'atto sessuale. Anticamente era il giovedì, il giorno considerato più infausto (praticamente il giorno di riposo per la massaia); attualmente, il venerdì.

4 - Mexinas contra dogna mali e ennemigu (pinnadeddus, brebus, iscrittus, resus, ingestus e frastimus), medicine contro ogni male e nemico (amuleti, parole magiche, talismani, preghiere, gesti e invettive scaramantici).
Abbiamo tutta una serie di mexinas, di terapie, di vario genere, per la risoluzione dei numerosi malanni che affliggono l'uomo, e per difendersi da ogni genere di nemici, anche questi assai numerosi. Queste mexinas, secondo lo scopo per cui vengono usate, possono così sommariamente elencarsi:
Contra sa callentura, contro le febbri (i febbrifughi, gli attuali antipiretici); contra sa debilesa, contro la debolezza; per rinvigorire il corpo esaurito (gli attuali ricostituenti); contra is unfroris, contro i gonfiori; contra is guronis, contro le pustole e le suppurazioni; contra su dolori de conca, contro il mal di testa; contra su ramadinu, contro l'influenza; contra su dolori de ossus, contro i reumatismi; e tante altre specifiche mexinas fino a quella contra is azzicchidus, contro gli spaventi, con varie e complesse terapie, quanto diverse e molteplici possono essere le cause di un trauma psichico (qui si fa una distinzione fondamentale: azzicchidus de anima bia e de anima morta, spavento da anima viva o anima morta; alle anime vive appartengono tutte le creature viventi del mondo umano e animale; alle anime morte appartengono gli spiriti di ogni genere, i fantasmi, i demoni, i dannati all'inferno, le anime del purgatorio e le anime pie.
Seguono is mexinas contra is ennemigus, le medicine contro i nemici, di ogni genere, cominciando da quelli che minacciano il patrimonio del contadino o del pastore: contra is pillonis, contro gli uccelli (in special modo i passeracei che minacciano il grano, il riso, la frutta); contra su margiani, contro la volpe, e contra s'aquila, entrambi predatori di agnelli; contra is bremis, contro i vermi, che si annidano nelle ferite infette degli animali, in particolare delle pecore; contra su velenu (contravelenu), contro il pizzico o il morso di animali velenosi (un controveleno a largo spettro di azione, come certi antibiotici della medicina chemioterapica attuale).
In che cosa consistono is mexinas elencate, in uso contro disturbi fisici e psichici e contro nemici (in particolare del patrimonio)?
La sostanza terapeutica più largamente usata è l'acqua. Acqua potabile, di fonte, pura il più possibile. Con l'aggiunta di semplici brebus, parole o versetti magici, un bicchiere d'acqua acquista poteri medicamentosi, diventa medicina (usata per abluzione, per aspersione o per ingestione).
Con l'aggiunta di sostanze sacre o benedette (acqua del fonte battesimale, chicchi di grano o di sale, cera, incenso, palma, reliquie sacre, in particolare is patenas, le medaglie miracolose recanti l'effigie dei venerabili santi) la stessa acqua diventa medicamentosa e viene usata per aspersione nelle parti colpite dal male o sul viso o sul capo, valevoli per ogni parte del corpo; più raramente viene usata per abluzioni, data la limitata quantità d'acqua che viene abrebada, cioè resa terapeutica. Ma a questo proposito va rilevato che la diluizione di un'acqua magica (o abrebada ) non ne diminuisce il potere terapeutico. Purché non diluita in un fiume, in un lago o in un mare o dovunque l'acqua sia in movimento; se versata invece in una vasca da bagno conserva tutto il suo potere e se ne può beneficare in questo caso mediante abluzione. Comunque, l'uso che di una aqua abrebada ne deve fare il paziente (persona, animale o pianta che sia) viene deciso dal guaritore, che consegnandola al richiedente (come ogni medico che si rispetti) indicherà modalità d'uso e posologia: ingestione, aspersione, massaggio o abluzione, di solito tre volte al dì o per nove dì - giusto il valore cabalistico del numero tre. L'uso più frequente che si fa di quest'acqua è comunque l'aspersione: sia che si tratti di bambino o di fanciulla o di capo di bestiame o di pianta di particolare valore, colpiti da malocchio o da peste o da qualunque misterioso morbo. In tali casi, per un intervento immediato, in mancanza dell'acqua medicamentosa (che solo il fattucchiere può fornire) viene usato lo sputo.
Diffusissimo è anche s'affumentu, il suffumigio magico (descritto in altra parte di questo libro), una medicina riservata soltanto alle persone. E' sempre eseguito da una fattucchiera: secondo un specifico rituale e con specifici brebus diventa la terapia d'elezione contro il malocchio. Variando rituale e brebus diventa terapia specifica contro gli spaventi o contro altri numerosi disturbi sia della sfera emotiva che fisici (dalla svogliatezza al mal di pancia).
Altro elemento magico che insieme ai brebus e ai segni di croce (o altri gesti propiziatori) entra nella preparazione di mexinas a base di acqua è sa patena, la medaglia miracolosa - cui si è già accennato - e che la guaritrice porta sempre appesa al collo, come il medico lo stetoscopio. Una particolare acqua terapeutica è detta aqua patena, appunto perché viene resa curativa mediante l'immersione di questa, della medaglia, nell'acqua, e di segni di croce tracciati con la stessa medaglia sull'acqua contenuta nel bicchiere. Tale acqua viene bevuta o aspersa, e guarisce il malocchio, le emicranie, i mal di pancia, la foruncolosi, l'inappetenza e mille altri disturbi propri dell'infanzia.

5 -Riprendiamo l'elencazione sommaria - che ci auguriamo non annoi il lettore - delle magie che la Chiesa definisce superstizioni e come tali condanna.
Curare con le erbe, unendovi preghiere o versetti sacri;
curare le coliche dei buoi o dei cavalli mediante imposizione del piede di due fratelli gemelli sulla pancia dell'animale malato;
piantare un bucranio in cima a un palo dove è alloggiato il bestiame per salvaguardarlo dal malocchio;
infilare una cipolla canina in cima a un palo per proteggere un campo seminato dal malocchio;
curare il mal di denti posando sulla parte dolente un dente di morto preso in cimitero, recitando debiti versetti sacri;
voltare pietre tombali o arredi sacri per seminare discordia o per riappacificare il prossimo (per seminare discordia nel prossimo è anche usata una apposita erba, genericamente detta "zizzania" che viene fatta ingerire a tale scopo);
usare l'imposizione di sacre reliquie su parti malate di una persona a scopo curativo (pochi sanno che tra queste reliquie è tenuta in alta considerazione per le sue virtù terapeutiche la pelle della chierica di preti defunti);
andare nudi sopra i tetti a voltar le tegole, per voltare in tal modo l'animo della gente;
mettere un cane morto in una pozza d'acqua per far piovere o anche sotterrarlo ai piedi di un albero per farlo fruttificare;
compiere riti magici o recitare specifici brebus per tenere lontani dal seminato passeri e altri animali nocivi;
usare l'uovo per compiere riti magici, a fini terapeutici o estetici (quale quello di fregare l'uovo di gallina appena fatto sulle tempie per l'emicrania o sulla guancia per rendere la pelle morbida e vellutata);
usare lo sterco di gallina o di altro volatile ancora caldo come unguento per guarire ferite;
facilitare in alcun modo il trapasso ai moribondi (sia ponendogli sotto la cervice un giogo da buoi che deponendolo sulla nuda terra o anche togliendo una tegola dal tetto, per consentire all'anima del moribondo di uscire, di staccarsi dall'ambiente terreno cui è "troppo" legato);
chiudere l'uscio di casa quando passa un corteo funebre, per evitare che la morte entri e vi si annidi;
inchiodare la strige o barbagianni alla porta di casa per preservarla dalla morte o da altri funesti eventi di cui il volatile è portatore;
attitare, ovvero piangere i morti con lamentazioni o danze o altri riti funebri, specie compiuti nei sagrati o nei camposanti.
Chiudiamo così l'elenco, certamente non esaustivo, che d'altro canto si compendia con quanto contenuto nel presente volume.

6 - Funtanas e putzus, fontane e pozzi, mitzas e fluminis, sorgenti e fiumi, hanno particolari virtù magiche, anche terapeutiche, e sono frequentemente luoghi dove si compiono numerosi riti propiziatori e mexinas.
Nonostante la credenza di matrice cattolica, secondo cui dietro gli specchi d'acqua, nelle fonti e nei pozzi, si nasconda il diavolo, per cui le fanciulle non vi si devono soffermare a specchiarsi, si vuole anche che quegli stessi luoghi siano abitati da spiriti buoni, amici dell'uomo.
Una diffusa terapia contro i porri è legata alla presenza di un pozzo: dove bisogna seppellire un pezzetto di carne recintando certi versetti - allo scadere del terzo giorno i porri spariscono.
Gettare un cane in un ruscello, fa venire la pioggia. I giuramenti di fedeltà tra innamorati, fatti con un ruscello che li separi l'un dall'altro, non si romperanno mai. La fattucchiera che voglia tramandare is brebus, le parole, di un rito magico ad altra persona, può farlo o in punto di morte, oppure attraverso un ruscello.
Alla fontana non si va soltanto per attingere acqua, ma per liberarsi di alcuni mali: sarà sufficiente seppellirvi del pane, e il male verrà da questo preso e assorbito liberando il malato.
La donna che di mattina arriva per prima alla fontana, può esprimere qualunque desiderio, certa che verrà esaudita. Purché non si chiedano ricchezze, ma salute e concordia.
Far sdraiare un malato sul tetto di una cisterna o sulla lastra di copertura di un pozzo ne favorisce la guarigione.
Altre mexinas vietate dalla Chiesa con esplicita menzione sono quelle usate po oberri portas tancadas sene crai, per aprire porte chiuse senza chiave; po fai proiri, per far piovere; po donai abbundanzia, per avere abbondanza (è ancora usato nella Sartiglia - composita cerimonia carnevalesca oristanese - invocare un buon raccolto benedicendo la folla con sa pippia de maju, la pupa di maggio, costituita da un mazzo di pervinca); po mandai s'anima a su celu, per mandare l'anima in Cielo, o po dda fai morri sen’ ‘e sufrimentu, o per farla morire senza sofferenza; abbiamo infine mexinas singolari, come quella contra sa giustizia, contro la giustizia, per difendersi da essa se non per distruggerla. Una di queste mexinas consiste nel lanciare una zappa o altro attrezzo da lavoro o in mancanza d'altro un grosso sasso sulla porta di chiesa, gridando scongiuri. (Nel trattato Decisio de superstizione si cita lo scongiuro: "Muoia il prete e viva il popolo!")

7 - Di particolare rilevanza sono is mexinas (ma anche le fatture, gli amuleti e i talismani - per non dire dei riti specifici cui è dedicato un capitolo) relative alla morte e agli spiriti dei morti.
Come ho già accennato, anima bia e anima morta sono in sardo i due termini che distinguono la creatura vivente dalla creatura morta: entrambe presenti, attive, immanenti nel mondo della natura (dove la morte è sempre soltanto apparente). La differenza tra anima bia e anima morta non è sostanziale ma formale: appaiono in modo diverso; coabitano e si influenzano reciprocamente. Is animas mortas (che secondo la dottrina cattolica si trovano chi all'inferno, chi in purgatorio e chi in paradiso) continuano a vivere con noi, ci influenzano nel bene e nel male, e possono comunicare con is animas bias, con i viventi, mediante i sogni o anche con apparizioni, riassumendo per breve tempo le loro sembianze materiali. Presso diverse comunità, in particolare a Orune, si crede che is animas mortas, i defunti, ritornino una volta all'anno, nel giorno loro dedicato: per essi si lascia la porta di casa aperta, la luce accesa nella cucina, dove si apparecchia la cena rituale ad essi riservata.
Una distinzione sostanziale tra is animas si fa invece sulla indole, buona o cattiva, benefica o malefica. Abbiamo così animas bonas e animas malas - appartengano esse a creature morte o vive.
Is animas mortas, le anime dei defunti, siano esse bonas o malas, buone o cattive, vengono evocate nel compimento di riti magici, sia ammalianti che terapeutici. Is animas malas si invocano ovviamente nelle pratiche di magia nera, volte a provocare nel nemico gravi malattie, paralisi e anche la morte (morti mala per incidente). Oltre al compito di sovrintendere tali pratiche, is animas malas (anime di dannati e spiriti diabolici) sono chiamate anche a presiedere riti o a dare efficacia a mexinas per la localizzazione di iscussorgius, tesori nascosti, per lo più pentole di marenghi d'oro e d'argento sepolti sotto terra o all'interno di vecchi muri. La collaborazione delle anime dei dannati e degli spiriti diabolici è necessaria per il ritrovamento degli iscussorgius, in quanto ad essi è demandato il compito di custodirli e difenderli dalle brame dei comuni mortali. S'iscussorgiu è attentamente vigilato anche dall'anima dannata del defunto padrone, finito all'inferno per la sua avarizia - a notte fonda lo si può vedere talvolta apparire nelle sue sembianze mortali nei pressi del nascondiglio. Il diavolo custode di iscussorgius assume invece di solito sembianze animalesche, per lo più quelle di un carrabusu, scarabeo. Si conoscono formule magiche da recitarsi quando si incontra qualcuno di questo scarabei, per costringere il diavolo che vi si nasconde a svelare il luogo dove è nascosto s'iscussorgiu. Quando ciò avviene, lo scarabeo, indicato il luogo al fortunato mortale, riprende le sue sembianze diaboliche e scompare in una fiammata. Per la verità, la ricchezza ottenuta in tal modo non porta mai bene e felicità: come si sa, la farina del diavolo va tutta in crusca. E' una consolazione per chi resta povero.
Is animas bonas, le anime buone dei defunti, vengono anch'esse invocate nel compimento di pratiche magiche, volte ovviamente al bene: riti terapeutici, mexinas per sciogliere le fatture, preparazione di amuleti, in difesa di influssi malefici, e di talismani, propiziatori di prosperità e benessere, resus, preghiere per il ritrovamento di oggetti perduti.
Il culto dei morti va visto anche in un contesto utilitaristico: la necessità dei viventi di accattivarsi is animas bonas per disporre dei loro poteri misteriosi contro quelli negativi degli spiriti del male. Particolarmente invocato l'aiuto delle anime dei propri congiunti, sulle quali è logico che si possa maggiormente contare, dati i legami di sangue esistenti. Nel culto dei morti praticato a Orune, vengono infilate numerose candele in una apposita tavola forata, e quindi accese: una per ogni familiare o parente defunto. Le dimensioni del cero variano secondo l'importanza del defunto che si vuole propiziare. Vi è però una candela (o anche più d'una) riservata a sos mortos non chircados dae nemos, ai morti ignoti, "non ricordati da alcuno".

8 - Dalle notizie riportate, si potrebbe ricavare una definizione della magia come l'arte di dominare le forze occulte della natura e della vita - contro la morte. Insomma, magia come difesa e conservazione della vita, come affermazione dei suoi valori.
Il Malinowski sostiene giustamente che le arti della magia sono un tentativo di dominare le forze della natura, e che pertanto l'atteggiamento magico si fonda sul convincimento dell'uomo di riuscire a dominare le stesse forze naturali, mediante un potere mistico a lui stesso affine.
Gli uomini, già in tempi remoti, scoprono una continua necessaria correlazione tra la terra, tra il mondo vegetale e animale, e il mondo umano. Il seme dei frutti, gettato nella terra, genera e riproduce la specie da cui viene; nello stesso modo in cui il seme del maschio, posto nel ventre della femmina, genera riproducendo la specie umana. Nell'un caso e nell'altro, il procedimento è ritenuto identico. Così pure il principio di eternità; dove la morte è sempre soltanto apparente, in quanto modificazione dell'essere in un processo evolutivo senza fine. Sotterrando i morti, si ha un processo di dissoluzione necessario alla rivitalizzazione della natura: i morti di ogni specie costituiscono concime naturale, a tutto vantaggio della fertilità e produttività della terra. E' facile vedere in tale fenomeno come dalla morte rinasca la vita: dalla dissoluzione invernale erompe la germinazione primaverile. Il concetto di un'altra vita dopo la morte, della immortalità, deriva da tali elementari osservazioni - in particolare i principi su cui si fondano le dottrine della metempsicosi e della reincarnazione dei morti. Da qui, anche, i concetti magici dei rapporti tra la terra e la donna, tra la fertilità e la riproduzione nella terra e nella donna.
Secondo Goodworft, "la magia consiste, per definizione, nella errata applicazione dei principi più semplici dell'associazione di idee. In effetti le associazioni tra vita del mondo vegetale e del mondo umano, e tra la morte, la sepoltura e il nuovo rigoglio primaverile avevano condotto a una interpretazione fantasiosa, che va appunto sotto il nome di magica. Anche se era errata, aveva però messo in moto la mente, fatto approfondire per la prima volta la conoscenza del mondo. E' per questo che la magia si mescola all'arcaica civiltà agricola. E' per questo che molti rituali per propiziare i nuovi cicli del mondo vegetale si fondano sull'accoppiamento sessuale dell'uomo e della donna".
E dunque è un fatto, possiamo dire naturale e logico, che la magia - in ogni suo aspetto, in primo luogo di tentativo di conoscenza e di dominio delle forze avverse, del male e quindi delle malattie - sin dalle sue origini, sia strettamente legata ai problemi della terra, alla vita delle piante e degli animali, ai cicli riproduttivi, ai fenomeni meteorologici e climatici, nel tentativo di dare significato alla realtà del mondo e ai rapporti tra l'uomo e questa realtà.


IS BREBUS PO COSA PERDIA
LA MAGIA PER OGGETTI SMARRITI

Is brebus po cosa perdia, le parole e i riti magici per (ritrovare) oggetti smarriti, costituiscono un capitolo importante in un campo che, con termine moderno, potremo chiamare di medicina sociale. Può accadere di smarrire un oggetto cui siamo legati da rapporto affettivo o per una sua necessità d'uso - un oggetto che continua a esistere fuori dalla nostra portata, ma che possiamo localizzare, per ricostruirne il rapporto, mediante particolari riti magici, officiati da persone di particolari capacità divinatorie e di poteri telepatici. Il più delle volte is brebus, le parole magiche presenti nel rito, consistono in un resu, o preghiera vocativa, rivolta a una divinità benigna (un santo) preposto dal Massimo Demiurgo al "ritrovamento degli oggetti smarriti".
Nella economia autarchica del contadino vige fondamentale e severo il principio della utilizzazione razionale degli oggetti d'uso, e - a differenza di quanto accade nella organizzazione consumistica attuale - non esiste, anzi non si concepisce spreco. Ogni oggetto si usa finché lo stesso può adempiere alla sua funzione; quando si è logorato nell'uso, fino al punto in cui diventa inservibile allo scopo per cui è stato fatto, non si butta via, ma diventa "altro". Una vecchia pentola di ferro smaltato, che abbia perso lo smalto o si sia forata nel fondo, un può essere più usata per la cucina; diventa allora un originale e funzionale vaso per fiori., per ornare il loggiato, o più spesso un semenzaio per basilico, prezzemolo o aglio, o anche contenitore per riporvi cianfrusaglie minute, chiodi, viti, bulloni, o anche infine un cucchiaione per travasare cereali - diventa insomma qualunque altro oggetto, idoneo a svolgere un certo compito. Nell'ultima ipotesi verrà interrato nel letamaio del cortile, finché corroso verrà usato insieme al concime nella autunnale distribuzione di sostanze fertilizzanti alla terra.
Il corredo che la sposa porta in dote alla casa maritale (dai mobili alle lenzuola, alle coperte, al tovagliato; dalle batterie da cucina, agli attrezzi per la confezione del pane) rappresenta il suo patrimonio - un insieme di oggetti essenziali nella economia familiare, e deve durare tutta la vita. (Anzi, alcuni pezzi del corredo, quelli che reggono maggiormente all'usura, durano diverse generazioni, e si tramandano di madre in figlia.)
La dote, il necessario per lo svolgimento e il mantenimento della vita domestica, nel mondo contadino si allarga anche agli animali da cortile: una chioccia con pulcini, una coppia di conigli, di anatre, di tacchini: is lobas de fedu, le coppie per la riproduzione. Is lobas de fedu, le coppie da riproduzione, degli animali da cortile costituiscono la base della sussistenza familiare, rivestono quindi particolare valore e importanza. Tanto che tali capi vengono scrupolosamente curati e protetti con amuleti dagli influssi malefici e sottoposti a mexinas, a terapie magiche, anche al solo sospetto che abbiano ricevuto malocchio.
Da qui, dalla importanza vitale che hanno per la donna contadina gli oggetti e gli animali che costituiscono il suo patrimonio nuziale, è facile comprendere il valore, materiale e affettivo che oggetti apparentemente di poco valore rivestano per lei, e come, lo smarrimento dello stesso, costituisca per lei un vero e proprio dramma.
L'etnologo - esaminando superficialmente i comportamenti di una massaia che ha perduto una gallina - parla di drammatizzazione di un fatto di poco conto. La sparizione dell'animale diventa il cruccio dominante della sua quotidiana esistenza; si dispera e non sa darsi pace per la perdita; esplora nel vicinato, affinché l'animale non si sia smarrito in altri cortili; si lamenta della disgrazia che l'ha colpita con le donne sue vicine e con chiunque altra l'avvicini o la incontri; sarà per lei, quel giorno, un giorno di lutto; il focolare resterà spento, e non cuocerà cibo per la famiglia; ogni sua attenzione, ogni suo sforzo saranno rivolti alla ricerca, al ritrovamento della gallina scomparsa. Il suo dramma "personale" finirà per diventare dramma "corale"; a lei si uniranno comprensive e solidali le donne del vicinato; si allargheranno le ricerche; si faranno riunioni e se ne parlerà facendo ogni possibile ipotesi, per poter giungere alla soluzione del caso.
Se l'oggetto o l'animale smarriti non verranno ritrovati in breve tempo, prevarrà l'ipotesi del furto. E ovviamente diversi saranno i sospetti su chi possa essere l'autrice del furto (trattandosi di beni propri della donna, si penserà logicamente a una ladra).
Si costituisce allora tra donne una sorta di comitato inquirente, nel tentativo di dare un volto all'esecutrice del misfatto. La quale può avere agito più che per bisogno, per "cattiva indole", o per "invidia", o per dispetto, per arrecare dolore. Ma se pure si acquisiscono prove o si abbiano dubbi molto fondati, la donna che ha subito su mancamentu, la sottrazione, non può accusare pubblicamente, né richiedere la restituzione o il risarcimento del danno. La restituzione dell'oggetto mancante, se ci sarà, dovrà farsi per volontà della stessa esecutrice del misfatto, pentitasi o costretta alla restituzione da influenze magiche.
Ed ecco la decisione di ricorrere alle arti di una donna che sia in grado di risolvere il caso. Una donna con accertate capacità divinatorie e con poteri telepatici, e che inoltre sia esperta nei resus, nelle strofette vocative specifiche in tali casi.
Is mexinas, le pratiche magiche, specifiche per il ritrovamento di oggetti o animali perduti, non sono sempre di facile conoscenza ed esecuzione. Ve ne sono di assai complesse.
Il santo maggiormente invocato in tali resus è Santu Antoni de su fogu (che alcuni studiosi del folclore sardo confondono con l'omonimo santo padovano). Ci sono fondati motivi per rivolgersi al Santo abate in tali circostanze. Come ho raccontato in altra parte di questo libro, Santu Antoni de su fogu è il Prometeo della mitologia sarda, il mitico Eroe che discende nell'inferno dei cristiani per rubare il fuoco e donarlo agli abitanti di questa terra. Un ladro a fin di bene, benefattore dell'umanità, che non tollera i furti commessi a danno della povera gente. Un "esperto" nel ramo, comunque, al quale ci si può rivolgere per aiuto, sia per rientrare in possesso di qualcosa finito in mano ad altri, sia per mandare a compimento una "espropriazione" (bestiame o altri beni) a un proprietario esoso o a comunità istrangia, straniera (giusto il principio morale del furat chi furat in domu, ruba chi ruba in casa).
Tra le pratiche magiche più semplici e più diffuse, per giungere al ritrovamento di oggetti smarriti, ci sono quelle dette de su sedazzu, del setaccio, de is ferrus, delle forbici, e de sa crai, della chiave (quest'ultima, talvolta, usata appesa ad uno spago come pendolo). In tutte queste pratiche sono presenti is brebus, parole o versetti rituali.
Il rito de su sedazzu consiste nel far ruotare un setaccio scuotendolo leggermente, dopo aver deposto sul fondo un pugno di cruscherello: si tratta di esaminare e interpretare le diverse posizioni in cui va a finire il cruscherello, se al centro o ai bordi, per individuare la direzione in cui trovasi l'oggetto smarrito, e lì far le debite ricerche.
Stessi risultati si ottengono con la chiave , la cui punta viene appoggiata dalla "veggente", sul piano del tavolo e dalla stessa tenuta perpendicolare con una lieve pressione del dito indice sull'anello della stessa chiave. Recitato su resu po su mancamentu, la preghiera per lo smarrimento, la chiave, spinta da una forza occulta, inizia un movimento rotatorio, indicando con la parte seghettata la direzione in cui trovasi l'oggetto smarrito. Quando a questa operazione presenziano le donne del vicinato, che si dispongono tutt'intorno al tavolo, sa crai abrebada, la chiave fatata dalla veggente può indicare direttamente la persona che detiene l'oggetto smarrito (ovviamente può detenerlo inconsapevolmente, perché può essere finito nel suo cortile o nella sua casa "per caso"). La persona indicata dalla chiave si farà scrupolo di cercare "meglio" nei luoghi di sua pertinenza, e il più delle volte una più accurata ricerca finirà per dare esito positivo. E' ovvio aggiungere che a questa sorta di ordalia, l'eventuale ladra si guarderà bene dal partecipare, pertanto la defezione non giustificata è ritenuta di per sé forte indizio di colpevolezza. Va anche detto che nella sostanza e nella prassi di tali riti corali rientrano i rapporti interpersonali tra donne del vicinato, buoni o cattivi.
Più complessa, e ricca di significati, è invece la pratica magica detta de is treixi lantias, delle tredici lampade, che contiene la recitazione vocativa de su resu a Sant'Antoni de su fogu, della preghiera rivolta a sant'Antonio del fuoco. Lo scopo di questo rito singolare non è quello (come negli altri) di ritrovare un oggetto o un animale smarrito o rubato, ma di costringere la persona che ingiustamente lo detiene a restituirlo alla legittima proprietaria.
Is treixi lantias si effettuano a mezzanotte, in un luogo chiuso, in penombra e nel più assoluto silenzio. Officia il rito una donna-medium, con poteri telepatici e ipnotici. Partecipano la donna che ha subìto su mancamentu, lo smarrimento, e altre donne del vicinato, le quali sostengono, in concentrazione, lo sforzo di volontà della "fattucchiera" per imporre alla ladra la restituzione del maltolto.
Nel chiuso di una camera, vengono poste sul pavimento o sopra un tavolo tredici mariposas o lantias, lumini a olio consistenti in uno stoppino infilato in un disco di sughero galleggiante in un bicchiere contenente olio, sistemate in modo da formare un cerchio. Più comunemente viene usato un piatto largo contenente olio, e sistemati ai bordi tredici stoppini formanti un cerchio. I lumini vengono quindi accesi uno dopo l'altro, previa recitazione di brebus, parole magiche, consistenti in invocazioni, talune tratte dalla liturgia cattolica, altre tenute segrete dalla officiante. Ultimata l'accensione delle tredici lantias, la "veggente", con l'intensa partecipazione delle altre donne presenti, inizia la recitazione di su resu po su mancamentu, l'invocazione specifica che giungerà fino alla ladra, penetrerà nel suo cuore lacerandolo di rimorso, fino a indurla alla restituzione.
Si conoscono diverse varianti di "preghiera-scongiuro" che, nel nome di Sant'Antoni de su fogu, vengono recitate per imporre la restituzione di un oggetto o un animale smarrito o rubato. In effetti, si esercita una pressione psichica mediante intensi messaggi telepatici, fino a provocare nell'ignota ladra uno stato di malessere e quindi una salutare crisi di coscienza che - stando alle testimonianze raccolte - si risolve quasi sempre con "il far ritrovare" (ovviamente in modo anonimo o indiretto) cioè che è stato smarrito o sottratto.
Questo che segue è un comune resu po mancamentu, preghiera per smarrimento, pronunciato durante il rito di is treixi lantias:
"Sant'Antoni de su fogu / candu festis eremitanu / eremitanu e dottori / est passau Nostu Sennori / e s'hat nau: Ite ses fendi? / E no ddu bit, Maistu, / ca seu fendi treixi fogus? / De custus treixi / ci 'n di siat unu prus fogosu / e prus e prus ardenti / po chi si dd'intendat / in su coru e in sa menti / chi no tengiat reposu / ni pappendi ni dormendi / po totu una genia / finzas chi custu mancamentu / no torrit a domu mia."
(Sant'Antonio del Fuoco / quando eravate eremita / eremita e taumaturgo / vi incontrò Nostro Signore / e vi chiese: Cosa fai? / E non lo vede, Maestro, / che faccio tredici fuochi? / Di questi tredici fuochi / uno ve ne sia più infuocato / e più ardente / affinché se lo senta / nel cuore e nella mente / e non abbia riposo / né mangiando né dormendo / per tutta una generazione / finché ciò che manca / non torni a casa mia.)


IS FATTURAS
LE FATTURE

Sa fattura, il maleficio o l'incantesimo, fatta per ottenere con arti magiche quanto non è possibile ottenere con mezzi normali, può essere tradotta con l'omonimo termine italiano fattura.
Due sono principalmente gli obiettivi che si vogliono raggiungere con tali atti di magia: l'ammalamento o l'ammaliamento; cioè l'indebolimento fisico o psichico del nemico, fino alla sua distruzione; oppure l'assoggettamento parziale o totale della volontà di chi si vuole possedere (per amore o per sfregio) o che si vuole raggirare (economicamente, ottenendo lasciti, ecc.). Secondo gli scopi, malvagi il più delle volte, ma anche mossi da bisogno, da passioni amorose, una fattura si qualifica come atto di magia nera o bianca, correlativamente presiedute da animas malas o da animas bonas, cui la fattucchiera di norma si rivolge per ottenerne i poteri. Va da sé che is animas malas, alle quali si aggiungono is dimonius e is tiaulus della mitologia cristiana, sovrintendono agli atti di magia nera, concorrendo al compimento delle fatture - escluse alcune, per altro rare, operate "a fin di bene", come può essere "l'ammaliamento" di una fanciulla non soltanto per possederla ma anche per sposarla. Al contrario, is animas bonas , cui si aggiungono tutti i santi del paradiso (che non sono pochi), sovrintendono agli atti di magia bianca, concorrendo principalmente a sconciai is fatturas, a sciogliere le fatture, ad annullare gli effetti "ammalanti" o "ammalianti" degli atti di magia nera.
Is fatturas rientrano nella scienza e nella pratica della medicina popolare, sia come elementi che concorrono (come i virus e i batteri per la medicina moderna) a provocare la malattia, sia come elementi terapeutici idonei (il più delle volte, ma non sempre, come nella farmacologia moderna) alla guarigione delle stesse o a calmare il dolore. Vedremo di seguito alcuni degli effetti "ammalanti" o "ammalianti" che si possono ottenere con is fatturas non soltanto sulla persona ma anche su animali, piante e beni materiali - quali abitazioni, coltivazioni, arredi, attrezzi da lavoro; e quali e quanti effetti opposti, di guarigione o di liberazione, si possono ottenere con is contrafatturas, le fatture di segno e di forza opposti, che annullano le fatture.
Chi compie fatturas, in italiano viene detto fattucchiere. In sardo non esiste una voce specifica per indicare su chi fait is fatturas, colui che fa le fatture. Esistono i termini di bruxu o cogu o oghiadori o omini santu che indicano rispettivamente stregone,indovino, iettatore, guaritore; con i relativi termini al femminile bruxa, coga, oghiadora, femina santa. Vi è poi un termine usato soltanto al femminile, mazzina, che indica una donna che fa magie, anche strega, o anche la magia stessa che viene effettuata. Per esempio: dd'hant fattu mazzina, gli hanno fatto magia, lo hanno affatturato.
Come è stato rilevato in altre parti di questo lavoro, la scienza e l'arte della medicina popolare sono quasi esclusivamente di competenza delle donne; e soltanto in tempi moderni, dopo la "grande purga" del potere maschile nota come caccia alle streghe-guaritrici sotto la speciosa accusa di diavoleria, un certo numero di maschi si è infiltrato in questo campo. (Non parliamo qui della invasione massiccia, e protetta dalle leggi civili, dei nuovi stregoni della medicina moderna, gestita ancora oggi in prevalenza dai maschi).
Attualmente, nei nostri paesi dell'interno, le donne che esercitano l'arte della medicina antica sono in maggioranza rispetto ai maschi. Inoltre, esse, rispetto ai maschi concorrenti, sono più quotate, hanno una clientela più numerosa, e aggiungerei "più scelta". A livelli diversi, o meglio dire all'interno di culture diverse, le guaritrici del popolo occupano posizioni di prestigio e godono di privilegi così come nella medicina moderna i primari ospedalieri o i cosiddetti "luminari", capaci di far "miracoli", cui la gente malata si affida come a santi taumaturghi. Vi sono ancora bruxas, mazzinas, cogas, spiridadas (guaritrici, fattucchiere, indovine, veggenti) la cui opera è assai ricercata, e bisogna far la fila o prenotarsi per tempo, prima di poter essere ammessi alla presenza di tali "luminari" - le quali, si dice, "fanno miracoli". Senza voler sostenere alcuna parte, sta di fatto che le numerose testimonianze raccolte attestano che molti casi di malattia, dove i "luminari" della scienza medica moderna non erano riusciti, sono stati poi risolti egregiamente da codeste "fattucchiere". Pur analfabete, esse hanno una conoscenza empirica ma profonda del corpo umano, e quel che più conta una conoscenza socio-psicologica della personalità della "loro" gente, che nessun altro "esterno", per colto che sia, può conoscere altrettanto bene.
Vi è un punto che gioca a favore della scienza medica popolare, rispetto a quella moderna: l'assoluto divieto dettato da una antichissima etica professionale di chiedere o di accettare alcun compenso per le prestazioni date. L'unico modo per sdebitarsi, consentito al paziente, è l'offerta di un dono in natura - in concreto, le guaritrici vengono mantenute dalla comunità che riconosce in loro un ruolo fondamentale. Quando, come accade attualmente, taluna guaritrice accetta l'onorario, non fa altro che imitare il medico civile: è un tentativo di entrare in un ruolo che è proprio della organizzazione sociale ed economica esterna e diversa, fondata in ogni suo aspetto sul lucro e sulla speculazione - un sistema dove si lucra e si specula anche sulla malattia, sul dolore, sulla paura della morte.
La materia più comunemente usata per fare is fatturas, qualunque ne sia lo scopo, è il simulacro della persona che si vuole affatturare. Con l'avvento della tecnologia, la fotografia è diventata l'immagine ideale per compiere malefici o incantesimi. Da qui la ritrosia, specie nelle fanciulle graziose, di farsi fotografare o dare la propria foto. In passato, e ancora oggi in assenza di foto, venivano e vengono usati rudimentali simulacri umani, pupazzi di una decina di centimetri, con i rudimenti dell'uno o dell'altro sesso, che contengano possibilmente "qualcosa" appartenente alla persona cui è diretta la fattura: brani di pelle, peli o capelli, unghie (ma non sterco o urina, che hanno particolari simbologie e diverso valore d'uso) o anche particelle di capi di abbigliamento, meglio se di biancheria intima, perché sta a contatto di pelle e quindi contiene umori.
Il pupazzo, simulacro della persona da affatturare, può essere fatto con diverso materiale. Molto comune la pala del ficodindia che, si dice, rende molto efficace l'incantesimo o il maleficio; assai usata anche la stoffa avvolta con filo di lana (simile alle bambole di pezza che si fanno da sé le bambine per gioco), oppure due bacchette legate in croce, rivestite di panno. Più rare, quelle modellate in cera, altrove assai diffuse.
Sul simulacro vengono compiuti quegli atti magici che poi si riprodurranno sul vivo, nella persona cui sono diretti. Si trafigge il pupazzo con spilli per provocare dolori artritici, coliche, nevralgie, o malattie negli organi situati nei punti colpiti. Sullo stesso simulacro, si possono recitare incantesimi, ottenendo l'assoggettamento della persona "ammaliata". Di regola, dopo fatta sa fattura, il pupazzo viene nascosto nel cortile o meglio ancora all'interno dell'abitazione della persona che si vuole affatturare. Per chi ha subito una fattura, scoprire il simulacro significa poter ricorrere ai ripari, portandolo da un "buon" fattucchiere, affinché egli abbia una base concreta per sciogliere la stessa fattura.
Is fatturas fatte mediante immagini o simulacro sono quelle più pericolose, perché hanno lo scopo di danneggiare fino a uccidere. Sono anche molto difficili da "sciogliere", tanto più se non si riesce ad individuare chi, a scoprire in che modo e perché l'ha fatta fare. Pertanto, come si diceva, è importante per la persona colpita dal maleficio, ritrovare sa fattura, il pupazzo. E' anche compito, però, di un "buon" fattucchiere indicare, con le proprie arti magiche, il punto dove sa fattura è stata nascosta e raccoglierla, per annullarla con sa contrafattura.
Is fatturas per "ammaliare", che interessano per lo più la sfera dei rapporti affettivi e sessuali vengono compiute molto spesso anche senza simulacro. Frequenti i filtri, che ugualmente prendono il nome di fatturas. Si preparano in ore canoniche, specie la mezzanotte, in armonia con le fasi lunari e con il tempo metereologico (pioggia e vento hanno la loro influenza), con i più disparati ingredienti. Se si vuole fare innamorare una fanciulla che si mostra indifferente, tre gocce del proprio sangue in un beveraggio che poi le si farà bere, sveglieranno il suo interesse sentimentale come se ferita dal mitico strale di Cupido. Viceversa, se è un ragazzo che si vuol fare innamorare, la fanciulla vogliosa renderà efficace il filtro diluendo nel beveraggio tre gocce del proprio sangue mestruale (che non deve essere secco ma immesso allo stato fluido) o usando particelle del proprio corpo, quali capelli, peli del pube e delle ascelle, finemente triturati, da somministrare al maschio concupito. Normalmente il filtro d'amore si versa nel caffè o nel rosolio o in vino - bevande tradizionalmente offerte all'ospite. I filtri vengono spesso "rafforzati" mediante brebus, parole magiche, specifiche per "incatenare".
Ugualmente numerose sono is fatturas che vengono fatte per erotizzare o per rendere impotenti, lui o lei. I casi di impotenza, secondo la scienza medica popolare, sono per lo più dovuti all'influsso di segno negativo (o maligno), non tanto di spiriti quanto di persone gelose o malvagie. Un innamorato respinto o una suocera gelosa della nuora sono i maggiori indiziati nel caso di una impotenza che colpisca uno sposo novello. Egli è vittima di fattura; e per ridiventare potente dovrà fare ricorso alle arti magiche di una "luminare" del settore. Ma non sarà mai lui, l'impotente, ad andare dalla "guaritrice" per esporre il proprio caso; sarà invece la moglie, o altra donna di famiglia (madre, zia materna o sorella maggiore), che si occuperà della faccenda, dando tutti gli elementi conoscitivi per il buon andamento della contrafattura.
Nel campo della sessualità si annoverano anche speciali mexinas, terapie più che fatturas, in qualche modo legate alla magia, seppure a base di erbe stimolanti. Lo scopo delle mexinas destinate al maschio è di erotizzare, in particolare di rendere più efficiente il membro. Un problema che non si pone per la femmina in quanto - si dice - lei non ha problemi di erezione e non ha un orgasmo da raggiungere. Le mexinas rivolte alla femmina hanno per scopo la fecondità. La sposa che dopo un anno di matrimonio non resta incinta se ne preoccupa. Per scrupolo di credente si rivolge con preghiere ed offerte a sante che furono prolifiche e che sovrintendono in qualche modo alla filiazione. Non ottenendo alcun esito positivo, si reca allora dalla fattucchiera-guaritrice che conosce le arti magiche per rendere fertili le donne maritate - così come conosce le arti per evitare alle nubili "che ci sono cascate" gravidanze indesiderate.
Per inciso: sono le donne ad avere il monopolio nel fare e nello sciogliere le fatture; ma - si dice - anche i preti ne hanno il potere. Sul tema di preti che fanno fatture, quasi sempre per difendere il loro patrimonio dai ladri o per punire atti sacrileghi, si raccontano numerosi casi nella novellistica popolare che si tramanda oralmente (un genere che è detto in sardo contus de forredda, favole da focolare).


SU SCRITTU
LO SCRITTO

Su scrittu, lo scritto, usato come strumento magico, ha diversi poteri, per lo più di tenere lontani i pericoli da chi lo indossa, ma anche di tenere "legata" la persona alla quale si dona (come amuleto, e per portare fortuna, con valore talismanico, se portato indosso) - ma può anche essere appeso alla porta di casa o a una parete nel suo interno. Abbiamo numerosi esempi di moderni scrittus di cui esiste un fiorente mercato, consistenti in quadretti o tovagliette o ceramiche o legni dove sono scritti versetti sacri o sagge massime, che riempiono le case contadine di paesi come l'Ungheria o la Baviera.
Su scrittu è anche usato nella magia nera, come fattura, per colpire e distruggere un nemico. In questo caso, su scrittu, consistente in terribili e misteriose invettive, avvolge una ciocca di capelli della persona da affatturare; e dopo essere stato abrebau, reso ancora più micidiale con ulteriori maledizioni verbali, viene gettato, talvolta in modo sfrontato, tal'altra nascostamente nel cortile della vittima designata.
Nel secolo scorso e ancora all'inizio del nostro secolo, is iscrittus magici erano assai comuni. I sacerdoti cattolici - a quanto si apprende di documenti del periodo - avevano dato vita a un fiorente commercio di scrittus, che la gente acquistava come amuleti e talismani, nel tentativo di proteggersi dalle mille difficoltà di carattere economico e richiamare un po' di fortuna. Vi erano sacerdoti e frati - scrive il Bechi citandone uno famoso - i cui scrittus erano ritenuti particolarmente efficaci; tanto che ad essi di rivolgevano latitanti e banditi per ottenere uno scrittu specifico capace di fermare le palle dei carabinieri.
Su scrittu scaramantico e nel contempo talismanico consiste normalmente in un pezzetto di carta in cui sono incisi segni cabalistici, parole in latino o versetti sacri, con aggiunta di reliquie di santi, di sostanze benedette, quali incenso, palma, olivo; il tutto racchiuso in un sacchettino di pelle o di stoffa, da appendersi al collo mediante correggia o nastro, a contatto di pelle. Assai usate come scrittu le immaginette benedette che frati e preti sogliono distribuire ai fedeli in cambio di offerte in denaro o in generi alimentari.


SU SPUDU
LO SPUTO

Su spudu, lo sputo, ha numerosi significati e poteri magici e terapeutici. Così come ogni parte che si stacca dal nostro corpo può essere usata da altri contro di noi, le stesse parti possono essere usate da noi per imporre ad altri "la nostra presenza", la nostra volontà, il nostro dominio. Ciò in base al principio magico (e se vogliamo scientifico) che la parte è consustanziale al tutto, e che influendo la parte si influenza l'insieme, oppure agendo con la parte si agisce con la forza dell'insieme. Mettere una goccia del nostro sangue in un infuso da far bere alla donna desiderata ha il valore di entrare in lei "sostanzialmente", di poterla dominare mediante quella parte "nobile" e "attiva" di noi.
Nella medicina popolare lo sputo entra in diversi riti terapeutici. Per esempio in s'affumentu, il suffumigio per guarire dagli spaventi, in cui la guaritrice, al termine del rito, sputa sulla testa del paziente per tre volte, accennando con il capo a tre segni di croce.
Comunissima l'usanza di mettere un po' di saliva (prendendola dalla lingua con la punta dell'indice) sotto il mento di chi ha preso uno spavento. Tale atto viene anche compiuto da sé, su sé stessi da adulti; ai piccoli viene fatto dai genitori o da adulti presenti al fatto traumatico.

Tra le superstizioni dei Sardi - scrive il Domenech - "ve ne sono anche assai buffe. Quello di sputare contro gli oggetti di cattivo augurio è d'una ingenuità sorprendente e vecchia quanto il mondo. Ecco su questa usanza alcuni particolari puerili ma curiosi.
Allorché un fanciullo stride coi denti, stravolge gli occhi, si rotola in terra, tormentato da convulsioni, la madre gli sputa subito sulla faccia, poi gli fa il segno della croce sulla persona. Se uno guarda un bambino con molta attenzione, con lo sguardo fisso, e nell'accarezzarlo fa i suoi elogi, non appena se ne va, la madre sputa dietro le spalle dell'imprudente adulatore e sulla faccia del figliolo.
Questa superstizione sembra che esista anche nella Spagna, se si deve credere al piacevole autore delle "Novelle Andaluse", giacché su Paz y Luz, Fernando Caballero fa dire a Juana: "Non si deve mai guardare un fanciullo senza benedirlo… Si dice che faccia male al fanciullo, il guardarlo a lungo mentre dorme."
Quando i Sardi vanno a visitare un malato, sputano in terra sul limitare della casa, e fanno altrettanto prima di apprestare i rimedi. I pastori sputano sulle pecore e sugli agnelli appena nati. Non pochi cavalieri sputano tre volte nella mangiatoia dei loro cavalli, allorché un passante si diverte a guardarli mangiar l'orzo o l'avena.
Sputare è per il popolo ciò che "le corna" sono per gli Italiani in generale, e pei Napoletani in particolare; un mezzo cioè di allontanare la cattiva sorte, di prevenire o distruggere le cattive influenze. Le superstizioni nascono e s'impongono ordinariamente senza alcun genere di logica; on occorre dunque ricercarne la causa e la ragione. Mi contenterò di citare qualche passo dei libri antichi che ne confermano l'antichità.
Nel libro di Giobbe, come in quello di Isaia, si vede che, allora come oggi, sputare su qualcuno era un segno di spregio; ma nel Libro dei Numeri, lo stesso Dio parla di questo atto come un segno di castigo e di maledizione. Era, poi, secondo il Deuteronòmio, un segno di esecrazione e d'imprecazione: poiché è detto che colui il quale avrebbe rifiutato di sposare la moglie del fratello, morto senza figli, sarebbe condotto da lei alla porta della città, dove, dinanzi agli anziani del popolo, gli toglierebbe i sandali e gli sputerebbe in viso, dicendo: "Così sia fatto all'uomo che non edifica la casa del fratello".
I Cananei, gli Egiziani, gli Etruschi e i Greci, come ancora altri popoli, avevano questo stesso simbolo di disprezzo e di esecrazione. Luciano, nel suo Dialogo dei Morti, nel parlare del mago babilonese Mitrobarzane, dice: "Dopo questo incanto, gli sputò tre volte sulla faccia, si voltò indietro, senza guardare alcuno, ecc.".
I Sardi non sono dunque ridicoli, se hanno ereditato queste curiose superstizioni di cui ignoriamo l'origine e il significato. Essi le subiscono come le hanno subite i loro padri, e sono talmente fermi nelle loro usanze che sarebbe troppo difficile sradicarle."
(Tratto da E. Domenech - Pastori e banditi - 1987)

Domenech è uno dei pochi studiosi che fornisce documentati elementi conoscitivi di comparazione, negli usi e nei costumi, tra il presente in Sardegna e il passato nelle culture pagane di popoli dell'area mediterranea; pertanto facilmente scusabili in lui alcuni luoghi comuni e pregiudizi su aspetti della medicina popolare definiti "superstizioni prive di causa e di ragione".
Molto ci sarebbe da aggiungere (se lo consentisse l'economia di questo lavoro) su "lo sputo" inteso come sostanza vitale e dotata di molteplici virtù terapeutiche, sia nella sfera del fisico che dello psichico, e su "l'atto dello sputare" che quasi sempre non ha, come comunemente si crede, significato di disprezzo, ma più precisamente significati propiziatori e scaramantici.
Lo sputo usato come terapia o propiziazione: sputare sul viso di chi ha preso spavento (spesso sostituito dalla imposizione del dito indice bagnato della propria saliva sulla fronte e più spesso sulla gola di chi ha preso spavento); sputare sul capo del paziente, quando sia affetto da azzichidu (spavento), a conclusione del rito terapeutico detto s'affumentu (suffumigio magico); sputare davanti ai piedi o anche sul viso della persona alla quale è stato liau ogu, che ha subito il malocchio; sputare o umettare con la lingua l'uovo, prima di metterlo a cuocere in su fari rari, nella cenere calda del camino, "perché così facendo non si romperà", sputare o umettare di saliva una ferita per fermare l'emorragia e per evitare l'infezione; umettare di saliva un pane pregiato tracciandovi un segno di croce con le labbra dopo averlo confezionato o prima di metterlo al forno; masticare e insalivare del cibo duro e coriaceo - un atto d'amore della madre al piccolo che ancora non ha i denti. Inumidire con la propria saliva il corpo di chi si ama è proprio dell'atto di baciare: non credo che il bacio tra innamorati, che usa la saliva come ingrediente erotico, sia da considerare una "superstizione" o che possa definirsi atto "privo di causa e di ragione".
Lo sputo usato come scaramanzia, come difesa: sputare dietro persona che si ritiene iettatrice o portatrice di malocchio; sputare su animale pianta oggetto ostili, che ci hanno ferito, per esorcizzarli; sputare per esorcizzare la morte o spiriti demoniaci; sputare allorché si nominano "sa giustizia", "sa forza" (la polizia e i carabinieri), e altre istituzione ritenute demoniache, per esorcizzarle; infine, usare la saliva nella composizione di filtri magici "ammalianti".
A un osservatore superficiale pare che l'atto dello sputare per terra, davanti a sé, sia un segno di disprezzo - come lo sputare in faccia a qualcuno viene ritenuto affronto grave. In effetti, tale atto è originariamente (e continua a conservare lo stesso segno nell'uso popolare) un rito scaramantico, esorcizzante. Cioè a dire, lo sputo è ritenuto un potente talismano che tiene lontane le forze del male. Si sputa "su" e "per" qualcosa che si teme, che è bene tenere lontano. Da qui, appunto, l'uso popolare di sputare per terra quando si nomina la "giustizia" o quando si vede passare qualcuno che la rappresenta. Ed se è vero che taluno è stato incriminato per "oltraggio a pubblico ufficiale", avendo sputato alla vista di un poliziotto, è anche vero che condannandolo si è dimostrata una buona dose di ignoranza nel costume (e quindi nei significati) della gente. Alla quale non può essere negato il diritto di difendersi con gesti scaramantici (e pertanto nonviolenti) da chi è provato che "porta male" - sia che si sputi, alla sarda, o che si tocchi ferro o parti intime, all'italiana, o si facciano le corna, alla napoletana, o che si facciano le fiche, secondo l'antico costume greco e romano, o che infine si reciti una Ave Maria o altro scongiuro di tipo "culto", diffuso dalla casta sacerdotale, quale il medioevale sator arepo tenet opera rotas, che come l'abacadabra si dice buono non solo per esorcizzare un nemico, ma anche come scrittu per ammaliare fanciulle.
Curiosa l'usanza - molto diffusa tra i fanciulli, che certamente l'hanno ripresa dagli adulti, presso i quali per altro è in disuso - di lanciare a un nemico la propria sfida tracciando una linea per terra, sputando ed esclamando: "Marrano, se salti questo segno!" Saltare "quella" linea significa invadere i confini di un territorio che appartiene ad altri, e comporta, come d'uso, la guerra. Remo è morto ucciso dal fratello Romolo per avere osato saltare un segno di confine, seguendo un rito bellicoso non dissimile da quello ancora diffuso tra i nostri ragazzini di scuola - con conseguenze per fortuna meno cruente: dato luogo alla singolare disfida, se le suonano di santa ragione.
Normalmente - ma direi meglio spontaneamente - la saliva viene usata per curare le ferite - come d'altronde fanno istintivamente anche gli animali. Una sbucciatura al ginocchio, in un ragazzo che cade, viene prontamente curata umettandola con saliva: applicata con le dita o con una leccata. E' l'unico modo possibile di proteggere una ferita, quando ci si trova in campagna, in assenza di acqua per detergere e di disinfettanti per evitare l'infezione.
Inutile dire che la scienza medica, seppure di malavoglia, ha finito per scoprire le proprietà coagulanti e antisettiche della saliva - quasi si sentisse il bisogno di dare una giustificazione razionale a un fatto naturale.
Anche l'urina - per la gente di campagna - è considerata un buon disinfettante. Pisciare su una ferita anche grave, in attesa di cure più idonee, per lo più a base di erbe, che verranno effettuate in paese dalla guaritrice, è uso comune per chi lavora in campagna, e non è abbastanza "evoluto" da potersi permettere la cassetta del pronto soccorso. Non è il caso di ricordare le usanze esquimesi, i quali, come si sa, usavano lavare il neonato con l'urina calda dei genitori, prima di spalmarlo di grasso.
Anche le feci appena emesse di alcuni uccelli sono considerati buoni medicamenti per lievi ferite o per curare l'acne giovanile. Mi è accaduto di frequente vedere una massaia correre ad attingere con un dito allo sterco di gallina ancora caldo, per ungerlo sopra una ferita o sul viso proprio o di una fanciulla - per fare la pelle morbida vellutata.
Dei ragni, invece, viene usata la tela - considerata un ottimo emostatico. Quando una ferita sanguina e non si riesce a fermarne l'emorragia, le donne che assistono l'infortunato prendono una tela di ragno, il più possibile fitta, e la applicano, ottenendo buoni risultati. Anche qui,la scienza interviene per dire che sì, la ragnatela ha proprietà emostatiche. E c'è perfino chi aggiunge che deve esistere una certa affinità tra la ragnatela e la tunica reticolare (l'omento) che avvolge gli intestini, appunto con la funzione di fermare eventuali emorragie interne. Sta di fatto che sa nappa de aragna, la tela di ragno, di cui vi è abbondanza nei buchi dei muri di mattoni di fango dei nostri cortili, risponde egregiamente al compito per cui viene usata. Ed è estraneo a questo scritto sia la presunzione di chi guarda con sufficienza alla medicina popolare (salvo poi a ricorrere, essi stessi, come tanti di mia conoscenza, alle cure delle "fattucchiere", quando la medicina ufficiale non è riuscita a cavare il classico ragno dal buco); sia il tentativo di trovare basi scientifiche e razionali alla materia e ai riti della stessa medicina popolare, nel tentativo di affibiarle una dimensione moderna e civile - della quale il popolo, in verità, non sa che farsene.


IS OSSUS DE MORTU
LE OSSA DEI MORTI

Dai tempi preistorici, ossa di umani e ossi di animali hanno rivestito un ruolo importante nella preparazione di amuleti e talismani, nella terapia di molte malattie, nella esecuzione di riti magico-religiosi.
Nella economia dell'uomo primitivo, gli ossi di animali hanno fornito la materia prima per la fabbricazione di utensili e armi. Per la loro durezza, resistenza e duttilità potevano essere lavorati e trasformati in attrezzi acuminati o taglienti, e alcuni, sezionati, trasformati in rondelle decorative - per ottenere ciondoli o collane e bracciali, che, per gli attributi propri dell'animale cui l'osso apparteneva, diventavano talismani o amuleti specifici.
I sacri testi della mitologia greca ed ebraica dicono che le mascelle di leone e di asino, se impugnate da un eroe, costituiscono una formidabile arma da combattimento. Ercole figlio di Zèus e Sansone figlioccio di Jahvé, brandendo tali armi ossee, fanno strage di nemici.
Difficile che nei filtri e beveraggi magici terapeutici o ammalianti non entrino componenti ossee di un animale o di un altro, secondo l'uso che se ne vuol fare.
Per legge di "affinità" o di "simpatia" o anche per quella "dei simili che si elidono a vicenda", particelle ossee di animali forti "danno forza", se virili, "danno virilità", se astuti "danno astuzia", tanto se ingeriti che tenuti addosso. L'itterizia, che ingiallisce l'incarnato, si cura con infusi a base di erbe gialle; l'impotenza maschile si cura mangiando testicoli di maschi potenti, quali il toro e il gallo; la morte si esorcizza indossando scaramanticamente parti del corpo di un morto o di suoi indumenti o della sua bara; infine, particelle corporali di un malato hanno il potere di tenere lontana "quella" malattia.
Nella storia della magia, le ossa dei morti non sono meno usate degli ossi degli animali. Il culto dei Morti nei Cristiani si risolve per lo più in esposizione in appositi santuari di lugubri residui ossei, costituiti talvolta da corpi mummificati, mucchi di tibie, crani. Presso i Cristiani ha sempre avuto fortuna il commercio di sacre reliquie, costituite da particelle ossee o cenere, usate negli scapolari, come talismani e amuleti, o anche da ingerirsi, con o senza altri ingredienti, come farmaci contro le più diverse malattie.
La Sardegna non fa eccezione a una regola comune in tutto il mondo. Stupisce allora vedere studiosi di etnologia (a ragione definiti colonialisti) arrabattarsi per tentare di dimostrare (attraverso la documentazione dell'uso di teschi e ossa) che presso i Sardi (specie barbaricini) permangono culti barbarici e superstiziosi - da giustificare la presenza armata di civilizzatori.
Eppure a scuola abbiamo appreso di civilissimi monarchi, che andavano a braccetto con venerabili papi, che bevevano nei teschi impreziositi dagli orefici, ottenuti dalle teste di loro temibili nemici debitamente assassinati: un uso di chiaro significato magico-scaramantico. Meno blasfemo il "barbaro" guerriero boscimano, che appende il cranio del nemico, lealmente ucciso in combattimento, sulla parete della capanna - per conservarne le virtù e il valore. Naturalmente senza "malvagità sanguinaria", i civili colonizzatori sabaudi, ancora agli inizi del secolo scorso, usavano in Sardegna mozzare le teste ai popolani ribelli, e appenderle in cima a un palo, "per dare un esempio alle popolazioni" - un macabro rito scaramantico proprio del potere, che così facendo credeva di scongiurare il pericolo di nuove rivolte.
Si scopre dunque in Sardegna (e meno male, anche nell'area del Mezzogiorno) l'usanza popolare di attingere agli ossari, per ricavare dai crani dei morti rondelle da appendersi al collo, come protettivi contro il mal caduco o santo che dir si voglia. E' l'ennesima scoperta dell'ombrello. Non si è scoperto né insegnato nulla che già non si sapesse - in particolare a quanti nottetempo usano attingere ai depositi di ossa, riservati al culto cristiano, per trarne rotelle magiche con operazione di alta chirurgia.
Che dire allora dell'usanza nazista di ottenere rivestimenti per lampadari dalla pelle conciata dei cadaveri gasati? Perché l'etnologia ufficiale (se non vuole essere chiamata coloniale) non studia e classifica e interpreta i reperti attinenti a tali fatti - espressione del massimo grado di civiltà tecnologica, cui può giungere il capitalismo al potere, in uno dei paesi più evoluti del mondo?

Nota. Ossus de mortu, ossa di morto, vengono chiamati certi dolci tipici del 2 novembre, elaborati a forma di tibia o di pesce. Come tutti i tradizionali dolci dedicati ai Morti, si ottengono con farina impastata con sapa e insaporiti con la cannella. Fatti in casa, venivano anche venduti nelle pasticcerie dei rioni popolari, a Cagliari, per tutto il mese di novembre. Golosa magica memoria della mia fanciullezza cagliaritana, ho ritrovato alcuni anni fa a Pirri is ossus de mortu in alcune pasticcerie; ma anche qui, come a Cagliari, vanno scomparendo.


IS CONCAS A BAGNU / PO FAI PROIRI
LE TESTE A BAGNO / PER LA PIOGGIA

Tra le cerimonie magiche condannate dalla Chiesa come stregonerie, ve ne è una di origine remota: quella di immergere un animale nell'acqua per invocare la pioggia, nei periodi di lunga siccità.
La siccità è in questa Terra uno spietato nemico, che le forze dell'uomo - intente a realizzare opere di rapina - non hanno potuto debellare: neppure le forze tanto tecnologicamente sviluppate del colonizzatore attuale. E così, ciò che trascende l'uomo, che va oltre la sua capacità di comprendere e di dominare, continua a restare nella sfera del magico, del divino, dell'occulto. E trattandosi di un nemico tanto dannoso, non stupisce la quantità e la frequenza di riti per propiziare la pioggia nel mondo contadino e pastorale.
Tra i più singolari riti magici relativi alla siccità (a parte l'attuale riempimento di carte bollate stilati con specifici brebus d'invocazione al competente Assessore regionale per ottenere risarcimenti) si annoverano quelli della immersione nell'acqua di teschi umani e di animali (vivi o morti).
Dell'usanza popolare, diffusa anche fuori dell'Isola, di immergere in acqua un cane morto per propiziare gli dei della pioggia, si ha notizia nella Decisio de superstitione del 1702 - opera che consiste nella elencazione delle superstizioni allora in uso, condannate dalla Congregazione dei Casi; e specificatamente per la Sardegna esistono numerose testimonianze di storici, alcune raccolte dallo scrivente.
Il rito della immersione del cadavere di un cagnolino in una pozza o in un corso d'acqua, è quanto mai simile a quello dell'interramento (sempre di un cucciolo) ai piedi di un albero per renderlo fruttifero (che ho descritto in altra parte di questo lavoro). In ambedue i casi, trattasi certamente di una offerta sacrificale alle divinità ctoniche della fertilità, per propiziarsele.
L'usanza di immergere uno o più teschi umani in acqua (della quale non ho trovato testimonianze dirette) viene descritta da uno studente di Tertenìa (nell'alta Barbagia) al professore Alziator, resa nota nel 1962:

"L'operazione viene eseguita al novilunio da un gruppo di persone in numero dispari (minimo tre massimo sette); il più anziano scende nell'Ossario del cimitero e ne trae uno o più teschi (mai in numero pari), quindi la brigata si reca al più prossimo corso d'acqua per l'immersione…"

Non so fino a che punto la testimonianza di uno studioso accademico possa non essere influenzata dalla conoscenza di descrizioni dello stesso rito fatte da altri ricercatori, dato che è buona norma, nel lavoro di ricerca accademica, l'autenticazione della validità della propria tesi con quelle di precedenti ricercatori "accreditati" dal potere. A mio avviso, la poca credibilità della cerimonia citata, riferita al presente, si fonda anche sulle difficoltà attuali obiettive di accedere "in schiera" nei camposanti, di penetrare negli Ossari e di prelevare teschi.
Certamente, questo e altri consimili riti propiziatori della pioggia dovevano essere diffusi nei tempi andati, e non è difficile vedervi residui di antichi sacrifici, anche umani, offerti alle divinità della Terra provvedenti alla fertilità e all'abbondanza.
Una riprova della diffusione di tali riti magico-religiosi e della loro persistenza fino a tempi moderni, si ha nelle numerose attuali usanze cristiane, di cerimonie organizzate ed effettuate per lo stesso scopo: processioni per la pioggia, con particolari inni sacri, dove il crocefisso levato in alto sulla folla - Agnus Dei qui tollit peccata mundi - è la vittima sacrificale, l'offerta "privilegiata", umana, per placare l'ira della divinità e propiziarsene la benevolenza; così pure le rituali immersioni di crocefissi e immagini e reliquie di santi nell'acqua benedetta, sostituiscono simbolicamente, nel sacrificio, la originaria vittima umana, poi sostituita dal teschio e infine dal cachorro, dal cagnolino, nel culto popolare.
Mitigati gli antichi costumi cruenti e dato un nuovo valore alla vita umana e animale (parlo di costumi del popolo, non del potere che continua a sacrificare immenso numero di creature nei suoi riti bellici), la vittima umana, il fanciullo, viene sostituita da una vittima animale, il cagnolino; e in parallelo, la vittima vivente viene sostituita da un cadavere o parte di esso. Ma resta inalterata la sostanza magico-religiosa di un rito che risale alle origini della comunità umana.


IS PIPPIUS INTERRAUS BIUS
I BAMBINI SEPOLTI VIVI

"Nelle campagne del centro dell'Isola ho inteso ricordare l'antichissimo costume di nascondere i nemici, seppellendoli in una fossa scavata sotto i muriccioli fatti di sassi uniti senza cemento.
Nel centro della Sardegna ha pur inteso ricordare l'antichissima usanza di seppellire un bambino nell'entratura degli ovili. Si supponeva che in tal modo si riuscisse ad impedire il furto degli armenti. Il costume si è addolcito da secoli e secoli ed ora (così mi fu detto nel Nuorese) al seppellimento di un bambino vivo si sostituisce in qualche regione quello di un cagnolino. Di costumi analoghi si trova traccia del resto in altre parti del mondo."
(Dalla storia della Sardegna del Manno - Vol.II - Cap. XI - Sez. Culti e persistenze religiose)

La descrizione di questa usanza, inserita nel contesto di una valutazione morale e politica dei Barbaricini, discriminati dal resto dei Sardi, non mi sembra attendibile. Intanto, non poggia su alcun documento, e vago è il riferimento a testimoni del suo tempo (a metà del secolo scorso). Infine, questi testimoni sostengono una strana tesi, e cioè quella che l'usanza di seppellire il bimbo è stata da essi sostituita dal seppellimento di un cagnolino, sottintendendo così di aver conosciuto di persona o per sentito dire la prima usanza - che lo stesso Manno riporta a tempi "antichissimi", presumibilmente all'età della pietra (neolitico) o al nuragico (bronzo).
L'animus antibarbaricino del Manno si rileva dalle valutazioni che egli fa seguire alla notizia sopra riportata: "Il secolare isolamento nel quale hanno vissuto gli abitanti delle regioni montuose della Sardegna vi ha mantenuto pressoché inalterati riti e costumi che ricordano i primi stadi della civiltà umana." E' un modo elegante, scomodando l'isolamento, per dire che i Barbaricini sono rimasti "barbari". Ed è sottinteso che devono essere civilizzati. Come, ce lo dice la storia della colonizzazione. A mio avviso (sul tema di "Culti e persistenze religiose"), "l'isolamento" entra assai relativamente. Basta vedere quanto dei riti e dei costumi che risalgono alle origini della società umana permangono in ogni parte del mondo, e in particolare in quelle definite più progredite e più civili, di religione cattolica.
Partendo dall'usanza fenicia, diffusa anche in Sardegna, di offrire in olocausto al dio Moloch fanciulli in tenera età, il "raptus della scoperta" spinge gli studiosi a ricercare, e a trovare, altre forme di sacrifici umani nel pregiudicato mondo nuorese, finendo per trovarne addirittura nell'uscio di casa.
All'usanza di seppellire un cagnolino sull'uscio di casa - usanza riferibile non solo al Nuorese (come fa il Manno) ma a tutta l'Isola e più in particolare al Cagliaritano - fa riferimento un documento arcivescovile del 1715: "… Entierran un cachorro vivo en el lindar de la puerta, luego che nace el niño, para que en virtud de essas diligencias tengan muchos años de vida". Dove il seppellimento del cachorro ha luogo subito dopo la nascita del niño, come auspicio di lunga vita.
Siamo ben lontani dal poter dimostrare l'esistenza dell'uso di seppellire fanciulli vivi davanti all'ingresso di abitazioni o di ovili; né è da ritenersi prova il ritrovamento di resti umani, vicino alle fondazioni di case, poiché nelle tradizioni funerarie sarde i cadaveri venivano conservati (interrati) nei cortili o nei pressi della abitazione, per essere in un secondo tempo raccolti i resti nelle apposite tombe scavate nella pietra (domus de janas).
Abbiamo invece numerose testimonianze, recenti e anche attuali, sull'uso di seppellire animali, in particolare cani, sia davanti all'uscio di abitazioni e all'ingresso di ovili, sia specialmente ai piedi di alberi da frutto pregiati, coltivati nel cortile di casa, come il limone, per renderli più fruttiferi. In verità, le testimonianze raccolte da me nei Campidani, oristanese e cagliaritano, non fanno mai riferimento al seppellimento di un cucciolo vivo, e specificano sempre che tale costume si pratica soltanto per gli alberi, in particolare agrumi, quando non danno frutto per cause non spiegabili razionalmente e che quindi si suppongono dovute a magia (malocchio).


IS PIPPIUS ARRUSTU
I BAMBINI ARROSTO

Sacrificare bambini alla divinità, per propiziarsene i favori, si dice che fosse usanza religiosa diffusa nelle comunità antiche nell'area del Mediterraneo e nell'Asia Minore, e in special modo tra i Fenici e i Sardi. C'è chi, come fa il Domenech (studioso "non scientifico" del costume isolano), ha ironizzato sul costume di arrostire i piccoli in appositi forni sacrificali (i cosiddetti Tophet), preferendo l'altro costume degli indigeni, di arrostire tra i sassi di focolari campestri agnelli, capretti e porchetti. Costume, quest'ultimo, che ancora persiste - fintantoché il processo di degradazione dell'ambiente, innescato dalla civiltà del petrolio e del nucleare, ci consentirà di tenere in vita, con noi, tali saporite bestiole sacrificali.
Cedo sull'argomento la parola al Domenech, il quale scrive:

"Si sa che Moloch aveva un gusto particolare per le vergini e i fanciulli arrostiti. Questo dio, per quanto propriamente ammonita (Ammoniti, seguaci del dio Ammon, rivale del dio degli Ebrei - ndr) aveva dei sosia da Cartagine fino alla Persia. In fatto di religione, possiamo osservare che gli uomini si copiano molto e che inventano ben poco.
Gli Ammoniti avevano due modi d'onorare e di placare questa mostruosa divinità. Essi l'onoravano "iniziando" ai suoi misteri i loro figli e figlie, facendoli cioè passare attraverso le fiamme dei grandi fuochi accesi davanti al suo idolo; ciò che il profeta Geremia chiama "initiare filios et filias Moloch" (…). Si placava questo dio barbaro, sacrificandogli in olocausto i fanciulli, che facevano bruciar vivi. Geremia lo dice chiaramente: "Ed essi hanno costruito in alto luogo a Baal, per bruciare col fuoco i loro figli e le figlie e farne olocausto… (…). Questa barbarie è scomunicata da Dio in questo modo: - Tu dirai ai figli di Israele: Chiunque dei figli d'Israele, o degli stranieri che vivono in Israele, darà dei figli a Moloch, sarà punito di morte, il popolo del paese lo lapiderà". (…).
Io credo che questo culto avrebbe avuto minor successo e meno seguaci se si fossero obbligati i padri e le madri a bruciarsi al posto dei figli, quando volevano sacrificare a Moloch. Questa innovazione sarebbe stata senza dubbio male accolta, soprattutto in una regione dove i fanciulli pullulavano.
Il passaggio del fuoco si faceva, secondo certi dotti che sanno ogni cosa, col far passare il fanciullo nello spazio dei due fuochi posti uno accanto all'altro. Secondo altri, non meno sapienti dei primi, il fanciullo veniva posto a sedere su una grata, appesa con due catene alla volta del tempio, poi lanciato attraverso le fiamme. Sarà stata questa grata, per caso, a dar l'idea dell'altalena? Una terza categoria di sapienti, ancora più dotta delle precedenti, sostiene che i fanciulli saltavano dalle braccia di un sacerdote in quelle di un altro sacerdote, passando attraverso le fiamme d'un fuoco acceso tra i due ministri del dio Moloch. L'ultima categoria di dotti che si sono occupati di queste quisquilie storiche assicura che non si conosce affatto come avvenisse questo passaggio del fuoco. Ed è anche la mia opinione.
Il modo di arrostire queste disgraziate creaturine è del pari controverso; ma poiché in Sardegna non li arrostiscono più nemmeno nei luoghi dove esistono ancora i fuochi di San Giovanni, lascio d'accennare alla controversia.
Eusebio, che ci ha fatto una descrizione minuziosa di Moloch dei Fenici, ci assicura che il fanciulla veniva seduto o coricato nelle mani aperte dell'idolo di bronzo riscaldato ininterrottamente; allorché il calore del metallo cominciava a far soffrire il povero fanciullo egli gridava e s'agitava finché uno dei suoi movimenti lo faceva cadere in un braciere ardente situato ai piedi della statua, nel quale il corpo si consumava istantaneamente.
Diverse copie piccole di quest'idolo descritto da Eusebio sono state scoperte in Sardegna; ciò fa pensare che il culto del Moloch fenicio sia stato in vigore fra i Sardi. Di questo orribile culto essi hanno conservato le iniziazioni al fuoco, senza dubbio alcuno sulla loro origine.
Al giungere della primavere s'accendono grandi fuochi sulle piazze e nei crocevia dei villaggi, e allorché la fiamma è maggiormente ampia, i fanciulli la saltano a piedi nudi, come ho veduto fare per San Giovanni in Catalogna e nel Mezzogiorno della Francia".
(Tratto da Emanuel Domenech - Pastori e banditi - Cap. IX Il passaggio sul fuoco e il modo di arrostire i fanciulli - 1867)


CONTRAMAZZINAS, PUNGAS e ITIFALLUS
AMULETI E TALISMANI

Si fa confusione talvolta tra i termini di amuleto e talismano, per la non univoca funzione di certi simboli, e anche perché con il mutare della società nei tempi si sono modificati i valori originari dei simboli.
L'amuleto indica qualunque elemento che possiede il potere di tenere lontano il male. Il talismano invece indica qualunque elemento che ha il potere di attrarre il bene. In altre parole, l'amuleto è un preservativo; mentre il talismano è un portafortuna.
Ci sono elementi, come le reliquie dei santi o i cornetti, che hanno doppia funzione: preservano dal male e dal malocchio e allo stesso tempo portano bene e salute.

Is contramazzinas, letteralmente "contro-magie", indicano in genere gli amuleti. Sono numerose e hanno il potere di allontanare ogni genere di maleficio dalle persone che le indossano. Sa contramazzina, l'amuleto, deve essere indossata a contatto di pelle, perché sia efficace, e non di rado il suo potere magico aumenta se viene applicato sul corpo della persona da proteggere dal fattucchiere che lo ha preparato. Vi sono contramazzinas specifiche per preservare il malocchio, come il fiocco verde o un pezzo di corno di cervo; o come is iscrittus, gli scritti, per preservare dall'incorrere nella giustizia o da una morte violenta; o come denti o altre reliquie di morti (meglio se santi) per preservare da certe malattie.
Tra gli amuleti più popolari, su froccu birdi, il fiocco verde, di seta, cotone o lana, legato intorno al polso dei bambini e al collo delle fanciulle, alle zampe o al collo degli animali da cortile, e perfino applicato ai mobili della "camera bella", la stanza dove si ricevono gli ospiti; su pinnadeddu, un dischetto forato ottenuto sezionando un corno di cervo, debitamente fatato da un fattucchiere mediante brebus, parole rituali, recitati in una notte di plenilunio; diverse pietre dure e corallo, appesi al collo o al polso (talvolta veri e propri oggetti di gioielleria, elaborati in filigrana d'oro e d'argento); is buttonis, i bottoni, tipici dell'antico abbigliamento dei Sardi, in filigrana d'oro o d'argento, consistono in una sferetta che ha un gancetto per essere fermato con il filo alla stoffa, e dalla parte opposta una protuberanza (talvolta una granata o altra pietra dura), configurando chiaramente una mammella con capezzolo eretto.

Is buttonis del costume sardo si applicano di solito in coppia (simili ai gemelli) nel colletto e nei polsini della camicia. Simbolo della maternità, hanno valore talismanico, portatori di fertilità e benessere. Su buttoni, portato singolarmente come pendente, specie se appeso a nastro verde, è un amuleto particolarmente efficace contro il malocchio e alcune fatture.

Is pungas, i talismani, è vocabolo che i Campidanesi hanno ripreso dai Logudoresi. Indicano qualunque elemento che porta fortuna, salute, benessere.
Is pungas più diffuse sono is iscrittus, che consistono in un pezzo di pergamena o di carta o di stoffa su cui sono scritte parole magiche o immagini o simboli sacri, racchiuso in un sacchetto di pelle o di panno, da appendersi al collo e da tenere a contatto di pelle.
Questo talismano viene sempre più sostituito da quelli messi in commercio dalla Chiesa, detti volgarmente is iscapularius, gli scapolari (dall'uso di portarli doppi, a bisaccia, uno davanti sul petto e l'altro dietro, tra le scapole), che si dice contengono immagini di santi con preghierine scritte o reliquie di santi martirizzati dai pagani.
La funzione di is iscrittus, come quella degli scapolari cattolici, è principalmente quella talismanica "di portar bene", ma preservano anche dal maligno, dagli influssi negativi.
In passato - come in altri popoli del Mediterraneo - un talismano comune consisteva nella rappresentazione, in miniatura, del sesso, maschile o femminile, o ambedue uniti come nella manufica (di cui si parla in altra parte di questo capitolo). Il sesso, simbolo di fertilità e di benessere, nelle due diverse rappresentazioni, era considerato il talismano per antonomasia.

S'itifallu, termine comune all'italiano antico, deriva dal latino ithyphallus, a sua volta ripreso dal greco euthys, eretto, e phallos, pene, indica un talismano diffusissimo nell'antichità, raffigurante un fallo in erezione, in osso o corallo o pietra o anche in metallo prezioso, che veniva portato come ciondolo alla vita, al collo o al polso.
Scrive il Battaglia, nel suo dizionario:
 
"Itifallo, simulacro del fallo in erezione, simbolo della fecondità, che veniva portato in processione durante le feste in onore di Dionìsio, dette fallophorie. Anche le cerimonie, i canti e le danze che accompagnavano questa processione."

Itifalli erano pure detti gli uomini che nei baccanali si mascheravano da fauni e satiri, recando un fallo appeso alla cintola; così pure venivano chiamati i pani di forma cilindrica, preparati in occasione delle feste in onore di Dionìsio, il cui ricordo dura nelle forme che si danno ancora oggi a certi pani, detti "bastoni", e nelle "offelle", pasticcini usati dagli auguri nell'antica Roma - gli stessi che si gettavano in pasto a Cerbero per placarlo.
Infine, D'Alberti scrive:

"Itifallo, sorta di amuleto che gli antichi portavano appeso al collo come preservativo delle malattie e degli altrui cattivi disegni".

Per D'Alberti, amuleto e non talismano. E' probabile che usi il termine antichi riferendosi a gente vissuta qualche generazione prima della sua, e non invece ai popoli dell'antichità, di religione pagana - i quali, come si è visto, davano a questo simbolo esclusivamente valore talismanico.


IS INGESTUS
I GESTI

In una società come la nostra, che si definisce razionale e scientifica, si dovrebbe supporre che amuleti e talismani, scongiuri e gesti scaramantici siano ormai soltanto un ricordo di tempi lontani e bui - sono invece ancora diffusi, e attualmente in rialzo. E' la prova che "scientificità" e "razionalità" sono soltanto la facciata di un edificio, nel cui interno l'uomo vive il dramma dell'insicurezza e della paura.
Non interessa in questo lavoro il dato statistico. Ciascuno di noi può facilmente rendersi conto di quanto frequente sia nella gente il ricorso alla preghiera, allo scongiuro, al gesto scaramantico - compiuti spesso nascostamente o in modo apparentemente scherzoso.
Quando si vede qualcosa che "porta male", gatto nero o specchio rotto o carrozza mortuaria o sale versato; quando si pronuncia una parola che evoca pensieri di dolore e di angoscia, come morte o galera o fame; quando si crede che qualcuno parli male di noi o si sospetta che vi sia invidia da parte di qualcuno nei nostri confronti; quando si vuole scongiurare una iettatura, anche soltanto invocata, si ricorre allo scongiuro o al gesto scaramantico o a tutti e due insieme.
Agli scongiuri, ai gesti scaramantici, si aggiungono le preghiere, le invocazioni, i gesti propiziatori, che portano fortuna, che si fanno quando ci si accinge a compiere un'opera significativa, come fare il pane, seminare la terra, potare la vigna, o più modernamente quando ci si siede al tavolo da gioco, ci si cimenta in una gara sportiva o si affronta un esame.
In questa miriade di gesti, scaramantici o propiziatori, il più ricorrente sembra essere quello di farsi il segno della croce - buono per ogni uso. Fare il segno della croce è diventato gesto tanto comune e frequente che accade di vederlo compiere al vecchietto che attraversa la strada, al bambino che ruba la marmellata, alla donna che riceve una confidenza dalla comare, allo studente che viene chiamato all'interrogazione, al distratto che non trova le chiavi di casa, alla fanciulla che ha fatto un brutto sogno, al rapinatore che entra in banca, e nelle più svariate circostanze: quando su strada si supera un'altra auto, quando arriva la la bolletta della luce o della SIP, quando si riunisce il governo per provvedimenti economici, quando si vede un poliziotto… Diciamo la verità: quante volte facciamo la croce o le corna o le fiche, quante volte tocchiamo ferro o le palle, quando suona il campanello di casa perché può essere una comunicazione giudiziaria?

Nota. Il gesto tipico sacerdotale del levare sulla gente la mano (composta con il mignolo e l'anulare chiusi, e il medio, l'indice e il pollice aperti e divaricati), in segno di benedizione o propiziazione, è un gesto che può essere compiuto anche con opposta intenzione. Con lo stesso gesto si può benedire o maledire - in virtù del principio della ambivalenza delle forze della natura, per cui è difficile all'uomo stabilire i confini tra il bene e il male. La storica rivolta anticlericale di Cabras del 1945 mosse da un equivoco gesto della mano compiuto dal vescovo di Oristano sui fedeli: interpretato da questi come un tentativo di dare la maledizione, per attriti sorti tra il parroco e la comunità, si mossero in massa per fermarlo. Il vescovo rischiò il linciaggio.
(Vedasi dell'autore Tempo presente - Cronache di lotte popolari - N. 2 febbraio 1963; e"La rivolta dei pescatori di Cabras" - Marsilio Editori - 1973).


SU FAI IS FICAS
IL FAR LE FICHE

Tra i gesti scaramantici più comuni, specie tra le donne e i fanciulli, è quello detto di fai is ficas, fare le fiche. Consiste nell'allungare il pugno chiuso, mettendo il pollice tra l'indice e il medio.
Tale gesto esprime viva ripugnanza verso persona, animale o cosa, o anche verso parole o supposti pensieri, ha valore scaramantico o di scongiuro, nel senso di allontanare un pericolo o di esorcizzare il maligno evitando i suoi influssi; ha anche, ma più raramente, significato propiziatorio, di buon augurio (equivalente al gesto degli Yankees nel congiungere il pollice e l'indice descrivendo la O dell'okay).
Rispetto ai significati originari del "far le fiche", di carattere positivo, con il passare del tempo, per influssi cristiani, prevalgono i significati negativi. Il gesto, certamente antichissimo, e noto anche agli antichi Romani, è di origine orientale, da cui provenivano talismani di varia fattura, per lo più sotto forma di ciondolo, raffigurante la manufica (una manina di materia anche preziosa, nel gesto appunto di un pugno chiuso con il pollice sporgente tra l'indice e il medio). Dove non è difficile vedere nel pollice il simbolo del fallo, e nelle due dita che lo stringono il simbolo della fica.
Tale gesto, rappresentante l'organo sessuale maschile e femminile nell'atto di congiungersi, non aveva in periodo pre-cristiano alcunché di osceno, ma semplicemente valore talismanico, propiziatorio: costituiva un augurio di fecondità, abbondanza, benessere. Soltanto in tempi storici recenti, dal Medioevo in poi, la manufica o il gesto di fare le fiche diventano di valore scaramantico, dispregiativo: con la funzione di esorcizzare qualcuno o qualcosa di nemico, di disgustoso, di osceno. Con quest'ultimo significato il gesto di far le fiche si è conservato fino a oggi non solo in Sardegna ma anche in Toscana.


IS CORRUS DE BOI
LE CORNA DI BUE

Le corna in genere portano fortuna e insieme preservano dagli influssi maligni. Ricchi di particolari proprietà magiche protettive e beneauguranti sono le corna di bue e di cervo, utilizzate intere o tagliate a rondelle o in frammenti. Privilegiata è la parte finale, la punta che attira su di sé il malocchio evitandolo alla persona che lo indossa. I bucrani, crani di bue forniti da ampie corna, hanno la funzione di segnalare un tabù (una sorta di off-limits) proteggendo meglio del cavalli di frisia ovili, frutteti e seminati. Il bucranio fa sovente bella mostra di sé all'ingresso di chiusi, dove si tengono animali da allevamento, ai margini dei campi coltivati, situato in cima a un palo o tra i rami di un albero. Tengono lontani gli spiriti malvagi, che portano pesti e morie, ladri e danneggiatori del bestiame e delle colture, abigei, volpi, passeri e altre rogne. La difesa del gregge e delle colture, per altro, non è affidata soltanto alle corna e alle doppiette, ma a mexinas consistenti in cerimonie magiche.
La diffusione di corna e cornetti è aumentata in sostituzione degli itifalli, falli eretti, ritenuti osceni e vietati dalla Chiesa. Con l'avvento del Cristianesimo al potere, e particolare con Costanzo II che perseguitò ferocemente riti, usi e costumi del paganesimo, l'industria di fabbricazione di amuleti e talismani, e quindi la pratica di ornarsene, andò quasi scomparendo. Nel Concilio di Costantinopoli del 692 si comminava la scomunica per sei anni a chi fosse stato sorpreso a fabbricare, vendere o indossare amuleti. Una condanna assai più dura della reclusione, dato che allora la scomunica comportava la perdita di ogni diritto civile, compresa la patria potestà, talché lo scomunicato veniva isolato dalla comunità come un appestato e poteva essere per chiunque oggetto di ludibrio.
Le insormontabili difficoltà, per il Cristianesimo al potere, di sradicare nel popolo usi e costumi pagani (sbrigativamente definiti "superstizioni") finirono per convincere i padri della Chiesa a sostituire vecchi amuleti e talismani con altri nuovi o anche più semplicemente battezzando i vecchi, dando cioè loro significati diversi, creando una miriade di ibridi, sovrapponendo simboli cristiani ai simboli pagani.
Gli Illuministi e in particolare Voltaire, hanno criticato gli elementi superstiziosi di cui vive e prospera la chiesa cattolica. Certo è che per tutto il Medioevo fino ai nostri tempi prospera il commercio ed è diffusissimo l'uso di "cose sacre" come amuleti e talismani. Dai frammenti di legno della "vera croce", fino ai bruscoli di terra del "vero sepolcro", con i quali, messi insieme, si sarebbe potuto costruire un grattacielo con relativa mobilia, fino agli scapolari contenenti reliquie di santi cadaveri, con un discutibile gusto del macabro - per non parlare delle "immaginette" con relativi brebus da recitare per esorcizzare il maligno e ottenere indulgenze.
Usi e costumi pagani gettati via dalla finestra sono tranquillamente rientrati dalla porta. La pratica di usare amuleti e talismani per scongiurare i pericoli, per difendersi dagli influssi demoniaci del giudice, del poliziotto, dell'esattore delle tasse, e per propiziarsi pace e benessere, non è meno diffusa oggi che ai tempi della dominazione cartaginese o romana.


IS CUMBESSIAS E SU STERRIMENTU
I RICOVERI SACRI E LO STERNERE TERAPEUTICO

Cumbessia è vocabolo sardo-logudorese indicante un riparo rustico, di uso rurale, in aperta campagna. Così pure sono detti cumbessias i ricoveri sacri edificati all'interno del recinto di chiese campestri, dove si svolgono cerimonie civili e religiose. Is cumbessias (talvolta costruzioni in muratura, tal'altra rudimentali tettoie su pali - sempre sistemate a schiera) servono da riparo ai fedeli per tutto il periodo delle feste in cui si celebra il santo (dai tre, ai nove giorni). Tali feste, di frequenza annuale, danno luogo a raduni popolari, dove comunità diverse si incontrano, si confrontano e si arricchiscono con interscambi economici, tecnologici, culturali, e nel contempo partecipano alle manifestazioni religiose, in cui si innestano antichissimi riti magici, legati al culto della Terra.
In un successivo volume, descriverò alcune delle più celebrate feste campestri, che si tengono nell'isola: sagre che costituiscono vere e proprie assemblee nazionali, con forme di rappresentanza "non elettiva" e "non elitaria", ma volontaria e senza limiti di numero, da parte di tutte le comunità che vogliono parteciparvi. In questo paragrafo esaminerò, senza inutili approfondimenti specialistici, su sterrimentu, (dal latino sternere, adagiarsi sulla terra nuda), un rito terapeutico, individuale o collettivo, legato al culto di alcuni santi.
Is cumbessias, ossia i ripari annessi alle chiese di campagna, secondo alcuni studiosi sarebbero il luogo dove ancora oggi viene praticata l'incubatio (in sardo su sterrimentu), espressione di antichi culti della terra, per propiziarsi le sue misteriose e potenti forze.
L'incubatio ( su sterrimentu ), in italiano lo sternere, o più semplicemente lo sdraiarsi per terra) consiste in un rituale contatto con la Terra, per fini divinatori (mediante il sogno), propiziatori (mediante un rimettersi alla volontà delle forze della Natura), e terapeutici, (mediante il contatto di tutto il corpo con la Grande Madre Guaritrice).
Si ha l'impressione che, da parte degli studiosi di etnologia coloniale, ci sia una forzatura nel voler attribuire significati magico-religiosi e vedere tracce di arcaici riti ctonici in un atto come quello di sdraiarsi (per terra quando non c'è altro) per ritemprarsi dalla fatica o per dormire il sonno dei giusti.
Credo che si possa fare riferimento ad antichi riti di culti ctonici, limitando l'esame ad alcuni casi di incubatio o sterrimentu, eseguiti con intenti chiaramente propiziatori e terapeutici.
Appare anche forzata la definizione che certi studiosi danno delle cumbessias, come "luogo elettivo per la pratica della incubatio", per il semplice fatto che la gente vi si corica dentro in occasione delle feste. Is cumbessias sono principalmente ripari, tettoie, dove i fedeli possono soddisfare necessità fisiologiche, come quella di stendersi e dormire, o ripararsi dalle intemperie, indipendentemente dai significati che si vogliono loro appiccicare. Oppure dovremmo allargare l'attribuzione del rito della incubatio a tutti i popoli del mondo che ancora oggi, non possedendo un letto, dormono per terra.
Su sterrimentu, l'atto dello sternere, l'incubatio propiziatoria e terapeutica, è attualmente praticato nei culti cattolici. Ho un personale ricordo di incubatio, cui fui sottoposto da bambino, in una nicchia della cella del venerabile santo Fra' Ignazio da Làconi, nel santuario a lui dedicato, in Cagliari. I miei genitori mi ci portarono nella speranza di ottenere la guarigione di un male che, mi aveva colpito in tenera età. Mi distesero sul pavimento della nicchia, nella cella del Santo frate miracoloso, recitando non so quali preghiere e invocazioni. E non ero il solo, quel giorno. Vi si affollava, in attesa del proprio turno, gran numero di pellegrini di ogni età, giunti da ogni parte dell'isola, per fare su sterrimentu, sdraiandosi o facendosi sdraiare in quel sacro ruolo, al fine di ottenere chissà quale grazia.
Un altro singolare rito terapeutico, proprio dell'Oristanese ma in via di estinzione, che è correlato alla incubatio, al magico contatto corporeo con la terra, è quello detto s'imbrusciadura (che ho scoperto a Cabras nel 1960 e descritto più volte). S'imbrusciadura consiste nell'atto di adagiarsi per terra avvoltolandosi (come usano fare certi animali, cavalli e cani in specie, per cause a noi ignote). E' un atto rituale terapeutico che compie chi ha preso azzicchidu, spavento, esattamente nel luogo dove si è azziccau, spaventato. Il trauma di cui si è portatori si scarica così sulla terra. Sempre a Cabras, in occasione della processione e delle solenni cerimonie del Corpus Domini, ho avuto occasione di assistere al rito collettivo di s'imbrusciadura, che si compie sul pavimento di una delle cappelle dopo la benedizione con il Santissimo.
Di rilevante valore magico-propiziatorio sono infine alcune usanze relative alla nascita e alla morte, legate all'antico culto della Terra, simboleggiata dalla Dea Madre. Il nascere e il morire, i due momenti più significativi e più misteriosi della vita, "dovevano" essere compiuti per terra, affinché si svolgessero "bene". Fino a tempi recenti, nei nostri villaggi, la donna gravida, al momento di partorire, veniva adagiata sopra una stuoia per terra, davanti al camino, nel convincimento che ciò avrebbe facilitato la nascita. Così pure l'usanza di deporre il moribondo sul pavimento, al fine di facilitarne il trapasso, di favorirne il reintegramento nel magico grembo della Dea Madre, da cui tutto ha origine.
L'incubatio, su sterrimentu, ovvero il distendersi in luoghi sacri è, fra i riti ripresi dal paganesimo, l'atto che più frequentemente si compie nelle cerimonie religiose cattoliche. Vi rientrano il prosternarsi del sacerdote per baciare o toccare con le palme delle mani il pavimento degli altari e l'inginocchiarsi e talvolta il prostrarsi dei fedeli nel tempio in alcuni momenti cerimoniali di particolare significato.
Sta di fatto che all'interno di chiese o di sacri recinti vi sono appositi luoghi riservati all'incubatio. E non di rado, nel caso della Sardegna, tali chiese, tali recinti e tali luoghi (oggi dedicati a santi e madonne) erano anticamente dedicati al culto di divinità pagane. Si tratta di disinvolte operazioni di plagio: chiese riedificate su templi pagani; simulacri di divinità ctoniche ribattezzate con nomi cristiani; cripte e loculi o aree sacre in cui si svolgevano sterrimentus, invocando divinità pagane, vedono oggi uguali sterrimentus, individuali o collettivi, con invocazioni rivolte a divinità cattoliche.
Ho citato la cella del santo Fra' Ignazio da Làconi. Ancor più famosa in Sardegna, è la cripta di San Giorgio, in Suèlli, paese della Marmilla: un santo diventato famoso per le guarigioni che concede a chi pratica l'incubatio. Meno famosa comunque della cripta della Madonna di Lourdes - che ci fornisce un esempio di pratica della incubatio (nonché di altri riti magici terapeutici) su scala industriale e a livello mondiale.
Io credo che il permanere di questa usanza (al di là di ogni speculazione e mercificazione che può farne la Chiesa) dimostri il necessario legame tra l'uomo e la terra, l'insopprimibile esigenza di ogni creatura vivente al contatto fisico, a un rapporto di dipendenza, con la terra - con l'elemento di cui siamo parte ed espressione, da cui siamo nati e a cui torneremo. L'andare scalzi, lo sdraiarsi in un prato o su una spiaggia si dice che "scarica le tensioni". Il contatto corporeo con la terra rappresenta qualcosa di più del liberarsi dell'eccesso di carica bioelettrica. E' un bisogno fisiologico, cui non riesce a sottrarsi neppure l'uomo moderno - il presuntuoso creatore dei computers e della bomba H. Un elementare bisogno che rientra nella sua più vasta e più profonda esigenza di ritrovare un rapporto armonico e sano con la natura.


COSTUMANZE VARIE NELL' ANGIUS

Padre Vittorio Angius (Cagliari 1797 - Torino 1862), autore di numerosi scritti storici, archeologici, geografici e folcloristici, è noto specialmente per aver curato la parte relativa alla Sardegna nel Dizionario geografico storico statistico commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna, pubblicato nel 1853 a Torino, a cura del Casalis.
L'Angius, studioso e conoscitore di cose sarde, dotato di capacità enciclopediche, ha lasciato nel campo del costume religioso interessanti notizie, che qui, a chiusura di capitolo, vengono riportate in parte - precisamente quelle notizie che hanno un riscontro con la realtà attuale, cui se ne possono collegare altre, ignorate o non descritte dallo stesso Angius.
Culto del fuoco. Usanza di accendere falò per la festa di Sant'Antonio del Fuoco e di San Giovanni l'Apostolo. In alcuni paesi il falò consiste nel dar fuoco a un mucchio di erbe aromatiche, in particolare rosmarino, lavanda e timo selvatici. In altri si brucia un gran mucchio di legna di monte che può impiegare più giorni a consumarsi. In altri ancora, il centro del falò è costituito da una quercia secolare cava, detta tuva.
Culto del bosco. Si ha notizia di boschi considerati sacri dalle comunità di quei luoghi - boschi dove il taglio della legna è tabù: "Un'orrenda vendetta (la divinità) si sarebbe presa da chi li avesse violati". Nel caso del bosco sacro di Villanovaforru (oggi Collinas), la divinità propiziatrice che vi dimorava era Nostra Signora, la Tanit della mitologia cristiana.
Veglia sacra. In alcuni paesi dell'Oristanese è fatto obbligo ai maschi della comunità di vegliare nella chiesa durante tutta la notte dei giovedì santo in un singolare ruolo di vestali, per tenere acceso il fuoco sacro costituito dalle candele che ardono attorno al sepolcro di Cristo. I resti non combusti dei lumi (cera e olio), in quanto sacri, si ritiene che abbiano poteri magici, e vengono conservati e usati da fattucchieri e guaritori. Altra veglia rituale è quella che separatamente uomini e donne fanno a Orune e in altri paesi del Nuorese in occasione della Festa dei Morti: i primi si riuniscono nella bettola, dalla mezzanotte all'alba, quando i morti ritornano, quasi a lasciare il paese per una notte in affidamento alle Anime; le donne invece fanno la veglia in casa, intorno a sas mesiccheddas, ai bassi tavoli forati, che contengono sas cheras, i ceri, di misura diversa, ciascuna simboleggiante l'anima di un defunto.
Grotte sacre. Ritenute abitate da divinità o animas o oracoli capaci di divinare passato e futuro; usate specialmente per avere responsi in relazione a furti di bestiame, a smarrimento di oggetti preziosi, a fatti di sangue e vendette, a questioni amorose.
Corpus Domini. Si enumerano diversi riti magici legati alla cerimonia della processione del Corpus Domini. Nella casa dove vi sia stato di recente un morto, poco prima del passaggio della processione, la famiglia appronta un rudimento di catafalco con un tavolo su cui bruciano lumi mortuari, piangendo e attitendi, lamentando, il morto, mentre dalla porta aperta sulla strada si vede passare il sacerdote con il Santissimo. Si ritiene che tale cerimonia faciliti all'anima del defunto l'ingresso in Paradiso, e se si tratta di un ucciso favorisce ai parenti la doverosa vendetta contro l'uccisore. Altrove, come nell'Oristanese, nella stessa occasione, si compie il rito collettivo di s'imbrusciadura, un terapeutico avvoltolarsi per terra per liberarsi dagli spaventi, compiuto sul pavimento di una cappella, appena dopo il passaggio del Santissimo. Presso altre comunità si crede che colui il quale voglia aver notizie sulla morte propria o di altri, deve lasciare per diverse volte la processione, precedendola per vie traverse, e alla nona volta, all'apparire del Santissimo dovrebbe insieme apparirgli l'anima o le anime (compresa la propria) di coloro che moriranno entro l'anno. Altrove, invece, adempiuto tale faticoso compito, ha la possibilità di vedere le anime dei morti, le quali - si dice - seguono a schiera insieme ai vivi il Santissimo nel Corpus Domini. A me viene riferito, in paesi dell'Oristanese, che soltanto un'anima pura, per lo più di fanciullo, può acquistare la virtù magica di vedere i morti, in occasione di questa cerimonia.
Culto di San Giovanni. Nonostante tutto il tempo che hanno a disposizione per evitare gli strafalcioni, non pochi studiosi del folclore religioso fanno confusione tra Giovanni l'Apostolo (l'Adone della mitologia cristiana) e Giovanni Battista, l'eremita fatto decollare da Erode Antipa per compiacere la perfida Erodìade madre della concupita Salomè. Al primo Giovanni si riferiscono numerosi riti ripresi dal culto di Adone nel paganesimo, come su Sant' ''Uanni de Floris, il comparatico dei fiori, talvolta correlato a su nenniri, l'erma (con o senza pupattola), consistente in germogli di grano in una ciotola germinato all'oscuro (e che, in alcuni paesi, viene benedetto in chiesa e quindi sparso in campagna per propiziarsi un buon raccolto). Al secondo Giovanni, il battezzatore decollato, sono legati i riti e le cerimonie magici, specialmente a scopo terapeutico, propri nel paganesimo del culto riservato alle divinità delle acque. L'usanza (che riporto altrove) di immergere nell'acqua un cranio umano per propiziare la pioggia, presenta affinità con l'uso magico dei decollati (teste di santi "martirizzati" o di criminali "giustiziati": il popolo non fa distinzioni morali nel taglio delle teste). Allo stesso santo "battezzatore" sono legate diverse pratiche magiche, di tipo terapeutico o liberatorio, quale quello della immersione collettiva in un corso d'acqua, che si effettuava presso alcune comunità alla mezzanotte della vigilia della festa del santo. Mi viene confidato, da alcune guaritrici, che nei riti terapeutici dove s'aqua abrebada, l'acqua miracolosa, costituisce la sostanza medicamentosa di base, è d'uso invocare Giovanni il santo battezzatore. Tornando all'altro Giovanni, all'apostolo ed evangelista, durante la notte della vigilia del giorno a lui dedicato, in diverse comunità dei Campidani è usanza lasciare all'aperto, nel cortile di casa, una bacinella d'acqua su cui si spargono petali di fiori e foglie di erbe aromatiche, per usare la mattina dopo quest'acqua magica per lavarsi il viso. Usanza propria delle fanciulle che ritengono così di ottenere un viso dalla pelle morbida vellutata - insomma, senza quei brufoletti dai quali la stregoneria moderna, con i suoi unguenti, ricava miliardi.
Culto delle anime decollate. Le reliquie dei corpi dei giustiziati, così come le particelle di strumenti usati per il supplizio (quand'era in uso giustiziare pubblicamente), erano considerate potenti amuleti contro numerosi malanni e formidabili talismani capaci di rendere la vita meno difficile. Ciondoli raffiguranti forche e impiccati sono ancora oggi comunemente usati come portafortuna. E' noto che presso tutti i popoli di cultura occidentale, la corda usata per le impiccagioni costituisce un ambito talismano. Più singolare è il culto, diffuso in alcune regioni dell'Isola, prevalentemente nell'Oristanese, delle anime decollate, con l'aiuto delle quali venivano eseguite pratiche magiche. Tali pratiche, da taluno definite "nefande", di magia nera, avevano particolare efficacia se eseguite nello stesso luogo in cui si era svolta l'esecuzione - sotto la forca, o ai piedi dei pali su cui venivano appese le teste recise dei suppliziati. Trattandosi di anime "criminali" non è difficile intuire quali scopi si prefiggessero gli officianti tali riti: il buon andamento di una rapina, di un furto di bestiame, di una vendetta.
Usanza dell'eutanasia. Abbiamo visto, in altra parte di questo lavoro, come nell'Isola fosse praticata sia l'eutanasia eugenica (l'eliminazione del neonato che presentasse vistose e gravi malformazioni fisiche) che l'eutanasia agonica (la facilitazione del trapasso ai moribondi per evitare una lunga e dolorosa agonia). La testimonianza di padre Angius arricchisce la conoscenza di quest'ultima pratica con la descrizione che segue. "In qualche luogo della Diocesi cagliaritana non sono totalmente perdute certe superstizioni - che una inumana pietà non sa stimare empie - volte ad abbreviare le agonie di un infelice. Levansi via via dalla stanza croci e simulacri e immagini e viene egli spogliato, quando abbiane, degli scapolari sacri di qualche ordine religioso e delle scatolette che abbiano qualche reliquia. Tanto perché? Perché si crede che esse valgano ad impedir l'anima nella partenza e prolungare le sue sofferenze. Ove poi in breve non estinguasi il loro carissimo, si giunge al rimedio che stimano, per efficacia, supremo: sottopongono e adattano alla di lui cervice il giogo di un aratro o di un carro". In altre parole, esauriti i tentativi di ordine magico-religioso (privando il moribondo di ogni sostegno vitale di natura trascendentale), per facilitarne il trapasso, entra in scena s'acabadori o s'acabadora, colui o colei che nella comunità aveva il compito istituzionale di praticare l'eutanasia agonica.


CAPITOLO DECIMO
DALLA STRIGE ALLA STREGA


SA STRIA
LA STREGA

Il termine sardo stria deriva dal latino strix-strigis (greco: strix-strigos) e indica il barbagianni, uccello rapace notturno, cui si dà l'appellativo di allocco. Appartiene alla famiglia dei gufi - divoratori di dannosi roditori ma anche di utili uccelletti, per cui a conti fatti (fatti dall'uomo, si intende), costituiscono più un danno che un beneficio per l'agricoltura e, in senso più ampio, per l'ecologia.
L'antipatia popolare per sa stria o barbagianni non ha però motivazioni utilitaristiche bensì magiche, attribuendo a quel volatile terribili poteri ammalianti, influssi demoniaci e, inoltre, di essere sinistra annunciatrice di morte.
Per la verità, gli attributi demoniaci dati alla strige, nella religione e nella medicina popolare in Sardegna, hanno radici straniere antichissime. I maghi persiani asserivano che succhiasse il sangue ai bambini dormienti, e che il suo cuore posto sul seno di una vergine portasse questa a svelare i propri più intimi pensieri (una sorta di magico siero della verità, specifico per conoscere le voglie libidinose prematrimoniali). Ma furono i Romani principalmente che nell'antichità contribuirono a creare intorno alla strige la fama di uccello funesto, con una sequela di leggende - per altro propalate dal meglio della cultura ufficiale di allora, da Plìnio a Ovidio, da Virgilio a Cicerone a Plàuto.
Per i Romani, la strige è l'incarnazione di tutti i demoni. Queste, alcune delle definizioni che le danno i classici: "E' un mostro notturno che non canta ma piange"; "vista passare sia di giorno che di notte, porta il malaugurio"; "vista di notte in campagna, massime in un bosco, atterrisce anche l'uomo più coraggioso"; "si posa nottetempo sulle culle dei bimbi, per suggere il loro sangue"; "usa avvelenare gli stessi bimbi dando loro da succhiare le sue venefiche poppe"; "ha il potere magico di trasformarsi in una femmina schifosa" (e siamo alla metamorfosi demoniaca che consentirà di criminalizzare la donna "diversa" come "strega"); "ha una origine umana oscura, probabilmente nata da un connubio bestiale"; "può trasformarsi in qualunque animale immondo"; "si ciba di cadaveri che spolpa con il suo acuminato becco"; "la sua apparizione è funesta non soltanto per chi la vede ma per l'intera comunità".
Fin qui i civilissimi Romani, i quali hanno espresso sulla strige molti più concetti di quanto io non ne abbia qui riportati. Va aggiunto che su cucumeu, la civetta, (che per i Sardi, come sa zonca, il gufo, e tutti gli uccelli strigiformi, è considerato di malaugurio) per i Romani era sacro alla dea Minerva, ed effigiato con la dea costituiva l'emblema della città di Atene.
Nella cultura dei Sardi, sa stria, il barbagianni, non ha tutti gli attributi malefici che come abbiamo visto i Romani le affibbiavano. Le restano principalmente gli attributi di essere di malaugurio e di provocare gravi malanni, definibili nel termine striadura, che indica appunto gli effetti sul corpo umano degli influssi malefici della stria o strige. Non mi risulta invece che allo stesso volatile si attribuisca ematofagia, di succhiare cioè sangue umano o di trasformarsi in megera - anche se risulta che alcuni studiosi riferiscono credenze di quel genere, manipolando testimonianze per amore di classicità coloniale, ovvero di voler vedere a tutti i costi reminiscenze greco-romane in tutto ciò che è sardo. Essi, mi pare, fanno confusione tra sa stria, il barbagianni, (che non ha in sardo il significato di strega) con altre figure demoniache mitiche, promiscue come le surbiles, sorta di vampiresse, o decisamente femminili come certe fadas e marias malefiche, che incombono sulle creature innocenti durante il loro sonno notturno.


SA STRIADURA
IL MORBO DELLA STRIGE

Sa stria, la strige sarda, è nota nella medicina popolare principalmente come la causa di quel complesso e misterioso male (più o meno grave e con differenti sintomi) che prende il nome di striadura (che letteralmente si traduce con strigiatura). Striau (che non è traducibile con "stregato", perché in sardo diremmo affatturau o fadau) è colui che ha subito gli effetti malefici della stria, che si è preso una striadura, il morbo della strige. Che - come si diceva - è una vera e propria malattia, con sintomi diversi, così che si può dire che dà luogo a disturbi diversi.
Nella striadura, nel male della strige, vengono compresi i seguenti stati patologici, elencati dal più lieve al più grave: 1) azzicchidu o spavento lieve; 2) spreu o assustru, spavento grave; 3) anemia, caratterizzata da pallore; 4) esaurimento, caratterizzato da mancanza di tono muscolare, svogliatezza, depressione (sintomi tipici anche dal malocchio o di certe fatture); 5) rattrappimento degli arti; 6) l'itterizia; 7) il favismo.
Contro possibili striaduras vi sono mexinas, medicine, di carattere preventivo, giusto il detto mellus a timi' che a provai, meglio temere che provare. Ben più numerose sono invece is mexinas di carattere curativo - specie contro l'ittero, che sembra essere il male più comune della striadura.


MEXINAS DE SA STRIA
TERAPIE DELLA STRIGE

Le terapie preventive variano da paese a paese. Ne cito alcune tra le più note.
Farsi il segno della croce, vedendola o sentendo il suo canto; dormire su un fianco; tenere incrociate nel sonno le gambe o le braccia; dormire in senso trasversale rispetto alla travatura del letto; tenere rovesciato, coi piedi in su, su trebini, il trespolo, del camino; portare apposito scapolare contenente reliquie o immagine di Santa Anastasia; tenere accanto alla porta di casa una falce con la punta rivolta verso l'alto; indossare amuleti con scrittus specifici; recitare al tramonto speciali brebus, scongiuri.
Uno scongiuro in voga nel Campidano di Oristano, a Marrubiu, che va pronunciato quando si vede passare l'infausto uccello, è il seguente:
"Istria istria / chi passas sa bia / chi passas su mari / aundi est binu / aundi est cabi / e ddus ous tundus / chi hant fattu is puddus…" (Strige strige / che passi per la via / che passi per il mare / dove c'è vino / dove c'è cavoli / e due uova rotonde / che han fatto i pulcini…)
Altro scongiuro registrato nel Campidano:
"Istria istria / malaitta sias / malaitta de Deus / no tocchis sanguni allenu / finzas a contai / arena de tres maris / e perdas de tres montis…" (Strige strige / che tu sia maledetta / maledetta da Dio / non toccare sangue altrui / prima di aver contato / sabbia di tre mari / e sassi di tre monti…)
Is mexinas de sa stria, le medicine contro i mali causati dalla strige sono numerose, ma quasi tutte rivolte a combattere il pallore e la spossatezza - ritenuti gravi, in quanto "tipici" della morte. Tali mexinas vanno preparate e assunte con estrema cautela e attenzione, e come per certi prodotti chemioterapici moderni "sotto il diretto controllo della guaritrice". Vediamone qualcuna.
Fai sa cruxi de sa stria, far la croce della strige, con una piuma dello stesso uccello, sul capo del paziente istriau; bere in acqua o nel caffè particelle di piuma di strige e di filo di lino, ambedue bianchi, bruciati; bere uno specifico decotto contenente particelle di cera benedetta in chiesa e di unghie e capelli dello stesso malato; s'affumentu de sa stria, il suffumigio della strige, che si fa mettendo delle braci nel concavo di una tegola e bruciandovi sostanze benedette (cera, incenso, palma, rosmarino) e piuma di strige, facendone aspirare il fumo al malato, mentre si recitano appositi brebus, versetti magici - da qualche parte è d'obbligo l'uso di una tegola presa dal tetto su cui volò o si posò la strige; stessa terapia della precedente, dove alla fine del rito il paziente salta per tre volte la tegola fumigante; fare indossare al paziente una camicia fatta bollire nella liscivia, metterlo a letto, coprirlo abbondantemente affinché sudi, fino a inzuppare la camicia di umore giallo (la sostanza della striadura), far la sauna, con i vapori di una bacinella d'acqua bollente, in cui sono state immerse erbe medicamentose; la radice del lampazzu (romice), assunta sia in decotto, sia tagliata a dischetti e applicati sulla pelle.
In relazione a quest'ultima mexina, è da notare che l'uso di su lampazzu, il romice, per guarire s'istriadura (l'ittero) segue il principio dei simili, "similia similibus curantur", ovvero il principio applicato della antica medicina per cui i simili si respingono e si elidono a vicenda. Infatti, la radice del lampazzu (Lapathum o Rumex patientia, volgarmente detto erba pazienza) è di un giallo intenso, assai simile al giallo dell'itterico. Per altro estratti di romice sono usati nella farmacologia come depurativi, diaforetici e astringenti.
E' anche interessante notare che nella medicina popolare è assai diffusa la cura omeopatica, secondo cui al paziente vanno somministrati, in dosi minime, medicamenti che produrrebbero in un corpo sano sintomi simili a quelli a quelli della malattia che si vuol curare. Nei casi di ittero da favismo (che nella credenza popolare viene attribuito al demoniaco influsso della strige, ma si lega al periodo della fioritura delle fave), vengono usate come terapia, inalazioni di infiorescenze di fave o anche applicazioni di fave sulla pelle.


LA STRIGE DEL PREMIO NOBEL

Grazia Deledda, la narratrice che ebbe il premio Nobel per la letteratura nel 1926, raccolse notizie di tradizione popolare e descrisse minuziosamente una mexina de sa stria, che riporto integralmente.
"Più complicato è il medicamento per l'itterizia. La persona colta da questa semplicissima malattia si crede stregata (istriada). La strige è passata sul suo capo, e a causa del suo influsso malefico - che dà origine alla popolarissima imprecazione "Ti jumpet s'istria!" (Ti attraversi la strige!) - la persona deperisce, si consuma, si restringe e, non curata a tempo, muore.
Una medichessa del popolo la "misura" per accertarsi della malattia. Con un filo di lana (filu 'e litu = filo di liccio - ndr) filato a Nuoro, la misura (sottinteso la malata - ndr) prima dalla sommità del capo alla punta dei piedi, poi dall'estremità del dito medio della mano sinistra fino a quello della mano destra, aperte le braccia il più possibile. Se le due distanze sono uguali non è la malattia della strige ("sa maladia 'e s'istria") che affligge l'inferma; se la malattia, o meglio diremmo il malefizio, c'è, l'altezza della persona malata è inferiore alla sua larghezza. Il filo arriva a metà del dito, o più giù o più su, e quanto più corto è, più avanzata è la malattia.
Il medicamento è questo: la medichessa prende la metà del filo con cui ha misurato la malata, e lo taglia a pezzettini minuti. Indi aggiunge del rosmarino, un pezzetto di cera benedetta, due o tre frantumi di palma pure benedetta e qualche granello di "timanza" (incenso) e un pizzico di piuma di strige bianca, che per solito tiene a provvista. Mancando le piume di strige si adoperano piume bianche e morbide di gallina - ma solo in caso estremo. Si dà fuoco a tutto questo, in una tegola (potendo, in una tegola tenuta appositamente per quest'uso solo), e mentre gli strani specifici fumano, bruciando, la medichessa, piena di fede e concentrata nell'opera sua, prende in mano la tegola e fa con essa un segno di croce sopra il capo del paziente. Poi gliela passa tre volte intorno al collo - indi eseguisce altri otto segni di croce: sull'omero, sul gomito, sul polso e sulla mano; sul fianco, sul ginocchio, sul collo del piede e sul piede. Ciò fatto depone la tegola in terra e recita tre avemaria a Nostra Signora del Rimedio perché il medicamento sia valido. Mentre essa prega, la malata salta tre volte scalza o in calze, traverso la tegola fumante, e in ultimo si scalda i piedi al sacro fuoco e si stropiccia le mani al fumo che se ne esala"
(G. Deledda - Tradizioni popolari di Nuoro - 1893-95)


IS SINNUS DE SA MORTI
I SEGNI DELLA MORTE

Alcuni animali - si dice - hanno il dono di poter vedere la morte, e della sua presenza avvertono l'uomo con particolari segnali. La morte - nella credenza popolare - appare per lo più durante la notte, ma talvolta può anche manifestare la propria presenza durante il giorno. Quando un cane si avvoltola per terra con le zampe per aria, vuol dire che ha visto la morte e ne segnala la vicina presenza.
Durante la notte, sono annunci di morte certi "strani" ululati di cane, o "strani" starnazzare di gallina, o "strani" muggiti di bue. L'animale foriero di morte per antonomasia è sa stria, la strige - che spesso ridotta in macabro amuleto, inchiodata con le ali aperte alla porta di casa, diventa lei stessa efficace difesa contro l'eterna dea dalla larga falce. In una lirica di stupenda fattura e di grande intensità, il poeta Peppino Mereu canta così il presagio della propria morte:

"Titia, ite frittu, ite notte infernale!
Su 'entu est in terribiles muidos,
astragadu est su mei capidale.
S'astragu mi lu intendo fin'a pilos.
Como no happo isperanzia chi sane;
E in s'adde bianca addane addane,
annunziu de sa triste fine mia,
ululare s'intendede unu cane,
titia ite frittu, titia, titia!"

(Titia, che freddo, che notte infernale! / Il vento ha terribili muggiti. / Stregato è il mio capezzale. / Me la sento la malia fin nei capelli. / Ora non ho speranza di guarire. / e nella valle chiara in lontananza, / messaggero della mia triste fine, / giunge l'ululato d'un cane. / Titia che freddo, Titia, Titia!)

Nota. Non ho tradotto il vocabolo, titia, usato qui onomatopeicamente, con il significato dell'italiano "brr". Titia o attitia, è un sostantivo maschile che significa gelo, freddo intenso. Esempio: Oi non fait a poderai su titia chi est fendi = Oggi fa un freddo da non potersi resistere. Ma titia è anche e soprattutto usato (come nella lirica di Mereu) come esclamativo onomatopeico, equivalente a "brr". Esempio: Titia, ita frius chi fait! = Brr, che freddo fa! Diversi vocaboli sono composti con titia o attitia, come titifrius = brivido di freddo; attitirigai e attitirigau, rispettivamente abbrividire e intirizzito.


IS BRUXAS
LE STREGHE

Nella storia della Sardegna manca quella pagina sanguinosa, di intolleranza e di spietata repressione di massa che prende il nome di "caccia alle streghe". In questa terra pur funestata di morbi e carestie, nella generale degradazione degli umani costumi, non si accesero i roghi e non si levarono le urla delle infelici donne, accusate di possessioni, di connubi e di arti demoniaci. E non perché, al seguito del potere armato dell'invasore cattolico non fossero sbarcati gli incappucciati del Santo Ufficio; e non perché nelle comunità sarde non vi fossero maghe o guaritrici che con la loro opera non potessero essere accusate di stregoneria, e pertanto processate e condannate. Nella organizzazione socio-economica delle comunità sarde, in un mondo ancora permeato di paganesimo, dove tradizioni e culti conservano gli antichi valori e significati nonostante la massiccia penetrazione del Cristianesimo, il ruolo e le funzioni delle donne guaritrici erano un pilastro portante in quella organizzazione, erano un punto costante di riferimento nella vita della comunità. Così che il potere non poté "demonizzare e "criminalizzare", come altrove, le operatrici della medicina magica e i loro riti terapeutici e liberatori. Non riuscì, il potere, a ottenere dal popolo alcun consenso, necessario per indurre quel fenomeno di colpevolizzazione collettiva e di isteria di massa, che aveva come sbocco risolutore l'individuazione di "capri espiatori", la caccia alle streghe. Non vi furono, né potevano esserci, fenomeni di delazione, né (per usare un termine attuale) di pentitismo: le comunità opposero un blocco unitario e totale al tentativo di costituire tribunali del Santo Ufficio e di istituire processi per stregoneria contro le loro guaritrici, che la fede popolare chiamava e chiama ancora "feminas santas". Il Santo Ufficio dovette accontentarsi di apparire a Cagliari e in qualche altra città, limitandosi a qualche processo politico contro nobili scomodi, accusati di eresia.
Il termine italiano strega deriva dal latino strix-strigis, che indicava semplicemente il barbagianni, un uccello ritenuto di malaugurio, al quale si attribuivano - come si è visto - metamorfosi demoniache. Nella cultura italiana, la strige, uccello demoniaco, diventa strega, femmina umana demoniaca. Nella cultura sarda, la strige è detta stria e resta con il significato della mitologia romana, non diventa mai strega, donna posseduta dal demonio e dedita a riti malefici e osceni. Anzi, va notato come, ancora oggi, sono le donne guaritrici, che con le loro conoscenze mediche e le loro virtù magiche, si oppongono agli influssi malefici della stria (strige) e ne curano le malattie che lo stesso infausto uccello provoca nella gente. Strega o stria può dunque dirsi il barbagianni; ma non la donna guaritrice, la maga, che assume un ruolo contrapposto, positivo.
Ciò premesso, ritengo ugualmente importante, nella economia di questo lavoro riservato agli usi e costumi della Sardegna, riportare qualche notizia sulla storia delle streghe con qualche testimonianza sulla sanguinosa repressione delle donne guaritrici, per i pericoli che comportavano al potere le ideologie (oggi definibili libertarie) di cui erano portatrici secolari nelle loro comunità. E' importante parlarne, perché non soltanto per i crimini del nazismo e neppure per i crimini del sionismo è onesto sostenere che "non dobbiamo dimenticare", se poi dimentichiamo i non meno brutali crimini del cattolicesimo contro l'umanità. Intanto, la caccia alle streghe non si è ancora chiusa. Per il sistema di potere, le streghe sono di volta in volta ogni componente popolare che si oppone e che sfugge al controllo e non può essere fagocitata. Il potere ha sempre usato il trucco di demonizzare (criminalizzare) le opposizioni popolari, attribuendosi il ruolo angelico dell'esorcista, del "castigadiavoli" - anche utilizzando demagogicamente la fede religiosa del popolo, per ottenerne consensi. In verità, non c'è potere che con tutti i suoi più sofisticati e violenti strumenti di controllo e di condizionamento possa estirpare mai le naturali tendenze dell'uomo alla libertà.

Le notizie, le descrizioni dei crimini che durante la sua sanguinosa storia il potere ha commesso contro l'umanità, ci vengono dagli stessi esecutori. Quasi per un irrefrenabile bisogno di esibizione, emerso dai meandri tenebrosi di una coscienza criminale, i potenti tramandano ai posteri le proprie nefandezze. Non dissimilmente agli aguzzini nazisti che fotografavano i loro misfatti, conservando nel tempo immagini di terrore e di angoscia, gli inquisitori del Santo Ufficio verbalizzavano minuziosamente le atrocità delle torture cui sottoponevano i loro inquisiti.
Il documento certamente più famoso nella materia, è il Malleus maleficarum, ovvero "Il martello delle streghe", al quale si potrebbe aggiungere il sottotitolo: "Come riconoscere e reprimere la strega nella donna". Il Maellus risale al 1484, è stato pubblicato nel 1487, ed è opera di due domenicani, Henricus Institoris e Jacob Sprenger. Partendo dalla dottrina cattolica, vi è elaborata una complessa metodologia diagnostica per individuare la strega, per costringerla a confessare e per punirla. Il Maellus, che ebbe diverse ristampe, ha costituito per gli inquisitori dei tribunali di Santa Madre Chiesa una sorta di codice di procedura penale, un vademecum per condurre le loro inchieste, i loro processi, le loro tecniche di tortura e di morte. Leggendo questo trattato non si può che qualificarlo osceno - nel senso più pieno del termine: vi sono minuziose e morbose descrizioni dalle parti intime, alla ricerca di quei segni diabolici che dimostrino il reato di stregoneria. Ed è su quelle parti, sugli attributi sessuali della femmina, che maggiormente si accaniva la ferocia dei sadici torturatori. Mai nella storia della umanità, neppure in epoche barbariche, la donna dovette subire prove più umilianti e dolorose.
Se il Malleus maleficarum è il più famoso dei trattati della Chiesa sulle streghe, non è però il più antico. Già Sant'Agostino è fra i padri della Chiesa un elaboratore della dottrina che, muovendo dalla certezza che la stregoneria esiste, sostiene che le magie sono opera del demonio - superando la precedente dottrina che sosteneva una sostanziale distinzione tra le donne "malefiche" o "maliarde", che compiono sortilegi e riti magici, e le donne "streghe", possedute dal demonio, in virtù del quale possono volare e trasformarsi in repellenti animali, quali appunto la "strige", il barbagianni.
Rileviamo, per inciso, a questo proposito, la concezione diametralmente opposta nella dottrina attuale, cui si rifanno le credenze popolari in Sardegna sulla stria (strige), che - come si è visto - non è una donna strega che assume le sembianze del volatile, ma al contrario è un demone che assume tale aspetto, e può anche modificarlo in quello di una specie di vampiro per suggere il sangue dei bimbi.
Precedente al Malleus (reso pubblico nel 1487) è la bolla di papa Innocenzo VIII del 1484, pubblicata sotto il titolo di Summis desiderantis, mossa - come è detto nell'introduzione - "dal pio desiderio di porre un freno al dilagare della eresia nel mondo cattolico". Le bolle papali sulla materia si susseguono, dilatando la dottrina antidemoniaca in cui troverà sostegno e legalizzazione la caccia al massacro delle streghe. Si citano qui alcuni "trattati" per chi volesse approfondire la questione, specificatamente ai rapporti ufficiali tra la sontuosa Chiesa dei Papi e le popolane "feminas de mexina", tra l'espressione teocratica del potere e del privilegio, cui superata la prima impennata laicistica si sarebbe asservita la scienza della tecnica, e l'espressione della conoscenza antica e dell'antica fede naturalistica rappresentata da donnicciole analfabete, le quali, consapevoli del loro storico ruolo di eretiche (eresia come affermazione della libertà), seppero affrontare eroicamente il martirio. Tre opere, dunque, si citano come fondamentali, prodotte dalla Chiesa nel periodo che va dalla seconda metà del Cinquecento ai primi anni del Seicento: il Disquisitionum magicarum del 1599, compilato da Martin Delrio, il Compendium maleficarum del 16O8, di Francesco Maria Guaccio; cui si aggiunge il De Praestigiis daemonum del 1563, di Johann Weyer - dove, per altro, si criticano alcuni metodi persecutori nei confronti delle streghe.
La storiografia ufficiale (asservita al potere), volendo apparire "obiettiva", giustifica in qualche modo la caccia alle streghe, attribuendola principalmente all'ignoranza popolare e a fatti di isteria mistica individuale e collettiva. E aggiunge che le "piene confessioni" rese dalle streghe inquisite, ammettendo di aver commesso gli allucinanti reati di stregoneria di cui erano incolpate, e aggiungendo anzi particolari i più fantasiosi, contribuivano a rafforzare nei giudici il convincimento della reale presenza di forze infernali nel mondo umano. Non convince l'attribuzione di isterie e di ignoranza, neppure in rapporto a quei tempi, per spiegare un sanguinoso periodo di repressione ideologica e politica, messa in atto da scaltri uomini di cultura e di potere - quali erano gli inquisitori del Santo Ufficio. Parrebbe così che essi, inquisitori e giudici credenti nel Cristo, non si rendessero conto che una creatura umana, anche la più eroica, sottoposta ad atroci tormenti, pur di uscire di pena è disposta a confessare qualunque infamia suggeritagli dal torturatore, e che anzi, per compiacerlo, è disposto a sottomettersi fino a inventarsi tutto ciò che presume possa volersi sentir dire lo stesso torturatore. La cosiddetta "isteria collettiva", la cui rilevanza è sottolineata sul piano accusatorio probativo nei processi alle streghe, non è tanto da vedersi come "coinvolgimento emotivo" e quindi consenso di massa alle sanguinose "purghe", quanto come una "necessaria" strategia di difesa della comunità, per evitare danni peggiori: cercare nel gruppo uno o più capri espiatori, accumulando su questo o su questi la somma delle accuse rituali di stregoneria e demonismo, significava "concentrare" su una parte limitata (e perché no? la più estranea ai fatti "criminosi") della comunità i colpi e i danni dell'attacco, portato avanti da un nemico "esterno", troppo potente da poter essere affrontato in altro modo. Ciò, mi pare, consentiva alla comunità di mimetizzare, salvare e perpetuare propri fondamentali valori e ordinamenti sociali.
Da quel buio e non lontano passato, sono giunti fino a noi documenti allucinanti di interrogatori sotto tortura di donne e fanciulle. Vi si ritrovano mentalità e metodi di accusa che in forme e tecniche aggiornate ritroviamo ancora oggi nei processi alle "streghe politiche". Ed è per questo (perché chi legge veda quanto poco è mutato all'interno del potere - al di là delle liberali affermazioni di principio) che si riportano qui di seguito alcuni stralci di quegli interrogatori.

Francesca Borelli, le cui fattezze non coincidevano con lo stereotipo della strega ("donna vecchia, laida") in quanto giovane, bella e attraente, era accusata di essere posseduta dal demonio, il quale si serviva di lei per compiere le sue nefandezze. Tra queste, l'aver provocato la morte di alcuni bimbi. La prova che i bimbi morissero era data purtroppo dalla elevata mortalità in quei tempi. Le cause venivano ricercate - giuste le antiche malizie del potere - nel diavolo, nel signore del male, il cui dominio si allargava in virtù degli umani peccati, e non nelle responsabilità della consorteria al potere che manteneva il popolo in uno stato di miseria e di abbandono. La prova che Francesca Borelli fosse posseduta da Satana si ricavava dal fatto che non si fosse riusciti a strapparle la confessione delle colpe di cui la si accusava. "Senza l'appoggio del diavolo che era dentro di lei, avrebbe ammesso la propria colpevolezza" - questa la tortuosa logica degli inquisitori di sempre. Per la cronaca, conduceva l'interrogatorio il giudice Pietro Alario Caraccio, genovese, che aveva sostituito il collega Serafino Patrozzo, ritenuto "debole di polso". La trascrizione dell'interrogatorio è opera del cancelliere Giovanni Antonio Valdeleccia.

Fu interrogata per sapere se ha deciso di dire la verità.
Rispose: "Signor, la verità l'ho detta tutta".
Interrogata se altre volte aveva detto la verità, rispose: "Signor, io allora avevo la febbre, non sapevo quel che facevo".
Vista l'ostinazione di detta accusata, fu allora comandato che fosse spogliata e posta sul cavalletto, dopo che le fossero rasi tutti i capelli e i peli delle parti pudende; posta in tortura, disse: "Giudicami, Signor, aiutami, Signor Dio grande, mandami aiuto e conforto, Signor, calatemi ché la verità l'ho detta... Io stringo i denti e poi diranno che rido. Ahi, le mie braccia. Signor, non mi abbandonar, non ho altro conforto che Dio... Signor, calatemi, che se io non ho detto la verità, Dio non mi accetti mai nel Paradiso. Il cuor mi manca. Calatemi, ché la verità l'ho detta... Se non mi calerete adesso, mi calerete morta.. Mi manca il fiato... Signor, mandami l'angelo del cielo... Cristo, che potete più delle false testimonianze, traetemi l'anima dentro il corpo e mandatela dove deve andare..."
E tacque. Quindi disse: "Il cuor mi schiatta… Signor, fatemi dar un poco di aceto o di vino."
E bevve così un bicchierino di vino. E disse: "Misericordia, vi domando misericordia. Abbassatemi e datemi un poco da bere."
Le fu dato di nuovo un bicchierino di vino.
"Signore, vorrei prendere un ovo".
E così le fu dato un uovo. Ed era stata in tortura per lo spazio di cinque ore e non disse nulla, né si lamentò, se non dopo l'undicesima ora, quando disse: "Aiutami chi può".
E poi disse: "Ahi, lo mio cuore, ahi la mia testa. Mi fate un po' calare?"
E dopo dodici ore disse: "Sono scorticata."
E dopo tredici ore disse: "Datemi un poco d'acqua che muoio di sete".
E interrogata se vuole vino, risponde: "Signor no".
E così le fu data dell'acqua da bere, e tacque.
E dopo: "Non ci vedo più, sono tutta storpiata negli occhi e nelle mani, tutta la mia roba se n'è andata. Fatemi un poco slegare".
Le fu detto che se diceva la verità, sarebbe stata slegata e deposta.
Disse: "Io l'ho detta. Non posso più ritenere l'orina. La verità, la verità l'ho detta".
E così essendo stata nella tortura per quattordici ore, le furono portate da Quintillo Borelli suo fratello delle uova fresche, che succhiò e dopo disse: "Delle mie braccia non potrò più fare nulla. Guardate come ho la lingua. Non ne posso più, fatemi calare, in modo che respiri un poco."
Le fu detto che se non diceva la verità in quella tortura sarebbe stata deposta sul fuoco.
Disse: "Fatemi bruciare, che in quanto a me la verità l'ho detta. Fatemi levare di qui. Prendete una mazza e datemela in testa. La verità l'ho detta. Vergine Maria, fatemi slegare e deporre. A Roma il cavalletto non dura che otto ore. Me l'ha detto uno di Triòra che è stato a Roma". E tacque.
Poi disse: "Ho freddo ai piedi".
E disse anche: "Ecco qui un topo".
Ma il topo non c'era. Quindi cominciò a parlare familiarmente, come se stesse seduta comodamente su una cattedra e disse: "A Triòra nascono castagne marrone così belle."
E vedendo uno degli assistenti con le calze rattoppate, disse: "Per i servigi che mi fate, conviene che se uscirò di qui, vi cuci le calze".
E così parlò per quasi un ora; e dopo diciannove ore e mezzo di tortura disse: "Questo vento non è molto buono per le castagne. Quante belle castagne ci saranno quest'anno a Triòra e che io ne possa raccogliere tante. So farne una buona minestra. Fatemi calare e ve la preparerò. E ne mangerò tanta."
E alla ventitreesima ora, comprendendo che questo genere di tortura non era servito a nulla, si comandò di scioglierla e di ricondurla nella sua cella fino a nuovo ordine…
Commenta Roger Vignon: "Le tremende sofferenze con un procedimento psichico non inconsueto seppure non frequente, si erano commutate in una sorta di masochistico piacere, in cui si convogliava, per quanto possibile, il dolore. Non è escluso che qualcuno dei presenti provasse un sadico piacere segreto a vedere Francesca Borelli soffrire. Era però imprevisto quell'improvviso squarcio di vita contadina, pacifica e millenaria, apparso in forma estatica mentre la donna era già in coma."
(R. Vignon - Le streghe - 1971)

Il documento che segue, relativo al processo alla "strega" Matteuccia, è della prima metà del XV secolo.

"Un tale di Cortona, disse che Matteuccia, certamente istigata da spirito diabolico, gli consigliò, per guarire le ferite, di recuperare il corpo di un annegato nel Tevere e di fare un liquore da brani di carni cotte. Una donna di Orvieto riferì che, poiché il suo uomo la trascurava, anzi la picchiava, si era rivolta a Matteuccia. E Matteuccia le aveva consigliato di portare una statuina di cera sopra un mattone infuocato e mentre si scioglieva di pronunciare una formula. La donna di Orvieto assicurava che il risultato era stato efficaccissimo ed immediato: quella stessa sera il suo uomo, dopo tanta astinenza, beh, aveva avuto rapporti carnali con lei. Dunque Matteuccia era una strega."
"Forse nel caso di due coniugi di Colemezzo andò oltre le intenzioni della moglie che si era rivolta a lei, lamentandosi di essere trascurata sessualmente. Consigliò un intruglio costituito principalmente di erba cavallina. Ebbene, il marito si infatuò e rimase furioso per ben tre giorni, tanto che la donna, ormai sfinita di tanti amplessi imprevisti era fuggita di casa. Dunque, Matteuccia era una vera strega.
"Fece molte fatture d'amore a fidanzati infelici e coppie disgraziate, con alterna fortuna. Molte mogli trascurate si rivolgevano a lei. A volte azzeccava, a volte no. Se le andava bene era una strega, se falliva era una truffatrice: in tutti i casi era colpevole. Aveva liberato una ragazza dalla fattura di un'altra donna, e quel che era grave aveva provocato l'odio di un marito verso una moglie a istanza di una donna che aspirava a quell'uomo. Fu provato che nel mese di maggio del 1427 si era recata da una certa donna di nome Caterina del Castello della Pieve che le aveva chiesto un rimedio per non rimanere incinta, non essendo ancora sposata e avendo coabitato varie volte con un guardiano di detto castello e desiderava avvicinarsi ogni giorno a lui e temeva che potesse verificarsi il caso di rimanere incinta. Matteuccia le consigliò di pestare un'unghia di mula e mescolarne la polvere al vino e di berne dicendo "Ti piglio nel nome del peccato / e del demonio maggiore / che non possa appicciare più".
"Naturalmente Matteuccia, che mai si era mossa da Todi, aveva succhiato il sangue dei lattanti in molti e diversi luoghi; si era recata, insieme con altre streghe, all'albero di noce di Benevento ungendosi con un unguento fatto dal grasso dell'avvoltoio e aveva gridato "Unguento unguento / mandami al noce di Benevento / sopra l'acqua e sopra il vento / sopra ogni malo tempo".
"La sentenza indugia con molti particolari sulle apparizioni a Matteuccia del diavolo sottoforma di caprone; sulle trasformazioni della donna in mosca; sul fatto che cavalcava nell'aria sibilando sopra i fossati. Sottoforma di mosca entrò nel castello di Canale, si posò su un bambino di appena sei mesi, che poi morì. La sentenza riferisce che, secondo i testimoni, Matteuccia si recava in volo al noce di Benevento tre giorni la settimana.
"Quali?" - chiesero i giudici.
"Lunedì, sabato e domenica" - fu la pronta risposta.
La sentenza afferma: "A noi e alla nostra Curia risulta che le suddette cose insieme e singolarmente contenute nella requisitoria, sono state e sono vere nei luoghi e nei tempi citati, per vera e legittima confessione fatta dalla detta Matteuccia; alla quale fu assegnato un certo termine per presentare qualunque difesa per le accuse: e il termine è scaduto; e per questo, affinché la predetta Matteuccia non possa gloriarsi della sua iniquità e sia di esempio a chiunque desiderasse simile attività… sia bruciata con il fuoco in modo tale che la colpevole muoia e la sua anima si separi dal corpo".
(R.Vignon - Le streghe - 1971)

Per inciso, la Chiesa usava giustiziare i condannati mediante il fuoco, dato che - per principio - aborriva "lo spargimento del sangue". Per la cronaca, il frate Antoni da Casale, che era stato inquisitore a Como, aveva condannato al rogo ben trecento streghe nel solo anno 1416. Una al giorno, escluse le domeniche - dedicate al Signore.

"Il processo a Maddalena Làzzari fu istituito nel 1673. Era il 30 ottobre del 1672, una domenica. Una certa Giovanna Zenni di Premadio era malata. Non si capiva di che cosa. Pensò che fosse ammaliata, chiamò il prete, glielo disse e si fece benedire. Essere ammaliati allora e in quei posti non era cosa da poco: peggio che avere la lebbra.
Interrogata ufficialmente, Giovanna Zenni disse, come risulta dall'antico manoscritto in cui si fondono la lingua italiana e il dialetto locale, che aveva una roba che le saliva per il corpo e poi raggiungeva la gola fin quasi a soffocarla. Raccontò che si era rivolta all'arciprete. Costui le aveva fatto disfare i cuscini. E aveva fatto bene: dentro erano apparse delle bucce cruscose. Allora era andata a Tirano, dal reverendo. Proprio davanti a lui le venne la gola grossa, tanto da non poter più parlare. Il reverendo la benedisse tre volte, le pose nella mano un'ampollina d'olio santo e le disse:
"Se dentro di te c'è uno spirito si farà vivo".
E difatti l'ampollina si mise a tremare e con essa Giovanna Zenni tutta intera.
Le fu chiesto:
"Avete qualche sospetto?"
"Nessuno".
I giudici le ricordarono che parlava sotto giuramento. La spaventarono e Giovanna Zenni disse:
"Ho avuto un sospetto contro una persona".
"Chi?"
"La serva del curato".
Spesso costei era andata a trovare la Zenni quando questa era malata. Si accostava subito al letto e vi restava per qualche tempo. Una volta, avendole venduto una capra, la Zenni le chiese se si lamentava del prezzo. "No", aveva risposto la donna, "ho ricevuto il fatto mio". La Zenni le aveva detto: "Mi pare che abbiate una brutta cera. Non mi avete neppure augurato buon dì". E la donna le aveva risposto: "Non ho tempo di stare qui a fare tante storie".
I giudici, perplessi, le chiesero:
"Ma la gente ha sospetto di lei?"
"Io non so nulla. Ma si dice che appartiene al ceppo delle streghe. Difatti è soprannominata la Petrigna".
In quei giorni era rinchiusa in prigione una mezza deficiente di nome Giacomina, accusata anche essa di essere una strega. Interrogata, fece la sua deposizione:
"La serva del curato è una vera strega. Mi portò al ballo delle streghe in Pianselvino. Fece venire un temporale. Uccise con l'alito una vacca di Pedenosso. Lanciò i suoi malefici su molti capi di bestiame che si ammalarono. Si spargeva il corpo di unguento e se ne andava per l'aria a cavalcioni di un bastone o di una frasca".
I giudici decisero di fare una chiacchierata con questa serva. Allora le case dei curati godevano dell'immunità. Si agì rapidamente e di sorpresa per impedire che la donna, in qualche modo, non uscisse più di casa. Due sgherri nascosti, la catturarono sulla soglia.
Il 7 novembre 1672 la serva, con gli occhi bendati e le mani legate dietro la schiena, comparve davanti agli inquisitori.
"Foste mai affrontata come strega?" Le fu chiesto.
"Sì, rispose ingenuamente, "mi è stato detto - Razza di strega Petrigna che tu sei!"
"Chi lo disse a voi?"
"Giovanna Zenni e Anna di Donato Sacchetti detta Zanolo. L'Anna Sacchetti mi perseguita per via di una eredità contrastata tra noi due. Dice che con il soffiarvi sopra le ho ammazzato la vacca".
"Avete avuto a che fare con Giacomina?"
"In tenera età stetti due o tre anni con Giacomina che mi maltrattava".
"Con chi dormivate?"
"Sola".
"Frequentavate i balli?"
"Quelli di carnevale, sì. Non quelli di Pianselvino".
"Come avete imparato il mestiere di strega?"
"Non l'ho mai imparato, non ho mai avuto occasione di impararlo, non sono una strega".
"Lo vedremo".
Lo si vide, infatti, nella sala delle torture. La serva del curato, che si chiamava Maddalena Làzzari, negò con tutte le sue forze di essere una strega. Venne sospesa alla carrucola per un'ora. Piangeva e implorava misericordia. Visto che dopo un'ora non aveva confessato, le vennero attaccati ai piedi dei contrappesi sempre più grandi. Fu fatta radere.
"Ho trovato", gridò il barbiere "ho trovato due segni del diavolo: uno in testa, sotto la treccia a destra, l'altro in basso, nel postione (cioè nel pube).
"Sia punta".
Le furono inferte due punture accanto ai segni del diavolo. Non ebbe alcuna reazione.
"Dunque è una strega".
Fu spogliata del tutto e legata nuda alla scala. Venne l'arciprete di Bormio che la benedisse. Fu di nuovo rasa accuratamente in tutte le parti del corpo e in tutti i recessi, affinché "non potesse nascondere cifra, amuleto o altri oggetti fatati".
"Dicci la verità", le intimavano gli inquisitori.
"Maledetta quella verità e chi la cerca", gridò Maddalena Làzzari.
Fu torturata in tutti i modi, con accanimento: tirata per i polsi e per le caviglie fino a disarticolarla; bruciacchiata; riempita a forza la bocca di orina; frustata a sangue; strappate le unghie. E infine gridò: "Si!"
"Da quanto tempo fate la strega?", le fu subito chiesto.
"Otto anni".
"Chi vi ha insegnato?"
"Giacomina".
"In che modo?".
"Fece una ruota a terra e dentro vi segnò la croce. Ci passai sopra e ripetei certe parole che ora non ricordo".
"Che cosa accadde?".
"Apparve un omaccione grande e grosso, che mi pose la mano sulla spalla e mi invitò a ballare. Mi voltai verso Giacomina per capire se dovevo accettare e Giacomina mi disse di sì, perché quello è il signore. Anzi mi disse di riconoscerlo e di rinnegare Dio. E così feci".
"Giacomina vi ha condotta al ballo?"
"Si".
"In che modo?"
"Quando ero piccola mi portava in spalle. Poi insieme ci andammo cavalcando una scopa per l'aria".
"A quali balli siete state?"
"Ai balli di Pianselvino, Pozzino, Prada... E anche in Plator, Quarinello e Foscagno."
"Che cosa ci avete visto?"
"Belle sale, di lusso. E uomini gentili che mi carezzavano. Con loro si ballava. E tanti signori e signore, tutti in maschera".
"E il demonio c'era?"
"Eccome: era magro e vestito di nero".
"Ha abusato di te?"
"Tre o quattro volte".
"Descriveteci tali amplessi".
A questo punto il manoscritto ha uno spazio bianco. La descrizione è stata espurgata per quanto fosse un atto di processo.
Maddalena Làzzari ammise anche che aveva insegnato ad altre.
"A chi?", le fu chiesto.
Si chiuse in un silenzio ostinato. Capì che stava per rovinare delle innocenti. Con il corpo piagato dalle ferite fu di nuovo sottoposta alla tortura. Per ben quindici ore fu piazzata sul cavalletto che la lacerava lentamente. E così cominciò a tirare fuori i nomi delle persone incontrate ai balli del diavolo. Venne slegata e le furono lette tutte le confessioni che aveva fatto. Sembrava completamente stupita da ciò che udiva e di ciò che stava accadendo. Quando fu di nuovo posta sul cavalletto per la ratifica finale si confuse, non ricordava più le confessioni rese.
"Questa è davvero opera del diavolo per confonderci", si disse.
"Se dico la verità non mi credono", disse Maddalena Làzzari.
Per questa frase fu inchiodata di nuovo per cinque ore alla tortura. Aveva inventato tutto: disse che aveva confessato a causa delle torture e trovò la forza di chiedere che voleva essere esaminata dagli inquisitori nella Sala del Consiglio, ma senza torture.
A questo punto fu slegata e le fu chiesto:
"Avete altro da aggiungere?"
"No".
"Non avete paura delle torture?"
"Potete martirizzarmi, non ho altro da aggiungere".
"Ratificate tutto e per tutto quanto avete detto e fuori da ogni paura di tortura?"
"Sì, signori, in tutto e per tutto è vero".
Era ormai ridotta in uno stato preagonico. La sua sentenza di morte fu letta nelle piazze. I suoi beni le furono confiscati. Il curato, presso cui era stata serva, non fu neppure interpellato o udito. A Maddalena Làzzari fu mozzato il capo nei campi dove si eseguivano le sentenze. Il suo corpo fu bruciato, le sue ceneri disperse nell'Adda. Ancora oggi, qualche vecchio contadino, passando per i sentieri che costeggiano quei campi, si fa il segno della croce e affretta il passo."
(R. Vignon - Le streghe - 1971)

Concludendo con il Vignon, "era proprio l'antichissima fede agreste insita nel mondo pagano che la Chiesa, più o meno inconsciamente, combatteva. In un procedimento durato parecchi secoli, il mondo pagano fu fatto diventare sinonimo di diabolico: gli antichi riti erotici che festeggiavano e celebravano il trionfo della natura furono trasformati in episodi di perversa lussuria, i fauni e i satiri che popolavano gioiosamente i boschi diventarono i diavoli, pieni di reminiscenza caprine delle antiche deità, ma deformati in esseri ributtanti e puzzolenti. Ed erano diventate streghe, cioè esseri da disprezzare, le ninfe e le maghe dei tempi antichi. Su tutti gli elementi del mondo pagano la teologia ecclesiastica distese il velo del peccato, cioè di una cosa proibita. Confuse volutamente il peccato con il reato, condannando perciò non soltanto alle pene eterne nell'oltretomba, ma anche alle pene terrene. Fin quando, durante il Medioevo, l'autorità politica religiosa fu autoritariamente concentrata e unitaria, nell'oppressione generale le deviazioni furono poco rilevanti. Ma quando cominciarono i fermenti dei tempi nuovi si produsse una spinta se non proprio chiaramente verso il mondo pagano, verso la natura; spinta alleata con i primi barlumi della diffusione della cultura.
Per quanto malconci, i miti riemersero accanto alle prime ricerche, sia pure empiriche, nel mondo che circonda l'uomo; e mentre in certi livelli sociali si diffondeva l'alchimia, cioè il primo tentativo di dominare la natura a mezzo del laboratorio, a livello contadino molte persone, in genere analfabete e in genere donne, rivolgevano la loro attenzione alle possibilità terapeutiche e anche di alterazione del comportamento dovute alle erbe.
La Chiesa avvertì in pieno il pericolo contenuto in tale spinta verso il progresso e una migliore condizione umana. Si arroccò in posizioni ancora più assolutiste. Perseguitò implacabilmente tutti e tutte, da Galilèi alla più umile donnetta; nelle persecuzioni dimenticò non soltanto il messaggio di fraternità cristiana, da cui era tuttavia partita poco più di un millennio prima, ma anche la pietà, che sbandierava come suo principio.
E come le povere raccoglitrici di erbe o quelle che preparavano innocui e ridicoli filtri per aiutare a campare o le donne che non fossero rigidamente conformiste, così perseguitò retroattivamente le maghe del mondo antico, che anch'esse diventarono streghe, almeno nel senso che la loro sensualità era sfrenata e micidiale…
Tutta l'antichità pullula di maghe e indovini, tenuti spesso in altissima considerazione da monarchi e condottieri che non intraprendevano alcuna azione di rilievo senza averli prima consultati. Molti re avevano le ninfe ispiratrici come oggi si ha lo psicanalista; e molti condottieri consultavano gli indovini alla vigilia delle battaglie come oggi si fa con gli stati maggiori o al minimo coi meteorologi.
Ma la cultura, nei tempi bui, è stata depositata in grandissima parte nei conventi e quindi filtrata e materialmente trascritta dagli amanuensi di controllo ecclesiastico. Maghi e indovini sono diventati tutti, indistintamente, ciarlatani; e si è distrutto un fenomeno di acume psichico che pure ha accompagnato la storia umana".


APPENDICE

GLOSSARIO

Abeli = Abele. Personaggio simbolico della mitologia ebraica. Tra contadino e pastore vi è un ovvio conflitto di interesse nell’uso diverso che ciascuno dei due fa della terra. Tale conflitto viene superato in Sardegna con l’uso comunitario della terra, e la suddivisione di essa in paberile (pascolativo) e vidazzone (seminativo). Nella Bibbia - espressa da una società pastorale rozza e intollerante nei confronti della civiltà contadina - Abele, in quanto pastore, rappresenta il Buono, colui che è amato da Javhè, contrapposto a Caino, il quale, in quanto contadino, è il Cattivo, il rinnegato. Se per ipotesi la Bibbia fosse stata espressa da una cultura contadina, la precedente valutazione sarebbe stata ribaltata, e Abele avrebbe ucciso Caino.

Abracadabra. Parola magica. Scritta su tre lati di un triangolo equilatero diventa un potente amuleto, in grado di preservare chi lo porta dalle malattie. Etimo di origine incerta. Secondo alcuni si fa risalire a abracadra, antico termine ebraico, cui si dava il significato di “Pronunciare la benedizione”.

Abracax. Nome di una divinità indiana, da cui secondo alcuni deriverebbe la parola magica abracadabra. Nella mitologia cristiana abracax diventa un demone per metà umana (dalla cintola in su) e per metà serpente (dalla cintola in giù). Tale demone possederebbe 365 poteri magici e ne potrebbe usare uno diverso per ogni giorno dell’anno. La credenza deriva dalla equivalenza in greco delle sette lettere che compongono abracax (meglio abraxas) con il numero 365, quanti, appunto, sono i giorni dell’anno. (Alfa = 1; beta = 2; ro = 100; ics = 60; sigma = 200). Abracax è in particolare il demone che presiede alle cerimonie in cui si preparano amuleti e talismani.

Abrebada (Aqua) = Terapeutica (Acqua). Acqua resa terapeutica mediante la sua consacrazione con is brebus (o verbus), parole magiche rituali.

Acabadora = Ucciditrice. Acabadori = Uccisore. Il termine al femminile, nella variante logudorese, si scrive con le prime due consonanti doppie (accabbadora) secondo la grafia dello Spano, e akkab(b)adora secondo il Wagner. Indicano le persone addette a facilitare il trapasso ai moribondi. Acabadori nella cultura contadina dei Campidani e accabbadora nella cultura pastorale delle Barbagie (con il solo femminile, essendo qui, evidentemente, tale compito riservato esclusivamente alle donne).

Acabai = Finire, morire, uccidere, conseguire. Deriva secondo alcuni dallo spagnolo acabar, finire; secondo altri dal fenicio (e arabo) hakàb, porre fine. Più probabile la derivazione dal fenicio; infatti, il sardo acabu ha lo stesso significato di hakàb, porre fine.

Affatturadori = Fattucchiere. Colui che fa le fatture, i sortilegi. E’ detto anche di persona che possiede umbra de coloru, fascino di serpente, o anche, semplicemente, simpatia. Fascinoso, affascinante, ammaliatore.

Affatturau = Affatturato. Colui che ha subìto fattura o sortilegio, mediante pratiche di magia nera. S’affatturau, con il sortilegio, può essere “ammalato” o “ammaliato”. Nel primo caso soffre di misteriosi mali che possono portare fino alla tomba se non si interverrà con una contramazzina (controfattura); nel secondo caso la vittima perde la volontà e la capacità di giudizio diventando succube di altri.

Affumentadora = Suffumigatrice. Colei che conosce l’arte magica dell’affumentu (suffumigio), che guarisce prevalentemente malocchi e spaventi. Vedi affumentai e affumentu.

Affumentai = Suffumigare. L’atto rituale magico in cui il paziente (per lo più bambini e fanciulle, ma anche animali pregiati da cortile e da lavoro) viene per così dire “affumicato” da una miscela di sostanze aromatiche messe a bruciare sulle braci, senza vampa. Vedi affumentu.

Affumentau = Suffumigato. Colui che riceve s'affumentu, il suffumigio magico terapeutico. S’affumentau ricava un reale beneficio dalla pratica cui è sottoposto, quando si tratti di disturbi che rientrano nello spettro d’azione della terapia in questione.

Affumentu = Suffumigio magico praticato a scopo terapeutico. E’ eseguito prevalentemente da donne guaritrici come terapia contro il malocchio, gli spaventi, contro fatture o sortilegi non gravi, quali ammaliamenti, che provocano tra l’altro languore, debolezza, mal di capo e inappetenza.
Il termine affumentu, come i suoi derivati relativi a questo rito, non è usato per indicare l’affumicamento cui vengono sottoposti certi cibi che si vogliono stagionare, quali prosciutti, salsicce, pancette e vari formaggi: in questo caso usiamo il termine affumai, affumicare, e i derivati di fumu, fumo. Vedi Partoxa (Affumentu de sa).

Allacanau e Allazzanau = Appassito, infiacchito (secondo che l’aggettivo sia riferito a pianta o a animale e persona). Dal verbo allacanai e allazzanai, derivati dal greco lachanisso o lachanizzo, essere languente. Sinonimi di allacanai sono accalamai e accomonai (quest’ultimo termine usato prevalentemente per germogli di piante e verdure quando per il troppo caldo o dopo un certo tempo dal taglio avvizziscono). Si dice anche per i baccelli o teghe delle fave, dei piselli o dei fagioli colti da un certo tempo, non più freschi. Sa fà allacanada non est prus durci comenti candu est frisca = La fava appassita non è dolce come quando è fresca (appena colta).
Il termine allacanau, e simili, viene usato per persona moscia, snervata, e in particolare per un membro virile insufficientemente eretto.
Si possono allacanai (appassire) piante o allacanai (infiacchire) animali e persone) con l’arte magica. Vedi Avvalliri e Ortizzu.

Ammaladiai = Ammalare. Ammaladiaisì = Ammalarsi. Vedi Maladia = Malattia; e Donai maladia = Ammalare con arti magiche.

Ammaliai = Ammaliare, affascinare. Vedi Malia.

Ammantadori e Ammuntadori = letteralmente: copritore. Da mantu, manto, e ammantai, coprire con manto. S’ammantadori è una creatura mitica antropomorfa che di notte visita le fanciulle dormenti, si stende su di esse tentando di possederle in un abbraccio soffocante. Priva di respiro, la vittima si leva di scatto a sedere sul letto, e ha così termine l’incubo. S’ammantadori viene descritto come un uomo di mezza età; grande e grosso, nudo dalla cintola in su e con il petto villoso. In logudorese, tale incubo è detto ammuntadore.

Aneddu = Anello. Simbolo magico del serpente e della donna. Si vuole che anticamente esistessero anelli con poteri magici - a parte gli anelli con il sigillo usati dai potenti per rendere esecutivi i loro atti. Ancora oggi, talvolta l’anello viene portato come pendaglio con funzione di amuleto, avendo le stesse virtù protettive del cerchio (vedi circu). L’usanza di mettere l’anello nuziale nel quarto dito (anulare) è ricavata dalla credenza che in questo dito passi la linea del cuore. Altra credenza diffusa è quella secondo la quale è possibile trarre auspici sull’andamento matrimoniale di una coppia dal modo in cui lo sposo infila l’anello nel dito della sposa. Se entra liscio, d’un colpo, sarà lui a comandare; se si ferma nella giuntura, sarà lei a prevalere. Muovere il dito durante l’operazione per evitare una introduzione continua è un accorgimento usato dalla sposa per propiziarsi un ruolo attivo. E’ evidente, nella cerimonia dell’anello, la simbologia dell’atto sessuale.

Angiulu = Angelo. Spirito del bene. Is angiulus, gli angeli, presiedono alla vita onesta, serena, laboriosa. Si contrappongono a is tiaulus, i diavoli, spiriti del male. L’equilibrio esistenziale umano è dunque instabile e precario, influenzato, se non determinato, dalla immanenza delle opposte forze del bene e del male, in perenne conflitto tra loro.
Ogni azione umana valutata buona ha il crisma dell’angelo, come sostiene l’antico proverbio S'unconi pretziu s'angiulu si ddui setzit = Al boccone (al poco cibo) diviso l’angelo gioisce.

Anima = Anima. Il mondo - specie nelle ore notturne che ne favoriscono la materializzazione e l’apparizione, - è popolato di animas, creature, che si confondono con dimonius e tiaulus, demoni e diavoli. In primo luogo is animas si distinguono in anima bia, creatura vivente, e anima motta, creatura morta (che però continua a esistere e a manifestarsi come spiritu o pantasima, spirito o fantasma, conservando l’originaria sembianza. Quando di notte appare una puba, una figura di natura incerta, le si chiede: "Ses anima bia o anima motta?” (Sei anima viva o anima morta?); e se è “anima viva” risponde e si qualifica: “Ca seu su tali”, Guarda che sono il tale.
Is animas, le anime, si distinguono ancora in animas bonas e animas malas, anime buone e anime cattive. Is animas bonas sono le anime dei defunti che si trovano nel Purgatorio e molto più raramente nel Paradiso, e possono di tanto in tanto comunicare con i viventi, gente della loro comunità o del parentado. Queste animas non sono da temere, portando buona sorte, svelando enigmi, predicendo il futuro, e spesso dando anche i numeri del lotto. Is animas malas, le anime cattive, sono is animas cundennadas, le anime dannate, alle pene eterne dell’Inferno; e da queste bisogna guardarsi come da is tiaulus, i diavoli, dei quali ormai hanno preso la natura malvagia.
Vi sono anche categorie particolari di animas: is animas de is pippius mottus sene battiai, le anime dei bambini morti senza Battesimo; is animas de is cundennaus a motti, le anime dei giustiziati, alle quali si lega il culto delle anime decollate; is panas o animas de is mottas de partu, le anime delle morte di parto.

Anima = Anima. Nel significato di essenza vitale. Anima vegetativa si narat sa de is plantas, sensitiva sa de is animalis, razionali sa de s'omini = Anima vegetativa dicesi quella delle piante, sensitiva quella degli animali, ragionevole dell’uomo (Porru). Anima anche nel senso di parte interna di cose diverse, ed è anche sinonimo di mueddu, midollo. E’ detto ou cun s'anima, uovo con l’anima, uovo gallato, e ou sene anima, uovo senz’anima, l’uovo infecondo, che dai latini era detto urinus.

Animalis = Animali. Si vuole che in ogni animale alberghi un demone tipico, caratterizzato da certe qualità morali, ed è in conseguenza valutato virtuoso o vizioso, utile o dannoso. In pratica, dalla osservazione dei comportamenti degli animali, l’uomo è portato ad attribuir loro propri vizi e proprie virtù valutandoli con il proprio metro psicologico e morale. La novellistica popolare ha spesso animali come protagonisti, ciascuno di essi simboleggiante un carattere umano. Margiani, la volpe, è un astuto predatore, con il quale il pastore stipula accordi di buon vicinato con antichissimi rituali magici. Su cani, il cane, è fedele, ma servizievole fino alla vigliaccheria. Su stori, il falco, è superbo e altero. Sa carroga, la cornacchia, è una vecchia saggia. Su molenti, l’asino, è esageratamente virile ma reso stolto dalla sua foia. Su 'attu o pisittu, il gatto, ha l’anima del libertario, non ha padroni né leggi. Sa mardi, la scrofa, si sa, è una gran troia. S’egua, la cavalla, è una femmina di smodata lussuria. Su carrabusu, lo scarabeo stercorario, è l’anima nera di un avaro che vive abbrancato al suo tesoro. Vi sono animali che portano fortuna, come sa mamajola, la coccinella, e altri che portano jella, come s'attu nieddu, il gatto nero, e sa stria, la strige. Osservando il comportamento degli animali possono trarsi auspici. Alcuni animali come il cane e il maiale, considerati immondi, vengono usati per scaricare su di essi malocchi, malefici, spaventi o per farvi trasmigrare i demoni scacciati dal corpo degli ossessi.

Antoni (Sant') = Antonio (Sant’). E’ detto s'Eremitanu, l’Eremita, o anche de su fogu, del fuoco. Per antichissima tradizione, cui ricorrono numerose leggende, Sant'Antoni de su fogu è venerato dai Sardi come il loro Prometeo: a lui si attribuisce il merito di essere disceso nell’Inferno, di avere con un sotterfugio attizzato il fuoco alla punta del suo bastone di ferula e di averlo poi donato ai Sardi affinché uscissero dalla barbarie. Per celebrare il Santo eremita, nel mese di gennaio, in molte comunità dell’Isola, si preparano nelle piazze grandi falò.
Vedi Fogadoni o Tuva.

Aqua = Acqua. Fonte e sostanza di ogni forma di vita sulla terra, l’acqua è considerata una divinità presso tutti i popoli. E’ l’elemento che ha le magiche proprietà di purificare, fecondare, divinare e guarire.

Aquas de mexina = Acque medicamentose. Se ne hanno diverse: Santa (Acqua) = Santa (Acqua). Vedi.
Abrebada (Aqua) = Acqua resa taumaturgica mediante brebus. Vedi.
Patena o Medalla (Aqua) = Acqua resa taumaturgica mediante patena o medalla, medaglia miracolosa. Vedi.
Licornia (Aqua) = Acqua rituale usata nella diagnosi e terapia di alcuni disturbi della sfera emotiva. Vedi.
S’aqua, l’acqua, è la materia più diffusa nei riti terapeutici popolari.

Aragna (catalano Aranya; spagnolo Araña) = Ragno, insetto dell’ordine degli aracnidi. Sul piano magico, is aragnas, i ragni, assumono segno e valore positivi o negativi secondo la specie. Ve ne sono di domestici i quali, si crede, portano fortuna, e se ne hanno anche, di questi, raffigurazioni in filigrana usati come pendagli con funzione talismanica. Tra i domestici occupano un ruolo importante quelli che vivono negli interstizi dei muri non intonacati, protetti da una fitta tela: la loro nappa o tirinnia, la loro tela, è usata come emostatico. (Vedi). Ve ne sono anche di demoniaci, quelli volgarmente detti aragnas piludas, ragni pelosi. A questo gruppo di aragnas demoniache appartengono is argias o arzas (Vedi), le tarantole, della famiglia dei falangidi, che provocano singolari forme di avvelenamento.

Argia = Tarantola. Argia viene chiamato nel mondo contadino dei Campidani un singolare ragno che un tempo era comune nelle campagne nel periodo della mietitura del grano e che oggi è quasi estinto. Si distinguevano argias, tarantole, con macchie gialle o rosse o brune, secondo la specie. Provocava con la sua puntura su mali de s'argia (tarantolismo), un fenomeno patologico caratterizzato da disturbi della sfera psichica, che si risolveva mediante una singolare terapia di gruppo, a base di musica e ballo. Nei Campidani, s'argia, la tarantola, può essere di quattro specie: sa viuda, la vedova; sa bagadia, la nubile; sa partoxa, la puerpera; sa martura, la paralitica.

Argia (Su ballu de s') = Tarantola (Il ballo della). E nel Nuorese ballu de s'arza. Terapia diffusa in tutta l’Isola, con differenti rituali, contro il morso della tarantola.

Arza = Tarantola in logudorese.

Arza masciu e Arza battia = Tarantola maschio e tarantola vedova. Secondo lo Spano, sono le due specie note nel Nuorese, specificando che la puntura dell’arza masciu è assai più dolorosa di quella dell’arza battia.

Attitai = Lamentazione funebre. E’ la funzione propria delle attitadoras, prefiche, cioè quella di piangere e lamentare il morto, tessendone gli elogi e incitando gli animi dei presenti alla commozione o alla vendetta quando si tratti di morte violenta. Danno luogo a s'attitai, alla lamentazione funebre, le parenti del defunto e le donne del vicinato, più anticamente le prefiche, is attitadoras, donne esperte in tale arte, che svolgevano un ruolo di rilevanza comunitaria, mai prezzolato.
Il vocabolo attitai deriva dal sardo-logudorese adtitiare (secondo la grafia del Wagner) ma anche dallo stesso termine sardo-campidanese attizzai o atzizzai che hanno il significato di attizzare - sottintendendo non soltanto e semplicemente "attizzare alla vendetta”, ma anche, se mai ce ne fosse bisogno, alla commozione, a un coinvolgimento emotivo di massa: per ogni morte, sì, ma in particolare per le morti “ingiuste”, come le morti violente, le morti di bimbi e fanciulle, stroncati all’alba della vita o nel fiore degli anni.
Is attitidus, le lamentazioni funebri, normalmente sono improvvisati, ma ne esistono di scritti, di valore letterario e carichi di tensione emotiva, quali in morte di fanciulli o di latitanti assassinati da spie e carabinieri. D’altro canto, composizioni poetiche della letteratura italiana, come “Pianto antico” del Carducci o “In morte del fratello Giovanni” di Foscolo, possono definirsi attitidus. Un attitidu di notevole pregio è la composizione di Sebastiano Satta che si intitola “In morte della selvaggia”, una lamentazione funebre per una Sardegna che scompare.
Di attitidus e di altri usi funebri si parlerà diffusamente nel volume III° di questa opera.

Attitadora (e Attittadora) = Prefica. Esiste anche il maschile, attitadori, ma con altro significato, riferito a uomo piagnone. E’ chiaro che il ruolo di attitai, di lamentare i morti è proprio della donna. Ed è la donna che “attizza” negli animi virili la commozione, l’ira, la vendetta.

Attitidu (e Attittidu); al plurale, Attitidus = Lamentazione funebre. Is attitidus vengono improvvisati e declamati dalle parenti del defunto; ma sono le attitadoras, vere e proprie esperte, simili alle antiche prefiche, che danno la stura ai pianti e alle lamentazioni collettive.

Avvalliri = Intristire, vuotarsi, rinsecchire. E’ detto specialmente per le piante e più in particolare per il grano. Cust'annu su trigu s'est avvalliu = Quest’anno il grano si è rinsecchito (ossia non è giunto a completa maturazione, indurendosi prima).
Vi è chi mediante lo sguardo (oghiadoris, iettatori) o mediante mazzinas (fatture) hanno il potere di avvalliri, rinsecchire, un campo di grano - come pure di provocare morbi e morie ad animali domestici e di ammalare creature umane. Vedi Ortizzu e Allacanau.

Azziccau = Spaventato. Colui che ha subito un trauma psichico. S’azziccau, quando presenta i sintomi propri di s'azzicchidu, dello spavento, viene sottoposto alla terapia del caso.

Azzicchidu = Spavento, e più precisamente, nella materia in esame, shock, trauma psichico. Sinonimi di azzicchidu, spavento sono sprama, spreu, sustru e assustru, e inoltre di maggiore intensità i vocaboli spentumu e sprerrumu che indicano il precipizio, l’abisso, che danno luogo agli aggettivi spentumau e sperrumau, che si potrebbero tradurre con “annichilito dallo spavento”. In medicina popolare, s'azzicchidu, lo spavento, può essere lieve o grave, provocato da creature viventi (Animas bias = Anime vive) o da creature morte, spiritus e umbras, spiriti e fantasmi, (Animas mottas = Anime morte) e viene curato con terapie diverse, che vanno dalla semplice aspersione del viso o del collo con saliva o acqua, fino ai suffumigi magici e a s'imbrusciadura, un singolare rito che guarisce i traumi psichici. Vedi il capitolo S'imbrusciadura. Vedi anche Sperrumu e Sperrumau.

Azzichidu (Sinnus) = Spavento (Sintomi). S’azzicchidu, lo spavento, è considerato una malattia vera e propria, ed è assai diffusa, nei piccoli più che negli adulti, nelle femmine più che nei maschi. I sinnus o sintomi che lo caratterizzano sono: insonnia, vaneggiamenti, incubi; inappetenza, svogliatezza, vomiti; pallore del viso e sguardo assente; foruncolosi, specie nella testa; può sopravvenire nei casi più gravi febbre alta con delirio. Modo di dire comune: “D’hat pigau spreu mannu!” = Ha preso uno spavento grande! Vedi Imbrusciadura.

Babballoti = Insetto, in senso generico, specie quelli che vivono nel terreno sotto lo strato di foglie secche e sotto i sassi. Alcuni babballotis, insetti, sono ritenuti spiriti metamorfici, certi cattivi e altri buoni. Su babballoti arrumbulazzu, il porcellino terrestre, detto anche Proceddeddu de sant'Antoni (Porcellino di sant’Antonio), l’insetto che vive sotto i sassi e tra sostanze vegetali in decomposizione, si dice che porti fortuna, quando lo si tocca e si appallottola. Così pure un altro babballoti, detto babbajola o mammajola (coccinella), che è considerato guardiano di tesori nascosti e dal cui volo si traggono auspici. Teniri bonas babbajolas significa tenere molti soldi, essere ricco. Le bambine catturano is babbajolas, le coccinelle, e per propiziarsi fortuna le mettono sopra il palmo della mano aperta, recitando versetti propiziatori e augurali finché l’insetto non vola via.

Babboi = Insetto repellente, babau, spauracchio. Viene detto ai bimbi disubbidienti: “Mi' (Mira) a babboi, chi non fais a bonu! = Guarda (che viene) babboi, se non fai da bravo! Tuttavia, è approssimativo tradurre babboi con l’italiano babau. Babboi è voce di origine fenicia, da bou, tenebre, e babbou, orrore. Ho notato che il termine babboi è usato nel Campidano di Oristano per indicare un insetto repellente, che fa paura o schifo, talvolta per indicare s'argia, la tarantola. Alcune tarantolate, infatti, descrivono l’insetto che le ha pizzicate come unu babboi nieddu pixidu piludu piludu = un insetto nero come la pece molto peloso.

Battesimu = Battesimo. Rito magico - religioso di purificazione e iniziatico, cui si dà la virtù di cancellare con il “peccato originale” (il peccato di Adamo ed Eva) ogni altro peccato, e che ha il potere di esorcizzare i demoni e dare fede e sapienza all’iniziato. La materia del Battesimo consiste nelle stesse sostanze che più frequentemente ritroviamo in ogni rito magico - terapeutico: l’acqua, simbolo di purificazione; l’olio, che ha valore di crisma; il sale, simbolo della sapienza; la saliva che in quanto a umore di organi vitali rappresenta l’essenza stessa della vita. Vi sono nel Battesimo diversi aspetti di un vero e proprio rito magico terapeutico, di iniziazione, di propiziazione, talismanico. La ripetuta imposizione delle dita della mano nelle parti del corpo del battezzando ritenute vitali (mente, cuore, organi dei sensi) e is brebus, le parole sacre, danno al rito funzioni terapeutiche, in quanto esorcizzanti il male, iniziatiche, in quanto danno il carisma della fede, propiziatorie e talismaniche, in quanto richiamano sull’iniziato la protezione delle forze del bene.

Battia (Arza) = Vedova (Tarantola). Dicesi arza battia o arza viuda in logudorese una specie di tarantola, il cui morso dà sintomi simili a quelli provocati da s'argia viuda del Campidano. La terapia per il morso dell’arza battia in alcune comunità è effettuata da sette vedove.

Bèvida = Bevanda, tisana. Alcuni, come lo Spano, traducono tisana con bivanda, italianizzando. Bevida indica anche sa mexina de buffai, la medicina da bere, pozione o tisana che dir si voglia, ottenuta mediante l’ebollizione di erbe, o sciogliendo sostanze medicamentose o consistenti in aqua abrebada, un acqua resa taumaturgica mediante magia eseguita da guaritori.

Billada in campidanese e Bizada in logudorese = Veglia rituale. Si ha notizia di veglie sacre, anche attuali, per lo più collettive. Ne parla l’Angius nel Dizionario enciclopedico del Casalis. Vedi anche in sa festa de sos mortos a Orune, nel volume III°.

Bisera e Maskara = Maschera. L’uso della maschera è comune in molte cerimonie magiche propiziatorie. La maschera di per sé opera una magia metamorfica: trasfigura il volto che da umano può diventare angelico o demoniaco, affascinante o terrificante; e si acquistano i caratteri e le capacità dell’angelo, del demone, dell’animale rappresentati. Le maschere carnevalesche di Ottana e di Mamoiada, nelle Barbagie, sono maschere linnee rappresentanti animali e demoni, di espressione fortemente drammatica. Con queste maschere, durante il carnevale, si svolgono cerimonie magiche propiziatorie le cui origini si perdono nella notte dei tempi. Se ne parlerà diffusamente nel volume III°. Bisera, maschera, ha anche il significato di beffa. Fattu a bisera = Fatto per beffa.

Bisir e Visir = Visir, ministro di corte. Termine usato per indicare genericamente chi amministra la giustizia. Con lo stesso significato, ma più raramente, è usato anche kadì.

Bisu = (Dal latino visus). Sogno, sonno. Bisai e anche Bisionai = Sognare, fantasticare. Nottesta happu fattu unu bellu bisu = Stanotte ho fatto un bel sogno. Ita ses, bisendidì (o bisionendidì)? = Cosa ti stai sognando (o inventando)?
Is bisus, i sogni hanno particolare rilevanza nell’arte della divinazione. In generale sono considerati segni premonitori di fausti o infausti eventi, dati all’uomo da entità spirituali durante il sonno. L’analisi e la interpretazione dei sogni consentono non soltanto di divinare, ma, con buona pace di Freud, di penetrare nei più profondi recessi dell’animo umano cogliendo le cause di certe malattie di carattere psichico e di approntare le terapie più idonee. Vi sono bruxus e cogus, uomini di magia e di medicina, esperti nella interpretazione dei sogni, e a loro ci si rivolge per conoscerne il vero significato.

Bisura = (Da bisu, viso). Aspetto del viso. Sa bisura, l’aspetto del viso, denota i sintomi della malattia e consente al guaritore di fare la diagnosi e approntare il rimedio. La tipologia del viso, nonché l’aspetto relativo all’umore, è detto anche cara. Essiri de bella cara
 = avere un viso di bell’aspetto.

Boe muliache e in campidanese Boi mulliaccas = Bue mugghiante. E’ così detto una sorta di bue mannaro, fenomeno di demoniaca metamorfosi dell’umano. Meno frequenti su ercu e sa prummunida, il cervo e l’asino mannari. Vi sarebbero certi uomini che nelle notti di plenilunio si trasformerebbero in un mostruoso bue magghiante (boe muliache), dando vita a una nuova creatura infernale che si aggiungerebbe ai mille altri demoni che dopo il tramonto emergono dagli inferi popolando le tenebre. L’orrendo essere metamorfico detto boe muliache rappresenta un penoso dramma esistenziale per colui che ne è il soggetto, e costituisce un pericolo mortale per i membri della comunità: colui che sente il suo terrificante muggito può morire dallo spavento in breve tempo. Vedi Ercu, Premmunida, Licantropia.

Brebus = Parole sacre o di natura magica. Dal latino verbum, parola. Nei riti terapeutici popolari, is brebus, le parole magiche, scandite, bisbigliate o inespresse, costituiscono elemento essenziale, potendo anche sostituire la materia curativa. Anzi, va sottolineato, che sono is brebus , spesso, a sacralizzare, a rendere terapeutica la materia usata. Specificando: qualunque materia curativa diventa abrebada, cioè magica e sacra, mediante la pronuncia di appositi brebus da parte del guaritore. Come si è accennato, talvolta sono sufficienti is brebus , per risolvere un lieve disturbo. Si dice allora a si fai is brebus, farsi fare i brebus, o anche is Vangeus, i Vangeli. Tale terapia consiste nel recitare al malato versetti magici o passi tratti dal Vangelo, per esorcizzare il demone di “quella” malattia. L’operazione è normalmente condotta da un sacerdote o da un guaritore.

Brebus de s'affumentu contra s'azzicchidu = Parole magiche nel suffumigio per guarire gli spaventi. Nella terapia detta s'affumentu (il suffumigio magico-terapeutico), praticato prevalentemente per risolvere traumi psichici e per liberare dal malocchio, sono di particolare importanza is brebus che vengono recitati tre volte durante il rito. Vedi Affumentu.

Brullas o Ciascus de sposoriu = Burle o scherzi nello sposalizio. Era usanza diffusa appendere al letto degli sposi novelli sonajolus e pitiolus (Vedi), sonagli e campanelli, in modo che la coppia consumando il matrimonio, scuotendo i suonanti aggeggi, avrebbe allontanato dal talamo e quindi dalla casa gli spiriti del male. L’usanza aveva quindi funzione scaramantica: portava bene agli sposi “attivi” liberando la loro casa dalla presenza e dagli influssi dei tiaulus, diavoli. Attualmente è diventata una burla per il sollazzo degli ospiti, i quali, in alcune comunità contadine, si intrattengono a far festa per tre giorni e tre notti: dal tintinnare che giunge dalla camera nuziale si valuta la vigoria degli sposi e si ricamano facezie e storielle piccanti. L’uso “civile” di legare barattoli all’auto degli sposi che partono per il viaggio di nozze, diffuso un po’ dappertutto nel mondo occidentale, è una variante dell’antico rito di dar piglio a sonagli o a oggetti rumorosi per liberare dagli spiriti del male la casa che ospita un nuovo nucleo familiare.

Bruxa = Maga, e più specificatamente indovina. Secondo il Dizionario del Porru, questo termine oltre a indicare la maga indicherebbe anche su logu aundi si unint is bruscias, il luogo dove si riuniscono le streghe. Vedi Bruxu.

Bruxeria = Magia, incantesimo, fattura, malia, medicina. Bruxeria è l’atto compiuto dal bruxu (mago) o dalla bruxa (maga) sia per legare che per sciogliere. Dicesi bruxeria anche lo strumento o il rito usato per compiere la magia, di segno bianco o nero. Vedi Bruxu.

Bruxeria po divinai = Magie o stregonerie per divinare. Nelle mexinas in uso nel mondo contadino, un settore cospicuo nel campo della divinazione è riservato alla scoperta dei colpevoli di reati contro la persona o il patrimonio. Quando si dubita che il male che affligge qualcuno della famiglia (o qualche prezioso animale da cortile o da lavoro) sia opera di un fattucchiere (killer armato di malefici ingaggiato da un nemico); o quando siano spariti dal loggiato o dal cortile un paio di forbici o un lenzuolo lasciato steso o una gallinella ovaiola, allora la massaia si rivolge a su bruxu (o a sa bruxa), al mago (o alla maga), che abbiano nomea di essere veri cogus, indovini, affinché compia qualcuno di quei particolari riti magici che svelano l’ignoto, affinché colui (o colei) che ha commissionato il maleficio o che ha rubato assuma un volto, prenda un nome e venga ripagato come si merita.
Si può dire che questi metodi di ricerca della verità per amore della giustizia sono assai più civili, e più umani, di quelli in uso nelle polizie di tutti i tempi, intese come “braccio armato” del potere e della giustizia. Si sa che in tempi relativamente antichi, i “giudizi di Dio”, le ordalie, le prove del fuoco e le prove dell’acqua, e altri simili metodi “divinatori” erano in auge per dirimere controversie e principalmente per dimostrare la colpevolezza o l’innocenza di un cittadino sospetto di reato. Queste singolari prove, cui erano sottoposti i sospetti, consistevano nella costrizione a compiere atti che, senza l’intervento di un potere sovrannaturale, si risolvevano sempre a danno dell’imputato. E’ assurdo, essere immersi nell’acqua e non affogare, camminare sopra i carboni accesi e non bruciarsi, immergere la mano nell’acqua bollente e non scottarsi, bere pozioni avvelenate e sopravvivere, farsi mordere da un aspide e restare indenni - o ricevere sulla lingua una lama arroventata, con la presunzione che il colpevole avendo paura ha la lingua arida e pertanto si scotta, mentre l’innocente essendo tranquillo ha la lingua insalivata e quindi non si scotterebbe.
Nel sottoporre i sospetti di reato a tali torture, spesso mortali e comunque invalidanti, c’è la presunzione (difficile dire quanto in buonafede) che Dio o le Forze del Bene, essendo a favore dell’innocente, si sentirebbero in dovere di intervenire con un “miracolo” per salvare il disgraziato ingiustamente accusato. Il fatto è che tale intervento è sempre rimasto a livello di ipotesi, e dubito che sottoponendo gli stessi accusatori e amministratori di giustizia a tali prove il Padre Eterno si scomoderebbe a muovere un dito.
Quando Gesù di Nazareth viene inchiodato alla croce, i suoi carnefici ebrei lo deridono, sapendolo un “mago”, capace di cacciare i demoni dagli ossessi e di guarire i malati, dicendogli che se egli è veramente innocente le Forze del Bene verranno a salvarlo. Anche in questo caso si configura un richiamo, seppure in senso ironico, al “giudizio di Dio”.
Le torture diffuse ancora oggi presso tutte le polizie del mondo altro non sono che una eredità di quell’antichissimo e barbarico istituto (che ebbe i suoi fasti nel Medioevo) detto ordalia e basato essenzialmente sulla prova del fuoco e dell’acqua. La stessa presunzione che sotto la tortura il sospetto, se colpevole verrà abbandonato da Dio e finirà per confessare i propri misfatti. In verità, qualunque uomo, sottoposto a sevizie (attualmente una delle più atroci torture è l’isolamento) finirà per confessare colpe non commesse e qualunque altra cosa potrà compiacere i suoi aguzzini. Gli attuali “giudizi di Dio”, dove si usano metodi più sofisticati che nel passato, non sono altro che una continuazione di antichi riti barbarici che le legislazioni attuali dicono di aver soppresso. Il sistema di potere attuale condanna verbalmente simili metodi, ma li usa più o meno nascostamente nella misura in cui gli tornano utili per eliminare oppositori irriducibili e per dimostrare la propria efficienza punitiva.

Bruxu e Bruxa = Mago e maga, fattucchiere e fattucchiera, guaritore e guaritrice. Si dice anche di persona che sa divinare il futuro. O anche più comunemente a chi ha indovinato un pensiero nascosto o ha previsto ciò che poi è realmente accaduto. Ita ses, bruxu? = Che cosa sei, mago? Su tali indovinat is cosas: debit esseri bruxu = Il tale indovina ciò che accade: deve essere mago. Il termine bruxu (a meno che non sia usato scherzosamente, come nelle frasi precedenti) viene sempre usato indirettamente, riferito cioè sempre a persona non presente. Il guaritore o fattucchiere che si va a trovare per un consulto o per avere la mexina per una malattia, non si apostrofa mai con l’appellativo di bruxu, ma con il suo nome di battesimo o con il suo soprannome preceduti da ziu, o se è famoso per le sue doti di guaritore omini santu.
Bruxa può prendere anche il significato di strega, nel senso di donna bisbetica e acida, senza che il termine contenga attributi demoniaci e di malvagità. Più propriamente, il termine strega, rispettando la derivazione dal latino (strix-strigis) si traduce in sardo con stria, che indica il barbagianni, uccello notturno portatore di una particolare malattia (Striadura - vedi) e di gravi sciagure. Vedi Stria.

Buscu = Bosco. Lo Spano, nel suo Dizionario, ne dà la seguente definizione: Logu plantadu ad arbures silvaticus (Luogo dove vegetano alberi selvatici). Ancora oggi si ha memoria di boschi considerati sacri dalla comunità. Nei boschi sacri il taglio della legna era tabù. Colui che avesse violato il divieto sarebbe incorso nella terribile vendetta della divinità alla quale quel bosco era consacrato. Ancora oggi è noto nel Campidano il bosco di Villanovaforru (oggi Collinas) dedicato a Nostra Sennora, la Tanit della mitologia cristiana.

Cabala = Cabala. Arte di interpretare il senso nascosto delle parole e di operare prodigi mediante parole pronunciate in modo rituale. Is brebus (dal latino verbum), le parole magiche, hanno valore cabalistico perché pronunciati e interpretati dai maghi guaritori in un modo che trascende il comune senso di quelle stesse parole. Infatti, quelle stesse parole pronunciate da un profano, perdono le loro virtù magiche, terapeutiche e scaramantiche, divinatorie o ammalianti. Si vuole che l’arte della cabala, di origine caldèa, sia stata tramandata da Abramo e quindi rivelata da Gesù a San Giovanni l’Apostolo.

Campanas e Campaneddas = Campane e campanelli. Potenti amuleti, in grado di allontanare i diavoli che fuggono terrorizzati al loro suono. Oltre che richiamare i fedeli alle orazioni o radunare la comunità in casi di emergenza, le campane delle chiese hanno l’originaria funzione di esorcizzare i demoni. Diversi tintinnabuli, campanelli e sonagli, vengono usati nelle cerimonie magiche e religiose. Ve ne sono da appendere al collo e al polso dei bimbi contro il malocchio e più in generale per tenere lontani gli spiriti del male. Vengono usati dall’esorcista per scacciare i diavoli dagli ossessi. Si agitano quando qualcuno muore affinché i diavoli non si avvicinino all’anima del defunto che può così volarsene in cielo senza intoppi. A tale scopo, un tempo, le campane di chiesa suonavano a morto durante il trasporto del defunto dalla chiesa al camposanto. Vedi Pitiolus e Sonaiolus.

Cani = Cane. Animale ritenuto impuro, nel quale possono incarnarsi demoni e anime di dannati. Per sapere se l’anima di un morente andrà o non andrà all’inferno basta avvicinargli un cane. Se nel momento del trapasso il cane si avvicina vieppiù al morente, l’anima di questo sarà dannata (perché il cane l’accetta dentro di sé); se al contrario il cane si allontana, l’anima sarà salva (perché l’animale evidentemente la rifiuta). E’ usanza diffusa sotterrare un cucciolo di cane ai piedi di un albero per renderlo fruttifero. Vedi Cazzeddu.

Carroga = Cornacchia. Animale saggio che vive a lungo perché sa farsi i fatti suoi. Il detto Castiai che carroga in figu (letteralmente: Guardare come una cornacchia da sopra il fico), ha il significato di osservare con distacco la realtà senza farsi coinvolgere, ed è simile al dantesco “Non ti curar di lor ma guarda e passa”. Carroga è detto anche dispregiativamente di donna beghina che veste scuro. L’appellativo Carroga 'eccia, vecchia cornacchia, è sinonimo di vecchia megera.

Carronia = Donna laida e puttana. Usato popolarmente in senso fortemente dispregiativo per donna anziana dall’animo malvagio e puttanesco. Nonostante l’assonanza con carogna, usato in italiano per persona infida e malvagia, non vi è alcun rapporto tra i due termini.

Carrucciu (de figu morisca) = Pala (di ficodindia). La pala del ficodindia, il cladodio, impropriamente chiamata foglia e in sardo talvolta detta folla traducendo dall’italiano) è materia usata nelle fatture. Da una pala, intagliata con il coltello, si ricava un rudimentale pupazzo, su cui si compiono i riti di magia nera.

Cazzeddu = Cucciolo, cagnolino. Dallo spagnolo Cachorro con uguale significato. Su cazzeddu interrau biu (Il cucciolo sepolto vivo) sul limitare dell’uscio di casa o nel cortile, come vittima sacrificale alla nascita di un bimbo, è un antichissimo rito augurale, auspicio di lunga vita per il neonato. Usanza diffusa ancora in tempi recenti sotterrare animali domestici, in particolare cuccioli di cane, ai piedi di alberi lenti a fruttificare per renderli più produttivi. Si ha anche notizia che in tempi antichi venivano sepolti davanti all’uscio di casa bambini vivi, immolati con riti propiziatori agli dei ctoni della fertilità e della pioggia. Alcuni studiosi ritengono che con il passare del tempo ai bimbi si siano sostituiti i cagnolini. Vedi Pippius interraus bius (Bimbi sotterrati vivi).

Cera e Chera = Cera. Se benedetta, presa dall’altare di una chiesa, sa chera, la cera, è usata di frequente (con altri componenti quali l’incenso, la palma, l’alloro) nei suffumigi magico-terapeutici (affumentu), per guarire spaventi o per liberare dal malocchio o da malefici. La cera grezza (cerobida) è invece usata in magia nera per dare forma al feticcio, la raffigurazione del nemico da colpire anche mortalmente o della donna o dell’uomo amati da far innamorare, mediante fattura.

Cerbu e Crebu = Cervo. Con le sue corna, tagliate a rondelle e consacrate durante il plenilunio, si ottengono amuleti contro il malocchio. Tali amuleti sono detti Pinnadeddus e si portano al collo come pendagli. Vedi Pinnadeddu.

Chena de sos mortos = Cena dei morti. E’ credenza ancora viva presso alcune comunità dell’interno, in particolare a Orune, che nella notte del 2 Novembre le anime dei morti ritornino sulla terra, nei luoghi dove vissero. Le anime dei defunti vengono accolte con amore e rispetto dalla comunità che le ebbe viventi. In ogni casa, lasciata socchiusa per tutta la notte la porta d’ingresso, si prepara, nella cucina, accanto al caminetto acceso, un apposito tavolo imbandito con sa chena de sos mortos, con i cibi che sono più cari ai morti: sos maccarones, su pane durche, sos papassinos (i maccheroni, il pane dolce, i papassini). Si parlerà diffusamente di questa affascinante usanza nel volume III° di questa Opera, nel capitolo dedicato a sa festas de sos mortos a Orune.

Chercu e Quercu = Quercia. Regina del bosco sardo, sacra alla dea Tanit, la Grande Madre, e alle divinità ctonie. Vi erano boschi ritenuti sacri, dove il taglio della quercia era considerato sacrilegio. Attualmente, una vecchia quercia, ormai cava, detta tuva (Vedi), in occasione della festa di sant’Antonio del Fuoco, viene trasportata con grande solennità nella piazza maggiore del paese e bruciata al centro di un grande falò. Sa tuva, la vecchia quercia cava, può essere abbattuta soltanto con il taglio della scure.
Sotto le querce secolari, il consiglio dei saggi si riuniva a giudizio, e ancora oggi, presso certe comunità dell’interno, ci si incontra per dirimere controversie. Sentenze, giuramenti, patti fatti all’ombra di una quercia sono sacri e inviolabili. Su quercu (dal latino quercus) prende diversi altri nomi secondo la specie. Abbiamo così s'orroli, s'arburi de landiri, l’albero che dà le ghiande; su suergiu (quercus suber), la quercia da sughero. Esistono diversi toponomastici derivati dalla quercia, come i paesi di Suergiu (quercia da sughero e sughero) e di San Giovanni Suergiu. Così pure Orroli e altri. La ghianda della quercia è detta landiri, il calice della ghianda, calixi de su landiri, la galla è detta sa daddara - varietà rotondeggiante leggerissima, simile alla bacca del sambuco, che i bimbi usano per giocare.

Chervu o 'Ervu o 'Erbu = Cervo. Viene così chiamato nel Nuorese anche il cervo mannaro, una creatura demoniaca originata da una metamorfosi dell’umano, a causa di un male oscuro o di una misteriosa condanna. Su 'ervu - quale essere demoniaco partorito dalle stesse viscere dell’umano per un oscuro destino - costituisce un pericolo mortale per la comunità, e la sua apparizione è foriera di luttuosi eventi.

Circu o Xircu = Cerchio. Simbolo dell’infinito, attributo della divinità. Costituisce, tracciato per terra o disegnato su pergamena, un prodigioso amuleto che ha il potere di fermare fuori dei suoi limiti i demoni del male. Su xircu, il cerchio magico, si traccia intorno a sé, specie di notte quando si è in campagna e si abbia il timore che forze diaboliche siano in agguato. Il cerchio magico si traccia preferibilmente con un pezzo di carbone o con un tizzone. Il potere protettivo del cerchio aumenta se nel suo interno arde la fiamma di un fuoco o se la sua superficie viene aspersa con acqua santa o aqua abrebada. Vedi Abrebada (Aqua).

Clamai = Evocare. In Logudorese giamare, che ha secondo lo Spano, il significato di clamare foras, cioè “evocare gli spiriti”. Su clamai è l’evocazione, la “chiamata a voce alta” che viene fatta nelle cerimonie magiche per far apparire spiriti del bene o del male, anime dannate o sante, per impetrarne i favori. Nelle cerimonie funebri si clamat su mortu, si chiama a gran voce il morto, quando il suo corpo viene interrato, per trattenere la sua anima ancora sulla terra, tra i suoi cari, per quanto sia possibile a lungo. E in questo caso, su clamai, più che una evocazione spiritistica è una invocazione d’amore struggente. Su clamai o clamazioni (evocazione) si compie frequentemente nella parlata popolare con esclamazioni: Deus meus! o Madonna Santa! o dimoniu!, nei momenti di pericolo o come scongiuro o anche semplicemente come intercalare per vivacizzare il discorso.

Clamazioni = Chiamare a gran voce. Dal latino clamare, dal sardo clamai. Negli attitus (o attitidus), lamentazioni funebri, mentre si tessono gli elogi del defunto, coralmente, a gran voce, si pronuncia il suo nome, per trattenere la sua anima. Vedi Attitu.

Coa = Coda, ma anche diavolo, nominando la parte per il tutto. Su tiaulu c'hat postu sa coa! = Il diavolo ci ha messo la coda! Si dice per qualcosa che è andata storta. Si usa al contrario come scongiuro, come frase scaramantica quando ci si accinge a compiere un’opera: Speraus chi su tiaulu non ci pongiat sa coa = Speriamo che il diavolo non ci metta la coda, cioè che tutto vada per il verso giusto. Sa coa, la coda, è l’attributo più vistoso e più bestiale de su tiaulu, del diavolo. Vedi Coalonga e Coitedda.

Coalonga = Codalunga. In alcune comunità dell’Isola, specie nel Campidano oristanese, Coalonga è un diavolo intraprendente e lascivo, l’incubo notturno che si insinua fra le coltri dei lettini monacali dove dormono fanciulle e vedovelle timorate, mettendo a dura prova la loro castità. Nella novellistica popolare ricorrono di frequente notturne apparizioni di Coalonga , Codalunga, il diavolo lussurioso che assume astutamente le sembianze di giovane maschio piacente, tentando giovani donne sole e indifese. Non sempre Coalonga riesce a portare a termine il suo insano disegno, perché la vittima si sveglia eccitata da toccamenti preliminari, balza giù dal letto, si ricompone nella pudica camicia da notte, e inginocchiata su pavimento recita le preghiere e gli scongiuri del caso. C’è anche chi suggerisce abluzioni di acqua fredda, per snebbiare la mente e la volontà intorpidita.

Cogu e Coga = Mago e maga; fattucchiere e fattucchiera. Il termine cogu-a è usato anche per chi esercita l’arte o ha il dono di indovinare. O ses cogu o ci ses attoffau! = O sei indovino o ci sei caduto dentro, cioè ci hai azzeccato. E’ un modo di dire per chi ha indovinato alcunché. Cogu e Coga sono sinonimi di bruxu e bruxa (Vedi), uomo o donna che fanno magie.

Coitedda = Codina. E’ sinonimo di diavoletto. Coitedda è infatti un diavoletto birichino e dispettoso, che si diverte a far perdere, alle donne di casa specialmente, chiavi, portamonete, forbici o ditale da cucito. Quando la massaia, stranamente, non trova più un oggetto d’uso che ha appena rimesso al suo posto, pensa subito a una burla di Coitedda, diavoletto dispettoso, ed esclama: Malaitu sias, Coitedda! (Maledetto sii, Coitedda!), e sentendo la sua presenza che si manifesta con una risatina beffarda, fa gli scongiuri con is ficas (le fiche) o sputando per terra. Coitedda in fondo non è un cattivo diavolo: ha tempo da starsene a giocare, ma quando vede che la massaia sta perdendo la pazienza, l’aiuta egli stesso a ritrovare l’oggetto sottratto mettendoglielo proprio davanti al naso, dove la donna aveva precedentemente ben guardato.

Colludu = Virile, che ha le coglia. E’ detto comunemente di animale non castrato, che viene lasciato colludu per la riproduzione. Vengono invece castrati gli animali da ingrasso e da lavoro. Sono animali colludus, non castrati, su malloru, il toro (dicesi malloru arrui il toro brado), su caboni de fedu, il gallo da monta, che è detto anche caboni de tallu o intalladori, su porcu colludu, il verro, e su molenti che a qualunque uso venga destinato non viene mai castrato.
Colludu è attributo che si dà anche a persona ritenuta di particolare virilità. Quando tale virilità diventa motivo di gelosia per i maschi concorrenti della comunità, questi sono soliti dire: Fulanu est meda colludu, ddi menesciat castrau! (Il tale corre troppo la cavallina, andrebbe castrato!)
Nella novellistica popolare, godono fama d’essere colludus oltre misura is paras (i frati), is maccocus (i matti), is gobbus (i gobbi), is izzoppus (gli zoppi) e in generale is istrupiaus (gli storpi).
Nella medicina magica esistono diverse formule, pozioni e sostanze usate per rendere colludu il maschio, e ne esistono, al contrario, per renderlo impotente. Vedi Fattura.

Coloru e Caoru = Biscia, serpente. Su coloru possiede un fascino malefico, detto umbra de coloru, che può essere posseduto anche da certi uomini, ritenuti iettatori e portatori di malocchio. Su coloru simboleggia il demonio. L’inferno (s'inferru), è comunemente definito su logu aundi sunt pibaras e colorus, il luogo dove sono vipere e bisce. Una testa di coloru (detto erroneamente pibara, cioè vipera, che in Sardegna non esiste) fa parte del corredo di animali o parti di esse mummificati e conservati dentro un sacchetto di pelle, che costituiscono su contravelenu, un amuleto-medicina usato in campagna contro i morsi di animali velenosi.

Cona e Kona, Immagini, Mazzina = Immagine, effigie, simulacro. Kona è di chiara derivazione greca (così icona, immagine sacra, da eikon). Da notare che mazzina, oltre ai significati che abbiamo visto ha pure quelli di “sortilegio”, “magia”. E’ detta mazzina anche la fattucchiera e la fattura stessa, ossia il feticcio rappresentante la persona che si vuole colpire o distruggere con arti magiche.
Is conas (o mazzinas), i feticci, più usati per compiere fatture (quando non si possa disporre di una fotografia, o oggetti, o capelli della persona da affatturare) sono pupattole fabbricate con creta o cera o stracci o ottenute elaborando una pala del ficodindia. Il valore magico delle immagini e tutt’ora vivo. Si pensi alla moda di portare stampata sulla maglia l’immagine del proprio divo - cantante, calciatore o politico; o anche l’uso popolare di bruciare in effigie la personalità politica contro la quale si manifesta una opposizione. Si tratta di veri e propri riti magici. Vedi Mazzina e Fattura.

Concas a bagnu = Teste a bagno. Tra le mazzinas (magie) e is mexinas (medicine) po fai proiri (per ottenere la pioggia) era di uso comune l’immersione in una pozza d’acqua di una testa di animale, preferibilmente di un cazzeddu, cucciolo di cane. Alcuni studiosi sostengono che all’usanza di sacrificare in tale rito la testa di un bimbo sia stata sostituita nel tempo la testa di un animale domestico. Si ha comunque notizia dell’uso in tempi recenti di immergere teschi umani nell’acqua per invocare la pioggia, presso comunità dell’area Centro-orientale dell’Isola.

Contramazzinas = Amuleti. Is contramazzinas, letteralmente, “Controfatture”, indicano generalmente gli amuleti. Sono di vario genere e hanno il potere di allontanare dalla persona che le indossa ogni genere di maleficio. Affinché produca tutta la sua efficacia magica, sa contramazzina, l’amuleto, deve essere portato a contatto di pelle. Ve ne sono di specifiche contro il malocchio, come su froccu birdi, il fiocco verde, o su pinnadeddu, il pendaglio costituito da una rondella di corno di cervo o da certe pietre dure. Is contramazzinas, gli amuleti, non vanno confuse con is pungas, i talismani, o portafortuna. Vedi Pungas.


Contravelenu = Si potrebbe tradurre con antidoto. Più precisamente, su contravelenu è un potente amuleto-medicina a largo raggio di azione contro morsi e punture di animali e insetti velenosi e irritanti, quali api, vespe, ragni, tarantole dei muri, eccetera. Tale amuleto-medicina, noto con il nome di contravelenu, è costituito da un sacchetto di pelle, che il guaritore porta appeso al collo, contenente allo stato di mummificazione resti di animali e insetti venefici. Tale sacchetto ha acquistato il suo potere magico-medicamentoso mediante uno speciale rito. Si usa imponendolo nella parte del corpo che è stata ferita recitando is brebus, le parole sacramentali del caso.

Coraddu = Corallo. Dal greco koràllion. Nome comune del corallo rosso (corallium rubrum), un antozoo che si caratterizza da uno scheletro calcareo ramificato. Fin dall’antichità se ne conoscevano numerose colonie nel Mediterraneo, specie tra le coste dell’Algeria e della Tunisia (Costa del Corallo) e la Sicilia. I Romani lo lavoravano per ricavarne collane, bracciali e pendagli considerati potenti amuleti. L’utilizzazione del corallo sia in funzione ornamentale che magica, dai Romani si è tramandata per tutto il Medioevo fino ai nostri giorni. La Sardegna ha prodotto e produce con il corallo e con la filigrana d’oro e d’argento una vasta gamma di gioielli, cui si attribuiscono poteri magici.

Coraddu nieddu = Corallo nero o antipate, costituito da antozoi antipatari (antipathes nigra) che costituiscono le loro colonie sugli scheletri neri dei cormi. Su coraddu nieddu possiede virtù magiche più rare del corallo rosso. Così è descritto dal Domenech, nel Dizionario del Battaglia, alla voce omonima: “L’antìpate è nero e non traluce. L’esperienza d’esso è questa, che cocendolo nel latte, lo fa simile alla mirra. Dicono i Magi che l’antìpate ha virtù contro il fascino degli occhi”, ossia contro il malocchio.

Corpus Domini = Corpus Domini (Il Corpo del Signore), festa solenne che si celebra il giovedì dopo l’ottava della Pentecoste, nella ricorrenza della istituzione del sacramento della Transustanziazione o Eucarestia. Per il corpus domini si svolge una processione con il Santissimo, che si snoda tradizionalmente lungo l’abitato, seguendo un itinerario che tocca le diverse croci monumentali, addobbate e adattate a cappella per la circostanza. Al corpus domini, specialmente nelle comunità agricole, sono legati numerosi riti magico-terapeutici, come s'imbrusciadura (Vedi) e la comparizione eccezionale dei morti, i quali, si crede, seguono la processione e talvolta la precedono.

Corru = Corno. Nella parlata popolare corru è frequentemente usato con il significato di pene; è un termine ritenuto non osceno e talvolta usato perfino in frasi beneaguranti, seppure scherzosamente. Per esempio in sostituzione alla esclamazione Saludi! (Salute!) si dice Corru de crabu! (Corno di capro!), rivolgendosi a persona con la quale si ha un rapporto familiare, quando abbia starnutito o scoreggiato. Se poi chi ha fatto lo starnuto o la scoreggia è un bimbo, il papà o la mamma gli si rivolgono scherzosamente esclamando Corru de memei! (Corno di agnellino!) o Corru de pisittu! (Corno di gatto!). Come si sa, né l’agnello né il gatto hanno “corno”, mentre possiedono il “pisello” - un modo quindi di ingentilire l’esclamazione scaramantica di prammatica… a base di corru. Nell’Oristanese è usato assai spesso, quasi come intercalare, quando si voglia cortesemente esprimere una opinione contraria, la frase Corru in cu' a tia! (Corno in culo a te!) o afusteti (a lei), quando è rivolta a persona di rispetto.
Su corru, il corno, è utilizzato in Magia e in Medicina popolare sia come forma che come sostanza. La sua diffusione è da collegarsi alla credenza secondo la quale su corru possiede poteri ambivalenti, sia come talismano, “che porta bene”, sia come amuleto, “che protegge dal male”. Di particolare efficacia le corna di cervo e di bue. Da quelle di cervo si ricavano rotelle, che forate e appese al collo o al polso proteggono dal malocchio; ancor meglio se il girocollo o il braccialetto consistono in un nastro di colore verde. Tale rotella di corno, detta pinnadeddu (Vedi) affinché assuma le virtù di amuleto deve essere debitamente abrebada, cioè consacrata mediante formule magiche da un omini de mexina, guaritore. Corru in pruini, corno in polvere, si ritrova negli ingredienti di diverse pozioni e filtri magici, in particolare in quegli atti a restituire vigoria e virilità. Corna e cornetti di forma e sostanze diverse sono diffusamente usati, per quel che ho potuto constatare, in tutta l’Europa cattolica, dove evidentemente la mitologia cristiana ha in pratica sostituito con il corno l’itifallo, il pene eretto, talismano diffusissimo in tempi pagani.

Corr' 'e boi (Corru de boi) = Corna di bue, bucranio. Il cranio di bue con vistose corna è un potente amuleto, cui si attribuiscono anche poteri scaramantici e propiziatori. Negli antichi templi pagani i bucrani sono usati come elementi decorativi architettonici; all’interno degli stessi templi venivano appesi alle pareti i crani di buoi sacrificati. Presso molti popoli, i bucrani posti in cima a un palo avevano significato funebre o venivano innalzati per segnare confini invalicabili (l’attuale off-limits delle basi militari) o a protezione di luoghi sacri, per lo più dedicati al culto dei morti. Guerrieri sardi del periodo prenuragico sono raffigurati nei bronzetti con elmo ornato di corna. Ancora in tempi attuali, nel nostro mondo contadino e pastorale, i bucrani posti in cima a pali di confine o sormontanti le cancellate di un chiuso, coltivato o adibito a ovile, hanno la magica funzione di tenere lontani dal luogo gli spiriti del male, nonché gli iettatori e i malintenzionati.

Crastadori = Castratore. Colui che esercita il mestiere del castratore su animali da ingrasso o da lavoro, una attività assunta in una certa misura dal veterinario. Vi sono castradoris, castratori, specializzati nel compiere tale operazione su una singola specie animale. Abbiamo così su crastacaboniscus (che peraltro è una attività normalmente assunta anche dalla massaia); il castratore di galletti; su crastaprocus, il castratore di maiali; su crastamallorus, il castratore di tori (che vengono evirati con il metodo de sa malladura, della scotolatura o schiacciamento dei testicoli); eccetera.
Si dice crastapibizziris (castra-cavallette), in senso ironico, di persona spaccona e incapace; o anche di coltello di minime dimensioni, temperino da bimbi che “non serve a nulla: Custu gorteddeddu est unu crastapibizziris (Quel coltellino è buono da castrare cavallette). Gorteddeddu è diminutivo di gorteddu (Vedi), coltello, detto, anche più comunemente leppa (Vedi glossario Vol. I). L’operazione della castratura è atto di rilevanza economica nella comunità, ed è associata a numerosi tabù e a riti magici e propiziatori.

Crastadura = Castratura, l’atto del castrare. Termine usato anche per l’uomo, con il significato quindi di evirazione. Si dice crastadura, castrazione, anche l’operazione della incisione delle castagne che si mettono ad arrostire sulle braci o nella apposita padella forata.
Crastau, castrato, participio passato di crastai, castrare, usato come sostantivo e aggettivo, vale sia per l’animale che per l’uomo, ed è l’opposto di mascu, virile. Il superlativo di mascu è colludu, che significa appunto “molto virile”, sia in dimensioni che in potenza. L’attributo di colludu viene generalmente dato all’asino o all’uomo di esagerati appetiti. Come è detto alla voce precedente, per alcuni animali, quali il toro, sa crastadura non si effettua mediante l’asportazione dei testicoli ma con sa malladura, la scotolatura, ossia lo schiacciamento o la battitura. Mallai significa battere con su mallu, il mallo o manfano, e indica anche l’atto del trebbiare i cereali o le leguminose, e la scotolatura del lino o di altre fibre tessili.

Crobu = Corvo. Uccello ritenuto stolto e di malaugurio. Parit unu crobu = Sembra un uccello del malaugurio, un iettatore. Si dice anche dispregiativamente del prete, per la sua veste nera. E’ considerato di malaugurio anche il suo gracchiare.

Cuccu = Cuculo. Dal suo canto ripetitivo si traggono auspici. Ascoltandolo, una fanciulla può sapere tra quanti anni di sposerà.

Cuccumeu = Civetta. Uccello strigiforme, considerato di malaugurio come sa zonca, il gufo. Cuccumeu e zonca, civetta e gufo, non possiedono la pericolosità de sa stria, della strige, il barbagianni, che si ritiene possa portare gravi malori anche mortali con il suo malefico e demoniaco influsso.
Su cuccumeu, la civetta, nella narrativa orale, è termine talvolta usato come sinonimo del sesso femminile; vi sono anche diverse composizioni poetiche estemporanee dove appunto con l’appellativo di cuccumeu si tesse l’elogio della fica. Da notare che il sesso della donna in specie, nella lingua sarda anche la più sboccata, non viene mai espressamente nominato se non attraverso fiorite e talvolta gentili immagini, come sa figu, il fico, su flori, il fiore; su niu, il nido, sa muscapia, che indica una sorta di mobilissima girandola luminosa nei fuochi di artificio. Cunnu (dal latino cunnus) indicante propriamente l’organo della riproduzione nella donna viene usato esclusivamente nelle invettive, quali quella durissima: Su cunnu chi ti 'n d'hat zappulau! (La matrice che t’ha rigettato, generandoti). Vedi Zonca e Stria.

Cumbessia = Ricovero, riparo rustico. Le cumbessias indicano in sardo-logudorese le costruzioni rustiche edificate all’interno del recinto sacro di chiese e tempietti campestri, dove si svolgono annualmente cerimonie religiose e magico terapeutiche. In virtù del luogo dove sorgono, is cumbessias sono considerate ricoveri sacri, e nel loro interno si pratica il singolare rito della incubatio (in sardo su sterrimentu) l’atto dello sternere, dell’adagiarsi supino per terra.
Is cumbessias, costruzioni rustiche talora abbastanza confortevoli e tal’altra consistenti in semplici tettoie di canne o di falasco sostenute da pali, servono da riparo ai fedeli durante il loro pellegrinaggio nel periodo celebrato in onore del santo, periodo che dura mediamente dai tre ai nove giorni (triduo o novena). Vedi Sterrimentu e Imbrusciadura.

Denti = Dente. Molto diffuso, anche in ambienti socio-culturali che si definiscono evoluti, l’usanza di far nascondere ai bambini i dentini di latte, quando cadono, in un forellino di un vecchio muro di cortile o in altro nascondiglio. Gli adulti fanno credere al piccolo che passerà il “topolino” (sempre bisognoso di dentini di ricambio) che se lo porterà via e in cambio lascerà una moneta. La motivazione originaria del rito va ricercata nella paura che qualcuno malintenzionato possa appropriarsi del dentino del bimbo e usarlo per compiere contro di lui pratiche di magia nera (fatture): impedire la crescita del nuovo dente o provocare più gravi danni nello sviluppo fisico e nell’equilibrio psichico del piccolo.

Dimonieddu = Diavoletto. Diminutivo di dimoniu. L’uso corrente dei termini dimoniu, demonio, e dimonieddu, diavoletto, nonché di altri sostantivi indicanti il Principe del Male, testimoniano della influenza delle entità demoniache nella sfera dell’umano esistenziale. Dimonieddu, diavoletto, indica uno spiritello maligno e dispettoso, non tanto cattivo quanto birichino e giocherellone. Si dice anche di bambino oltremodo vivace. Vedi Dimoniu.

Dimoniu = Demonio. Indica genericamente una delle tante emanazioni di Luziferru, Lucìfero, che è il Demonio per antonomasia, Principe del Male e delle Tenebre. Su dimoniu o su tiaulu, diavolo, è detto anche su nemigu, il nemico, e ha la capacità di assumere non soltanto sembianze umane ma specialmente svariate e composite forme animalesche. Gli animali di cui è solito assumere le sembianze sono il capro, l’asino, il gatto, il gallo, il pipistrello, il serpente. Alcuni lo descrivono come un uomo con la coda, le gambe terminanti in zampe bisulche, le corna e sulle spalle una ciminiera da cui escono fumo e fiamme.
Un particolare storico curioso: nella parlata popolare campidanese, dimoniu è sinonimo di buginu - dove è chiaro il riferimento al Bogino Gian Battista Lorenzo, ministro di giustizia sabaudo dal 1750 al 1773, famigerato persecutore nell’Isola di oppositori politici che condannava sommariamente alla impiccagione. Vedi Tiaulu.

Divinazioni = Divinazione. Sa divinazioni o arti de divinai, arte di divinare. Cogus e bruxus, indovini e maghi, possiedono l’arte del divinare. Nella veste di Aruspici essi possono conoscere il futuro, o più semplicemente ciò che agli altri resta nascosto, mediante la osservazione della sostanza e della forma di certe materie od organi vegetali o animali, dallo svolgimento di certi fatti, dai sogni. Queste elencate qui di seguito sono alcune tecniche o metodi di divinazione ancora in uso.
 Acdac = Divinazione diffusa tra gli arabi e presso i popoli del bacino del Sud-Mediterraneo, che utilizza tre frecce o tre listelli di ferro in ciascuno dei quali sta scritta una delle seguenti parole: comandate, vietate, nulla. Le tre frecce vengono poste dal mago in un sacchetto e vengono tratte una per volta da colui che vuole trarre auspici. L’estrazione della prima indica “mettiti all’opera perché l’esito sarà positivo”; della seconda il rinvio per almeno un anno della operazione; della terza, ritentare la sorte estraendo una seconda freccia.
Acqua amara = Veniva data da bere a donna sospetta di adulterio. Se moriva era colpevole; se si salvava era innocente. In uso presso gli Ebrei o comunità ebraiche inserite in gruppi etnici diversi.
Acqua bollente . Altra variante delle numerose divinazioni dette “Prova di Dio”, per accertare la colpevolezza o meno di un sospetto di reato. L’indiziato era costretto a immergere la mano nell’acqua bollente traendo un anello deposto sul fondo del recipiente. Se le scottature guarivano entro tre giorni, fatto del tutto improbabile, egli era innocente. In uso anche presso la Santa Inquisizione.
Aeromanzia = Divinazione mediante l’osservazione del variare dei fenomeni dell’aria, dopo aver fatto apparire gli spettri dell’aria evocando i demoni.
Aghi = Sono spesso usati non solo per divinare ma anche per compiere sortilegi e fatture. Gli aghi vengono posti sul fondo di una padella in cui si versa dell’acqua. Altri versano prima l’acqua e poi pongono delicatamente gli aghi sulla superficie liquida. Dal loro modo di disporsi, di galleggiare o di affondare si traggono auspici o si fanno diagnosi di malattie o si ricevono indicazioni per localizzare oggetti smarriti o rubati, nonché gli eventuali ladri. Unendo sul fondo gli aghi in un certo modo si compie una sorta di fattura detta su liamentu (il legamento), che impedisce a una coppia di unirsi sessualmente.
 Aleuromanzia = Divinazione eseguita con la farina, in mezzo a cui si nascondono dei bigliettini recanti scritti o simboli. Si pesca un biglietto in mezzo alla farina e da quel che c’è scritto o disegnato si conosce il proprio destino.
 Alfitomanzia = Si pratica con il pane d'orzo. Viene usata per accertare la colpevolezza di un sospetto di reato. Si fa addentare all'inquisito un grosso morso di tale pane facendoglielo inghiottire senza masticare. Se è innocente, riuscirà a trangugiarlo senza inconvenienti.
Alomanzia = Diffusissima divinazione con il sale. Ne esistono numerose varianti. Da ricordare che il sale è una sostanza magica per eccellenza, che non soltanto è il simbolo della sapienza ma ha il potere di tenere lontani i diavoli, in quanto “demono-repulsivo”.
Amniomanzia = Conoscere il futuro e trarre auspici dalla osservazione della membrana (residuo di placenta) che avvolge la testa del neonato.
Antropomanzia = Divinazione scrutando le viscere umane.
Apatomanzia = Trarre auspici interpretando l’apparizione improvvisa o l’improvviso movimento di cose, animali, persone (volo, caduta; miagolio, ecc.).
Aritmomanzia = Diffuso metodo di divinazione praticato con i numeri (che possono assumere anche valori cabalistici, scaramantici e di amuleti). Per esempio, i numeri
492
357
816
disposti in questo ordine danno sempre la somma di 15 addizionati sia in orizzontale, sia in verticale, sia in diagonale.
Aruspice. E’ colui che predice il futuro utilizzando uno o più dei metodi che qui vengono elencati. Gli aruspici erano indovini assai ricercati nell’antichità, e con veste e tecniche ammodernate svolgono tutt’ora la loro attività. Nell’antica Roma spiccavano gli auguri, che formulavano pronostici osservando il volo degli uccelli.
Astragalomanzia = Divinazione eseguita con ossicini in cui erano incise lettere dell’alfabeto (sostituiti poi dai dadi).
Astrologia. E’ termine prevalentemente usato per indicare l’arte del divinare mediante l’osservazione degli astri. Coi tempi è diventata una scienza assai complessa, volendo legare il destino di ciascun individuo umano o di gruppi o addirittura di nazioni alle influenze esercitate dagli astri.
Gli astri, appunto, nelle loro diverse posizioni influenzerebbero se non determinerebbero, secondo alcuni, i destini umani e di ogni altra creatura vivente. Scienza divinatoria diffusissima nel mondo del contadino e del pastore a economia arcaica, è attualmente divenuta prodotto di largo consumo, fornito dai mass-media, come gli oroscopi settimanali fatti in serie.
Axinomanzia. Divinazione per mezzo della scure. Metodo disusato, con il quale si ricavavano elementi occulti dalla osservazione della scure durante il suo uso nel taglio della legna.
Bastoni e bacchette magiche. Strumenti divinatori e terapeutici di cui erano forniti esseri dotati di virtù sovrannaturali. A parte le bacchette classiche, usate da fate e maghi nelle fiabe, ve ne sono (più propriamente bastoni) di più famose come quelle di Mosè e Aronne. Ancora nei tempi attuali, il bastone è simbolo di comando: lo portano i papi, i vescovi, e in misura ridotta generali e alti ufficiali, che hanno modificato la “bacchetta magica” in frustino, nerbo o scudiscio, facendo il paio con la bacchetta del maestro di scuola, di solito una pertica di olivastro, detta “castigamatti”. Semplici bacchette (per lo più una forcella di salice) vengono ancora oggi usate dai rabdomanti per individuare le falde acquifere. Altre bacchette particolari vengono usate anche da alcuni cogus, maghi-indovini, per scoprire tesori, sorgenti d’acqua, minerali preziosi e anche oggetti rubati nonché i ladri. Queste ultime bacchette possono sostituire il classico pendulum in alcune operazioni magiche, come nel ritrovamento di oggetti persi o rubati, e nelle fatturas po ammaliai, fatture per ammaliare o incantesimi.
Tassa de aqua = Bicchiere d’acqua. Strumento tra i più semplici e più diffusi per divinare. L’acqua usata nei riti magici, detta abrebada (resa cioè taumaturgica o sacra dai brebus, parole magiche) consente oltre che di divinare, di diagnosticare e curare diverse malattie.
Capnomanzia. Divinazione mediante il fumo, di cui si interpretano le circonvoluzioni. Il fumo è usato anche come terapia negli affumentus (suffumigi magici). La lama del coltello diventa sterile, non arrugginisce e acquista particolari poteri facendola scorrere nel fumo. Il fumo preserva dalla putrefazione, disinfetta le ferite, conserva più a lungo le carni insaccate.
Cartomanzia. Divinazione che si fa con le carte. Tra le carte da gioco sono molto usati i tarocchi. A Tebe nella antichità, si avevano celebri cartomanti, che svelavano i destini dell’uomo. Per inciso, nelle normali carte da poker, cuori e fiori portano bene, picche portano disgrazia, i quadri hanno un valore neutro.
Catoptromanzia. Metodo di divinazione mediante l’uso di specchi. E’ credenza comune a molti popoli che esistono specchi magici in grado di palesare (come in uno schermo televisivo) immagini di persone e di fatti lontani, evocati dal fluido medianico o da forze demoniache.
Causinomanzia. Si rivela l’occulto osservando il comportamento del fuoco, il modo in cui bruciano i combustibili. Le fiamme che si aprono, come a non voler bruciare quella legna, è di buon auspicio.
Chiromanzia. Arte di svelare il destino di una persona leggendole la mano.
Dafnomanzia. Divinazione per mezzo della combustione delle foglie dell’alloro. Albero sacro, su lau, il lauro, adorna con i suoi rami le strade di molti paesi dell’ Oristanese in occasione della festa del Corpus Domini o di altri importanti celebrazioni religiose. Le foglie dell’alloro, insieme ad altre componenti sacre, vengono bruciate negli affumentus, suffumigi magici.
Demonomanzia . L’occulto svelato da demoni sottoposti alla volontà di un mago potente. Si afferma che tale metodo può essere fallace, in quanto i demoni sono spesso bugiardi e ingannatori.
Enomanzia. Metodo privilegiato dai cultori del dio Bacco. Colore, densità, sapore del vino, se saputi interpretare, svelano i misteri dell’ignoto. Due volte giusto, allora, il detto “In vino veritas”, e per il suo effetto disinibitore e come strumento di divinazione.
Geomanzia. Divinazione mediante terriccio sparso sopra il pavimento o sopra il piano di una tavola.
Ictiomanzia. Divinazione ottenuta esaminando i visceri dei pesci.
Idatoscopia. Si traggono auspici osservando il comportamento di uno specchio d’acqua gettandovi sassolini, grano o pezzetti di sale.
Idromanzia. Simile al precedente. Si effettua osservando l’acqua contenuta in una tazza.
Ippomanzia. Trarre auspici dal comportamento dei cavalli, dal loro scalpitare, dal loro nitrire. Se si avvoltolano sul dorso, sta passando la morte, ed è segno di funesti avvenimenti.
Leucanomanzia. Rito divinatorio che si compie con un lavamano d’acqua. Oltre che divinatorio è un rito propiziatorio e terapeutico che si compie la notte si san Giovanni l’Apostolo (l’Adone della mitologia cristiana), spargendo nell’acqua del catino petali di fiori e foglie di piante aromatiche.
Libanomanzia. Divinazione con l’incenso. Quantità e direzione del fumo dell’incenso sparso sulle braci danno diversi auspici. Residuo di antichissimi culti orientali, come il bruciare l’incenso nei turiboli durante le cerimonie religiose cattoliche.
Margaritomanzia. Metodo usato per individuare il colpevole di un reato. Si pone una perlina, o un sassolino rotondo o una pallina di vetro, sotto un bicchiere rovesciato; si pronunciano diversi nomi sospetti, a quello del colpevole la perla si muove.
Mazomanzia. Singolare e piacevole metodo di divinazione consistente nel toccare le mammelle di una fanciulla, scrutando e interpretando le reazioni della muscolatura.
Negromanzia. Indovinazioni po via de is mortus (Indovinazione mediante i morti), specifica il Porru nel suo Dizionario alla voce omonima.
Oniromanzia. Interpretazione dei sogni per conoscere il futuro e trarne auspici.
Onomatomanzia. Previsione del destino di un uomo attraverso il suo nome. In breve: dimmi come ti chiami e ti dirò chi sei.
Ornitomanzia. Divinazione con l’osservazione del modo di volare e di cantare degli uccelli.
Piromanzia. Divinazione mediante l’osservazione dell’avvampare del fuoco. Non dovrebbe avere legami sostanziali con la piromania, l’arte più che la mania di appiccare il fuoco ai boschi per fini di speculazione edilizia e turistica.
Piombo. Se fuso e versato in acqua a gocce consente di divinare, specie se tale operazione viene effettuata la notte si san Giovanni l’Apostolo.
Caffè. Con i fondi del caffè - non solo in Sardegna - molta gente usa predire il futuro e trarre auspici.
Rabdomanzia. Arte di scoprire sorgenti d’acqua mediante un bacchetta a forcella. Di solito viene usato dai rabdomanti un ramoscello fresco di salice, o di altro albero acquatico, a forma di Y.

Domus de Janas = Case delle Janas. Peculiari grotte che prendono il nome di domus de janas; in quanto la tradizione popolare vuole che siano abitate da una specie di minuscole, graziose e benefiche “fate”, dette appunto janas (Vedi). Sas janas (in logudorese) e is gianas (in campidanese) si dice che abitassero anche nuraghi e antichi ruderi, gallerie e pozzi abbandonati.

Doxi = Dodici. Numero magico di segno positivo e fausto. Dodici sono gli apostoli di Gesù; dodici i segni dello zodiaco; dodici i mesi dell’anno. Nel mondo contadino arcaico, più della decina è usata la dozzina, con multipli e sottomultipli: duzzina, mesu duzzina, duas duzzinas, tres duzzinas, eccetera.

Durcis = Dolci. Il termine durci, dolce, al plurale, indica genericamente qualsiasi prodotto della pasticceria casalinga: is brunniolus, i sommommoli (di ricotta, di formaggio, di riso, ecc.); is biancheddus, le meringhe; is pardulas, tipici dolci confezionati con pasta di formaggio fermentato e cotti al forno in un involucro di pasta di semola; is zippulas, frittura di pasta dolce del carnevale; e così via. La tradizione vuole che la confezione dei dolci sia riservata alle sole donne. Esse devono però astenersi dal confezionare dolci quando sono mestruate o quando soffia il levante - pena la cattiva riuscita degli stessi.

Ercu = Cervo mannaro. Creatura demoniaca originata dalla metamorfosi dell’umano. Un male oscuro, una sorta di maledizione infernale, secondo taluni fenomeno legato agli influssi lunari, l’umano si tramuta in creatura bestiale. L’orrenda metamorfosi colpisce esclusivamente i maschi, prevalentemente in giovane età. Vedi Boe muliache e Prummunida. V. pagg. 130/131.

Esorcismu = Esorcismo. E’ il comando perentorio che l’esorcista dà al demonio affinché liberi il corpo dell’ossesso dalla sua presenza. Vade retro Satana! è l’esorcismo carismatico. Spesso l’esorcista è tanto abile da far sloggiare il demonio dal corpo di una creatura umana costringendolo a occupare il corpo di un animale immondo - spesso un gatto o un cane o un maiale, che dopo l’indemoniamento diventano arestis, selvatici.

Esorcista = Esorcista. Termine poco usato, ripreso dall’italiano, come pure esorcizzai, esorcizzare, esorcizzau, esorcizzato, e esorcismu, esorcismo, che vengono usati prevalentemente nel sardo chiesastico colto. Meglio il termine scongiuradori. Nella casistica relativa ai riti magico - terapeutici presa in esame, vi sono rari casi di indimoniaus, indemoniati, fenomeni quasi esclusivamente riservati ai sacerdoti che vantano il potere di esorcizzare i diavoli. Si contano invece numerose persone indimoniadas, indemoniate, specie di sesso femminile, che si guardano bene dal richiedere l’opera dell’esorcista, in quanto utilizzano su dimoniu o is dimonius chi tenint in corpus (il demonio o i demoni che hanno in corpo) per conoscere l’occulto, e divinare il futuro. Tali ossesse vengono dette spiridadas (Vedi), sono considerate indovine - guaritrici, e hanno una clientela numerosa. Nei casi in cui vi siano dimonius, demoni, malefici, insediati in qualunque posto dove possono arrecare danni, si ricorre semplicemente a un fattucchiere per esorcizzarli e renderli innocui, o magari per trasformarli da nemici in amici o per spedirli da qualche altra parte, magari “a casa de diavolo”.

Espiazioni = Espiazione. Cerimonia o stato mediante o attraverso cui le anime degli umani si purgano dei peccati commessi. Tanti sono i modi per espiare le proprie colpe, sia da vivi che da morti, e ogni dottrina politica e religiosa ne annovera di diversi, basati su un concetto di giustizia spesso assai discutibile. Tralasciamo qui l’esame del concetto di espiazioni così come viene concepito e applicato dal sistema di potere ieri e oggi, la cui unica e sola giustizia che emerge è quella del più forte.
Sul piano che interessa questo saggio, espiare un peccato da vivi può essere semplicemente provare pentimento, recitare preghiere di contrizione, fare opere di carità, autopunirsi con la flagellazione, l’imposizione di cilici o facendo l’eremita; si può espiare anche con privazioni di gola o di sesso, con donazioni alle chiese, con pellegrinaggi in luoghi santi situati in zone impervie, trascinandosi sulle ginocchia in mezzo ai sassi e così via. Da morti si vuole che le proprie colpe vengano espiate in forme drammatiche, con lunghi, se non eterni periodi di atroci sofferenze tra le fiamme e i tormenti di demoni aguzzini - che somigliano molto a guardie carcerarie. C’è anche chi crede che si espierà trasmigrando nel corpo di animali repellenti o vagando senza requie negli spazi siderali. Anche per evitare una espiazione più drastica dopo la morte, esistono numerose cerimonie purificatorie ed espiatorie da compiersi da vivi. Non si sa mai: meglio pagar subito una multa che doverla pagare più tardi, perentoriamente e decuplicata.

Eutanasia = Eutanasia. Dal greco bella morte. Il termine eutanasia è raramente usato in lingua sarda; è più facilmente indicata come augurio nella perifrasi sa morti bella, la bella morte. Pare provato che l’eutanasia fosse normalmente praticata nell’Isola, fino a quando l’intervento della Chiesa e del suo Braccio Secolare non misero fuori legge tale istituto. Vedi Accabadora e Accabai.

Faa e Fa' = Fava. Non esiste il plurale, il singolare fa' indica i due numeri. Legume che un tempo, a rotazione con il grano, è stato l’alimento base del contadino. Si ritiene che sa faa sia dotata di poteri magici, specie la varietà nera che offerta ai demoni ha la facoltà di ammansirli. Come cibo è nutriente, produce molte calorie ed è un buon afrodisiaco. Se consumate fresche, accompagnate con pane-focaccia e vino nero, forse per una interazione con l’alcool, le fave danno una dolce sonnolenza, sgombrano la mente da ogni pensiero molesto, del tutto simili negli effetti a una droga oppiacea. E’ anche noto che le fave, agendo sui globuli rossi, possono provocare una grave anemia. Forse per la forma della tega che la riveste, la fava è considerata un simbolo fallico. Nella parlata popolare, il pene è prevalentemente indicato con il nome di faa.

Fada = Fata. Is fadas, come le fate di tutto il mondo, sono (o erano?) fanciulle bellissime e virtuose che vivevano in grotte o anche in palazzi incantati, nei monti o nei boschi, vestivano da gran dame, solevano apparire per aiutare la povera gente, specie bimbi e bimbe, orfani e derelitti, o fanciulle romantiche, nel raggiungimento di generosi e lodevoli scopi - come il ritrovare la mamma perduta o il maritarsi con un ricco e fascinoso cavaliere. Si dice che is fadas, le fate, fossero creature ingenue, e che siano scomparse con il diffondersi della malizia tra gli uomini. Ricorrono di frequente nella novellistica popolare, e pure essendo femmine giovani e di rara bellezza non fanno mai all’amore - e guai all’uomo che ci prova!
Abbiamo fadas autoctone, dette janas, variante lillipuziana di fata, abitanti in minuscole e profonde grotte dette appunto domus de janas, case di “fate”. Vedi Janas o Gianas.

Fadai = Fatare (da fada, fata). Ammaliare, incantare, innamorare, portare fortuna. L’azione di fadai, fatare, è di segno positivo. Il suo contrario è bruxai (o brusciai), stregare, ammaliare per “ammalare”, per possedere a fini turpi.

Fadau = Fatato. Chi o che cosa sia colpito da incantesimo. Si dice anche per ciò che resta immobile e immutato nel tempo.

Fadosu = Indica colui che è stato toccato da una fata, e significa fortunato.

Fadu e Fatu = Fato, destino. Usato anche il vocabolo distinu. Tutti gli uomini sono sottomessi al fato e nessuno può sfuggire al suo volere. Principalmente il nascere e il morire, quindi l’essere bello o brutto, l’esser sano o malato, l’esser povero o ricco sono determinati dal destino. Fiat distinu, era destino, è frase ricorrente davanti a una morte accidentale, a una disgrazia, a qualunque fatto che accada improvviso e inaspettato. Anche finire in galera è destino, così come lo è l’ingiustizia che la povera gente patisce su questa terra.

Fattura = Fattura, maleficio. Indica il rito magico e i suoi effetti. Sa fattura, il maleficio, viene compiuto da chi ne ha capacità e potere contro un nemico. Il termine fattura può indicare genericamente ogni atto di magia, bianca o nera, sia a scopi terapeutici (su sciolliri, lo sciogliere), sia per fini di ammaliamento (su accapiai, il legare). Tuttavia, nel suo uso più comune sa fattura è un atto di magia nera compiuto per colpire un nemico nella persona sua o di suoi cari o nel suo patrimonio. Ha diversi sinonimi: bruxeria (da bruxu, mago); mazzina (da mazzina, fattucchiera); malifattu, testualmente “malfatto”. Vedi Bruxeria, Mazzina, Malifattu.

Fatturas = Fatture, incantesimi, malefici. Comunemente si tratta di atti di magia nera compiuti da un fattucchiere, per conto proprio, ma più spesso per conto terzi, al fine di ammalare o ammaliare persone animali piante che si vogliono ferire o uccidere, o anche legare, sottomettere, dominare, possedere mediante la volontà. Spesso is fatturas, le fatture, si identificano con is mexinas, le medicine, in particolare quelle tendenti a liberare l’uomo o il suo patrimonio da animali dannosi, da influenze di forze demoniache o anche da opposte fatture. Alcune fatturas di segno positivo sono elencate alla voce mexinas (Vedi). Altre se ne elencano qui appresso: mexinas: per preparare amuleti e talismani; antidoti contro i veleni, contro le febbri, contro i vermi; per facilitare il trapasso a un moribondo sofferente; per mandare l’anima di un defunto in paradiso; contro la “giustizia” del sistema; per trovare tesori o minerali preziosi o falde d’acqua; per accattivarsi i morti o per scongiurare la morte; per dare la potenza o l’impotenza sessuale o per impedire o favorire il rapporto di coppia; per paralizzare o per sciogliere un muscolo paralizzato; per far innamorare o disamorare; per mettere pace o creare discordia; per dare benessere o malessere; abbondanza o miseria; contro malocchi e spaventi; per far piovere, contro la siccità; per far crescere l’erba o avvizzire il grano; per aprire serrature di cui non si possiede la chiave; contro il mal di testa o di denti o i dolori alle ossa o per farli venire; e così via.

Faula = Favola, fola, bugia. Faulanciu è colui che racconta fole, che è bugiardo.

Fenomeno autorizzato. Viene così definito nel testo un caso tutt'altro che raro di "commercio" di magia, sfruttando la fede religiosa, lo stato di necessità, nonché la buona fede della gente. Ciò che lascia sconcertati, nel fatto documentato è che il mago che si autodefinisce “fenomeno” risulta autorizzato dalle leggi di PS a esercitare la professione di mago, guaritore, indovino, eccetera. Pertanto sono lecite due ipotesi: o nelle questure si autorizzano i truffatori nell’arte di gabbare il loro prossimo; oppure credono davvero alle “fenomenali” capacità divinatorie e magiche di un mercante di sogni.

Feurra = Ferula. Pianta erbacea della famiglia delle ombrellifere il cui fusto fiorescente può raggiungere l’altezza di due metri. E’ assai diffusa nell’Isola. Il fusto secco diventa bastone, duro e fibroso all’esterno e con un grosso e tenero midollo all’interno. Sa feurra siccada, la ferula secca, specie su mueddu, il midollo, è un ottima esca, usata in passato da contadini e pastori per accendere il fuoco con la pietra focaia. Come esca era usato anche un fungo secco, detto cordolinu feurrazzu, fungo da ferula, perché cresce, appunto tra i macchioni di ferula. Feurra, ferula, deriverebbe da ferire; e la sua infiorescenza legnosa, usata come un bastone, era il simbolo dell’autorità del maestro dell’antica Roma. Più tardi il bastone di ferula appartenne ai vescovi cattolici, simbolo del loro potere. In particolare fu appannaggio del vescovo di Roma, al quale la ferula veniva consegnato subito dopo la nomina, in signo correctionis et regiminis. Nelle raffigurazioni agiografiche, Santu Antoni de su fogu (Sant’Antonio del Fuoco) porta con sé sa feurra, la ferula. Con questo bastone, come vuole la leggenda, il Santo, novello Prometeo, scese nell’Inferno e lì astutamente carpì il fuoco attizzandolo alla punta del suo baculo, per poi donarlo al popolo dei Sardi che ancora non ne conosceva l’uso. Vedi Antoni.

Ficas = Fiche. Vocabolo che si ritrova nel comune detto fai sas ficas, fare le fiche. Trattasi di un particolare gesto scaramantico che si compie infilando il pollice tra l’indice e il medio della stessa mano, chiudendo il pugno. Fai is ficas, far le fiche, era un gesto assai diffuso nell’antica Roma, e la manufica (una manina nell’atto di compiere lo scongiuro descritto) veniva usata comunemente come ciondolo, in braccialetti o collane. Il gesto del fare le fiche è ancora molto usato in Sardegna, e pare anche in Toscana. Dante, nella Divina Commedia, (Inferno - 25. 2) scrive: “Le mani alzò con ambedue le fiche”, nominando il gesto scaramantico compiuto simultaneamente con ambedue i pugni, epperciò doppiamente efficace. E’ evidente che nel gesto si vogliono rappresentare i due sessi, maschile e femminile, tra loro uniti. Vedi Manufica.

Fidi = Fede. In Medicina, la fede è condizione essenziale per vincere ogni malattia. La fede viene definita: “La chiave di ogni salute fisica e mentale”. Con la fede, Gesù opera guarigioni prodigiose fino a far risorgere i morti. Fede è fiducia nella natura e nelle sue forze vitali, e quindi fiducia nell’uomo e nella sua “naturalità”. Senza fede non può esserci amore, né speranza. Il nostro tempo - definito dal Lawrence “illuminato inferno” - è caratterizzato dalla mancanza di fede: è tempo di sofisticata barbarie fondata sulla malafede.

Flori (Essiri a) = Fiore (Essere con il); cioè essere ben vestito, con il fiore all’occhiello o con il fiore a cavallo tra il padiglione dell’orecchio e la tempia. Gei ses a flori! si dice ironicamente a persona mal vestita, specie in circostanza in cui è di prammatica vestir bene. Dicesi anche di persona malconcia, in miserevole stato di salute. Dire a uno Gei ses a flori! (Già sei con il fiore!) è come dirgli: Poveretto! sei proprio mal ridotto…

Fogadoni = Falò. Per festeggiare Sant’Antonio del Fuoco, detto anche l’Eremita, il Prometeo dei Sardi, il 17 gennaio nelle piazze di molti paesi di accendono is fogadonis, imponenti falò che bruciano ininterrotamente anche per tre giorni. Vedi Tuva e Fogu.

Fogu = Fuoco. Elemento di purificazione dei corpi e delle anime. Con l’acqua e con la terra, il fuoco è l’elemento che maggiormente ricorre nei riti magici, specie in quelli di iniziazione e terapeutici. Davanti al dio Moloch, divinità fenicia il cui culto era diffuso anche nell’Isola, venivano sacrificate vittime umane, specie fanciulli primogeniti, arsi nel braciere che perennemente ardeva davanti al simulacro. E’ usanza ancora diffusa e comune, nella ricorrenza di Santu Antoni de su Fogu (Sant’Antonio del Fuoco) e di Santu Juanni de Floris (San Giovanni dei Fiori, l’Apostolo), dar fuoco a un mucchio di erbe aromatiche, in onore del secondo, o a un gran mucchio di legna di bosco (su fogadoni, il falò) o a sa tuva (la quercia cava) attorniata da frascume, in onore del primo. Vedi Fogadoni e Tuva.

Fogus de Purgadoriu = Fuochi fatui. Fiammelle azzurrognole vaganti, che appaiono nelle terre grasse specie nei cimiteri. Secondo alcuni linguisti sono detti anche kandelas e girare (Wagner) o fogus errantisi (Porru). Nella parlata del Campidano oristanese prevale fogus de Purgadoriu (Fuochi del Purgatorio), identificando i fuochi fatui con le anime che espiano i loro peccati tra le fiamme del Purgatorio. Nottetempo, nella stagione calda, i fanciulli son soliti fermarsi davanti al cancello del camposanto, per osservare questo fenomeno, che li affascina e li turba. I vecchi e le donne alimentano la curiosità dei fanciulli con i loro racconti sul misterioso mondo dei morti, e sulle anime che da quel mondo ritornano per comunicare con i viventi.

Forru = Forno. Manufatto essenziale nella economia familiare del contadino e del pastore per cuocere il pane, alimento base. Il forno - che simboleggia il grembo materno - scaldato quanto basta, è usato nella terapia di alcuni disturbi (trauma psichici e dolori alle ossa) e in una variante del rito terapeutico contro il pizzico dell’argia (tarantola). Il forno sacrificale nel culto di Amon, di Moloch e della Tanit, è detto tophet. (Vedi).

Forza = Energia fluidica. Tra i poteri extrasensoriali che si vuole siano posseduti da certi guaritori vi è una sorta di energia fluidica detta sa forza (la forza) che viene comunicata al paziente attraverso il tatto e la vista. In quasi tutti i riti terapeutici vi è un contatto diretto tra guaritore e malato: imposizione della mano o brevi ritmici massaggi con il polpastrello dell’indice, come quando si traccia una croce nelle parti più vitali o dolenti.

Fotografia = Fotografia. La nostra immagine conserva sempre qualcosa di noi che può essere usato da un nemico per compiere fatture e sortilegi. Per questo, specialmente le fanciulle, sono restie a farsi fotografare da estranei o a dare la propria immagine fotografata - se non a parenti stretti o a colui che diverrà suo marito. Se un fidanzamento va a monte, le foto sono tra le prime cose di cui è doverosa la restituzione.

Frastimu = Anatema. Frastimu, nel suo significato più comune, può tradursi con invettiva. Numerosissimi, tali da costituire migliaia di espressioni, sono is frastimus, le invettive, che il popolo ha coniato e lancia senza sosta contro i suoi impietosi nemici, nel tentativo di trovare sollievo o di esorcizzarli. Nemici che si identificano nei padroni, nei governanti, nei giudici, negli sbirri, nei carcerieri, negli amministratori, nei gabellieri e nei truffatori e rapinatori di ogni risma. Vi sono frastimus rituali, pronunciati da uomini o donne di magia e di medicina (bruxus, cogas, mazzinas) che configurano veri e propri anatemi - atti simili agli anatemi sacerdotali (in uso ancora presso la Chiesa cattolica) per colpire eretici o chi abbia commesso azioni particolarmente riprovevoli. Tra gli uomini di magia, l’anatema è adoperato per costringere un ladro a restituire il maltolto o per punire chi si sia macchiato di gravi colpe ai danni di singoli o della comunità. Su frastimu, l’anatema, può causare in chi ne è colpito una persistente scalogna con un graduale degradarsi del suo stato di salute e la rovina economica. Ha in pratica gli stessi effetti di una fattura. Vedi Fattura e Malifattu.

Froccu (Poniri su) = Fiocco (Mettere il). Modo di dire rivolto unicamente a che con l’intenzione di aiutare peggiora la situazione. Mi ddu ponis su froccu! (Me lo metti il fiocco!) dice per esempio a chi ti presta denaro con un tasso d’interesse molto alto. Infrocchittai, infiocchettare, è uguale a vestire con eccessivi fronzoli, ed è usato ironicamente: Ses toto infrocchittau! (Sei tutto infiocchettato!). Si noti che in occasioni di feste e sagre si usa addobbare i carri trainati dai buoi: le sponde del carro, i finimenti, le corna degli animali vengono ornati da nastri colorati.

Froccu birdi = Fiocco verde. Una fettuccia o un nastrino verde o anche un semplice filo di lana verde costituiscono un comune amuleto contro il malocchio (s'ogu liau). Su froccu birdi, il fiocco verde, viene legato intorno al polso dei neonati e dei bimbi, ma il suo uso si estende agli animali, alle piante e agli oggetti particolarmente cari (in senso economico e affettivo) che altri possono invidiare e che sono quindi sotto il mirino degli oghiadoris (iettatori). Ancora pochi anni fa era facile vedere agnelli o maialetti o pulcini infiocchettati di verde, così pure is cadiras de sa cambara bella, le sedie della camera dove si ricevevano gli ospiti.

Fumu = Fumo. Sostanza che si ritiene dotata di qualità magiche e medicamentose. Dopo il sale, su fumu, il fumo, simboleggia l’incorruttibilità; per altri versi simboleggia l’arcano, ciò che all’uomo non è dato vedere. Infine, è considerato un elemento demono-repulsivo, che scaccia con i demoni il male. E’ costume sacerdotale officiare i riti magico religiosi entro una cortina di fumo. Passando nel fumo il coltello se ne conserva il filo e la tempra; così pure conserva sane le carni commestibili. Ha proprietà divinatorie: osservando tra le sue circonvoluzioni si può leggere nel mistero (Capnomanzia). Ha proprietà terapeutiche: il fumo prodotto dalla combustione lenta su braci di materie sacre o benedette (secondo il rito detto de s'affumentu, del suffumigio), se inalato guarisce malocchio, spaventi e altri disturbi che in special modo colpiscono i bimbi, i fanciulli e le puerpere.

Funtana = Fontana, pozzo, fonte. Viene così chiamata la vasca, per lo più artificiale, in muratura, che raccoglie l’acqua di una sorgente, a cui si abbeverano uomini e animali. Il termine funtana è spesso usato anche per indicare su putzu, il pozzo, solitamente situato nel cortile di casa, che fornisce l’acqua per gli usi domestici, o is putzus, i pozzi, situati all’interno di tancas, terreni chiusi, o di ortus, orti, o di cungiaus, terreni recintanti di rovo e ficodindia, dove pascolano e pernottano liberi gli animali da lavoro. Nella credenza popolare, funtanas, fonti, putzus, pozzi, e mizzas, sorgenti, sono luoghi popolati da creature mitiche, per lo più buone, amiche dell’uomo - ciononostante la sovrapposta e contraria affermazione cattolica secondo cui negli specchi d’acqua si nasconde il diavolo. Sono luoghi, questi, privilegiati per compiervi riti terapeutici e propiziatori. Vi sono acque (sorgive o di pozzi) ritenute terapeutiche, e vengono usate in particolare contro i disturbi delle vie urinarie, gastrointestinali e del fegato. Vedi Mizza, Putzu, Aquadroxa.

Funtanas e Dimonius = Fonti e demoni. Le fontane, come ogni specchio d’acqua tersa che rispecchi le immagini, si vuole che siano frequentate dai demoni. Per evitare che le fanciulle vanitose se ne stiano troppo spesso davanti allo specchio in contemplazione del proprio corpo, si avverte le stesse che dietro ogni specchio si nasconde un diavolo tentatore. Di quali tentazioni sia stimolatore lo si comprende facilmente. Nella credenza popolare, tuttavia, la presenza di demoni non è legata ad alcunché di illecito. Tali demoni, infatti, possono essere buoni e perfino servizievoli - intanto l’esistenza della sorgente è dovuta ai loro poteri magici e si preoccupano di tenerla pulita e tersa; inoltre vivono in tali luoghi perché sono freschi e confortevoli, specie d’estate, vere oasi dove possono perfino farsi il bagno.

Gattu o 'Attu (e familiarmente Pisittu) = Gatto, micio. Animale domestico considerato decisamente diabolico. In ogni gatto si nasconde un demone, che potendo tornare utile, nel bene e nel male, assume quasi il ruolo di nume tutelare della casa. C’è chi gli attribuisce non una ma sette anime, o “vite”. La sua natura demoniaca si manifesta particolarmente nei suoi occhi, che sono fosforescenti e vedono nel buio. Vi sono anche gli increduli, i quali ritengono il gatto semplicemente un animale dalle carni gustose, quando sia giovane e grassoccio. Costoro gli danno la caccia la notte di Natale, per arrostirlo al forno, aromatizzato con il rosmarino e circondato di patatine novelle.

Geravalliu = Lunario, almanacco, calendario. E’ così detto un opuscolo annuale diffuso tra i contadini, dove sono indicati, con le varie fasi lunari, i momenti utili per la lavorazione della terra. Trattasi del famoso Barbanera di Chiaravalle, divenuto in sardo Geravalliu.

Gesus = Gesù. La medicina popolare lo considera il sommo guaritore e lo adotta come maestro. I cosiddetti “miracoli” che si attribuiscono a Gesù non sarebbero altro che eccezionali guarigioni. Oltre la metà di queste guarigioni, come si ricava dai Vangeli, consistono nella liberazioni di ossessi dai demoni. I metodi terapeutici usati da Gesù sono fondati principalmente sulla fede, si effettuano mediante l’imposizione della mano, con l’uso della saliva, con l’esorcismo (o brebus, parole magiche rituali), cioè con le parole sacre del comando che impongono agli spiriti del male (o della malattia) di lasciare il corpo del malato. Malattia è ciò che è male, sporco, peccato. Salute è ciò che è bene, pulito, sano. Al termine guarire si sostituisce quindi logicamente mondare, pulire, e non essere più in stato di peccato. Stralciamo dai Vangeli di Matteo e Marco alcuni brani significativi:
Matteo. Guarigione del lebbroso. “Allora, stesa la mano, lo toccò dicendo: - Lo voglio, sii mondato.” (Cap. VIII 3).
- Guarigione del servo del centurione: “In verità vi assicuro: neppure in Israele ho trovato una fede così grande” (Cap. VIII 10)
- Guarigione della suocera di Pietro. “Le toccò la mano e la febbre sparì...” (Cap. VIII 15)
- La tempesta sedata. "Ma Gesù disse loro: - Perché temete, gente di poca fede? - Poi, alzatosi, comandò ai venti e al lago e si fece gran bonaccia." (Cap. VIII 26)
- Gli indemoniati di Gàdara. “Vi era lontano da loro un branco di porci che pascolavano. E i demoni lo pregavano dicendo: - Se tu ci cacci, mandaci in quel branco di porci - Egli rispose loro: - Andate pure - Quelli uscirono ed entrarono nei porci. (Cap. VIII 30. 31. 32)
- Guarigione del paralitico (dove “malattia” si identifica con “peccato”). “Or ecco gli fu presentato un paralitico… Gesù vista la loro fede, disse al paralitico: - Confida, figliolo, ti sono perdonati i tuoi peccati”. (Cap. IX 2)
- Guarigione della figlia di Giairo. “La mia figlia è morta or ora; ma vieni, imponi la tua mano su di lei, e vivrà”. (Cap. IX 18)
- Guarigione della emorroissa (o emofilitica). “Or ecco una donna, affetta da dodici anni da perdite di sangue, gli si avvicinò di dietro e gli toccò il lembo della veste… Ma Gesù si voltò e vedendola disse: - Confida, figliola, la tua fede ti ha salvata.” (Cap. IX 20. 22)
- Guarigione dei due ciechi. “Gesù disse loro: - Credete che io possa far questo? (Cioè, guarirvi - ndA) - Sì, o Signore, gli risposero - Allora toccò loro gli occhi, dicendo : - Vi sia fatto secondo la vostra fede. E i loro occhi si aprirono.” (Cap. IX 28. 29. 30)
- Guarigione del muto indemoniato. “E’ cacciato il demonio, il muto parlò… Ma i farisei dicevano: - Caccia i demoni per mezzo del principe dei demoni.” (Cap. IX 32. 34)
- Gesù trasmette i suoi poteri terapeutici agli Apostoli. “Guarite i malati, resuscitate i morti, mondate i lebbrosi, scacciate i demoni: gratuitamente avete ricevuto e gratuitamente date.”
(Cap. X 8). Viene qui confermato il principio in termini chiari e categorici, l’assoluta gratuità della professione medica: principio fedelmente rispettato dai guaritori espressi dalla comunità, i quali possono ricevere dalla stessa comunità, oltre il rispetto loro dovuto, soltanto cibarie per sostentarsi.
- Guarigione della mano arida (Cioè, anchilosata - ndA). “Stendi la tua mano! - Egli la stese e tornò sana come l’altra” (Cap. XII 13) Questa guarigione, effettuata in una sinagoga, scandalizza i farisei perché viene compiuta di sabato, giorno in cui non si doveva svolgere alcuna attività.
- Guarigione dell’indemoniato cieco e muto. Anche stavolta si accusa Gesù di stregoneria. “Costui non caccia i demoni se non per virtù di Belzebù, principe dei demoni”. (Cap. XII 24)
- Interessante il passo che segue, perché spiega come il demone posseduto da un ossesso possa essere, dopo cacciato, più pericoloso di prima. “Quando lo spirito immondo è uscito da un uomo, egli vagola per luoghi aridi in cerca di riposo e non lo trova. Allora dice - Tornerò nella mia casa, da cui sono uscito. E quando vi arriva la trova vuota, spazzata e adorna. Allora egli se ne va e prende con sé altri sette spiriti peggiori di lui, poi entrano e vi prendono stabile dimora, sicché l’ultima condizione di quest’uomo diventa peggiore della prima”. (Cap. XII 43. 45)
- Guarigione della indemoniata cananea, mediante la fede della madre. “Allora Gesù le disse: - O donna, grande è la tua fede! Ti sia fatto come desideri. E in quel momento la sua figlia fu guarita.” (Cap. 15. 28)
- Guarigione dell’epilettico (o indemoniato, che gli Apostoli non erano riusciti a guarire “per mancanza di fede”). “…gli si presentò un uomo, il quale si gettò in ginocchio davanti a lui, e gli disse: - Signore, abbi pietà di mio figlio… L’ho presentato ai tuoi discepoli ma non l’hanno potuto guarire… - Gesù minacciò il demonio, il quale uscì dal fanciullo, che, in quel medesimo istante fu risanato. Allora i discepoli si accostarono a Gesù e in disparte gli domandarono: - Perché noi non l’abbiamo potuto scacciare? - E Gesù rispose loro: - Per la vostra poca fede; perché in verità vi dico: se avrete fede quanto un granellino di senape, direte a questo monte: Trasferisciti di qua a là ed esso si trasferirà, e niente vi sarà impossibile. “ (Cap. XVII 11. 20)
- Guarigione dei ciechi di Gerico. “Allora Gesù mosso a pietà, tocco i loro occhi, e subito recuperarono la vista e lo seguirono.” (Cap. XX 34)
Marco. Guarigioni con l’uso della saliva. Guarigione del sordomuto nel viaggio tra Tiro, Sidone e il lago di Galilea. “E lì gli presentarono un uomo sordo e muto, pregandolo di imporgli la mano. Egli, trattolo in disparte dalla folla, mise le proprie dita sulle sue orecchie, e con la propria saliva toccò la sua lingua, poi, alzati gli occhi al cielo, sospirò e disse: - Effatà -. (Cap. VII 32. 34.)
- Guarigione del cieco di Betsaida. “Egli, preso il cieco per la mano, lo condusse fuori del villaggio e dopo avergli messo della saliva sugli occhi e avergli imposto le mani, gli domandò: - Vedi forse qualcosa? - Quello, levati gli occhi per guardare, disse: - Vedo gli uomini, perché noto come degli alberi che camminano. - Allora gli pose di nuovo le mani sugli occhi, e vide con precisione, sicché fu guarito.” (Cap. VIII 23. 25)
- Per concludere, un esempio di fattura, o sortilegio, mediante, invettiva. “Il giorno dopo usciti appena da Betnaia ebbe fame. E visto da lontano un fico, che aveva delle foglie, andò a vedere se, per caso, vi trovasse qualcosa; ma arrivato vicino, non ci trovò che foglie, perché non era il tempo dei fichi. Allora dirigendogli la parola disse: - Che nessuno mai più mangi dei tuoi frutti! - E i suoi discepoli sentirono… E ripassando di buon mattino videro che il fico si era seccato fin dalle radici. Allora Pietro ricordandosene gli disse: - Maestro, guarda il fico che tu hai maledetto, è seccato.” (Cap. XI 12. 14 - 20. 21)

Giobittu = Amuleto. Termine derivato dal logudorese giobu = cappio, laccio. Consiste, di solito, in una stringa di cuoio, semplice o intrecciata, da mettere attorno al collo o al polso o alla caviglia, come difesa dagli spiriti del male e dal malocchio. Su giobu è tornato di moda, non soltanto in Sardegna, dopo il ’68, con il Movimento dei giovani e delle donne, usato come ornamento e chiamato in gergo Scupidù.

Gioghittu de Sant'Antoni = testuale: Giocattolo di Sant’Antonio. Nel nostro caso: Giullare di Sant'Antonio, appellativo dato dai suoi fedeli a un sacerdote di religione ortodossa, notissimo esorcista e guaritore, già sacrista in una chiesa cattolica, espulso per presunta attività omosessuale.

Giura = Giuramento. Sa giura, il giuramento, se eseguita secondo precisi rituali, anche senza la presenza di testimoni, è considerata sacra, e colui che verrà meno alla parola data non hat a teniri mai beni ni in terra ni in celu, non avrà mai bene né in terra né in cielo. Sa giura, sancisce un accordo per altro difficile, è soprattutto un rituale di pacificazione o la stipula di un accordo di vitale importanza per i contraenti. Giuramenti rituali sono frequenti anche tra fanciulli, per motivi che all’adulto possono sembrare futili: si esegue sa giura sovrapponendo l’indice al pollice della mano destra, configurando una croce e recitando contemporaneamente apposite strofe. Tale giuramento è nullo se nel contempo si fanno le fiche con la mano sinistra tenuta dietro la schiena. Particolare solennità assume sa giura (o prumissa) de is isposus, il giuramento o promessa dei fidanzati, specie se fatto in chiesa, anche senza testimoni, che ha moralmente lo stesso valore del matrimonio ufficiale. Su giurantoriu è termine sia campidanese che logudorese per indicare sia la promessa solenne di matrimonio che il matrimonio stesso. Su tali e sa tali hant fattu giurantoriu equivale a “il tale e la tale han fatto solenne promessa di matrimonio” o anche “il tale e la tale si sono sposati”. Giuramentoni è lo spergiuro, colui che giura senza un serio motivo, e per lo più giurat su falsu, giura il falso. Est unu giuramentoni si dice anche di persona che non ha credito. L’epiteto calza bene ai politici, specie governanti.

Gorteddu = Coltello. Il coltello a serramanico, tipico della Sardegna, è chiamato leppa. Ottime leppas a lama larga vengono fabbricate a Pattada, nel Sassarese. Su gorteddu, il coltello, principale strumento d’uso nel lavoro del contadino e del pastore, ha diverse proprietà magiche e terapeutiche, in particolare la pressione della lama ferma il gonfiore e lenisce il dolore delle ecchimosi, specie sulla fronte e sulla testa, e neutralizza il pizzico di insetti venefici.

Gruttas o 'Ruttas o Aruttas = Grotte. Dal greco kryptein, nascondere. Fin da tempi remoti, grotte o antri naturali erano adibiti al culto di divinità. Vi sono grotte famose, come l’antro sul monte Ditte, dove sarebbe stato allevato Zèus, e il Lupercale, una serie di caverne dove i luperci celebravano i loro riti. Vi erano santuari sotterranei, scavati nella roccia, in mancanza di grotte naturali, come i Mitrei, consacrati al dio Mitra. Numerose anche in Sardegna le grotte sacre, abitate da divinità o da animas o frequentate da oracoli o, ancora più comuni e ancora attuali, grotte sacre dedicate al culto di santi, dove i pellegrini si danno convegno per ottenere guarigioni miracolose mediante su sterrimentu (Vedi), l’incubatio sacra. Proprie della Sardegna is domus de janas, le case delle Giane (jana viene talvolta tradotto impropriamente con fata), grotte diffuse in quasi tutta l’Isola, escluse le regioni di Gallura e dell’Iglesiente. Solitamente sono isolate, ma si trovano anche in piccoli agglomerati, da due a venti. Sono tombe monumentali ipogeiche, del periodo prenuragico (dal IV alla seconda metà del II millennio avanti Cristo). Usate come tombe dove i morti venivano deposti distesi o rannicchiati, in un solo livello o a più strati. Questo tipo di sepolcro è proprio anche dell’Oriente, diffuso poi nell’Italia Meridionale, Malta, Spagna e Francia. Su queste grotte i Sardi hanno fiorito leggende, facendole abitare dalle janas, che tessono su telai d’oro e che morendo si tramutano in pietre. Vedi Janas.

Gruxi e 'Ruxi = Croce. Simbolo del sacrificio di Gesù per la redenzione del genere umano. Simbolo del martirio patito dagli schiavi ribelli. Il supplizio della croce viene importata a Roma dall’Oriente, e viene sistematicamente usata per reprimere la rivolta degli schiavi guidati da Spàrtaco. Nell’arte magica terapeutica, sa gruxi, strumento d’infamia nobilitata e sacralizzata dal popolo dal sacrificio di quanti si batterono per la fratellanza umana, sa gruxi, anche soltanto evocata o tracciata nell’aria o sulla terra, o formata con due dita o con due rametti incrociati, è la panacea, è il rimedio principe contro ogni male. Amuleto e talismano insieme, sa gruxi ha i poteri di azione circolare - infatti, con la croce, si "coprono" tutti e quattro i punti cardinali.

Janas e Gianas = Termine che potrebbe tradursi con “Fate indigene di proporzioni lillipuziane”. Le janas, creature fantastiche vengono descritte di aspetto grazioso e affabili soccorritrici dei miseri mortali, abitanti in minuscole grotte, scavate in modo singolare, dette domus de janas, case di Giane. Si vuole che il termine jana derivi da Diana, divinità greco-romana o, forse più appropriatamente, da nana.

Ilixi = Leccio. Altra varietà di quercia, la quercus ilex, regina del bosco, divinità ctonica in grado di sfidare le folgori degli irascibili Dei dei cieli tempestosi.

Imbrusciadura = l’atto dell’avvoltolare. Più corretto imbruscinadura, dal verbo imbruscinai, avvoltolare. Imbruscinai su pisci in su scetti po ddu friri = Avvoltolare il pesce nella farina per friggerlo. Imbruscinaisì in su ludu coment' 'e unu procu = Avvoltolarsi nel brago come un maiale. Imbruscinaisì in terra = Avvoltolarsi sulla terra. S’imbrusciadura è detto un rito terapeutico per risolvere traumi psichici. Assai diffuso in una comunità dell’Oristanese, è stato descritto per la prima volta dall’autore di questa opera in una inchiesta alla fine degli Anni Cinquanta. Vedi "Il punto della settimana" di Calef - n. 42 del 20.10.1962 e "Sardegna Oggi" di Dessanay, n.27 del 1/15. 6. 1963. S’imbrusciadura come incubatio sacra, vedi Sterrimentu .

Indimoniau = Indemoniato. Colui che è posseduto da spiriti demoniaci. E’ l’energumeno (dal greco energéisthai = subire la volontà altrui), il succubo, l’oggetto di uno o più spiriti maligni. Si libera con l’esorcismo, operazione magico-terapeutica che, secondo i casi, può essere semplice (la sola recitazione de is brebus, parole sacre, o la sola lettura dei Vangeus, Vangeli) o assai complessa (quando lo spirito maligno è “forte”, resiste) e abbisogna da parte dell’esorcista di una “forza superiore”. In Sardegna non si registrano, come altrove, casi spettacolari di indemoniamentu, di possessione diabolica, che colpiscono prevalentemente fanciulle e fanciulli sessualmente repressi. Su indimoniau si guarda bene dal farsi esorcizzare, si mantiene come è, utilizzando le capacità divinatorie che gli vengono dai diavoli che ha in corpo.

Indimoniamentu = Ossessione. L’essere invasato da un demonio. I sintomi e le manifestazioni de s'indemoniamentu, dell’ossessione, sono uno stato di agitazione, contrazioni muscolari, convulsioni, cui si alterna uno stato catatonico, di assoluta immobilità e assenza; il viso è tumido, inespressivo; vi è insensibilità al dolore, fissità nello sguardo e mancanza di sangue nelle punture.

Inferru = Inferno. Luogo inferiore, profondo, abissale, sotterraneo, buio, angusto, popolato da creature diaboliche. Si vuole che i “cattivi” dopo la loro morte vengano precipitati nell’inferno, per esservi in mille guise torturati. Il popolo, che soffre in vita oppressione e sfruttamento, è affamato di giustizia, più che di pane, e crede fermamente che dopo la morte ogni uomo riceverà il giusto premio o la giusta punizione, secondo la legge del contrappasso (dal latino contra + passus, participio passato di pati, soffrire), per cui “gli ultimi saranno i primi”, i poveri, gli affamati avranno giustizia e saranno saziati, e ai ricchi sarà tanto difficile entrare nel Paradiso quanto lo è per il cammello passare nella cruna di un ago. S’inferru, l’inferno, è il regno di Luziferru, Lucìfero, re dei diavoli. Una definizione dell’inferno è su logu aundi sunt pibaras e colorus, il luogo dove stanno vipere e serpenti.

Ingestus = Gesti. Nel nostro caso, riferiti alla credenza magica per la quale hanno una efficacia scaramantica. Is ingestus (la gestualità magica) possono compiersi come scongiuro, per superare un pericolo o vincere la paura o per tenere lontano un ipotetico nemico, talvolta soltanto evocato. Is ingestus di questo segno sono numerosissimi; e vanno dal fare le corna al fare le fiche; dallo sputare per terra al bagnarsi di saliva la gola sotto il mento; dal toccare ferro al toccarsi i genitali. Oltre gli scongiuri gestuali vi sono gli scongiuri verbali, alcuni in versetti. Vi sono scongiuri singolari, come Lampu birdi a peraccu! (Testualmente: Lampo verde a parapioggia!) o anche semplicemente Lampu! (Lampo!) che può assumere anche il valore di invettiva, secondo il contesto in cui la parola viene pronunciata.

Ingestus malus = Gesti sconci. Hanno valore prevalentemente scaramantico. Sono spesso, ma non necessariamente, accompagnati da invettive o da parole di malaugurio, e consistono per lo più nella esibizione o sbandieramento di un simbolo fallico (il braccio piegato ad angolo retto con il pugno in alto; l’indice o il medio mostrati tesi nel pugno chiuso), cui si aggiunge il rituale “Setzi innoi, ca bis a…" (Siedi qui, che vedi…), frase che si chiude con un nome qualunque. Altre volte si accenna al proprio sesso. A questo proposito, è storico l’aneddoto raccontato da Herodoto, dove il comandante dell’esercito egizio, ribellatosi al Faraone, compie tale gesto al sovrano rifiutandosi di continuare a combattere senza il soldo pattuito: solleva il gonnellino e mostra il proprio sesso sul palmo della mano. Il corrispettivo femminile di questo antichissimo gesto consiste nel battersi la coscia o la natica, accennando a mostrare il posteriore, il cui significato è facilmente intuibile. Un gesto volgare, questo, che ha finito per assumere anche significato di dispiacere, costernazione, disperazione, e come il precedente praticato dai maschi, è molto diffuso.

Inter domu e cresia = Fra casa e chiesa. Essiri inter domu e cresia o anche fai de domu a cresia e de cresia a domu (Fare da casa a chiesa e da chiesa a casa) è detto comune per indicare donna di timorati costumi, e talvolta, ironicamente, donna ipocrita e beghina, chi sciit portai su santu a cresia (che sa portare il santo in chiesa), cioè che dietro la parvenza di santarella è una gran bagascia.

Interramentu = Seppellimento. Presso i Sardi, l’usanza di seppellire i morti è antichissima, risalendo con molta probabilità al IV° millennio avanti Cristo. Risale infatti a quel periodo l’uso di seppellire i morti entro grotte (dette poi domus de janas). Secondo alcuni studiosi i morti venivano sotterrati nei cortili adiacenti le abitazioni, e soltanto in un secondo tempo i resti venivano riesumati e trasferiti entro grotte. (Vedi Gruttas e Domus de janas). Dopo l’istituzione dei cimiteri (nei paesi più poveri, fino a tempi recenti, agli Anni Quaranta, il cimitero consisteva in un campo malamente recintato appena fuori dell’abitato), il defunto veniva trasportato dentro una bara comune cui erano fissate quattro stanghe e quattro piedi (sa portantina), e il corpo interrato senza bara. Soltanto i ricchi avevano la bara, posata su di una portantina di legno pregiato. De su interramentu, del seppellimento, se ne ha una viva documentazione in lingua sarda in Giuseppe Dessì (Seddoresu), Contus de forredda, pagg.33/34. Vedi Vol. I°: Autunno - Usanze mortuarie.

Intranniau a su mali = Da intrannias, viscere, indica chi, come su tiaulu, il diavolo, è di natura malvagia. Colui che è intranniau a su mali, è nato dalle viscere stesse del male e qualunque sua azione contiene malizia e cattiveria. Viene detto di fanciullo irriducibile, incline a commettere cattive azioni.

Isparatoriu o Arroda = Fuochi d’artificio. Fino a tempi recenti non vi era festa degna d’essere ricordata se non si concludeva con s'isparatoria o arroda, allestito nella piazza principale del paese o in un’aia alla periferia. Dall’andamento dei fuochi d’artificio la comunità traeva gli auspici per l’andamento del raccolto agricolo o dell’allevamento. L’ultima granata, che esplodeva con un botto secco e potente, dava alla gente il segnale che la festa era finita, e si levava in coro il grido: “Aterus annus cun saludi!” (Al prossimo anno con salute!)

Itifallu = Itifallo, in italiano antico. Talismano consistente nel simulacro del pene eretto. Termine comune all’italiano antico derivato dal latino ithyphallus. Un tempo diffuso come ornamento, propiziatore di benessere, se ne avevano d’osso, di corallo, d’oro e d’argento.

Juanni (Santu), detto anche Sant'Juanni de Floris = Giovanni (Santo), o San Giovanni dei Fiori. E’ il giovane apostolo di Gesù che nella mitologia cristiana si confonde con l’Adone. Presiede all’amicizia eterna che lega, secondo un solenne giuramento rituale, due giovani di uguale o di diverso sesso. Tale vincolo di amicizia viene chiamato Su Sant'Juanni de Floris, cioè Comparatico dei Fiori. Da notare che in lingua sarda il termine comparatico si traduce con Sant'Juanni (San Giovanni, tout court). Abbiamo così su Sant'Juanni de battiari o de cresima, il comparatico di Battesimo o di Cresima, e su Sant'Juanni de Floris, il comparatico dei fiori, che come si è detto, è un legame di amicizia sacralizzato da un rito cui presiede San Giovanni l’Apostolo, rito ripreso dal culto di Adone.

Juanni (Santu) = Giovanni (San). E’ il Battista, colui che apre la strada al Messia, e viene decollato per ordine di Erode Antipa. A Sant'Juanni Battista sono legati numerosi riti magico-terapeutici, che furono dal culto pagano riservati alle divinità delle acque. Presso alcune comunità, alla mezzanotte della vigilia della festa del Santo, si praticava l’immersione collettiva in un corso d’acqua. Diffusa l’usanza di immergere nell’acqua la testa di un decollato o un teschio.

Lamias = Lamie. Demoni che risiedono nei cimiteri. Assumono sembianza di femmine laide e si cibano di cadaveri.

Lampazzu = Lapazio, romice. Dal greco Làpathoòn, in latino lapathum, è un’erba delle poligonacee che cresce nei fossi ed è detta volgarmente in italiano “Erba Pazienza” (Rumex Patientia). Ha una radice fittone con polpa di un giallo intenso, simile alla carota. Su lampazzu, in particolare la radice, è usato nella terapia de sa striadura (il male della strige) o itterizia, giusta la legge dei simili (secondo il principio non disusato della medicina antica Similia similibus curantur). La medicina moderna attribuisce per altro al romice proprietà benefiche sedative nella cura contro le emorroidi.

Lau = Alloro. Dal latino laurum. Albero sacro simboleggiante la gloria di Dio e dei suoi santi. I rami dell’alloro, presso alcune comunità, vengono disposti a festoni ai lati delle strade che segnano il percorso delle processioni religiose. Le foglie, con altri ingredienti, vengono usate negli affumentus (suffumigi magico-terapeutici) o anche singolarmente gettate nelle braci per divinare (Dafnomanzia).

Levanti (Bentu de) = Levante (Vento di). Il levante che spira tiepido e più frequentemente soffia caldo e afoso, ha qualcosa di magico, che strega: prostra i corpi e deprime le anime, infoia i maschi e rende molli le ginocchia delle femmine. E’ da considerare un demone perverso e corruttore, fra i tanti che popolano l’aria. La sua presenza comporta diversi tabù nelle attività domestiche e agricole nel mondo contadino. Con il levante non si semina e non si piantano ortaggi: la pianta si seccherà o il frutto abortirà. Non si macella e non si confezionano insaccati o conserve di alcun genere: metteranno i vermi o la muffa e andranno a male.

Liadura = Fattura, maleficio, ammaliamento. Da liai, legare. Sa liadura (o ligadura) è una pratica magica che influenza in special modo la sfera sessuale. Si pratica sia per legare a sé altri con amorosi lacci, sia per rendere impotente o frigida un uomo o una donna d’altri del quale o della quale si è gelosi.

Licantropia = Licantropia. Metamorfosi dell’umano in lupo o in altro animale simile, nel periodo della luna piena. Vedi Ercu, Prummunida, Boe muliache.

Licornia (Aqua) = Licornia (Acqua). S’aqua licornia consiste in un bicchiere d’acqua resa magica mediante una sezione o la punta di un corru de cerbu, corno di cervo, e appositi brebus, parole magiche. E’ usata prevalentemente per scopi terapeutici, ingerita o aspersa, contro spaventi, malocchio o espressioni psichiche. Ma è anche un diffuso strumento per divinare o per diagnosticare i mali che affliggono il paziente. Esaminando s'aqua licornia, il guaritore scopre il tipo di male e le cause che l’hanno provocato, o in altri casi, fissando un punto nel fondo del bicchiere, egli vede come in una sfera magica, il passato e il futuro della persona che viene esaminata. E’ un rito che ha diversi nomi. Con questo nome è diffuso nell’Oristanese.

Lionarsciu o Lionargiu = Oleandro. Arbusto ornamentale comune in Sardegna lungo i letti sassosi e aridi dei torrenti, dai pendii montuosi fino al mare. E’ di facile riproduzione per talea, tanto che un ramo radica se immerso in un recipiente d’acqua. Dai suoi rami diritti e robusti si ricavano ottimi bastoni d’appoggio e da difesa. Ne faceva uso - si dice - anche Giuseppe il falegname di Nazareth, il quale deve al prodigioso fiorire del suo bastone di oleandro lasciato nel tempio (in un portavasi contenente acqua?) l’affidamento da parte dei sacerdoti della giovane Maria, madre di Gesù. In virtù di questa leggenda, l’oleandro è detto comunemente mazza di san Giuseppe. A su lionarsciu, all’oleandro, si attribuiscono diversi poteri magico-terapeutici, forse in correlazione con la leggenda cui si è accennato, più che alla presenza in esso di un glucoside cardioattivo, per altro assai tossico.

Logu obertu = Luogo aperto. Si oppone a logu serrau, luogo chiuso, ed è importante per il guaritore sapere “dove”, in “quale luogo (se obertu o serrau, se aperto o chiuso) è stata presa la malattia per approntare il giusto rimedio. In particolare nei riti terapeutici contro spaventi o malocchi, viene sempre chiesto preliminarmente al paziente si hat tentu su dannu in logu obertu o in logu serrau (se ha avuto il danno in luogo aperto o in luogo chiuso).

Luna (la n si pronuncia nasale unita alla u e staccata dalla a) = Luna. Considerata dagli antichi una divinità (Artèmide, Selene, Ecate sono alcuni nomi che la indicano nella mitologia greca). Da sempre, e ancora oggi, gli uomini vedono nella luna e nelle sue fasi il potere di influenzare i cicli riproduttivi e vitali, l’attecchimento e la crescita, di tutte le creature viventi sulla terra, umani, animali e vegetali. Il ciclo mestruale della donna è pari al periodo di una fase lunare. Il periodo di gestazione di ogni creatura, dalla inseminazione alla nascita, si calcola in lune. La capacità germinativa del grano e di ogni altra semente, così come la capacità fecondativa del seme umano e animale si vuole che sia influenzata dalla luna. Anche il taglio della legna va compiuto in fase lunare propizia, onde evitare che la legna si tarli e marcisca. Nel mondo contadino esistono precise norme che condizionano ogni attività lavorativa ai diversi momenti delle fasi lunari. Diffusissimo un tempo tra i contadini più colti su gerevalliu (il lunario), un opuscolo calendario annuale, una sorta di almanacco, basato sulle fasi lunari, che dava le indicazioni sul periodo più idoneo a compiere ogni lavoro agricolo. Sul piano della medicina popolare, ogni rito terapeutico va compiuto osservando scrupolosamente il periodo lunare. Vedi Gerevalliu.

Luziferru = Lucìfero. Nome proprio originario del diavolo, secondo la mitologia biblica. E’ poco usato nella parlata popolare. Vedi Dimoniu e Tiaulu.

Mabagrabiu e Malagrabiu. Intraducibile. E’ probabilmente una storpiatura di mali carbinu, letteralmente male selvatico. E’ simile a Puntori (Vedi), male ignoto mortale, ed è usato quasi esclusivamente nel contesto di una invettiva: su mabagrabiu fezzast! cioè, grosso modo, “che ti venga un accidente!”. Tale invettiva è comune nell’Oristanese, specie a Santa Giusta e a Cabras. In questi paesi, inoltre, fai su mabagrabiu ha il significato di “fare il patatrac”, e viene riferito a fanciulla che abbia accidentalmente perso la verginità: Sa tali gei dd' hat fattu su mabagrabiu! (La tale sì che ha fatto il patatrac!). Il termine è anche usato come intercalare, abbreviato: mabagrà! equivalente all’esclamativo italiano “accidenti!”.

Magia (o anche Majia e Mazzina) = Magia. E’ l’arte di produrre fenomeni paranormali, sia utilizzando con particolari poteri e conoscenze le stesse forze della natura, sia mediante i poteri occulti degli spiriti o demoni del bene e del male. In altre parole, magia è il termine che definisce l’insieme delle pratiche trascendentali che costituiscono la scienza e l’arte di dominare le forze occulte della natura e della vita. C’è una stretta correlazione tra il mondo vegetale e quello animale e umano, per cui si evidenzia uno stato di necessaria interdipendenza tra tutti gli elementi vitali che compongono la natura. Il fenomeno della riproduzione vegetale, per cui un seme interrato germoglia generando una pianta, è lo stesso fenomeno per il quale si riproducono gli animali e l’uomo. Così pure le spoglie mortali degli alberi e di ogni animale compreso l’uomo ritornano alla terra e la rendono più fertile. Secondo il Goodworth, “la magia consiste per definizione nella errata applicazione dei principi più semplici dell’associazione di idee”. E in effetti, le associazioni tra la vita del mondo vegetale e del mondo umano, e tra la morte, la sepoltura e il nuovo rigoglio primaverile avevano condotto a una interpretazione fantasiosa, che va appunto sotto il nome di magica. Anche se era errata, aveva però messo in moto la mente, fatto approfondire per la prima volta la conoscenza del mondo. (In A. Nicker - Sesso e Magia - 1970)

Magia e Majia = Magia. E’ termine usato letterariamente nel significato figurativo di “fascino”, “incanto”, “meraviglia”. Sa magia de s'orbescida, l’incanto dell’alba. Una bellesa magica, fadada, una bellezza magica, fatata. Magia, con il significato di dottrina che riguarda l’evocazione degli spiriti, i fatti che trascendono l’umano (i prodigi), la preveggenza, i riti relativi e le pratiche connesse alle scienze occulte e alla medicina, di segno positivo (magia bianca) o di segno negativo (magia nera), è termine che si traduce frequentemente con bruxeria, seppure questo termine sia riduttivo, in quanto più propriamente indica “fattucchieria”. Nella parlata popolare, magia viene tradotto anche con mazzina. Vedi Bruxeria e Mazzina.

Magia (Is sinnus de sa) = Magia (I significati della). Le dottrine magiche nascono ai primordi della società umana e precedono di molto le religioni. Una delle affermazioni di fondo della magia, che ne costituisce il principio, è l’esistenza di uomini, animali e cose dotati di forza, cioè di capacità, di virtù, di facoltà soprannaturali. In lingua sarda le capacità mediche di s'omini de mexina (il guaritore) o di sa bruxa (la fattucchiera) viene genericamente detta sa forza. Nel fattucchiere che fa incantesimi, così pure in s'oghiadori (colui che dà il malocchio, l’iettatore), la capacità malefica di ligai (affascinare, legare) viene detta umbra o umbra de coloru (fascino o fascino di serpente). Sa forza, la capacità magica, l’elemento soprannaturale, è presente in misura diversa in ogni cosa. Nel mondo minerale, ne possiedono una minima quantità il legno, il ferro, l’argilla; mentre ne sono forniti in grande quantità il rame, le pietre dure o preziose, i magneti. Nel mondo vegetale, ugualmente: certe erbe hanno radici o foglie o gambo che possiedono virtù magiche in sommo grado. Ciò, infine, vale anche per il mondo animale e umano: mago o stregone è appunto colui che possiede molta forza - così pure certi animali, come il cervo o il gatto o il serpente o certi ragni, parte dei quali vengono spesso utilizzati nel compimento di riti magico-terapeutici o nelle fatture.

Magus, meglio Cogus = Magi. Nome generico dato a is ominis de mexina, guaritori, indovini, fattucchieri e chiunque abbia poteri occulti. I magi erano originariamente adoratori del Fuoco, seguaci di Zoroastro.

Mainargiu e Mainarxu = Mago, fattucchiere, guaritore. Sono sinonimi bruxu, cogu, magu, omini santu e per il solo femminile mazzina.

Maladia = Malattia. Nella medicina popolare, legata alla scienza magica, ogni malattia è data da uno specifico demone, che bisogna riconoscere ed esorcizzare con determinate materie (sostanze terapeutiche), con particolari riti, e brebus, parole sacre. Donai maladia = Ammalare con arti magiche (fatture o altri malefici). Spesso certe malattie sono ritenute opera di stregoneria, eseguite da o per conto di persone malvagie e gelose dell’altrui benessere.

Mali = Male. Su mali o malu è l’opposto del bene, ciò che proviene dalle forze infernali, dal Diavolo, su Tiaulu, s'ennemigu, antagonista di Dio, Deus. Su mali per antonomasia è sa maladia, la malattia, lo stato di malessere fisico o psichico. Mali è assai frequentemente usato (d’altro canto anche in italiano) in sostituzione del termine malattia. Esempi: Mali de arrigus = Malattia dei reni; Mali de 'utturu = Mal di gola; ecc. Teniri mali = aver male, star male. Vedi Maladia e Malia.

Malia = Malia. Ammaliai = Ammaliare, dominare l’altrui volontà con arti magiche (fatture o altri malefici, specie incantesimi). La persona ammaliata diventa succuba, schiava di chi l’ha ammaliata; e farà tutto ciò che questa le ordinerà. Generalmente si ammalia una persona per sottrarle il patrimonio, facendosi lasciare gli averi in testamento (si dice che i preti siano esperti nell’arte di ottenere, con formule magiche, lasciti e donazioni da vecchi e ricche vedove “ammaliate”; o anche per ottenere favori di carattere sessuale, altrimenti negati perché illeciti. Sono frequenti i casi in cui una fanciulla che ha finito per cedere alle profferte amorose di un uomo, imputa il fatto a un sortilegio, a qualche beveraggio magico che ha annullato la sua volontà di resistere. Per altro è anche frequente che un uomo di una certa età, innamoratosi follemente di una fanciulla assai più giovane di lui, attribuisca la sua “follia” amorosa a qualche fattura o sortilegio. Sembrerebbe che tutte le donne giovani, belle e desiderabili siano potenzialmente delle streghe - infatti di esse si dice che sono maliarde e affascinanti. Su ammaliai, l’ammaliare - può sembrare strano - ma è pesantemente condannato dal codice penale italiano sotto le specie di reato di plagio.

Milifattu = Maleficio, fattura, pratica magica occulta fatta mediante anatemi o esorcismi o invocazioni, utilizzando le forze demoniache per nuocere ad altri. Vedi Fattura.

Mamoni = Ammone o Amon-Ra. Divinità egizia, raffigurata con corpo umano e testa di ariete. Nella mitologia cristiana diventa un potente demone che ha ai suoi ordini ben quaranta legioni di diavoli. Viene anche identificato con su 'attu mamoni, il gatto mammone: demone antropomorfo dalla testa di gatto, al quale non si attribuiscono particolari poteri demoniaci e anzi pare che si riduca a custodire scussorgius de pagu contu, tesori fatati da poco conto, a interpretare ruoli di secondo piano nella novellistica, e a far da spauracchio ai bambini capricciosi. Ai quali, appunto, si suole dire: “Chi non fais a bonu zerriu mamoni!" (Se non fai da bravo chiamo babau) mamoni, nel significato di babau, di spauracchio, è detto anche momoti.

Mandragola = Erba mandragola. Pianticella erbacea perenne diffusa nei paesi del Mediterraneo. Si vuole che questa pianta abbia l’aspetto di un corpo umano in miniatura. E’ assai usata nei riti magici e terapeutici. Con la mandragola si ottengono pozioni per far filiare donne sterili. Secondo alcune fonti, tale piantina nascerebbe dalla terra dove sia caduto sperma umano, e che, quando venga sradicata, emetta una sorta di vagito, simile a quello di una creatura che nasce. Nel medioevo è considerata un’erba demoniaca, di cui le streghe facevano largo uso. E’ probabilmente di tradizione ebraica, la leggenda secondo la quale il famoso albero del bene e del male che Jahvé pose al centro del paradiso terrestre doveva essere una mandragola arborea gigante.

Maniposa = Farfalla. E’ detto maniposa anche un singolo lumino votivo, che si ottiene riempiendo un bicchiere per metà di acqua e per il resto di olio. Sulla superficie oleosa si pone un dischetto di sughero fornito di lucignolo. Si ottiene così un’esile fiammella che si fa ardere davanti al simulacro di un Santo, per grazia ricevuta o da ricevere, o in memoria di un caro defunto, nella ricorrenza della sua morte, specialmente il due Novembre per ricordare le anime dei morti e propiziarsele. Di maniposa se ne conosceva un modello di tipo industriale, che pur conservando la sua originaria semplicità consisteva in un triangolino di lamierino forato al centro per inserirvi il lucignolo, con i tre vertici infissi in tre dischetti di sughero, che si poneva a galleggiare in un bicchiere contenente acqua e olio.

Manufica = Dal latino manufica, indica sia l’amuleto consistente in una manina il cui pollice è infilato tra l’indice e il medio del pugno chiuso, sia il gesto scaramantico detto del far le fiche. Vedi Ficas, il far le fiche.

Martura (Argia) = Paralitica (Tarantola). Dicesi argia martura una specie di tarantola il cui morso provoca paralisi. Per la precisione marturu-a indica colui o colei che è paralizzato-a; vi è quindi una trasposizione dell’effetto nella causa. Come per la puntura delle altre specie di tarantole, la terapia è collettiva, dura tre giorni e tre notti, pur variando per ogni specie di tarantola il contenuto rituale terapeutico. Vedi Argias.

Masciu (Arza) = Maschio (Tarantola). Dicesi arza masciu (letteralmente tarantola maschio) una specie di tali ragni la cui puntura è particolarmente dolorosa. Il termine arza è la variante logudorese dell’argia campidanese. Vedi Arza.

Maskara o Bisera = Maschera. Bisera è testualmente “visiera”, nel senso che si applica al viso. Maskara e bisera, per lo più di legno e di sughero, sono maschere di carnevale di sembianza animalesca e demoniaca. “Il camuffamento del personaggio principale - uomo o sacerdote - nelle sembianze di un animale è noto in molte religioni. L’usanza è antichissima... L’uso degli animali per il camuffamento rituale è condannato e ritenuto diabolico nel “Liber penitentialis” di Teodoro, del VII secolo… Per analogia con altre religioni che seguono la stessa usanza, sembrerebbe trattarsi di un rito della fertilità. L’animale raffigurato è l’animale sacro della tribù, oppure quello usato più spesso come cibo”.
(In Le streghe di M. A. Murray - 1974).

Masoni = Indica sia l’ovile che il gregge. Masoni è vocabolo d’uso comune sia nella parlata campidanese che logudorese, nella prima prevale il significato di ovile, nella seconda quello di gregge. Masoni è dunque il luogo dove si raccolgono le pecore durante la notte, dopo il pascolo, per la mungitura e la tosatura. Consiste in un semplice spazio circolare recintato per lo più da sterpi secchi spinosi, massi, cespugli vivi di lentischio o di altre essenze che già radicano nel perimetro. Deriva dal fenicio mason (alimento, pasto), ed è quindi più proprio l’uso del termine usato in logudorese che indica il gregge. Se il fucile del pastore difende l’ovile dai ladri, la difesa dello stesso patrimonio da incantesimi, malocchi, morie provocate da fatture è affidata alla magia: amuleti consistenti in fiocchi di lana verde, bucrani piantati su pali, periodiche aspersioni delle pecore con aqua licornia o altre “acque magiche” approntate da un fattucchiere, che hanno efficacia preventiva oltre che terapeutica.

Mastrupai = Masturbare. Mastrupazioni = Masturbazione. Sono termini di uso poco comune nel popolo che preferisce, nel campo sessuale, le fiorite circonlocuzioni anziché vocaboli ritenuti osceni anche se scientifici. Per indicare l’atto onanistico si usa perciò limpiai canna (pulir canna) o scrosciai fa' (sbucciar fava) o faisi sa cannuga (farsi la cannocchia). Su si mastrupai, il masturbarsi, è sempre riferito al maschio; non esiste, che io sappia, termine o modo di dire, che indichi lo stesso atto nella femmina. Esistono filtri magici che inducono una fanciulla ad amare sensualmente: tale filtro va assunto dal maschio innamorato intanto che si masturba pensando intensamente all’oggetto dei suoi desideri. Si assicura che l’ignara fanciulla verrà coinvolta di persona appena se ne presenterà l’occasione. Tuttavia va aggiunto che esistono contramazzinas (controfatture) che hanno il potere di creare, nella fanciulla che proprio vuol difendersi da simili magie, una sorta di campo di forza, una barriera che protegge la castità.

Materia = Materia. Nei riti terapeutici magici è la medicina vera e propria, la sostanza visibile che viene assunta dal paziente. Nella medicina popolare, tuttavia, non ha alcuna efficacia terapeutica se non è accompagnata da is brebus (le parole magiche) e dallo specifico rituale diretto da un mago guaritore.

Maurreddinu = Abitante della regione Iglesiente. Il termine è derivato dal latino mauritianus, indigeno della Mauritania. Tra le numerose deportazioni effettuate da potenze egemoni, ve ne fu una di Mauritani, che si insediarono in quella parte dell’Isola. Vedi dell’Autore il saggio Quali banditi? Vol. I° pagg. 314/315 - Verona 1977. Presso i Maurreddinos, ossia nell’Iglesiente, sono diffusi riti terapeutici magico-religiosi quali s'affumentu e s'aqua abrebada (Vedi), con diverse varianti.

Mazzina = Indica sia la maga, colei che fa le magie, sia la magia, l’atto prodigioso compiuto dalla maga. Sa tali est una mazzina = La tale è una maga. A su tali hant fattu una mazzina = Al tale hanno fatto una magia (una fattura). Non esiste il maschile di mazzina, come per l’italiano strega. Infine mazzina prende anche il significato di feticcio, il simulacro usato per fare la fattura o il maleficio. Vedi Bruxu e Cogu.

Merda e Medra = Merda, sterco. Gli escrementi hanno una loro rilevanza nella medicina popolare. Al di là del loro uso e dei significati psicopatologici in talune attività sessuali definite perverse, quali la coprofagia e la coprofilia, vi è un suo uso in diversi riti magici, secondo il principio che la parte rappresenta l’insieme, e quindi il possesso della parte porta al possesso dell’insieme. Pertanto è materia per compiere malefici. Tuttavia, non molto dissimilmente dalla medicina moderna, che esamina “scientificamente” le feci di un paziente, diagnosticando malattie del loro colore, odore, compattezza; così la terapeutica popolare dagli escrementi di un paziente ne stabilisce lo stato di salute. Si attribuisce allo sterco ancora caldo di alcuni uccelli virtù medicamentose in alcune malattie della pelle e degli occhi; in particolare gli escrementi di gallina vengono usati non solo come tonici della pelle ma anche come coagulanti spalmati su lievi ferite. Vedi Pisciu.

Mestruu = Mestruo. E’ detto anche su mesi, il mese, o su strobu, il disturbo. Essiri strobada, essere disturbata, indica appunto una donna mestruata. Il ciclo mestruale assume particolare rilevanza nella vita sociale per i tabù cui è legato e ancora per l’uso magico che della sostanza mestruale la donna può fare in diverse pratiche che possono coinvolgere il maschio. In effetti, come sostiene il Talmud, il testo sacro degli Ebrei, la donna mestruata rappresenta un grave pericolo per i maschi: si afferma, per esempio, che se una donna mestruata si avvicina tra due uomini e passa tra loro, uno dei due può ammalarsi fino a morire. Il rapporto sessuale con la donna mestruata è severamente vietato. Tra le numerose proibizioni fatte alla donna mestruata ci sono quelle di non poter toccare alcunché di commestibile. Più precisamente le viene fatto divieto di cucinare, fare il pane, di toccare cibi deteriorabili come le carni e i pesci, che le sue mani impure manderebbero in putrefazione. In occasione della uccisione del maiale e della conservazione delle sue carni, se in famiglia c’è una donna mestruata, costei deve restare isolata e astenersi dal toccare alcunché di quanto viene manipolato per l’occasione, per evitare di mandare a male il maiale. In tali circostanze, la donna mestruata viene sostituita da altra donna di famiglia o del vicinato.

Mexina = Medicina. Nella terapeutica popolare, sa mexina, la medicina per antonomasia è la panacea, il ritrovato prodigioso in grado di guarire ogni male. In questo senso sa mexina più efficace è la fede: fede nel terapeuta, fede nella sostanza medicamentosa, fede nella guarigione, fede in se stessi e nelle forze vitali della natura di cui ci si sente parte. Molte prodigiose guarigioni ottenute dalla medicina popolare si attribuiscono alla fede, e alla suggestione che da questa deriverebbe. Vi sono comunque numerose mexinas, medicine, specifiche per ogni genere di male. Grosso modo si possono dividere in mexinas contro i disturbi psichici e della sfera emotiva; mexinas contro i disturbi fisici; mexinas contro i nemici del patrimonio (animali domestici, da lavoro o da allevamento; piante fruttifere; eccetera). Alcune mexinas specifiche sono sa mexina de s'aquila, la medicina contro l’aquila; sa mexina de s'azzicchidu, la medicina contro gli spaventi; sa mexina de is bremis, la medicina contro i vermi; sa mexina de su margiani, la medicina contro la volpe; sa mexina de s'ogu liau, la medicina contro il malocchio; sa mexina de is pillonis, la medicina contro gli uccelli. Nell’uso comune il termine mexina indica “tutto ciò che fa bene”; ma quando sia riferita alla medicina moderna può anche significare “veleno”, sostanza tossica: alla, ca est mexina! = Attento che è medicina! O anche, in una famosa invettiva contro gli odiati esattori delle tasse: “Su dinai miu ti serbat po mexina!" = Il mio denaro ti serva da veleno!

Mizza = Sorgente. Alcune sorgenti, di particolare importanza economica, situate in prossimità di centri abitati, venivano strutturate in muratura, intubate onde riempire una vasca, cui attingere più comodamente l’acqua potabile e per abbeverare gli animali dal lavoro al rientro dalla campagna (Vedi Aquadroxu). Ma per lo più, is mizzas, le sorgenti, venivano conservate e utilizzate, ovunque, al naturale. Chiunque le utilizzasse aveva l’obbligo - non di legge ma di coscienza civile - di mantenere s'enadroxu, la vena, ripulendo la conchetta sabbiosa dal terriccio, da sterpi ed erbe, e riponendo al lato dell’anfratto il mestolone di sughero, su cui il viandante attingeva l’acqua per berla comodamente, senza doversi chinare per bere “a bruncu”, con il muso, come gli animali. Fino a tempi recenti, il tipico mestolone di sughero era sempre presente nelle sorgenti montane, un tempo numerosissime; oggi sono spariti, portati via come souvenirs dai turisti cittadini dell’Isola e del Continente. Per i significati magici e terapeutici de sa mizza, della sorgente, vedi Funtana e Putzu.

Morti = Morte. Oscura onnipotente divinità, legata al destino di ogni creatura vivente. Esistono incantesimi e formule magiche (tuttavia assai rari e devono essere compiuti con l’aiuto di potentissime forze occulte) per fermare temporaneamente la Morte, giammai capaci di vincerla - poiché è scritto nel Gran Libro del Destino che ogni creatura vivente la porta con sé, sopita, dal momento che nasce, e in qualunque momento Essa può destarsi. Ciascun uomo, per destino, ha dentro di sé una “propria” morte. Vi sono così morti bonas e mortis malas (morti buone e morti cattive) come quelle serene dei vecchi che lentamente si spengono o come quelle violente di coloro che sono stati assassinati e gridano vendetta, senza trovare pace nelle loro tombe; ve ne sono di giustas e ingiustas, come quelle che colpiscono coloro che hanno tradito la fede della comunità, le spie, i falsi testimoni e gli adulteri, e quelle che spezzano vite di bimbi e fanciulli, fiori il cui stelo è stato reciso mentre ancora sbocciavano alla vita; e ve ne sono infine di disisperadas e piedosas (disperate e pietose), come quelle di coloro che si uccidono per amore o per giustizia o di coloro che “vengono aiutati a morire” per liberarsi da una vita tanto atroce da non poter più essere sopportata.
Sa Morti Pilosa, la Morte Pelosa, è un mitico demone, oggi in ribasso, ridottosi a far da spauracchio ai bimbi capricciosi (Mira ca benit sa Morte Pilosa chi non fais a bravu! = Guarda che viene la Morte Pelosa se non fai da bravo!), il cui nome, un tempo terrificante, oggi viene usato principalmente per indicare persona malnutrita e malandata.

Morti (Sinnus de) = Morte (Annunci di). Vi sono creature in grado di presagire la morte imminente. Secondo la credenza popolare vi sarebbero alcuni animali o anche fanciulli (“anime innocenti”) in grado di vedere la morte che passa annunciandone la presenza alla comunità con certi loro “strani” comportamenti: per esempio, cani o cavalli avvoltolandosi per terra sulla schiena e i fanciulli restando scioccati.
Tipico esempio di annuncio di morte è dato dal volo della stria (strige, barbagianni), passando sopra il tetto di casa in senso perpendicolare alla travatura (la linea di volo dell’infausto uccello forma così una croce con le travi).
Taluno sarebbe in grado di presagire anche la propria morte. A questo proposito, è stupenda la lirica di Peppino Mereu dove annuncia la propria morte. Vedi Cap. X “Dalla Strige alla Strega”.

Mortu = Morto. Colui che viene interrato, ma che soltanto apparentemente ha cessato di vivere. Su mortu, il morto, detto anche anima morta, per distinguerlo dal vivente o anima bia, anima viva, continua a essere presente tra la sua gente, nel proprio mondo, finché restano le sue opere e finché egli viene ricordato. Modi di dire: Prangiri su mortu in domu = Disperarsi esageratamente. Si dice a persona che drammatizza un fatto non grave: Mancu chi siast prangendi su mortu in domu = Neppure se stessi piangendo il morto in casa. Regordai is mortus in mesa = Ricordare i morti a tavola, mentre si mangia, ha il significato di far qualcosa di sconveniente.

Mortus (Sa festa de sos) = Morti (Festa dei). In Sardegna, la Festa dei Morti, celebrata secondo il calendario cattolico in due di novembre, aveva particolare solennità. A Orune e in altri paesi delle Barbagie, Sa festa de sos mortos si svolge ancora secondo antichi rituali. I morti ritornano allo scoccare della mezzanotte e per essi viene approntata una mensa imbandita in ogni casa. Durante la notte, mentre i piccoli dormono, gli uomini vegliano in locali pubblici e le donne vegliano davanti ai focolari spenti. Vedi Vol. I° “Sa festa de sos mortos ” e la voce omonima nel glossario dello stesso volume.

Musca = Mosca. Teniri musca = Essere vanitoso. Muschitteri = Vanitoso.

Musca de ghettai = Intraducibile. Indica la mosca inseminatrice di vermi della putrefazione della carne. Viene descritta, piccola, grigia con le ali sgraziatamente aperte. Durante i mesi caldi si avvicina al bestiame e anche agli uomini deponendo le uova nelle parti umide del loro corpo, mucose (bocca, occhi, naso, ano, sesso) e nelle ferite. Esiste, per combatterla, una specifica terapia, detta Sa mexina de is bremis.

Musca Macedda = Testualmente: Mosca macello. Mitico insetto inseminatore di morte. Diffonde oscure pestilenze.

Muscapia = Scintille che volano nell’aria ricadendo verso terra, durante i fuochi d’artificio. Per le scintille prodotte dal fuoco che salgono trasportate dall’aria calda (che il Pascoli chiama “monachelle”) si usa il termine di fraria. Muscapia o Buscapia indica anche più propriamente quegli specifici ordigni simili a razzi impazziti che durante i fuochi d’artificio vengono fatti ricadere verso la folla, sulla quale per altro giungono per lo più già spenti.

Nappa de arannia (o aragna ) = Tela di ragno. E’ detta anche Tirinnia. Nappa e tirinnia hanno anche significato di reticolo e più in particolare indicano la tunica reticolare che avvolge gli intestini. Si è di recente scoperto che una delle funzioni dell’omento o epiplon (in sardo nappa), ovvero la tunica reticolare, è quella di proteggere gli intestini da emorragie interne, favorendo la coagulazione del sangue. Sa nappa de arannia è usato nel mondo contadino come emostatico, posto a ricoprire ferite leggere.
Un interessante riferimento a terapie popolari proprie della cultura contadina nei primi pionieri americani si trova in “Furore" di J. Steinbeck, edizione in italiano del 1940, pag. 210: “… S’asciugò la ferita con un pezzo di canapa e la esaminò. - Sanguina come una cagna in calore, osservò, ma faccio presto a fermarla. - Orinò in terra e coperse la ferita col fango che ne derivò. L’efflusso cessò quasi subito. - Niente di meglio per far cessare il sangue, disse. Anche il ragnatelo è buono, opinò Casy. - Sì, ma il ragnatelo non l’hai mica sempre sotto mano. -” Vedi Aragna e Pisciu.

Nemigu (o Ennemigu) = Nemico. Su nemigu, il nemico, per antonomasia è Satana, il Principe delle Tenebre, il Signore degli Abissi, il Dio del Male. Frequentemente, Satana, Lucìfero, l’Angelo ribelle, viene chiamato semplicemente s’Ennemigu, il Nemico.

Nenniri = E’ così detto il grano seminato in vaso e germogliato all’oscuro, che le fanciulle fenicie e sarde usavano preparare in onore del dio Adone. Su nenneri era detto “Giardino di Adone”, di chiaro significato magico-propiziatorio, proprio delle feste del solstizio di giugno, si ritrova ancora assai diffuso in Sardegna fino a tempi attuali. Su nenniri (piatto o terrina con terriccio e grano, o ceci o avena germogliati al buio, i cui esili pallidi filamenti erano tenuti eretti e ornati da un nastro colorato) veniva preparato sia per la festa di San Giovanni l’Apostolo (l’Adone della mitologia cristiana), sia il Giovedì Santo, come rito legato alla morte e resurrezione di Gesù - anche in questo caso appare un rito funebre, perpetuando nei millenni le cerimonie mistico-sessuali in cui le donne piangevano la morte del giovane e bellissimo dio Adone, festeggiandone poi la resurrezione.
Abbiamo, dunque, nel costume sardo, su nenniri dedicato dalle fanciulle al culto di San Giovanni l’Apostolo, santo tutelare dell’amicizia tra i giovani, (vedi Sant'Juanni), e su nenniri che le donne preparano in Quaresima per la morte e resurrezione del Cristo.
Anticamente - come nella originaria usanza fenicia - in su nenniri , nel vaso di grano germogliato, spiccava una statuetta votiva (Erma), probabilmente il simbolo di una divinità ctonica pronuba, modellata con la creta o più spesso con pasta di grano. In diverse comunità, su nenniri , dopo la benedizione in chiesa, veniva portato in campagna, il piatto rotto e i germogli sparsi tra le zolle, come rito propiziatorio di fertilità.
Vedi Vol. IV - Feste e Leggende - Capitolo Sant'Juanni e Su nenniri.

Neu = Neo. Tra i signori, il neo, fortunosamente situato in certe parti del viso o di parti intime del corpo femminile, è un vezzoso ed eccitante richiamo. Non così per le donne del mondo contadino, e neppure per la Santa e Dotta Inquisizione, per le quali rivestono significati magici. L’Inquisizione riteneva prova di stregoneria la presenza in una femmina sospetta di un neo vicino al sesso - si sosteneva che tale neo fosse insensibile alla puntura di uno spillo e che non sanguinasse. Attualmente abbiamo tracce di un metodo divinatorio fondato sull’esame dei nei di una persona. Secondo tale metodo la posizione del neo è importante per svelare la sorte. Esempio: Neo sulla fronte = ricchezza; vicino al sopracciglio = bontà; sulle labbra = golosità; sulle guance = opulenza; vicino alle orecchie = stima; sul collo = fortuna; sul petto = ancora bontà; sulle spalle = povertà; sulle gambe = ambizione; sul sesso = lussuria.

Oghiadori = Colui che dà il malocchio, iettatore. Si chiama così chi possiede umbra de coloru, fascino di serpente, e quindi, volontariamente o meno, può dare il malocchio, cioè s'ogu liau. Ogni comunità ha i suoi oghiadoris (per lo più maschi) ma possono dare il malocchio anche is oghiadoras e is bruxas, le iettatrici e le fattucchiere. Colui o colei cui viene attribuito tale potere è assai temuto. Ci si difende dal malocchio in via preventiva facendo sì che s'oghiadori “tocchi” la persona, l’animale o la cosa su cui egli “ha posto l’occhio con interesse”. Inoltre con diversi amuleti, ugualmente in via preventiva, per attirare su questi e scaricare (con la stessa funzione del parafulmine) il “fluido magico” inviato da s'oghiadori. Infine, se il malocchio ha ormai colpito e se ne rilevano già i sintomi nefasti, lo si risolve con le apposite terapie, dette mexinas de s'ogu liau, medicine contro il malocchio, diffusamente descritte nel testo.

Oghiadura = Occhiata, per lo più nel senso di occhiataccia. E’ così detta anche l’azione de s'oghiadori, dell’iettatore, la proiezione de s'umbra de coloru (del fascino di serpente, maleficio) mediante lo sguardo di chi possiede il potere di dare il malocchio. Per estensione, oghiadura (che è propriamente “l’atto di dare il malocchio”) assume il significato di malocchio, cioè della malattia che l’atto stesso ha provocato in persona, animale o cosa. Dicesi infatti Su tali hat pigau oghiadura (il tale ha preso il malocchio) oppure S’arresi est toccau de oghiadura (L’animale è colpito dal malocchio).

Oghiau = Participio passato di oghiai. Ammaliato, colpito da malocchio. Da oghiai (letteralmente Occhieggiare) nel senso di liai ogu, dare il malocchio, affatturare mediante lo sguardo, per affascinare o comunque dominare persone, sia per distruggerle che per legarle a sé mediante plagio. Le persone, gli animali e le cose più esposti al malocchio sono quelli più cari e più belli, stimati in senso venale e affettivo, o anche ciò che è più esposto e indifeso alla malvagità o alla semplice gelosia di altri, come i bambini e le fanciulle, i mobili e gli utensili pregiati, le messi rigogliose, i bei frutti, animali nodius, selezionati, da cortile e da lavoro. Persone, animali, piante, cose oghiaus, ammaliati, colpiti dal malocchio, intristiscono, avvizziscono, muoiono per consunzione o si disfanno come rosi da invisibili tarli. Per fermare l’azione nefasta e distruttiva di s'ogu liau, del malocchio, sono necessarie specifiche terapie che s’interrompano e annullino il “fluido magico” de s'oghiadori. Tra queste terapie, le più diffuse s'aqua abrebada e s'affumentu.

Ogu liau = (Letteralmente: "Occhio preso”) = Malocchio. E’ l’effetto della oghiadura, della iettatura. I sintomi de s'ogu liau, del malocchio, sono diversi. Trattandosi di persona vanno dal semplice mal di capo, dalla svogliatezza, alla febbre alta e al delirio, fino al deperimento organico e alla depressione psichica - senza mai assumere, tuttavia, le gravi proporzioni delle fatture. Nell’animale, ovviamente, i sintomi non sono molto chiari: si nota un deperimento organico di breve o di lunga durata che può portare alla morte per inedia. Nelle cose si verifica un deterioramento - o un guasto che rendono inutilizzabili gli oggetti colpiti - una pentola di ferro smalto che d’improvviso perde lo smalto o un attrezzo da lavoro che viene invaso dalla ruggine o che si spezza o si inceppa o un mobile che si tarla o un copriletto che si tarma. Vedi Mexina de s'ogu liau, Oghiadori e Oghiadura.
 
Ogu lucidu = (Letteralmente: Occhio che luccica) = Lucciola. In alcune comunità del Campidano meridionale ogus lucidus, al plurale, sono detti anche i fuochi fatui. Vedi Fogus de Purgadoriu.

Omini de mexina, Uomo di Medicina, e Femina de mexina, Donna di Medicina, sono termini poco frequenti per indicare gli operatori sanitari, alcuni dei quali, i più famosi, vengono detti Omini Santu e Femina Santa (Uomo Santo e Donna Santa), che normalmente vengono chiamati o indicati con il semplice attributo di rispetto dovuto agli anziani di ziu o zia, seguito dal loro nome di battesimo o dal loro soprannome. I titoli vengono attribuiti nel popolo con molta parsimonia: l’eccezionalità di un uomo è valutata non dai titoli ma da ciò che sa fare e che fa. Il migliore titolo onorifico attribuito a un uomo che “sa” e che “fa” è il rispetto che gli si porta.

Omini Santu (Uomo santo) e Femina Santa (Donna Santa) sono sinonimi di Omini e femina de Mexina (Uomo e donna di Medicina), e indicano alcuni guaritori, taumaturghi della comunità, i quali pur non avendo studiato scolasticamente né avendo conseguito alcun titolo accademico in medicina, possiedono tuttavia singolari o anche eccezionali capacità e poteri di guarire i malati, mediante sistemi dai più ritenuti magici. In effetti, il più delle volte, la loro terapia si fonda sulla fede e sulla volontà nella guarigione, nel paziente e nel guaritore; nonché nell’uso corretto e appropriato delle stesse forze naturali (che l’attuale civiltà ha represso o rimosso) e infine sull’uso medicamentoso di piante e minerali.

Orcu = Orco. Creatura mitica, mostruosa, antropomorfica, spesso antropofaga. La sua natura è diabolica. La carne umana di cui egli preferisce cibarsi è quella dei fanciulli.

Ortiri e Ortirisì = Indozzare e Indozzarsi, cioè intristire e intristirsi - per lo più a causa di magie nere. Non a caso il verbo ortiri e l’aggettivo ortizzu vengono comunemente tradotti in italiano con indozzare e indozzato, termini poco usati che (Vedi Dizionario del Battaglia) significano “Cadere in stato di deperimento per consunzione o anche per opera di magia”; e “Colpito da fattura, ammaliato, stregato”.
Ortizzu, indozzato, è detto anche, e specialmente, di frutta e verdura (carote, ravanelli, lattughe, finocchi, sedani e altre) maturati prima del tempo, spugnosi e di sapore sgradevole. I ravanelli lunghi vengono maliziosamente definiti cirdinus et arburosus (eretti e piccanti) o dispregiativamente ortizzus (molli, spugnosi, insipidi), con evidente riferimento al membro maschile. Vedi anche Avvalliri e Allacanau.

Ortizzu o anche Ottizzu = Screato, incompiuto - nel senso di creatura che ha compiuto il proprio ciclo vitale senza essere giunto a completa maturazione. Ortizzu è termine molto usato per indicare verdura e frutta che si presentano immaturi senza essere acerbi. E’ detto anche per animali e persone - e spesso in senso dispregiativo, per chi non ha spina dorsale. Una comune estensione del termine si ha per indicare il pene nei maschi semi-impotenti. Il gelo e la siccità, per i frutti, e la malnutrizione, il rachitismo per animali e umani sono le cause dell’essere ortizzu; ma tale stato di deperimento e di incompiutezza può essere anche, e spesso, determinato da atti di magia nera (fatture) o più semplicemente dal fluido malefico emanato da un oghiadori (iettatore). Vedi i vocaboli precedenti.

Ossus de mortu = Ossa di morto. Fin dai tempi remoti i resti, specie ossei, dei defunti sono oggetto di culto e ritenuto portatori di magiche virtù. Schegge e rondelle di osso cranico, denti e unghie - specie se appartenuti a uomini di grande sapienza, forza o coraggio - trattati con appositi brebus (Vedi) in precisi periodi di tempo (ora della notte, fase lunare, ricorrenza festiva) - diventano potenti amuleti o formidabili talismani. Spesso, tali reliquie hanno anche funzione terapeutica, conservate dentro sacchetti da apporre sul dorso o sul petto o sulla parte malata dell’infermo (Vedi Punga e Scapulariu). La Chiesa cattolica ha fatto largo uso e consumo di resti dei suoi Santi, in funzione magico-terapeutica.

Ossus de mortu = Ossa di morto. Sono chiamati così certi dolci tradizionali de sa festa de is Mortus, della festa dei Morti, ricorrente il 2 novembre. Si ottengono con farina impastata con sapa e insaporiti con cannella. Si dà loro la forma approssimativa di una tibia (hanno poi finito per assumere la forma di un pesce) e si cuocciono al forno ben zuccherati.

Ou = Uovo. L’uovo è il simbolo della vita. Presso antiche religioni orientali, l’Uovo Cosmogonico è l’Universo, depositato da una mitica divinità, da cui hanno origine tutte le cose. Come simbolo di vita, l’uovo rimane in vari modi presente nella festa cristiana della Resurrezione: s'ou de Pasca, l’uovo di Pasqua, che orna il pane tradizionale di quella ricorrenza, su pani coccoi, di pasta di semola di grano duro, per non dire delle più recenti Uova di Pasqua di cioccolato. Nella dietetica popolare, l’uovo - ritenuto non a torto fonte di energia per l’organismo che se ne alimenta - è riservato per lo più a soggetti debilitati da malattie, donne appena sgravate, bimbi gracili, eccetera. Nella medicina popolare l’uovo di gallina appena fatto è utile contro il mal di testa o per far bella vellutata la pelle. A tale scopo viene posato o passato carezzevolmente sulla pelle del viso, tempie o gote. Qualora vi siano dolori muscolari o artritici, viene usato sulle articolazioni o nei punti dolenti. L’albume d’uovo, impastato con la farina, viene applicato sulle articolazioni che hanno subito traumi, e forma intorno a esse una sorta di guscio protettivo che ha effetti simili a quelli della ingessatura.

Pani = Pane. Cibo quotidiano, sacro per la sua rilevanza nella economia del mondo agropastorale, ed esige particolare rispetto e particolari rituali nel suo uso. E’ considerato atto sacrilego posare il pane rovesciato sopra il tavolo; così pure tagliarlo con il coltello quando è fresco - comunque il coltello può usarsi soltanto per affettare quel tipo di pane detto civraxu che si consuma non prima di un giorno o due dalla sua cottura. Il pane fresco va spezzato e diviso con le mani. Un uso sacrilego del pane - come quello di piantarvi un coltello - “fa male” alle spalle di chi lo ha lavorato. Il pane non usato non si può buttar via, anche le briciole vanno religiosamente raccolte dalla mensa e gettate nel fuoco del camino. Salvatore Cambosu ha dedicato alcune pagine del suo saggio Miele amaro (Firenze 1954) a poetiche tradizioni legate al pane.

Pani de is poburus = Pane dei poveri. Quando in casa si faceva il pane settimanale per la famiglia, era consuetudine mettere da parte alcune focacce, da distribuire ai poveri, che una volta alla settimana visitavano quella casa. I mendicanti del circondario, periodicamente visitavano quel paese. Forniti di un sacco o di bertula (bisaccia), facevano il giro suddivisi a scaglioni di due o tre, visitando ciascuno la casa dei loro benefattori, dai quali ricevevano, oltre il pane loro riservato, altre cibarie, vesti smesse e qualche soldo. La questua e la donazione si svolgevano secondo un rituale di domande e di risposte, stando il questuante fuori dalla soglia e la donante all’interno, e si concludeva con frasi augurali come “Atturit cun sa mama” (Resti con la mamma) e di rimando “Andit cun su babbu” (Vada con il babbo) - dove chiaramente per mama e babbu si intendono Madre e Padre celesti, Dio e Madonna.

Pantasima = Fantasma. Immagine ectoplasmatica delle anime dei defunti quando tornano sulla terra per comunicare con i viventi. Vedi Puba e Umbra.

Partoxa (Affumentu de sa) = Puerpera (Suffumigio della). Tra i riti magici, terapeutici-propiziatori, c’è il suffumigio che una “Donna di Medicina” (di solito assolve anche al compito di levadora (Vedi) o ostetrica) pratica alla puerpera, nella stessa camera dove ha partorito, al fine di reintegrarla, ristabilita, nella normalità della vita quotidiana, dopo l’eccezionale e insicuro periodo della gravidanza. Esistono leggende popolari che attribuiscono l’origine del rito alla Madonna, la quale si vuole che si sia sottoposta al suffumigio magico dopo la nascita del figlio Gesù.

Partoxa (Argia) = Tarantola (Puerpera). Dicesi argia partoxa, ossia tarantola puerpera, quella specie di venefico e magico aracnide che con la sua puntura provoca i sintomi della donna appena sgravata. La terapia - simile a quelle usate per i pizzichi delle altre specie di argias, vede qui una pupattola, simulacro del neonato, che viene dato alla tarantolata affinché vi possa riversare l’amore materno, altrimenti frustrato e represso. Vedi Argia.

Patena = Medaglia. Dal latino patena. E’ così detto anche il piattino d’oro o d’argento che ricopre il calice che il sacerdote cattolico usa durante la Messa per il rito della Eucaristia. Termine comunemente riferito in sardo a medaglia di contenuto religioso, raffigurante madonne o santi in una faccia, e nell’altra versetti sacri. E’ un genere di mercificazione del sacro, largamente diffuso tra i bambini del popolo e tra gli indigeni delle aree coloniali. Vi sono patenas enormi, coniate per lo più in metallo vile ma appariscente: similoro o argentone: vere e proprie patacche. Alcune guaritrici di fede cattolica ne recano con loro di enormi, legate l’un l’altra a grappolo con un fiocco verde, e le usano in particolare nelle mexinas contro il malocchio o disturbi infantili della sfera emotiva, specie i mal di capo. Una di queste mexinas specifiche contro il malocchio, è detta Aqua patena (Acqua medaglia), che si ottiene con dell’acqua versata in un bicchiere e resa medicamentosa con i brebus rituali o con una patena miracolosa. Presso alcune comunità, s'aqua patena è anche detta aqua medalla. Vedasi il Dizionario del Porru, alla voce patena: “Patena de Sant'Elena, pezzu o arrogheddu de metallu con littera, o cifras, a su quali sa genti idiota attribuit superstiziosamenti virtudis meravigliosas, talismano”. (Medaglia di Sant’Elena, pezzetto di metallo con lettera, o cifre, a cui la gente idiota attribuisce superstiziosamente virtù prodigiose, talismano.) Ci stupisce nel canonico Porru l’appellativo di idiota dato alla gente del popolo, che dovrebbe estendersi a tutti i membri di Santa Madre Chiesa, che di patenas ha fatto da sempre largo uso.

Pedd' 'e boi (Peddi de boi) = Pelle di bue. Pedd' 'e boi dicesi di persona dura, coriacea ed è epiteto usato come soprannome in diversi paesi del Campidano di Oristano. In antichi riti magici propiziatori, indossare una pelle di bue (così come adattarsi sul capo un bucranio) era un processo di metamorfosi magica, di assunzione di caratteri trascendenti l’umano e l’acquisizione di capacità prodigiose, quali il provocare la pioggia o propiziarsi le divinità sovrintendenti alla caccia. Vedi Corr' 'e boi.

Pentaculu = Pentacolo. Scritto magico. Contiene scritti su pergamena i nomi sacri di Dio e dei Santi e racchiude in sé le forze della natura. Si prepara al chiuso, di mercoledì, durante il primo quarto di luna, di notte, alle tre. In alcuni Pentacoli, i Sacri Nomi sono incisi all’interno di tre cerchi; in altri all’interno del triangolo. Vale da amuleto e da talismano. Vedi Scrittu e Scapulariu.

Perdas pungas = Pietre magiche, amuleti. Dette anche semplicemente pungas o contramazzinas. Diverse pietre dure, più o meno lavorate, di forma rotondeggiante, vengono appese al collo contro il malocchio. Tra le altre pietre si usano l’ossidiana, la corniola, l’onice, l’ametista, eccetera. Di frequente uso anche le cosiddette perdas de flumini, pietre di fiume, di silice madreperlacea levigate dalle acque correnti. Citati impropriamente tra le pietre con valore di amuleto (punga) sono il corallo, l’avorio e l’osso.
Un cenno a sé merita la geniana, particolare pietra magica che avrebbe il potere di nuocere ai propri nemici. Il termine geniana è forse tratto da genio, spirito dell’aria che appare talvolta ai mortali, rendendo loro prodigiosi servigi. Così come il Genio della lampada di Aladino..

Perda sitzia = Pietra focaia. E’ la comune pietra silicea che battuta o sfregata su un pezzo di acciaio (acciarino) sprizza scintille. Più primitivamente venivano usate anche duas perdas sitzias, due pietre silicee, percotendole e sfregandole l’un l’altra ottenendone scintille. E’ un sistema per accendere il fuoco assai diffuso tra contadini e tra i pastori, fino a tempi recentissimi (40-50 anni fa; ma io ho memoria di tale uso in tempi ancora più recenti). L’esca, su cui venivano fatte cadere le scintille, era conservata in un recipiente (di corno o di latta) ben chiuso, e consisteva prevalentemente in certi funghi essicati o anche nel midollo secco della ferula.

Pesti = Peste. Grave e oscura malattia epidermica che colpisce una intera comunità per volere divino, a causa di peccati commessi, sacrilegi o atti contro natura. L’attribuzione della diffusione di morbi oscuri e fatali attribuiti a divinità irate è descritta anche nell’Iliade, e tale credenza si è conservata fino a tempi recenti. Sa pesti spagnola, l’influenza “Spagnola”, che infuriò subito dopo la prima guerra mondiale, provocando in Sardegna migliaia e migliaia di morti (circa 25 milioni in Europa) è l’ultima delle grandi “pesti”, di cui ancora raccontano i sopravvissuti. Quotidianamente - secondo testimonianze raccolte nell’Oristanese - passavano i carri per prelevare nelle case i cadaveri, che venivano sepolti in fosse comuni, ricoperti di calce viva, onde evitare il diffondersi del contagio. La terapia più usata contro quella peste fu - dicono - la vernaccia.

Pibaras e colorus = Vipere e bisce. Animali tipicamente demoniaci. Lucìfero assume le sembianze del serpente per “tentare” Eva. Popolarmente l’inferno viene descritto come su logu aundi 'n ci sunt pibaras e colorus, cioè il luogo dove ci sono vipere e bisce.

Pibisias = Pustoline, sfogo eritematoso. Specie se si manifestano nella testa, is pibisias (le pustoline dell’eritema), sono considerate sintomo di azzicchidu (spavento), e vengono curate con apposite mexinas, tra le quali is affumentus, i suffumigi magici e is aquas abrebadas, le acque terapeutiche.

Picciocca = Fanciulla, ragazza, giovinetta. Grande rispetto è dovuto dai maschi della comunità alle fanciulle, specie se di ceto o di livello economico superiore. I familiari e i parenti più stretti possono nominare o rivolgersi loro con epiteti affettuosi e romantici, quali rosa de beranu, rosa di primavera; lillosa, letteralmente “gigliosa”; filla de coru, figlia del cuore; sa pippia nodia, la bimba privilegiata; e così via, talvolta mettendo in rilievo un aspetto del suo corpo particolarmente grazioso o anche una sua singolare espressione o un vezzo: ogus de gattu, occhi di gatto; filus de seda o de oru, capelli di seta o d’oro.
Nel mondo contadino era assai diffusa la “reclusione delle fanciulle” - una reclusione dorata che aveva fondamentalmente la salvaguardia della verginità, considerata (almeno in linea di principio) una conditio sine qua non per un buon matrimonio. Un proverbio molto diffuso sostiene che la fanciulla timorata è come la scopa: di norma non la si va a cercare e non la si trova in mezzo alla stanza, ma in un cantuccio (arrimada, rimessa per essere conservata). Specialmente le fanciulle dei ceti benestanti, dispensate dal duro lavoro dei campi, trascorrevano i giorni della loro fanciullezza a cucire e a tessere, talvolta in gruppo con altre fanciulle del vicinato, spesso sorvegliate da una donna anziana, anche di grado sociale inferiore, purché pubblicamente lodata come donna di buoni costumi.
Sappiamo che anche presso altri popoli le fanciulle venivano tenute segregate fino al giorno del loro matrimonio.
Al contrario delle fanciulle borghesi o cittadine che amavano abbronzarsi al sole in riva al mare, per essere alla moda e attraenti, al contrario le fanciulle contadine amavano la penombra, per restare con l’incarnato bianco-roseo. La carnagione latte-miele era considerata un attributo di bellezza e di nobiltà. Sa picciocca brundicciola, cresciuta “in ombra”, si dice che sia “più dolce”, un bocconcino più raffinato - come certi cardi campestri lasciati crescere sotto un sasso o sotto un mucchio di paglia, che diventano teneri e dolci.
Anche le fanciulle dei ceti poveri - costrette per vivere ad andare a lavorare in campagna, spigolare, mietere, zappare, raccogliere ulive, legare i tralci delle viti, odiavano l’abbronzatura; esse adottavano una sorta di copricapo ottenuto con un fazzolettone reso rigido da un cartone e tenuto a visiera sul davanti, in modo da proteggere il viso dai raggi del sole e mantenerlo sempre fresco e bianco.
Le fanciulle, e in certa misura le giovani donne maritate, usavano lozioni e beveraggi magici per conservare giovane e fresco il corpo. Di particolare efficacia l’acqua di fontana versata nel lavamano e cosparsa di petali di fiori odorosi e di foglie di erbe aromatiche. Il catino veniva lasciato per tutta la notte in su serenu, all’addiaccio, specie in occasione della festa di Sant'Juanni (l’Evangelista), protettore degli amori e sovrintendente al comparatico tra i giovani (su Sant'Juanni de floris: il comparatico dei fiori). Con questa acqua, al mattino, le fanciulle solevano lavarsi il viso rendendolo così più bello.

Pilus = E’ usato per “peli” e “capelli”. Is pilus de conca = I capelli. Is pilus de is brazzus = I peli delle braccia. In magia, l’uso dei peli o capelli, come di tutto ciò che si “stacca” dal corpo della donna (o dell’uomo) è comunissimo per compiere fatture, incantesimi, pozioni afrodisiache, insomma pratiche di magia bianca o nera, al fine di ammaliare, legare a sé o più brutalmente per assoggettare altri alla propria volontà.
Capelli, sangue, unghie, croste e perfino indumenti intimi che contengono particelle di umori del corpo devono essere accuratamente raccolti e distrutti, affinché non finiscano nelle mani di malintenzionati e non diventino strumenti per diventare vittime di facili fatture.
Is pilus, i capelli, caduti o rimasti nel pettine vengono presi e arrumbullonaus, arrotolati in un dito e appallottolati, quindi gettati nel fuoco del camino. Quando d’estate il camino è spento, is arrumbullonis de pilus, i capelli caduti appallottolati, vengono infilati negli interstizi dei muri del cortiletto interno, che di solito è situato nel retro della casa. Al di là dell’uso magico “negativo” che può essere fatto da altri con i capelli caduti, possono anche venire raccolti dalla rondine e da altri uccelletti che li usano per rivestire il loro nido: in tal caso, viene il mal di testa alla donna che li ha persi. Anche le unghie vengono tagliate e dopo scrupolosamente raccolte e gettate nel fuoco.
Al contrario di quelli femminili, is pilus dei maschi hanno minore importanza in magia: per lo più vengono usati per preparare beveraggi ammalianti, insieme ad altre sostanze, che poi si fanno bere alla fanciulla amata.

Pinnadeddu = Amuleto. Molto diffuso e ritenuto assai potente per difendersi dal malocchio e dalle iettature. Consiste, nella versione popolare, in una rondella di corno di cervo, debitamente trattato (abrebau, reso efficace) da un guaritore. Si tiene come pendaglio al collo trattenuto da un nastrino verde. E’ evidente che su pinnadeddu (pur essendo una rotella) ha più o meno la funzione dei cornetti di varia misura diffusissimi a Napoli (e non solo a Napoli), presenti ovunque ci sia da scongiurare un pericolo: sul corpo dei piccoli e delle giovani donne, sull’auto nuova, sulla porta di casa. Si sa di emeriti statisti che tenevano in tasca “un cornetto” che toccavano palpandolo nei momenti difficili del loro ministero. Almeno per gli italiani, i testicoli, restano comunque su pinnadeddu, il talismano, più potente, e se li toccano spesso per scongiurare una iettatura o dopo uno scampato pericolo per esorcizzare nuovi possibili guai.
Tornando in Sardegna, si hanno anche pinnadeddus antichissimi e di grande valore (famosi gli “scarabei” in pietre dure di fattura punico-egiziana), e di squisita eleganza, ottenuti in filigrana d’oro o d’argento contenente incastonata una pietra dura nota per le sue virtù magico-terapeutiche.

Pippia de maju = Letteralmente: Bimba di maggio. Potente amuleto consistente in un mazzolino di pervinca e/o violette. E' un feticcio simboleggiante una divinità ctonica. La reca in mano durante il corteo cavalleresco di carnevale Sa Sartiglia (Il gioco dell'anello) il capo corsa, detto Su Componidori, il quale con sa pippia de maju benedice la folla. Tale benedizione esorcizza gli spiriti del male invocando su di lei salute e benessere, cui risponde la folla con il grido augurale: "Aterus annus mellus cun saludi" (Altri migliori anni con salute).
Vedi Vol. IV Feste e Leggende - Sa Sartiglia , Il palio dell'anello.

Pippia de zappulu o de carrucciu de figu morisca = Pupattola di stracci o di pala di ficodindia. E' il feticcio più comunemente usato per is fatturas, le fatture. Costituisce il simulacro della persona da affatturare.

Pippius arrustu = Fanciulli bruciati vivi. E' nota la barbarica usanza nei Cartaginesi di offrire in olocausto al dio Moloch fanciulli in tenera età, in particolare i primogeniti. Alcuni Autori vogliono che tale usanza sia stata ripresa dai sardi.
Vedi Pippius interraus bius e Cazzeddu.

Pippius interraus bius = Bimbi sepolti vivi. Autori diversi, tra questi il Manno, affermano di aver sentito dire che (specie nel Nuorese) all'ingresso degli ovili venivano sepolti bambini - e che tale antichissimo uso sia stato sostituito dal seppellimento de unu cazzeddu, di un cucciolo. L'usanza era da considerarsi come rito propiziatorio per difendere l'ovile dalle animas malas (anime cattive) e da ennemigus (demoni e più in generale "nemici").
In relazione a sacrifici religiosi di fanciulli, si veda anche Pippius arrustu.

Pisciu = Orina. Come lo sterco, anche l'orina ha grande rilevanza nella medicina popolare. Non soltanto i giovani maschi di alcune specie animali, ma anche gli umani orinano nei luoghi nei quali si vuole imprimere e imporre, magicamente, il proprio dominio. In alcune attività sessuali, valutate perversioni, entra l'uso dell'orina. Diffusissimo presso i contadini l'uso di orinare sulle ferite per disinfettarle. Tale sostanza è anche presente in numerosi filtri e fatture, nella magia bianca e nera. E' appena il caso di accennare all'uso diagnostico che delle orine fa anche la stessa medicina moderna: uso antichissimo, risalente alla preistoria. Ampolline con orine hanno per alcuni valore di reliquia preziosa - quando siano appartenute a persone importanti o particolarmente amate.

Pitiolus = Sonagli. Si appendono al collo delle pecore, delle capre e non di rado dei buoi con il duplice scopo di tenere lontani dall'animale gli spiriti del male, e per evitare che possa smarrirsi. Vedi Campanas e Sonajolus.

Presentimentu e Presentiri = Presentimento e presentire. Sensazione profonda di qualcosa di ignoto che dovrà accadere o manifestarsi. Nella maggior parte dei casi è una sensazione che precede eventi luttuosi o disgrazie.

Presuttu = Prosciutto. Nella conservazione delle carni del maiale allevato in famiglia è poco usato nel mondo contadino, e al contrario assai usato nel mondo pastorale. Il fatto che su presuttu, il prosciutto, sia prevalentemente un prodotto del mondo pastorale e non di quello contadino ritengo sia dovuto al clima più che ad altri motivi: senza conservanti chimici, con la sola salatura e aromatizzazione, il clima umido e caldo dei Campidani, a differenza del clima secco e rigido dei monti dell'interno, non consentiva una lunga conservazione di una grossa massa di carne, qual'è la coscia del maiale. Si essiccava e si conservava più facilmente la carne ridotta a salsiccia fine, che, tra l'altro, si consumava durante il solo inverno, raramente conservandosi fino a marzo, per mangiarla con le favette fresche. Mangiare salsicce non rancide durante la mietitura era considerato un fatto eccezionale.

Prumunida = Asino mannaro. Mitica creatura demoniaca generata da una metamorfosi dell’umano. Meno raro de su ercu, del cervo mannaro, come questo è apportatore di gravi sciagure ed eventi luttuosi per la comunità. Vedi Chervu.

Puba = Ombra o punto lontano luminescente o figura vaga o indistinta, lontana, di cui non si riesce a comprendere la natura . Esiste anche il verbo appubai, cioè "distinguere appena a stento alcunché". Biu una luxixedda chi appena si podit appubai = Vedo un lumicino che l'occhio può scorgere appena (Porru). In Campidanese, sa puba indica per lo più una figura lontana e indistinta, propria dell'apparizione soprannaturale, ed è sinonimo di umbra (ombra), apparenza corporea di uno spirito, e di pantasima (fantasma).
Nota: Il vocabolo puba, usatissimo nella lingua parlata, specie nei Campidani, non viene riportato nei Dizionari sardi che ho consultato, dove per altro, è possibile trovare appubai, verbo intravedere.

Puddu = Gallo. Maschile di pudda, gallina. Su puddu, detto anche caboni se è adulto e se è giovane caboniscu. Da alcuni è considerato animale demoniaco, in quanto può ritrovarsi a guardia di scusorgius, tesori fatati. Secondo altri è un animale sacro, che con il suo canto mattutino allontana insieme alle tenebre i demoni e le forze del male. Vedi Scusorgiu. Vedi anche Puddu (Missa de) = Gallo (Messa del), come è detta la Messa di Mezzanotte.

Puddu (Missa de) = Gallo (Messa del). Sa Missa de Puddu = Messa di Mezzanotte, Messa di Natale. Nel mondo contadino il Natale ricopriva grande importanza celebrando l'inizio dell'inverno - l'apparente morte delle creature vegetanti - cui erano legate numerose cerimonie funebri e propiziatorie, talune legate al culto di Adone, come sa cumpangia de is ballus, la compagnia dei balli, che dava luogo al singolare comparatico tra giovani detto su Sant'Juanni de floris, il San Giovanni, o comparatico dei fiori. Sa compagnia de is ballus si costituiva dopo sa missa de puddu, la messa di mezzanotte, per sciogliersi il primo giorno della Quaresima. La notte di Natale, a mezzanotte avevano luogo numerosi riti magici, sortilegi e incantesimi, preparazione di filtri e talismani, in funzione della vita sentimentale e dei rapporti di coppia.

Pungas = Talismani. Il Wagner traduce erroneamente punga con "amuleto", mentre è in pratica un talismano. Consiste in un sacchetto (il termine punga indica appunto una piccola borsa ) al cui interno sta una sacra immagine o scritti magici, la cui funzione è quella di "portare bene", e anche di preservare dal maligno e dagli influssi negativi. Sono da considerarsi pungas cioè talismani, certi simboli sessuali maschili e femminili, come is buttonis, i bottoni di filigrana d'oro e d'argento usati nel colletto e nei polsini della camicia dell'abito della festa, come sa manufica, la manina nel classico gesto del pollice infilato tra l'indice e il medio, e infine s'itifallu, la rappresentazione in materia preziosa del membro virile in erezione, portato come pendente di collana o bracciale.

Puntas = Coliche. Is puntas possono colpire sia l'uomo che i suoi animali, in casa o in campagna, spesso in relazione al cibo che si è mangiato, talvolta come conseguenza di oghiadura, sguardo di un iettatore, o anche di fattura, e possono essere pericolose oltre che dolorose. Le terapie più frequentemente usate per le coliche sono il suffumigio magico, sa ponidura de is manus (l'imposizione delle mani), is brebus (le parole terapeutiche), secondo rituali che devono essere svolti da un guaritore. Nel Guspinese si è osservata una singolare terapia nelle coliche dei cavalli, consistente nella imposizione del piede sinistro di un gemello nella pancia dolente dell'animale.

Puntori = Male oscuro, che può assumere estrema gravità con brevissimo decorso. Nella parlata popolare è frequente l'invettiva an chi ti pighit su puntori! (Che ti venga un accidente!), diretta per lo più a governanti e rappresentanti dello stato, quali giudici, sbirri e esattori delle tasse. Essiri appuntorau (essere accidentato) significa, nell'uso comune, avere l'influenza, con sintomi debilitanti.
Su puntori in forma grave, fulminante, è ritenuto opera di fattura è difficilmente curabile. Nelle forme benigne si usano le mexinas tradizionali tipo is aquas e is affumentus.

Purgadoriu = Purgatorio. Luogo mitico dove si crede che i morti espiino i loro peccati, in tempi più o meno lunghi, soffrendo e pregando, fino alla purificazione totale che li porterà al Paradiso, altro luogo mitico, celestiale dimora dei buoni e dei purificati.
Is animas de su Purgadoriu, le anime del Purgatorio, sono solite tornare sulla terra, mostrandosi ai viventi, per chiedere loro preghiere in suffragio. Talvolta appaiono anche nei sogni svelando ai dormienti i segreti del futuro.

Putzu = Pozzo. Di profondità diversa, secondo la posizione della falda freatica che lo alimenta, su putzu è tradizionalmente costruito a forma tronco-conica, con sassi di basalto, secondo una struttura che è simile a quella dei Nuraghi. Anticamente in ogni villaggio agricolo ve n'era uno pubblico, a cui attingeva tutta la comunità. Ma anche nei cortili di casa dei contadini più agiati, solitamente, in posizione centrale, si trovava un pozzo, cui attingevano i vicini che non ne possedevano uno proprio - l'uso delle fonti, perfino quelle in suolo privato, come quello domestico, era libero, seppure, per delicatezza il vicino di casa che se ne serviva, non mancava di dare una voce alla padrona di casa per avvertirla. Vedi Funtana e Mizza.

Raju = Raggio e folgore. Se è di luce (raggio) è segno della benevolenza della divinità; se è di fuoco (folgore) su raju è segno della collera della stessa divinità. E' parola frequentemente usata nelle invettive. Raju ti bruxit! = Fulmine ti incenerisca. E anche con lo stesso significato, abbreviando: Raju! Un grosso complimento a una fanciulla è la frase "Bella che raju de soli" (Bella come un raggio di sole).

Ramingu = Ramingo, errante. E' condizione propria di certi spiriti dannati, che non trovano requie né pace e vagano eternamente. Le anime degli Ebrei, i quali si macchiarono del più infame dei delitti, il deicidio, sono condannate ad andare raminghi sulla terra, eternamente. Ebreu ramingu = Ebreo errante.

Ramini = Rame. Su ramini, il rame, indica anche l'insieme degli utensili della cucina fatti di rame. Il rame è metallo usato per la fabbricazione di antichi oggetti ritenuti magici, come gli anelli, le collane e le lampade. Di rame (ma anche di coccio) sono fatte le pentole che contengono su scussorgiu, il tesoro fatato, custodito da spiriti, demoni e anime dannate.

Rana pabeddosa = (Letteralmente "Rana ulcerosa"), rospo. Animale demoniaco, ritenuto velenoso anche da persone che passano per colte. Il Porru, nel suo Dizionario, definisce il rospo "Rana de siccu velenosa" (Rana velenosa dei luoghi aridi). Pabeddosa, che produce pabedda, cioè ulcera.

Rapignai = Rapinare, prendere con violenza. E' azione propria dello stato, inteso come combutta di lestofanti che taglieggia i sudati prodotti dell'umano lavoro.

Ramadinu = Raffreddore, bronchite, catarro. Malattia diffusa, nelle aree umide dei Campidani che viene curata dalla medicina popolare con s'affumentu (suffumigio magico), quando non abbiano fatto effetto le pozioni di vino o di latte bollenti e zuccherati o di erbe contenenti sostanze emollienti ed espettoranti, di cui esistono numerose ricette: viole mammole, fiordaliso, radice di liquirizia, malva... o anche brodo ristretto di lumache, nonché miele.

Remediu = Rimedio. E' la medicina specifica per un determinato male. Dogni maladia tenit su remediu suu = Ogni malattia ha il proprio rimedio. Soltanto ai mali provocati dal sistema di potere non è facile trovare su remediu, il rimedio.

Rennegau = Rinnegato e arrabbiato (da rennegu, rabbia, stizza, inquietudine, e nel senso di traditore, dall'italiano rinnegare). E' attributo proprio de su tiaulu, del diavolo, che ha rinnegato Dio e ha l'aspetto perennemente stizzito.

Resai = Pregare. Resu = Preghiera. Resu e Resai, forse da recitare, sottinteso "preghiere".

Rituali = Rituale. Proprio del compiersi di un rito. Forma mediante cui si compie una cerimonia. Nella medicina popolare - ma a ben considerare anche nella medicina moderna - il rituale ha una importanza terapeutica non meno della sostanza. Le tecniche, i modi e i tempi con cui si effettua una terapia condizionano l'efficacia della stessa sostanza terapeutica. L'abbigliamento, l'incedere ieratico, la gestualità sacramentale, le parole paternalistiche rassicuranti del guaritore, per esempio, sono aspetti formali di un rituale necessario a creare un clima favorevole, a dare fiducia al malato e a produrre nel farmaco una maggiore efficacia.

Sabi o Sali = Sale. Materia fondamentale per la vita, presente in numerose pratiche magiche , terapeutiche e di scongiuro. Su sabi dà sapore e intelligenza. Essiri sabiu, essere salato è sinonimo di essere intelligente; al contrario essiri bambu, essere insipido, significa essere stupido. Il sale è un potente amuleto per tenere lontani demoni del male. Sparso dietro di sé sopra la spalla ha effetto esorcizzante in situazioni di pericolo (pronunciando i debiti scongiuri). Sparso sulla terra la rende sterile. Sparso sulla tavola dove si mangia porta disgrazia. Simboleggia la sapienza, e in tal senso, con l'acqua (purificazione), con l'olio (carismatico), con is brebus (esorcismo) e con la saliva (umore vitale dell'anima) è usato dal sacerdote nel rito cattolico del Battesimo.

Sabia o Salia = Saliva. Materia di grande importanza in molte pratiche religiose e terapeutiche. Ancora oggi nell'uomo moderno, residuano numerosi atti spontanei, dove si fa uso terapeutico della saliva, in parti ferite o dolenti del proprio corpo; così pure residuano modi di dire in cui la saliva ha funzione scaramantica o di esorcismo, come "sputare in faccia a qualcuno" (la saliva è sostanza magica ambivalente: nel valore scaramantico esprime disprezzo per ciò che è male; nel valore terapeutico è un potente farmaco) o anche metter saliva nella gola a qualcuno per fargli passare uno spavento (allo stesso modo si guarisce il singhiozzo).
Vedi Spudu.

Saina o Aena o Ena = Avena. Graminacea usata per divinare. Si prende una spiga ancora fresca di avena strappandone tutti insieme i chicchi rivestiti dalla pula e li si lancia come tante frecce sulle spalle di un giovane o di una giovane. Tanti chicchi resteranno appesi con le reste all'abito e tanti saranno i figli che gli o le nasceranno.

Saludi = Salute. Stato di benessere dell'organismo, in assenza di malattie e in equilibrio psicofisico. La medicina popolare, sia facendo ricorso alla magia che all'empirismo, si propone di mantenere o di ripristinare lo stato di salute e l'armonia tra il fisico e lo psichico. E' tradizionale augurio, in solenni circostanze, come la nascita e il matrimonio, la frase "Saludi e trigu", Salute e grano. Augurio che si fa anche burlescamente a chi scoreggia, con l'aggiunta e tappus de ortigu…( e tappi di sughero…).

Sanguni = Sangue. Dopo l'acqua (Santa o Abrebada o tutte e due insieme), su sanguni, il sangue, è la sostanza fluida maggiormente usata in magia, specie quella nera. Si conoscono numerosissime fatture, nella maggior parte per far innamorare di sé uomo o donna (entrando in lui o in lei), composte da una goccia di sangue e di altre sostanze diluite in bevanda o cibo. Si è avuta esperienza diretta perfino di cioccolatini trattati con il proprio sangue da un innamorato respinto, il quale riteneva che facendoli mangiare alla fanciulla restia l'avrebbero alfine "ammaliata".
Il sangue viene anche assunto in altrettante numerose mexinas - che possiamo definire magia bianca - allo scopo di ridare energia e vitalità a organismi stanchi e anemici. La spiegazione logica, e se vogliano scientifica, del fenomeno è assai semplice, essendo il sangue elemento energetico e vitale nell'organismo umano e animale. Anche oggi, presso popoli delle cosiddette "aree industrializzate", ritenuti i "più progrediti culturalmente" è diffusissima l'opinione che i sanguinacci abbiano particolare valore ricostituente. Per i tedeschi, il Blutwurst ha appunto tale valore. Così la classica bistecca al sangue, per i convalescenti.

Santa (Aqua) = Santa (Acqua). Detta anche acqua lustrale. Tale aggettivo deriva dal latino lustrum, sacrificio di purificazione che i censori offrivano al popolo ogni cinque anni. Era detta lustrale l'acqua con cui in quelle cerimonie si aspergeva la vittima sacrificale.
Nella liturgia cattolica, l'acqua santa o lustrale è l'elemento sacramentale di più comune uso, facendosene largo consumo. Come è noto, in tutti i riti magici e religiosi l'acqua rappresenta la purificazione. Gli Ebrei la mescolavano alla cenere residua dei sacrifici e la usavano con valore lustrale e terapeutico. Il Cattolicesimo distingue due tipi di acqua sacramentale. Una, usata per il Battesimo, che si prepara alla vigilia della Pasqua e della Pentecoste, con l'aggiunta dell'olio detto dei Catecumeni e del crisma. Un'altra, che viene preparata normalmente dal sacerdote con l'aggiunta di sale, materia che simboleggia l'incorruttibilità ed è ritenuta demono-repulsiva. Il rito mediante cui l'acqua di fonte diventa "santa" consta di due momenti: l'esorcismo sul sale e sull'acqua per purificarli; la benedizione degli stessi affinché assumano virtù terapeutiche, diano cioè la salute all'anima e al corpo. Gli usi dell'acqua santa sono molteplici, anzi innumerevoli: scaccia i demoni; guarisce le malattie; purifica tutto ciò che è immondo; libera da ogni male. La Chiesa fa larghissimo uso di acqua santa aspergendo con apposito strumento rituale (aspersorio) persone animali piante abitazioni macchine e tutto quanto.
Tutti i guaritori che usano l'acqua come sostanza terapeutica ne hanno di due tipi: quella "santa" che prelevano furtivamente in chiesa dall'acquasantiera con una boccetta, che versano in una damigiana normale, "santificandola" tutta quanta; quella "abrebada", resa terapeutica da loro stessi mediante un rituale magico simile a quello usato dal sacerdote per santificare la prima acqua.

Santa Maria de is Aquas = Santa Maria delle Acque. Località a Sud di Oristano in comune di Sàrdara, in zona collinosa, dove sorgono stabilimenti di acque termali in cui si effettuano cure settembrine per purificare l'organismo. Già Terme Neapolitanae durante la dominazione romana , attualmente dedicate alla Madonna, divinità delle acque.

Scapulariu = Scapolare. Dal latino scapula, scapola. In origine, striscia di stoffa a tracolla, ricadente sul petto e sulle scapole, portata da taluni religiosi di ordini diversi. Più avanti ha indicato, e indica, una o due tasche di panno da tenersi a bisaccia, a contatto di pelle, contenenti immagini o scritti o reliquie sante o benedette, cui si attribuiscono valori magici, sia nel preservare dal male (malattia, disgrazia, sfortuna), sia per guarire, quando si sia colpiti da malattia, disgrazia, sfortuna. Is iscapularius sono ancora oggi molto diffusi in tutto il mondo cattolico, e non è difficile vederne nei più moderni ospedali, portati da malati, i quali li usano in associazione ai farmaci della moderna medicina scientifica. VediScrittu.

Scongiuradori = Esorcista, colui il quale, mediante scongiuri, allontana i demoni del male restituendo la salute. Vedi Esorcista.

Scongiuru = Scongiuro: Is brebus po scongiurai est a nai costringiri su spiritu malignu a lassai libera una criadura. Su scongiuru ovvero is brebus sono le parole magiche o rituali usate in cerimonie magico terapeutiche per esorcizzare i demoni, per cacciarli dal seminato o dal gregge, per liberare gli ossessi o per guarire malattie.

Scrittu = Scritto. E' detto su scrittu (lo scritto) un potente strumento magico, con la duplice funzione di amuleto e di talismano, sostituito da una pergamena (o tessuto o più attualmente da un pezzo di carta) su cui sono scritti numeri, o versetti, o disegni, o preghiere, o scongiuri, o cabale, richiamanti le potenze divine o infernali. Su scrittu si poneva dentro una taschina di pelle appesa al collo. Il Nicèforo, nel suo saggio sulla criminalità in Sardegna, parla di un sacerdote famoso per i suoi scrittus che vendeva ai latitanti, assicurando loro che tali amuleti avrebbero fermato le palle dei carabinieri. Vedi Scapulariu.

Scusorgiu = Tesoro, per lo più inteso in senso mitico. Nella novellistica popolare ricorrono numerosi scusorgius, tesori fatati, pentole piene di marenghi d'oro, di provenienza magica (ma talvolta si dice siano appartenuti a ricchi avari i quali dopo morti sono dannati a fare la guardia al loro tesoro). Tutti i tesori sono custoditi da demoni o da creature fatate, la cui vigilanza può essere annullata con l'astuzia e con arti magiche. Si racconta di taluno che con tali arti e sotterfugi è riuscito a impadronirsi di uno scusorgiu, arricchendosi. Ma il più delle volte, l'acquisto di tali tesori fatati, non porta bene, anche quando la pentola dei marenghi d'oro non si tramuti magicamente in una pentola di carbone e cenere.

Siddu = Intreccio di foglie di palma, una sorta di trecciolina che insieme ad altri manufatti di palma si porta in chiesa dentro una larga corbula la Domenica delle Palme per la benedizione solenne. Diventa così un amuleto dai molti usi: può essere usato come bracciale, appeso alla testiera del letto, bruciato con altra materia sacra o benedetta nei suffumigi magico-terapeutici.

Soga de su biddiu = Cordone ombelicale. Questa parte del corpo che rappresenta il legame esistenziale tra figlio e madre è densa di significati magici. Affinché questa appendice eviti di finire in mani estranee per essere utilizzata contro la serena unione tra madre e figlio, che si augura si conservi per tutta la vita, viene distrutta insieme alla placenta, sotterrandola o bruciandola al fuoco del camino. Preso taluni, specie la parte che seccandosi si stacca dall'ombelico del neonato, sa soga de su biddiu, il cordone ombelicale, viene conservato mummificata come reliquia, e avrebbe la funzione magica di perpetuare l'originario profondo legame tra madre e figlio, anche quando questo è ormai adulto.
Si dice pippiu nasciu assogau, il bambino che nasce asfittico, con il cordone ombelicale attorno al collo. Il fatto è considerato cattivo presagio, per quanto concerne i rapporti dell'individuo con la genitrice.

Sonajolu = Sonaglio. Usato come amuleto e strumento demono-repulsivo. Su sonajolu, sonaglio, specie se legato al polso mediante un nastrino verde, protegge il piccolo dal malocchio e tiene lontani da lui i demoni del male.

Sperrumau o Spentumau = Perso del tutto; annichilito da uno shock. E' termine sardo-campidanese, di più frequente uso nell' Oristanese. Nel poemetto Sa giorronnada 'e Conchiattu (La giornata di Testadigatto), l'ignoto Autore fa dire a Dio, in un saporoso dialogo con il protagonista: "Conchiattu poburittu / de tott' i' fillu' mius / tui ses su pru' pittiu. / ispentummau muschittu." (Testadigatto poveretto / di tutti i figli miei / tu sei il più umile… / smarrito moscerino.)

Sperrumu o Spentumu = Precipizio, abisso luogo di desolazione e di morte. In sardo: logu sperdiu, luogo sperduto, inferno. Nella medicina popolare indica lo stato di prostrazione profonda in cui precipita colui che ha subito uno shock psichico.

Spiridada = Veggente. Colei che possiede l'arte del divinare mediante gli spiriti che la invasano. Sa spiridada ha anche poteri terapeutici, potendo vedere le cause di un male e di conseguenza indicare quale possa essere il rimedio più appropriato. Di spiridadas se ne ricordano alcune di grande popolarità, quali sa spiridada de Masuddas (la veggente di Masullas) che operava nel secondo dopoguerra, nella regione contadina della Marmilla.

Spiridadu e Spiridada = Spiritato e spiritata. Invasato-a da spiriti. Genericamente persona dal comportamento strano, particolarmente irrequieto, eccitato. Più propriamente indica, al femminile, la veggente: donna che associa a virtù divinatorie capacità di guaritrice.
Si fa una differenza sostanziale tra indimoniau e spiridadu, tra indemoniato e spiritato. Su dimoniu è sempre emanazione di su tiaulu, del diavolo, del Principe delle Tenebre; mentre su spiritu, lo spirito, può anche essere santu, emanazione della Divinità, del Bene. Pertanto, su spiridau, o meglio ancora sa spiridada, è posseduto dagli spiriti buoni, che soccorrono i mortali in caso di necessità. Vedi Spiridada e Indimoniau.

Spiritu = Spirito. Termine usato prevalentemente nel significato di animo, coraggio - come la virilità, attributo proprio del maschio. Tenit spiritu, tiene coraggio; est un homini de spiritu, è un uomo di coraggio. Tuttavia non mi pare che nella cultura sarda sia stata elaborata una affermazione del primato dello spirito sulla materia (e correlativamente, del maschio sulla femmina), come accade in altre culture che finiscono appunto per identificare spirito con maschio e materia con femmina, giungendo a posizioni romantiche-crepuscolari e successivamente naziste per cui la "materia" oltre che identificarsi con la femmina si identifica con l' "omo", con l' "ebreo", col nero o con altri gruppi umani definiti inferiori dal pregiudizio razziale.

Spreu = Grave choc. Azzicchidu mannu, grosso spavento. Spriau = colui che ha avuto un forte spavento; scioccato. Per guarire da su spreu sono in uso diverse mexinas, tra queste is aquas, la lettura dei Vangeus (Vangeli), s'affumentu (il suffumigio magico), s'imbrusciadura, (una sorta di rituale avvoltolarsi sulla terra) e altre.

Sprigu = Specchio. Così come gli specchi d'acqua, per la loro capacità di riflettere le immagini, su sprigu, lo specchio, è considerato uno strumento magico. Ve ne sono alcuni che, usati da stregoni, assumono virtù divinatorie, facendo apparire immagini di persone e di fatti lontani nello spazio e nel tempo. Lo specchio ricorre in molte operazioni di magia. Rompere uno specchio, come versare il sale, porta male. Una diffusa credenza popolare vuole che dietro gli specchi si nascondano dei diavoli - in specie quelli della vanità e della lussuria. Tant'è che si raccomanda alle fanciulle di evitare di trattenersi troppo a lungo nello specchiarsi: Non descit a is piccioccas a s'abarrai sprighendisì ca ddu est su dimoniu (Non è lecito alle fanciulle starsene a specchiarsi perché vi è il demonio).

Spudu = Sputo. Lo sputo, su spudu, è materia che ricorre assai frequentemente nelle pratiche terapeutiche della medicina popolare. Diverse e importanti sono le virtù dello sputo, terapeutiche e magiche, talismaniche, di scongiuro. Lo sputo guarisce le piccole ferite, lenisce il gonfiore di una pestatura; ferma il malocchio. Il gesto dello sputare per terra, davanti a sé è un atto magico, scaramantico, oltre che di disprezzo o di sfida verso il nemico umano o demoniaco, con effetto esorcizzante. Si sputa quando si nomina un essere demoniaco. Molte guaritrici, nella terapia mediante l'imposizione della mano, usano sputare sulla parte malata. Talora si ha l'imposizione delle labbra, umettate con saliva. Gesù opera diverse guarigioni con il contatto delle dita umettate di saliva. Singolare la consuetudine di certi adulti che, mandando un figlio a fare una commissione urgente, sputano per terra esclamando: Marranu chi non ses torrau candu custu spudu est siccau! (Guai a te se non sei di ritorno quando questo sputo s'è seccato!). Vedi Sabia o Salia.

Sterrimentu = (Dal latino sternere, adagiarsi sulla terra), l'atto di stendersi per terra. Sterrimentu è vocabolo che ha un preciso significato magico, quella della incubatio magico-terapeutico. Il rito di su sterrimentu (incubatio sacra) viene effettuata individualmente o collettivamente in luogo sacro (all'interno di templi, o nell'ambito dei loro recinti, o in abitazioni o celle monacali appartenute a santi uomini, o anche in luoghi dove sono apparse miracolose immagini di santi o madonne). Frequentemente su sterrimentu, l'incubatio veniva e viene praticato nelle cumbessias (ricoveri che sorgono attorno alle chiese campestri per ospitarvi i pellegrini devoti al santo festeggiato). Questo rito si ritiene sia risolutivo per numerose e anche gravi malattie; e sono tanti i malati, ai quali la scienza medica non sa trovare un rimedio, che si recano in luoghi santi dove praticano su sterrimentu (l'incubatio) sperando nella guarigione. La Chiesa cattolica ha conservato e diffuso questa antichissima credenza (legata al principio che la fede più la devozione a un santo venerato con offerte di beni anche materiali possono operare miracoli), traendone ingenti guadagni. Su sterrimentu ricorda un altro rito terapeutico popolare, s'imbrusciadura, l'atto dell'avvoltolarsi per terra da parte di chi ha subito un trauma psichico onde scaricarlo sulla terra. Vedi Cumbessia e Imbrusciadura.

Stria = Strige. In lingua sarda non ha il significato di strega, termine italiano che come quello sardo stria deriva dal latino strix. Stria o Strige indica sempre e soltanto il mitico uccello descritto alla omonima voce. Vedi il paragrafo Is bruxias, Le streghe.

Stria = Strige, barbagianni è dunque termine di derivazione greco-latina (strix-strigos e strix-strigis), e indica, in pratica, nel barbagianni, un mitico uccello notturno cui, di volta in volta, si attribuiscono i poteri demoniaci del vampiro o dell'ammaliamento o degli annunci funesti, di morte o di calamità.
Sa stria, in particolare, provoca nei mortali un grave stato di anemia (con i sintomi dell'itterizia) che senza le debite terapie può in breve tempo condurre alla morte.
L'ammaliamento, la malattia provocata dalla stria è detta striadura, e striau, colui il quale ha subito il malefico influsso della stria. Diverse e complesse sono is mexinas contra sa stria, le terapie contro la strige, sia preventive che specificatamente curative.

Striadura = Sostantivo femminile che indica l'ammaliamento, la malattia provocata dalla stria, strige.
Striai è l'atto di provocare sa striadura. Striau è colui che è malato di striadura.
Nota: I termini stria e striau relativi al mitico demoniaco uccello non vanno confusi con stria e striau che hanno rispettivamente il significato di striscia, scanalatura, rigatura proprio dell'italiano stria, derivato dal latino stria, col significato appunto di rigato, scanalato, striato.

Strichibiddatzu = Termine ambivalente: entità astratta, tipo folletto dispettoso, ovvero il pisello dei bambini.

Strossa = Temporale, tempesta. Segno dell'ira divina che si scatena sugli umani a causa del loro peccato. Una notte di tempesta è segno infausto per chi nasce e per chi muore. Teniri strossa, avere tempesta, è più che una invettiva una maledizione. L'invettiva è: An chi tengas strossa!

Succubu o Suggettu = Succube. Chi viene posseduto da altri, umano o demone, mediante la forza della volontà. Si crede anche che i succubi siano demoni che assumono sembianze di desiderabili fanciulle che appaiono in sogno ai maschi, per farsi da questi possedere. Bisogna star dunque attenti, quando in sogno ci appare una vezzosa fanciulla dalle tette di marmo e dal grembo rugiadoso, a non buttarci famelici; meglio controllare prima con la croce, con il sale, con l'aglio e con altri amuleti o repulsivi anti-demoni.
Vedi Ammuntadori, che è un demone "attivo", l'incubo, che assume sembianze virili per possedere fanciulle e vedovelle vogliose.

Sulergiu e Suergiu = Quercia da sughero. Il termine Sulergiu e Suergiu indica anche il sughero, detto anche ottigu e ortigu specie se indica la sostanza di un manufatto. Esempio: Tappu de ortigu.

Taumaturgu = Taumaturgo. Chi per virtù divina o demoniaca opera miracolose guarigioni. Il taumaturgo è un grande guaritore, che oggi viene detto "luminare della medicina". Il taumaturgo per antonomasia è Dio. Vedi Gesus.

Telepatia = Telepatia. Comunicazione a distanza tra gli umani mediante il pensiero. Si vuole che in momenti altamente drammatici, quando sia in pericolo di morte, l'uomo riesca a comunicare con il pensiero immagini della propria situazione, avvertendone parenti o altre persone care.

Tiaulu e Tiau = Dimoniu = Diavolo. "Su tiaulu chi t'hat fattu!" Satanassu - Barrabas - Barrabassu - Luziferru - Coitedda - Su Nemigu o Su Ennemigu - "Sciri aundi dormit su tiaulu" sapere dove il diavolo ha la coda; essere astuto. "Intiaulau e fattu" molto adirato; indiavolato. Intiaulau = ossesso, spiritato (vedi Spiridau).
Per diavolo si usa anche buginu (Vedi) e bugineddu = diavoletto, detto di ragazzino vivace.

Tiaulu è termine meno generico di dimoniu, demonio, poiché su tiaulu, il diavolo, è propriamente il Signore del Male, il Re dell'Inferno. Tuttavia si usa anche per indicare genericamente una delle tante entità demoniache della gerarchia infernale.
Ses unu tiaulu, sei un diavolo, detto a persona, di ambedue i sessi, prende il significato di malizioso-a, tentatore-rice, e anche assai abile nel fare qualcosa di difficile e complesso. Vedi Dimoniu.

Titia e Attitia = Freddo, gelo. Con uguale significato i termini logudoresi tittiria e tittilia e anche tittia. Vengono usati come esclamativi, singolarmente o nel contesto di frasi, quali: Titia, ita frius! = Brr… che freddo - in campidanese. E Tittia, cant'appo frittu! = Brr… che freddo che ho! in Logudorese. Attitirigai e Attetterigare = intirizzire, gelare, assiderare. Attitirigau = intirizzito gelato. Si usa per persona o animale. Seu totu attitirigau = Son tutto gelato. Notesta in cotilla su cazzeddu guriat ca fiat totu attitirigau de su frius = Stanotte nel cortile il cucciolo guaiva perché era tutto intirizzito dal freddo. Titifrius = brivido di freddo.

Tophet = Termine di origine fenicia che indica il forno sacrificale. Con lo stesso termine si indica anche il luogo dove sorgevano i templi in cui si praticavano sacrifici umani. Tali sacrifici erano legati al culto del fuoco, i templi consacrati al dio Moloch (Baal Hammon) e alla dea Tanit, la dea Madre o Mediterranea. In Sardegna, come in tutta l'area fenicia, si sono ritrovati tophet, luoghi dove erano situati i forni sacrificali e dove si inumavano i resti delle vittime umane, per lo più fanciulli.

Trebini = Treppiede; ma non anche i sinonimi del termine italiano tripode o trespolo destinati ad altro uso. Su trebini, il treppiede, è precisamente un attrezzo di ferro circolare o triangolare, con tre piedi, sopra cui si appoggia la pentola e sotto cui si accende il fuoco. Ve ne sono di diversa circonferenza e altezza, secondo la capienza della pentola e in proporzione la quantità del fuoco che deve riscaldarla. Ovviamente is trebinis, i treppiedi non mancano mai nel focolare domestico. Con su trebini, il treppiede, possono farsi potenti scongiuri, per proteggere la casa da animas malas, dimonius, (anime dannate, demoni) e, con particolare efficacia, da sa stria (la strige). Lo scongiuro rituale consiste nel tenere rovesciati con le tre punte in alto is trebinis nel focolare. Le donne di casa, per altro, compiono tale operazione ogni notte, quando si copre di cenere il fuoco residuo, prima di andare a letto.

Treixi = Tredici. Numero che per alcuni porta fortuna, per altri porta male. E' diffusa la credenza che se si siede in tredici a banchettare intorno allo stesso tavolo, il più giovane dei partecipanti morrà entro l'anno. Con valore positivo, il numero tredici viene portato come ciondolo-amuleto, contro il malocchio, con uguale potere del cornetto.

Tres = Tre. Numero cabalistico per eccellenza. E' considerato il numero perfetto. Il Dio dei cattolici è Uno e Trino. Brahma, Shiva e Visnù compongono la Trimurti o Trinità indiana. La Tesi, l'Antitesi e la Sintesi è la triade cabalistica su cui si regge la Dialettica hegeliana. Molte dottrine religiose, politiche, etiche sono fondate sulla potenza magica del Tre.

Triangulu = Triangolo. Simbulu de sa Trinidadi, simbolo della Trinità. Si associa al numero tre, con il quale in magia ha pari valore protettivo e talismanico.

Trigu = Grano. E' la base dell'alimentazione del contadino e in gran parte anche di quella del pastore. Il grano è spesso utilizzato come materia di diversi riti magici propiziatori e terapeutici. E' presente in tutte le cerimonie nuziali come propiziatore di benessere, e nei riti terapeutici quali s'aqua licornia (in alcune varianti con grani di sale) e s'aqua abrebada (Vedi) che si compiono per guarire spaventi o contro s'ogu liau, il malocchio. Vedi Nenniri.

Turrau e Turrada = si potrebbe tradurre con "suonato", che ha perso "lo ben dello intelletto" per i begli occhi di qualcuno (o qualcuna). Insomma, più che folle, rimbambito per amore - naturalmente - si pensa - per effetto di qualche potente magia. Anche l'innamoramento, dunque, se si manifesta con sintomi, e comportamenti, che vanno un po' al di là della norma e del lecito, diventa un fenomeno che sfugge alla volontà dell'individuo per diventare prodotto demoniaco, opera di forze occulte contro le quali nessuna umana forza può battersi, se non la "forza" di uno stregone-guaritore, esperto in esorcismi e in "contro-fatture". Le cronache di tutti i tempi sono piene di casi di fanciulle ammaliate, che dovettero soggiacere alla diabolica volontà di forze libidinose, rimettendoci la verginità e restando per soprammercato incinte. Frequenti anche i casi, seppure certamente in numero minore, di uomini anche di una certa età, giudicati per altro saggi e controllati, che si sono turraus (testuale: torrefatti) o come si dice anche maccus perdius (matti del tutto) a causa di una sottana sotto cui si nascondeva - irresistibile attrattiva - un grembo maliardo.

Tuva = Cava, vuota. Dicesi Tuvu o Tuvudu un vegetale internamente spugnoso (ravanello) o anche marcio o cavo (vecchio tronco d'albero). Sa tuva è propriamente una vecchia quercia più o meno cava che costituisce il centro del cumulo di legname cui si appicca il fuoco per la festa di Sant'Antonio abate (detto anche del Fuoco o l'Eremita). Il falò rituale detto sa tuva è proprio del mondo pastorale sardo, mentre nel mondo contadino lo stesso falò, senza la "sacra" quercia, è detto su fogadoni. (Vedi).

Ubiquidadi = Ubiquità. Facoltà sovrumana di sdoppiamento, che si attribuisce a uomini di straordinarie capacità medianiche e ad alcuni santi cattolici. E' una facoltà che si manifesta più spesso nei morti, i quali pur essendo in fase espiatoria nel Purgatorio possono contemporaneamente, ma per brevi momenti, apparire a persone viventi, materializzandosi sulla terra, per importanti comunicazioni.

Umbra = Fascino, fluido malefico. Si dice umbra de coloru il fascino del serpente, ossia la capacità che si esercita (volontariamente o involontariamente) da parte di alcuni esseri viventi, per lo più cogus, bruxus, ominis de mexina (maghi, indovini, uomini di medicina) di affascinare, affatturare.
Sono particolarmente predisposti e vulnerabili nel pigai umbra (restare ammaliati) bambini e fanciulle, animali da cortile o da lavoro o da produzione di razza pregiata. E' buona norma, presso le comunità contadine, quando si riceve in casa una persona che si ritiene possieda umbra de coloru (fascino di serpente), fargli toccare con mano tutto ciò che si teme possa cadere, anche involontariamente, sotto la sua influenza negativa.
Si citano numerosi casi di bambini e di fanciulle ammalatisi o anche di morie di animali da cortile dopo la visita di taluno in possesso di umbra, se non si è avuta l'accortezza di chiedere al visitatore di imporre la sua mano se ha guardato con soverchio interesse. Giova, per sanare il malfatto, richiamare il visitatore affinché adempia al rito liberatore.
Per controbattere gli effetti deleteri dell'umbra de coloru, quando l'atto sia stato compiuto deliberatamente, si ricorre tempestivamente a riti terapeutici specifici, simili a quelli contro s'ogu liau, il malocchio, e cioè s'aqua licornia (o patena o abrebada) o s'affumentu o anche is brebus in cresia (la lettura in chiesa dei Vangeli).
Vedi: ogu liau, liai ogu, ligamentu, affatturai, forza - (Rispettivamente: malocchio, ammaliare, legamento, affatturare, fluido magico).

Umbra = Letteralmente: ombra. Indica, con il sinonimo pantasima (fantasma)l'immagine di una realtà sensibile (qualcosa di simile all'ectoplasma), umana o animale, vivente o che ha già vissuto.
S'umbra o pantasima viene talvolta soltanto intravista e si dice allora puba, una immagine indefinita e indefinibile ma sempre e certamente appartenente ad anime del defunto o a demonio.
Rare volte è dato all'uomo vivente di vedere l'immagine reale di un essere defunto, più facilmente la presenza di s'umbra (l'ombra) è percepita extrasensorialmente, più che vista, in specie da alcuni animali, come i cani e i cavalli, che in sua presenza assumono strani comportamenti e posizioni, come quello di mettersi a gambe all'aria avvoltolandosi per terra sulla schiena. Si dice che in occasione di solenni processioni, per esempio per il Corpus Domini, le anime dei morti accompagnino la comunità, e che tali fantasmi possano essere visti soltanto da un fanciullo o mediante speciali accorgimenti.

Umbras = Ombre. Umbra al plurale, le ombre, come per i latini, indica genericamente le ombre dei defunti, di tutti coloro che si trovano nell'Aldilà, nel regno dell'oltretomba, buoni o cattivi che siano stati in vita.

Vangeus = Vangeli. Is Vangeus ovvero la lettura dei Vangeli è un rito terapeutico popolare molto diffuso. Lo pratica normalmente in chiesa il sacerdote leggendo appropriati versetti del Vangelo nella terapia di diversi disturbi, lo spavento, il malocchio, inappetenza, per lo più lievi disturbi della sfera emotiva influenzabili mediante suggestione, e in quei casi in cui sorga il dubbio che la malattia sia imputabile a influssi di forze maligne. Pur non essendo ritenuti efficaci quanto is Vangeus letti in chiesa da un sacerdote, vengono talvolta usati da guaritori che possiedono il libricino dei Vangeli e sono in grado di leggere.
Is Vangeus, i Vangeli, nella medicina popolare hanno la stessa funzione dei brebus (parole sacre o magiche). Vedi Brebus.

Vainilla e Vanilla = Vaniglia. E' la comune essenza aromatica estratta dai fiori della Vanilla Planifolia, usata per aromatizzare zucchero, caffè, cioccolata, ecc. Anche in Sardegna, come in Europa, la pianta della vaniglia è stata introdotta dagli spagnoli. Prende anche il nome dallo spagnolo vaina, guaina, più propriamente vagina, di cui il diminutivo (vainilla = piccola vagina). Si chiamerebbe così per la somiglianza dei suoi fiori con la vagina della donna. Sa vanilla, la vaniglia, è considerata una pianta afrodisiaca, e talune sue parti vengono usate nella medicina popolare in diversi beveraggi per riattivare l'attività sessuale maschile.

Vida (Santa) = Vitalia (Santa). Santa taumaturga celebrata a Serrenti. La voce popolare le attribuisce miracolose guarigioni, testimoniate dagli innumerevoli ex voto che ornano i muri del santuario dedicato alla Santa.

Viuda= Vedova. Nel costume del passato, la vedova specie se ancora giovane e appetibile doveva sottostare a numerose imposizioni della morale comunitaria che ne limitavano di molto la libertà di vita, sia nei rapporti sociali che nell'abbigliamento. La vedova era tutelata, oltre che controllata, dai fratelli e dai parenti del defunto.
Nella novellistica popolare sa viudedda, la vedovella, ricorre di frequente come personaggio di situazioni boccaccesche: arde di fuochi repressi ed è perennemente insidiata dai giovani maschi della comunità per quel suo forzato digiuno.
Nel Nuorese, sa viuda è protagonista nella terapia del morso de s'arza, della tarantola.
Nel Campidanese, sa viudedda è il nome che si dà a una composizione musicale, dal ritmo assai vivace, che viene suonata dai virtuosi di launeddas o di chitarra.

Viuda (Argia) = Vedova (Tarantola). Dicesi argia viuda una specie di tarantola che, secondo la tradizione contadina campidanese, con il suo morso comunica stati d'animo, sofferenze propri della vedova. La terapia viene di conseguenza correlata alla tipicità del fenomeno patologico provocato da "quella" tarantola. Tra l'altro, per l'occasione, viene suonata con is launeddas una ballata particolarmente ritmata, detta sa viudedda, la vedovella. (Vedi)

Viudedda = Vedovella. Indica una composizione musicale assai ritmata, eseguita di prammatica in su ballu de s'argia quando la tarantolata o il tarantolato veniva pizzicato da un'argia viuda (tarantola vedova).

Zaccarredda = Crepitacolo. Dal verbo zaccarrai, crepitare, scoppiare, far rumore. Sono dette zaccarreddas i rumorosi congegni che vengono messi in moto il Venerdì della Settimana Santa, alla morte di Gesù, quando vi è il divieto di suonar le campane. Vi sono diversi tipi di zaccarreddas, crepitacoli, in uso per tale solennità: is tauleddas (o tabeddas) consistono in due o più tavolette di legno di cui una manicata, tenute legate larghe l'un l'altra con una correggia - agitandole, le tavolette battono l'una contro l'altra. Is tauleddas sono dette anche matraccas. Il più singolare di questi crepitacoli è quello detto strocciarranas (letteralmente: imitarane) che è costituito da una canna che ruota intorno a un rocchetto dentato che funge da asse. Un congegno del genere era in uso fino a pochi anni fa anche in Ungheria, durante la Settimana Santa.

Zerpiu = Non esiste termine corrispettivo in italiano. Può significare insetto schifoso, mostricciatolo, e anche persona rachitica o malformata o repellente. Forse deriva da zerpi, contrazione di zerpenti, serpente.

Zonca = Gufo. Nei dizionari, e anche nell'uso comune dei termini, si fa confusione tra zonca (gufo), cuccumeu (civetta) e stria (barbagianni). Qualcuno traduce zonca con assiolo. La credenza popolare mette tutti gli uccelli notturni, quindi anche sa zonca (il gufo), nella categoria dei demoni, nunzi se non portatori di infausti eventi. La visione di tali demoni volanti o l'udire i loro acuti e sgradevoli stridii, richiamano i mortali ad atti scaramantici - talvolta è lo stesso uccello abbattuto e inchiodato per le ali alla porta di casa (le spoglie del demone) che ha la funzione di proteggere dai malefici influssi dei demoni notturni.
Nel linguaggio corrente zonca riferito a ragazza o donna indica un attributo di dabbenaggine. Ses una zonca! (Sei un gufo! - ma nel sardo è femminile) si dice appunto a donna più che sciocca senza malizia. Detta anche fatta e lassada, cioè "fatta e lasciata lì".
Vedi Cuccumeu e Stria.


INDICE


Introduzione. Il tempo della malafede

Capitolo primo. MEDICINA E MAGIA
Medicina e magia
Gli strumenti della medicina
La paura e la fede
Corpo sano in mente sana
Dei e santi taumaturghi
S'aqua abrebada
I nuovi stregoni
Gli amuleti
Gli operatori della medicina popolare

Capitolo secondo. IS OMINIS DE MEXINA
Riti terapeutici
Su contravelenu
Su pinnadeddu
S'oghiadori
Il guaritore
Il tumulto
S'affumentu
S'affumentu - Variante
S'aqua licornia -Variante
Is brebeis oghiadas
Sa spiridada
Testimonianza I
Testimonianza II
Testimonianza III
Is fatturas
Testimonianza IV
S'affumentau / Il suffumicato

Capitolo terzo. ALL'INTERNO DEL BENE E DEL MALE
Su bentu de (soli) levanti / Il levante
La polmonite
Sa crastadura / La castrazione
Su trigu / Il grano
Su presuttu / Il prosciutto
Su mestruu/ Il ciclo mestruale
Pani e durcis / Pane e dolci
Su casu / Il formaggio
S'oghiadura
Puntas e azzicchidus / Coliche e spaventi
Sa mexina de is pillonis / La medicina contro gli uccelli
Contra s'aquila e su margiani / Contro l'aquila e la volpe
Sa mexina de su fustigu o de is bremis / La medicina del fuscello o dei vermi

Capitolo quarto. S'ARGIA, IL MITICO RAGNO
S'argia, il mitico ragno socializzatore
a) Su ballu 'e s'arza del nuorese
b)Su ballu de s'arza nell'oristanese
S'argia crabarissa
S'argia viuda
S'argia partoxa
S'argia bagadia
S'argia martura

Capitolo quinto. S'IMBRUSCIADURA
S'imbrusciadura un singolare rito terapeutico
Un rito di facile uso
I sintomi de s'azzicchidu
I bambini e il rito
Varianti del rito
a) S'imbrusciadura semplice
b)S'imbrusciadura cun aqua abrebada
c) S'imbrusciadura fatta in casa
d) S'imbrusciadura in camposanto
e) S'imbrusciadura collettiva
Diffusione del rito

Capitolo sesto. CHIESA E STREGONERIA / Guaritori con l'imprimatur
1 - Vendesi posto in paradiso
2 - Quando c'è la vocazione
3 - Impotenza e bicarbonato
4 - L'esorcista
5 - Le nuove chiese
Il fenomeno autorizzato

Capitolo settimo. SA TUVA / La quercia cava
La quercia sacra
La giustizia all'ombra della quercia
Il culto del fuoco
Sa tuva / La quercia cava
Su fogadoni / Il falò

Capitolo ottavo. TIAULUS E DIMONIUS
Tiaulus e dimonius / Diavoli e demoni
Su tiaulu / Il diavolo
Is tiaulus / I diavoli
Sa jana / Diana o nana?
Sa fada / La fata
Mamas e Marias / Mamme e Marie
Su carru de nannai / Il carro del nonno
Zius gopais e gomais / Zii compari e comari
Survile / Vampiressa
Su boe muliache / Il bue mugghiante
Is panas / Le partorienti
Giorgia / La fata radiosa
Sa Giobiana / La fata del giovedì
S'ammuntadori / L' incubo
Su ercu / Il cervo mannaro
Sa prummunida / L'asino mannaro
Is nanus / I nani
S'orcu / L'orco
Is gigantis / I giganti
Is cuaddus birdis / I cavalli verdi
Su scutoni e sa cananea / Il drago e il serpente
Animas e spiritus / Anime e spiriti
Is animas de is pippius non battiaus
Is animas de su purgadoriu
Is animas malas
Is sizzimurreddus / I pipistrelli
Animas bonas
Indimoniaus e spiridaus / Indemoniati e spiritati
Il diavolo ieri e oggi

Capitolo nono. RITI MAGICO-RELIGIOSI
Su accappiai e su sciolliri / Il legare e lo sciogliere
1 - Su bendi s'anima a su tiaulu
2 - Usai aqua santa o cosas de cresia santas o benedittas po fai bruxerias
3 - Mexinas e fatturas, brebus e scrittus po accappiai mascu o femina, po sanai s'impotenzia e
po impringiai sa femina
4 - Mexinas contra dogna mali e ennemigu (pinnadeddus, brebus, scrittus, resus ,ingestus e
frastimus)
5 - Elencazione superstizioni
6 - Funtanas e putzus, mitzas e fluminis
7 - Is mexinas de sa morti
8 - Magia: l'arte di dominare la natura
Is brebus po cosa perdia / La magia per ritrovare oggetti smarriti
Is fatturas / Le fatture
Su scrittu / Lo scritto
Su spudu / Lo sputo
Is ossus de mortu / Le ossa dei morti
Is concas a bagnu po fai proiri / Le teste a bagno per invocare la pioggia
Is pippius interraus bius / I bimbi sepolti vivi
Is pippius arrustu / I bimbi arrosto
Contramazzinas, pungas e itifallus / Amuleti e talismani
Is ingestus / I gesti
Su fai is ficas / Il far le fiche
Is corrus de boi / Il bucranio
Is cumbessias e su sterrimentu / I ricoveri sacri e lo sternere terapeutico o incubatio
Costumanze varie nell'Angius (Culto del fuoco)
Culto del bosco
Veglia sacra
Grotte sacre
Corpus Domini
Culto di San Giovanni
Culto delle anime decollate
Usanza dell'eutanasia

Capitolo decimo. DALLA STRIGE ALLA STREGA
Sa stria / La strige
Sa striadura / Il morbo della strige
Mexinas de sa stria / Terapie della strige
Sa gruxi de sa stria / La croce della strige
La strige del premio Nobel
Is sinnus de sa morti / I segni della morte
Is bruxas / Le streghe

Appendice
Glossario

Indice

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