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CAPITOLO DECIMO

SA MERI DE DOMU
LA PADRONA DI CASA

Presentazione

Uno spazio a sé, nelle attività proprie dell’economia contadina, merita quella di sa meri de domu, che meglio e più appropriatamente non riesco a tradurre se non con “la padrona di casa”. L’attuale termine casalinga non rende affatto la figura della donna di un tempo, della madre di famiglia, sulla quale gravava l’onere, la responsabilità e la fatica di organizzare la casa, di educare i figli e di amministrare saggiamente il patrimonio familiare, cospicuo o misero che fosse.


IS FAINAS DE SA MERI DE DOMU
LE ATTIVITÀ DELLA PADRONA DI CASA

Tanti e tanti erano i compiti e le mansioni de sa meri de domu che a elencarli e a descriverli tutti occorrerebbe un volume a sé. Una valutazione che voglio esprimere qui, subito, chiaro e tondo, è che le donne d’oggi, sono si libere da una così grande responsabilità, da una siffatta mole di lavoro, da un così gran numero di impegni, ma non possiedono certo tanta autorità e dignità sociale e morale, e anche l’acquisizione di capacità di realizzare e di realizzarsi. Oggi, mi pare, la donna tende a realizzarsi (il termine da usare sarebbe “gratificarsi”) nel consumismo - acquistando ciò che il mercato del superfluo offre con l’adescamento più abietto.

Sa meri de domu sapeva già da bambina che sarebbe diventata sposa e madre. Era il suo sogno, la sua vocazione, la sua ambizione. Il matrimonio, non tanto come sacramento, ma come unione di coppia, era una cosa seria; e la dedizione, la fedeltà e l’amore allo sposo erano valori che davano uno scopo alla sua vita.
Così l’amore per i figli, i sacrifici per farli nascere, per allevarli ed educarli per farli crescere buoni e sani e con buoni e sani principi.
Una parte del tempo de sa meri de domu è dedicato al marito, sia in casa che al lavoro, in campagna, e ai suoi figli, siano ancora pochi o siano già tanti. Per lo sposo ella si fa bella, piacente e amante, per dargli gioia e piacere. Dopo la fatica del giorno, prima del riposo della notte, c’è un momento di intimità, di parole dolci, di piacere per entrambi gli sposi.
Per i figli ella si affatica instancabile tutto il giorno e spesso restando sveglia la notte, per dar loro cibo e vestiti e badare ogni momento a ciò che fanno, e per curarli quando stanno male.
Ella tiene in ordine la casa e la roba, stira e cuce. Cucina la cena e gli prepara su pappai, il mangiare, che porterà in campagna per il pasto di mezzogiorno. Ella si leva di buon’ora, prima che il suo uomo esca, all’alba, per andare a lavorare. E mentre egli appalat su giù, dà la paglia al giogo di buoi, lei mette la caffettiera sul fuoco per fargli bere qualcosa di caldo e gli prepara la bisaccia con il pane e su ingaungiu, il companatico (di solito formaggio o salsiccia) con la zucca del vinello.
Subito dopo s’orbescida, l’alba, appena comincia a far luce, sveglia i figli più grandicelli affinché le diano una mano nel lavoro domestico. Essi devono aiutare nell’accudire i più piccoli e collaborare nel compito di mundai sa cortilla, spazzare il cortile.
Quindi prepara il pasto per gli animali, la crusca impastata con l’acqua, quando non c’è il siero, l’orzo e le granaglie di scarto.
Un tempo, gli animali che si allevavano in casa erano tanti. Principalmente galline e conigli, ma anche anatre, oche e tacchini - per non dire del maiale che aveva bisogno di maggiori cure e di un’alimentazione particolare. Gli animali da lavoro, di solito un giogo di buoi e un cavallo, durante il giorno non erano sotto la loro tettoia ma nei campi ad arare.
Dietro la casa di abitazione vi era l’orticello, un fazzoletto di terra largo una quindicina di metri e profondo sette od otto. Di solito vi crescevano un fico e un limone, e vi erano coltivati le verdure e i condimenti utili alla alimentazione familiare. Tra le verdure: le bietole, la cicoria, i cavoli, le lattughe; e tra i condimenti: l’aglio, la cipolla, il prezzemolo, il basilico, nonché l’origano, il timo e il rosmarino. La cura di questo orticello era affidata alle donne. Tutt’al più il padrone di casa preparava su pranteri, il semenzaio.
Nell’economia autarchica della famiglia contadina circolavano pochissimi quattrini. Pertanto era da evitare l’uso di prodotti che si acquistavano in bottega. Tuttavia vi erano oggetti della utensileria da cucina, pentole, stoviglie e altro, e così pure il vestiario, che non potevano essere fatti del tutto in casa e quindi si era costretti ad acquistarli in negozio, pagando con i soldi. Se non c’erano soldi, si pagava con prodotti di scambio, come il grano o le uova o la frutta. I prodotti acquistati dovevano durare possibilmente tutta la vita.
Si comprende così la cura che sa meri de domu riservava alla biancheria e al vestiario. Un paio di calzoncini di uno dei ragazzini e un vestitino di una delle bambine che si fossero strappati accidentalmente o che si fossero bucati perché divenuti lisi a furia di usarli, venivano rammendati e rattoppati più volte, anche con un panno di diverso colore, se non ce n’era di uguale. E quando diventavano stretti, passavano al fratellino o alla sorellina più piccoli. Devo dire - ricordando i miei scolari - che un abitino così aggiustato appariva gaio come il costume di un Arlecchino.
In particolare nelle ore morte del pomeriggio e in ogni altro momento di pausa, sa meri de domu si dedicava al cucito, sedendo nell’angolo più illuminato della cucina.
Tra le attività ricorrenti c’era quella detta de iscudi, di spolverare. Veniva detta sa Cida de Iscudi, la Settimana Santa, letteralmente “la settimana dello spolverare”. La definizione trae origine dal lavoro di “scuotimento” (l’azione dello spolverare) che la massaia fa in casa nel periodo che precede sa Pasca Manna, la Pasqua di Resurrezione, in occasione delle grandi pulizie dopo l’inverno - lavoro di pulizia molto particolareggiato specialmente nella cucina, dove ai quattro muri sono appesi gli utensili più disparati, dalle pentole agli spiedi, dalle corbe ai crivelli e la polvere più facilmente si annida.
Turrai e molliri cixiri e orgiu po fai su gaffei, tostare e macinare ceci e orzo per fare il caffè, erano attività quotidiane de sa meri de domu.
Cixiri e orgiu beni purgaus, ben ripuliti dalle impurità, venivano messi separatamente in su turradori, nel tostatore, per essere brustoliti. Su turradori consisteva in un cilindro di lamierino cui era fissato un lungo manico, con uno sportellino per mettervi dentro i semi da tostare.
Prugai e molliri sa fa po su giù, pulire e macinare le fave per il giogo dei buoi, era un altro dei tanti compiti spettanti alla padrona di casa e alle figlie grandette. Non dimentichiamo che su meri de domu, il padrone di casa, durante il giorno lavorava in campagna, lontano dal paese, e spesso portava con sé i maschietti più grandi, in grado di reggere la zappa.
In ogni cortile di casa contadina, appesa al muro sotto la tettoia, stava sa caxitta po molliri sa fà, l’attrezzo per macinare le fave, che le frantumava senza polverizzarle, facilitandone la masticazione agli animali, specie ai buoi che hanno una dentatura particolare.
Le fave spezzettate venivano di solito mischiate alla paglia costituendo una alimentazione nutriente e corroborante.
Il compito di girare la ruota del volano di questa sorta di macina era riservato ai bimbi di ambedue i sessi, che ben volentieri e a gara vi si applicavano. Ma era pur sempre la mamma che sovrintendeva e vegliava affinché il lavoro non degenerasse in un gioco che poteva compromettere il prezioso alimento per gli animali da lavoro.
Era un fatto abbastanza comune per il contadino, anche nei Campidani, possedere un piccolo gregge, anche di una decina di pecore soltanto. Quando non poteva accudirle da sé, e questo era il caso più frequente, le affidava in custodia a un parente o a un amico che svolgessero l’attività di pastore, e costui gliele accudiva mettendole insieme alle altre pecore del gregge.
Tale pur piccola proprietà significava un grosso risparmio: avere l’agnellino da arrostire per Paschiscedda, per Natale, e una morbida pelliccia da usare come scaldino sotto il lenzuolo o come scendiletto; avere il latte per i bambini durante l’inverno e il latte da ricavarci qualche formella di cacio e di ricotta, per il companatico e per fare i tradizionali agnolotti; e infine avere la lana, che lavata e carminata, veniva filata e tessuta nel telaio di casa, e quella di scarto usata per riempire cuscini e guanciali.
Sa meri de domu era esperta in ognuna di queste attività - tale bagaglio di conoscenze e di pratica e di abilità rientrava nel ruolo proprio della donna che diventava sposa e madre. Sapeva anche quagliare il latte, tenendo il paiuolo nel focolare alla giusta temperatura, per ottenere il formaggio e la ricotta, nonostante fossero queste attività proprie dell’uomo, e pastore, per giunta.
Nella mia vita di insegnante, nei molti anni che ho vissuto nei paesi della Trexenta, della Marmilla e dell’Oristanese, ho visto spesso le donne di casa, le giovani sotto la guida delle anziane, far questo lavoro con grande maestria. Mi sovviene ora l’immagine di una giovane sposa del villaggio di Siris, tra Mogoro e Morgongiori, alla fine degli Anni Quaranta, madre di due splendidi bimbi, che sapeva fare benissimo il formaggio e la ricotta, aiutata dall’anziana suocera. E io che insegnavo ai fanciulli del loro paese la presunzione di una cultura straniera, cui loro tenevano tanto per diventare “migliori”, io imparavo da loro, umili paesani, il mestiere della vita, che coincide con l’amore per la vita, amore di sé e del prossimo.
Ma le attività più squisitamente donnesche erano su fai sa cunserva, de tomatiga o de frutta, e su fai sa saba de su mustu - fare le conserve di pomodoro o di frutta e far la sapa con il mosto.
Sa pilarda de frutta o marmellata di frutta si faceva prevalentemente con pere, susine e più abbondantemente con il frutto zuccherino del ficodindia - ottima marmellata, quest’ultima, sia da spalmare sul pane brustolito, sia da usare come dolcificante. Altra pilarda, nel senso di conserva di frutta secca, assai diffusa nei Campidani, era quella di susine e di albicocche, che si avevano in abbondanza all’inizio dell’estate, piccole ma dolcissime, che si vendevano a litrus e a imbudus misure di capacità di uno e di tre litri.
Sa pilarda de tomatigas, la conserva di pomodoro, consiste in una sorta di concentrato di pomodoro assai compatto, ridotto in forma di pani, salato e di molto condimento. Si otteneva facendo bollire e raffinare i pomodori ben maturi, precedentemente colati per eliminare bucce e semi.
Inoltre, erano detti pilarda anche i pomodori secchi, ugualmente usatissimi per condire e colorare i minestroni di ceci, di lenticchie e di fagioli e i bolliti di carne o di pesce. Sa pilarda de tamatigas, i pomodori secchi, si ottengono a fine estate dividendo longitudinalmente in due metà i pomodori scelti, carnosi, salandoli e mettendoli quindi su tavole a seccare al sole sopra i tetti dei loggiati.
Come i pomodori, stesso procedimento per fare sa figu siccada, i fichi secchi, bianchi o neri o perdingianus, brogiotti, de segunda, della seconda stagione, che maturano in agosto e settembre.
Ovviamente, con i fichi il sale non ha nulla a che vedere. Se mai c’entra lo zucchero. Infatti, sa meri de domu, quando i fichi sunt siccaus ma no assicorraus, sono secchi ma non aridi e duri, vengono raccolti e dopo essere staus inforraus, messi al forno, affinché non mettano vermi, vengono conservati con semi e rametti di finocchio per aromatizzarli nei canestri di asfodelo, e qui, alla fine, spolverati di zucchero a velo. Una operazione, quest’ultima, possibile soltanto nelle famiglie contadine piuttosto agiate.
Nei paesi di montagna si faceva anche sa pilarda de pira, le pere secche. Le pere sono un frutto che abbonda in quelle contrade, dove spesso gli alberi costeggiano strade e viottoli, e possono essere colti da chiunque.
Su fai sa saba, l’operazione del fare la sapa, era ugualmente compito de sa meri de domu, che si fa aiutare, come sempre, dalle figlie più grandicelle e se sono intraprendenti, e non hanno la puzza al naso “maschilista”, anche dai maschietti.
Sa saba, la sapa, si fa bollire e ridurre a fuoco lento durante la notte, dopo la pigiatura dell’uva per la vinificazione, che ha visto impegnato su meri de domu, il padrone di casa, e i figli maschi della famiglia. Si conservano alcuni decalitri di mosto, tanti in rapporto alla sapa che si vuole ottenere. Il mosto si versa in su paiolu o cardaxu stangiau, nel paiuolo o calderone di rame stagnato, e si fa bollire nel camino a fuoco lento, rimestando continuamente con un mestolone affinché il contenuto condensandosi non si attacchi al fondo e non si aggrumi. Si aggiunge lentamente il mosto, lasciando infine che il tutto si riduca fino a raggiungere la densità voluta - normalmente è fluida abbastanza da poterla versare in barattoli e bottiglie.
Durante tutto l’inverno sa saba viene usata per dolcificare (come il miele) al posto dello zucchero, che è un prodotto che “si acquista” in bottega e per ciò da evitare. Si dolcificano il caffè e il latte e con la sapa si confeziona il tipico pani de saba, pane di sapa, e anche su pane durche, il pane dolce, d’uso tradizionale nella Festa de sos mortos, il 2 novembre, specialmente a Orune.
“Is festas sunt pestas”, è un detto diffusissimo tra is meris de domu. “Le feste sono pesti”. Cioè a dire, è la donna che deve sgobbare come una schiava perché la famiglia possa degnamente festeggiare le fauste ricorrenze che periodicamente cadono durante l’anno. In primo luogo la festività del Santo Patrono del paese che ha uguale se non maggiore importanza e solennità del Natale, della Pasqua, del Carnevale, del Giorno dei Morti. Compleanni e onomastici dei componenti la famiglia non vengono celebrati: sono celebrazioni da signori. Per i piccoli, si celebrava la caduta del dentino di latte, in cambio del quale su topi, “il topolino”, portava una monetina, che il bimbo trovava al posto del dente da lui stesso nascosto, sotto lo sguardo sornione del babbo, in una fenditura del muro del cortile.
Dunque, oltre l’impegno di dover cucinare per le feste pietanze più elaborate, sa meri de domu aveva l’onere di preparare i tradizionali dolci, di cui darò appresso qualche cenno.
A Paschixedda, a Natale, per la nascita di Gesù si elaborano prevalentemente dolci con la frutta secca, specialmente mandorle, comuni nei Campidani, e noci e nocciole, comuni nelle Barbagie montuose. Nel nord dell’Isola erano di prammatica le sebadas, una sorta di grosso agnolotto di pasta farcita di formaggio fresco, fritto e spalmato di miele che, attualmente diffusissimo, viene servito nei pranzi in ristorante dopo la frutta. Dolce comune è su gattò, che non ha nulla da vedere con il “gatteau” francese, fatto con mandorle o nocciole turradas, tostate, impastate a caldo nello zucchero caramellato, a cui si danno forme diverse, oltre la classica tavoletta. E chi è davvero brava fa pure is turronis, il torrone, confezionato ugualmente con mandorle o nocciole, ma impastate con il miele. E poi i fichi secchi mandorlati, che si accompagnano al vinello dolce frizzante fatto in casa, che non ha nulla da invidiare all’attuale spumante fatto “a macchina”, non si sa con che cosa, di certo non con succo d’uva.
Dopo Paschixedda, alla fine dell’inverno, arriva Carrasciali, Carnevale - festa in cui gli uomini mettono sa bisera, la maschera, per potersi togliere semel in anno la maschera di tutti i giorni. E per l’occasione, anche da noi, ogni scherzo vale. .Est sa festa de totus in pari, è la festa collettiva, che si fa impazzendo per le strade. Ma in casa le donne preparano i dolci d’uso, in primo luogo is zippulas, la frittura tipica di pasta aromatizzata e lievitata, lavorata nella conca di terracotta.
Is meris de domu chi pèccant in su fai is zippulas, le padrone di casa che non sono brave a preparare le fritture, chiedono aiuto alla vicina di casa più esperta; e ricambiano magari aiutando la stessa vicina a friggere is culirgionis de bentu, is faulas, le meraviglie o chiacchiere, ritagli di pasta sfoglia grassa e dolce che nello strutto bollente si gonfiano cuocendo croccanti. E nel fare is culirgionis durcis, i ravioli dolci, qualcuno viene riempito di pasta di mandorla, ottenendo così is culirgionis de mazza de mendula, i ravioli ripieni di pasta di mandorle.
E arriva Pasca Manna, la Pasqua di Resurrezione. Sa meri de domu, stavolta, deve risistemare tutta la casa. Fare l’intonaco nuovo, dare una mano di calce ai muri, rifare i pavimenti di terra battuta, che ancora negli Anni Quaranta erano i più comuni nei paesi agricoli di quasi tutta la Sardegna, specie meridionale. Può sembrare strano, ma questo compito gravoso era riservato alle donne, che erano vere maestre nel rattoppare intonachi, tinteggiare pareti e dare uno strato nuovo di terra argilla, mischiata a paglia o a sterco di bue, al pavimento battuto, facendolo piano e liscio.
A Pasca Manna si fait su pani coccoi, si fa il pane di semola con le uova. Si ottiene lavorando la semola, ciuerta, gramolata a mano in sa mesa de fai pani, nell’apposito tavolo.
Is coccois de Pasca, i pani pasquali, hanno dimensioni e forme diverse, e sono lasciati alla bravura e alla fantasia delle panatteras de domu, panettiere di casa, che tagliano e decorano la pasta in punta di forbici e di arresoiedda, coltellino a serramanico, che la brava padrona di casa tiene sempre con sé nella tasca de sa gunnedda, della gonna. Forme più comuni de su pani coccoi sono le coroncine e le gallinelle. Ogni pane, secondo la grandezza, porta un uovo o due o anche tre conficcati sul dorso prima della cottura. C’è anche chi colora le uova - solitamente di gallina, ma anche de anadi o de coca, d’anatra o d’oca, ma con tinte naturali commestibili, perché pane e uova vengono consumate dai fanciulli che ne ricevono uno a testa, durante il giorno della festa.
Quando su pani coccoi è particolarmente elaborato e decorativo, tanto più se è stato ricevuto in dono, viene conservato nel salotto, esposto sopra il tavolo e resta lì come ornamento, così che tutti i visitatori possano ammirarlo. La padrona di casa ne racconterà allora la storia agli ospiti, tessendo le lodi della brava panettera che l’ha creato. Forse era una di quelle donne, per altro rimaste anonime, che facevano parlare di sé nei giornali del Continente, per aver offerto a sua maestà la regina d’Italia un canestro di tali elaboratissimi panis de Pasca.
A Pasca Manna in casa del contadino non può mancare una piscedda de casu friscu, una forma di cacio fresco. Una parte si usa grattugiarlo o tagliarlo a pezzetti per metterlo nel brodo bollente, che per tradizione apre il pranzo pasquale. Ma la maggior parte di questo formaggio viene utilizzata per fare is pardulas, le formaggelle - dolci che in altre occasioni, anche frequentemente, si fanno di ricotta, perché costano meno e sono ugualmente saporiti.
Per fare is pardulas, le formaggelle, il formaggio viene grattugiato e impastato con un po’ di farina, buccia d’arancia, tuorlo d’uovo, zafferano, zucchero e aromi diversi. Quindi si prepara una sfoglia di pasta di semola ben lavorata senza lievito né condimenti e con sa resetta, la taglierina a rotella, si ottengono tanti cerchi entro cui si pone un cucchiaio circa di impasto. Fatto ciò gli orli del cerchio di pasta vengono presi con l’indice e il pollice e saldati a pizzichi tutt’intorno, in modo da formare una scodellina alta un dito con gli orli smerlati. Di più squisita fattura le vecchie pardulas che si facevano con strisce di pasta ugualmente riempite dell’impasto descritto, che formavano delle U o coroncine, se chiuse.
Is pardulas a questo punto si mettono al forno e a cottura raggiunta vengono tolte, unte con il miele e decorate con sa traggera, i diavoletti, quei minuscoli pallini di tanti colori che attirano la curiosità dei bimbi - i quali, ai miei tempi, usavano mettere l’indice in bocca per inumidirlo, poi lo posavano sui “pallini” che restavano attaccati al polpastrello e infine se lo rimettevano in bocca... Lo scappellotto della mamma era allora d’obbligo, ma rientrava nei rischi del mestiere di bimbo goloso.

Contu de una filla de domu
Confidenze di una brava ragazza

«Ero figlia unica e finite le scuole elementari, mia madre non volle che andassi a lavorare in campagna, anche se non eravamo ricchi, per poter imparare meglio tutte le faccende di casa: “se la gente” sapeva che ero una brava massaia e che non ero sempre buttata in campagna, che ero fill’‘e domu, figlia di casa, (cioè una brava ragazza) avrei potuto sposare anche un proprietario, anziché un povero contadino come era mio padre.
C’era da sgobbare dall’alba al tramonto col solo aiuto de s’accostanti della domestica a giornata, per fare il pane e il bucato. E così crescendo e seguendo gli insegnamenti di mia madre, volentieri o meno, imparai a fare tutto, perfino a tessere, cosa che non sapevano fare tutte le massaie. Mi presi anche qualche schiaffo quando non facevo le cose bene. Le più difficili erano nella preparazione del pane: poni su fromentu, preparare la pasta col lievito, e infornare il pane, sapendo riconoscere la temperatura giusta del forno. Molte ragazze si sposavano senza saperlo fare ed era vergognoso farlo fare a s’accostanti!
Imparai a scegliere i legumi per la semina, a conservarli come provviste dopo il raccolto, dando alle galline solo lo scarto; imparai perfino a traballai su procu, a conservare le carni del maiale macellato in novembre.
Mia madre mi promise che mi avrebbe comprato sa roba, tutto il necessario per arredare la casa.
Avevo solo sedici anni quando andammo dal falegname ad ordinare il guardaroba di prima categoria con grande stupore ed anche invidia delle contadine più grandi di me, che non erano riuscite a racimolare i soldi, pur ammazzandosi di lavoro, per comprare il primo mobile.
Era l’inizio; piano piano vi misi dentro le lenzuola comuni, il lenzuolo buono ricamato, con le federe e i copricuscini, sa vanuga bella, il copriletto, il servizio di tovaglioli e la tovaglia damascata, su cui avevo ricamato le iniziali a punto pieno. Quando avevo finito di tessere i tovaglioli di cotone e lino e gli asciugamani de pann’ ‘e carri, tessuto liscio, vi ricamai le iniziali a punto croce; imparai a tessere su scaccu bellu e su scacchisceddu, tessuto a disegni complicati e semplici, e gli asciugamani con le frange e vi aggiunsi anche quelli: due servizi da dodici! Mia madre mi aiutò a tessere su cilloni, la coperta di lana, is sacchitteddus pertiazzus, i sacchi di cotone e lana per mettervi il grano, is coberibangus, i tappeti, sa mesa manna, il tavolo grande, che si usava per fare il pane. I ripiani dell’armadio erano quasi pieni.
Per la festa di S. Maria, quando avevo diciotto anni, con mamma andammo a comprare su strexu de fenu, gli utensili di intreccio: due canestri grandi, due medi e due piccoli; tre corbule de quarra, da venti litri, tre de quartu, da dieci litri, e tre de imbudu, da tre litri. Il venditore ce ne regalò alcune piccoline. Avendo saputo che compravo queste cose, su pingiadaiu ci portò lui stesso a casa tutti i recipienti, su strexu de terra, gli utensili di terracotta: sciveddas grandi e piccole, pentole e tegami di varie grandezze. Quando sentimmo passare is cabesusesus che vendevano turras e talleris e pabias de forru, mestoloni e taglieri e pale per il forno, li facemmo entrare e comprammo anche quelle. Meno male che la stanza per il pane era grande, altrimenti tutta quella roba non ci sarebbe stata. Per la festa di S. Maria, a vent’anni, ultimammo gli acquisti principali: s’arramini, i recipienti di rame: duus caddasciusu, due paiuoli, duas sartainas, due padelle, sa cuppa o braxeri, il braciere, e su ferru mattau, gli utensili in ferro smaltato, che avrebbero riempito su parastaggiu, lo scaffale, anche se fosse stato più grande, tra pentole, tegami e coperchi di varia misura.
O che ci avessero visto fare tutte queste compere o che se ne fosse sentito parlare, una sera venne a casa su pabonimpu, il paraninfo, per farci sapere che il figlio maggiore di don Sebastiano mi voleva in moglie, che aveva già la casa pronta, giu’ e carru, giogo di buoi e carro, cavallo e carrozza. Sarebbe tornato dopo una settimana per avere una risposta. Io dissi che lo conoscevo solo di vista e che mi era più simpatico il fratello più giovane, ma mia madre disse che don Sebastiano non andava contraddetto e così mi fidanzai col fratello maggiore. Avendo quasi tutto pronto decidemmo di sposarci presto. Mia madre finì di comprare tutto ciò che ancora serviva come qualsiasi altra sposa non contadina; i mobili furono portati direttamente alla casa dello sposo. Tutto il mio corredo e l’utensileria fu caricata sui carri addobbati a festa (e ne occorsero molti) e portati come in processione. Io rimasi a casa, perché si usava così, e solo dopo le nozze provai il compiacimento di vedere le stanze arredate: sa dom’ e farra, la stanza riservata alla burattatura, con su strexu de fenu, gli utensili di intreccio, appeso alle pareti, ancora infiocchettato; s’ omu ‘e su forru, il locale dove c’era il forno, con le pale appoggiate al muro e tutte le conche di terracotta appese; is ischidonis, is cardigas et is trebinis, gli spiedi, le graticole e i treppiedi, che il fabbro aveva portato all’ultimo momento belli lucidi, pronti per gli arrosti in sa brasci de su forru, nella brace del forno.
Nella grande cucina luccicavano i recipienti di ferrosmalto appesi, e sui mattoni del grande camino c’erano is pingiadas, le pentole di terracotta. Le altre stanze non avevano niente di particolare che dicessero che io ero moglie di un agricoltore.
Non ebbi la necessità di lavorare tanto quanto aveva dovuto mia madre, ma seppi sempre insegnare alla servitù come andavano fatte tutte le faccende della casa di un contadino.169


STREXUS PO FAI SA FARRA
UTENSILI PER ABBURATTARE


SU CIULIRU DE PRUGAI
IL CRIVELLO PER SCEVERARE

E’ un attrezzo cilindrico dal diametro di 40/50 centimetri con il bordo alto 8 centimetri. La base circolare è costituita da un graticcio lasco fatto di gretole di giunco non lavorato, disposte l’una a fianco all’altra fino a ricoprire l’intera superficie. Le gretole del giunco sono grosse 2 o 3 millimetri e sono legate tra loro con una cordicella di giunco più sottile.
La parete del cilindro è formata da un cordulo (diversi steli rivestiti di altro giunco sezionato in due metà) che gira tutt’intorno andando a poggiarsi sul cordulo del giro precedente, fino a raggiungere l’altezza di centimetri 8 circa. Il cordulo ha la grossezza di un dito mignolo all’incirca.
Il punto di unione tra la base e la parete viene rifinito e abbellito da una trecciolina di giunco finemente lavorata.
Quest’attrezzo per mondare e vagliare il grano prima di macinarlo, viene detto anche ciuliru de cerri, cioè vaglio.


SU CIULIRU DE FAI SA FARRA
IL CRIVELLO DA ABBURATTARE

E’ un utensile simile a su ciuliru de prugai, almeno a prima vista. La differenza consiste nelle gretole di giunco che sono sottilissime, sezionate a metà con la parte convessa verso l’interno e disposte fitte fitte, intrecciate con listarelle di giunco ugualmente sottili.
La parete del cilindro, così pure il bordo della base, è rivestito di tela bianca, in modo che l’intreccio dell’utensile non si rovini nell’uso e non rovini le mani della lavoratrice.
Una brava padrona di casa avrà premura e accortezza di tenere in casa, sempre, più di uno di questi attrezzi da lavoro.

Is ciulirus e is sedazzus, i crivelli e i setacci, venivano venduti dagli ambulanti che giravano con i loro carri da un paese all’altro. Si dice che questi girovaghi venditori di ciulirus, sedazzus, polinas, fossero grandi conoscitori del tempo meteorologico, perché quando essi arrivavano significava che stava per piovere. Si crede che il loro fosse uno stratagemma: arrivare con la pioggia, per essere certi di trovare in casa i possibili acquirenti.


SU STREXU DE FENU
I RECIPIENTI DI FIENO

Con questo termine si intendono tutti i recipienti che la padrona di casa porta in dote nuziale e che utilizzerà per tutto l’arco di una vita, e che concernono il trasporto, la conservazione e la lavorazione del raccolto agricolo. In particolare il grano e le leguminose.
Gli utensili de su strexu de fenu sono confezionati intrecciando mazzetti di fieno di grano con giunco secco non lavorato, cioè no mulliu, non scotolato, non snervato.
A secondo della grandezza e della forma, l’utensile prende un nome diverso:
1) Sa canistedda, la canestra, è come un grande piano del diametro di circa 15/20 centimetri
2) Sa polìna, la canestrina, simile alla precedente ma più piccola, con un diametro di base di circa un metro e un bordo di 15 centimetri. Ce ne sono anche di più piccole dette is polineddas.
3) Sa crobi, la corba, ha la forma di una conca, con una capacità che arriva fino a una quarra de trigu, uno starello di grano, pari a 20 litri, cioè a circa 20/22 chili di grano.
Su strexu de fenu, recipienti ottenuti dall’intreccio di paglia e giunco, cioè ciulirus, sedazzus e polinas, insieme all’utensileria necessaria all’economia familiare del contadino, si potevano acquistare anche in occasione di feste religiose e sagre dove concorrevano i venditori di tutti i prodotti indigeni, dai tessuti all’utensileria.


SU SEDAZZU
IL SETACCIO

E’ un cilindro formato da un foglio di legno dello spessore di 3/4 millimetri e punzonato nei punti di unione. Ha un diametro di circa 4O centimetri ed è alto circa 30/35 centimetri. A metà dell’altezza, cioè nel punto di unione dei due cilindri (uno dei quali alto la metà dell’altro dentro cui si incastra), è inserita una rete di metallo fermata dall’unione dei due cilindri.
Secondo il tipo di rete, a maglie più o meno fitte, cambia il nome de su sedazzu, del setaccio, e cambia l’uso che se ne deve fare. Abbiamo così:
1) Su sedazzu a tramas lascas, il setaccio a trame larghe;
2) Su sedazzu a tramas strintas, il setaccio a trame fitte;
3) Su sedazzu fini, il setaccio di seta (ovvero su sedazzu de seda).

Esiste poi un altro attrezzo detto ciuliru de ferru, cioè setaccio di ferro, che è fatto come il setaccio di cui si è parlato, ma anziché avere come fondo una rete fitta ha tanti cerchi concentrici di fil di ferro acciaiato, tenuti da raggi ugualmente in fil di ferro di circa due millimetri di spessore. Su ciuliru de ferru viene usato per vagliare le leguminose, fave, piselli, ceci e altre, che contengono spesso pagliuzze e semini. Dopo la vagliatura queste leguminose vengono purgadas in su ciuliru de fenu di cui abbiamo già parlato.


SA TURRA DE LINNA
IL MESTOLO DI LEGNO

Si tratta di un cucchiaione appena concavo, con un piccolo manico. Si ricava intagliando il legno di pero o di castagno. Impugnandolo si rileva che il bordo sinistro è più sottile per un suo uso più funzionale.


SU SCEDEZZADORI
IL CERNITOIO

E’ un binario formato da due listelli di legno su ponticelli, su cui scorre il setaccio. La corsa del setaccio è limitata da due listellini trasversali posti alle estremità del binario.
La forma, le rifiniture de su scedezzadori sono lasciate all’estro dell’artigiano. Per costruirlo solitamente viene usato un legno duro onde evitare il deterioramento, poiché il setaccio nel suo vai e vieni consuma i listelli su cui scorre. E’ possibile vedere dal consumo dei listelli quanto uso si è fatto dell’utensile.
Su scedezzadori viene sostituito più volte nell’arco della vita de sa meri de domu, della padrona di casa.


SU PANI: DE SU MOBINU A SU FORRU
IL PANE: DALLA MACINA AL FORNO


PRUGAI SU TRIGU
PULIRE IL GRANO

Il grano necessario al sostentamento della famiglia, veniva messo in su sobariu, nel solaio, nei locali al piano di sopra che avevano il pavimento in legno - questa era una cosa importante, perché dal pavimento in cemento o con le pianelle, o con i mattoni saliva umidità che danneggiava il grano. Lo stesso si dica per i muri, che una certa umidità la davano sempre. Infatti il mucchio di cereali veniva messo al centro della stanza o quanto meno in modo che solamente i bordi della base del mucchio toccassero il muro.
Per la panificazione, la prima operazione era la preparazione del grano, detta prugai su trigu po ddu portai a mobi, pulire il grano per portarlo a macinare. Va detto che rispetto alla precedente c’è una differenza nella operazione di prugai su trigu po arai, pulire il grano per ararlo, in cui si usava il grano selezionato che veniva ripulito dai semini estranei e dai grani spezzati che non germogliano. S’arrestu de sa prugadura, il residuo della pulitura, si dava ai volatili da cortile, stando però attenti a non dar loro su pisu de caoru, una varietà di piselli selvatici, perché poteva far male: restava loro nel gozzo gonfiandolo e la massaia doveva intervenire chirurgicamente vuotandolo con un taglietto che poi ricuciva con ago e filo.
Purgai su trigu po ddu portai a mobi, fiat unu traballu stentosu, pulire il grano per portarlo a macinare, era un lavoro lungo e noioso. Infatti, bisognava pulire il grano con un crivello, su ciuliru de cerri e de purgai, per vagliarlo e per togliere con le dita le pietruzze, i pezzetti di terra, le pagliuzze e i semi estranei. Tra su purgai e su cerriri c’è differenza: con su cerriri, la cernitura, cadono dal vaglio gli elementi più piccoli, separandosi così dal grano; mentre cun su prugai, con il purgare, si pulisce il grano facendolo scorrere sul piano per evidenziarne gli elementi estranei, quali pietruzze e altri semi che vengono presi e tolti uno ad uno con le dita.
Una volta pulito, il grano veniva rovesciato in sa canistedda, nella canestra larga, fino a raggiungere la quantità necessaria a fare il pane settimanale per la famiglia. Diciamo che la resa o rapporto è di un chilo di grano uguale a un chilo di pane; per orientarsi sulla quantità di grano necessaria alla panificazione, si calcolava un chilo di pane al giorno in media, per ogni componente della famiglia. Quindi, raggiunta la quantità stabilita, il grano tenuto ancora in sa canistedda, nella canestra, veniva lasciato così fino al giorno dopo in modo che si ammorbidisse e la macinatura fosse omogenea e fine, e non invece frantumata a scaglie. Inoltre, il grano troppo arido veniva surriscaldato con la macinatura e di conseguenza la farina andava male nelle successive lavorazioni. Infatti, se il macinato fosse stato surriscaldato, nell’impastarlo ne avrebbe risentito in “tenuta” - in sardo, per la pasta, si dice: arrei corria, cioè reggere in coesione.
Il giorno dopo il grano si portava con capienti corbule (crobis de quarra, corbe da circa venti chili) al mulino. I mulini antichi erano ad acqua e i più sofisticati a motore elettrico e a nafta. In questi ultimi si poteva chiedere al mugnaio che la macchina facesse anche il lavoro di umidificare il grano, e dopo la macinatura di separare le varie parti (crusca, semola e farina) del macinato, ma questo lo facevano fare le persone poltrone o che non sapevano lavorare.


FAI SA FARRA
L’ABBURATTATURA

Riportato a casa il grano macinato, iniziava la seconda fase della panificazione: su fai sa farra, cioè abburattare (da buratto, setaccio). In parole semplici si trattava di dividere il macinato nelle sue diverse componenti, e vedremo che ognuna di queste operazioni ha un nome proprio e specifici attrezzi, così come ogni parte del macinato ha una utilizzazione e una destinazione specifiche, sia nella cucina in generale per la preparazione di pietanze, che nella panificazione.
La buona riuscita del pane incomincia con questa fase: più diligentemente viene lavorato il macinato e migliore sarà il risultato che si otterrà nell’uso delle singole parti. In altre parole si avranno farina zero zero, pura (scetti), semola, semolino, più omogenei (simbula grussa e simbula fini) e, ugualmente per la crusca e il cruschello (poddini grussu e poddini fini).

Prima fase: su crangiai, il togliere la crusca.
Si procede a separare la crusca, cioè a crangiai sa farra, a ‘ndi bogai su poddini grussu, a togliere la crusca grossa. Questo lavoro si fa con su sedazzu lascu o a tramas lascas, cioè con il setaccio a trame larghe. Si mette sul pavimento sa canistedda, una canestra larga, ricoperta da un telo di lino candido. Dentro si mette sa pobina, una canestra piccola, ricoperta da un telo. Dentro quest’ultimo si appoggia su scedezzadori, binario di legno su quattro piedi su cui si poggia su sedazzu, dentro il quale si mettono due o tre mestolate di macinato. Per versare il macinato si usa un mestolo di legno detto turra de linna.
La donna addetta a questo lavoro assume diverse posizioni che consistono in: scedezzai cun su sedazzu, setacciare con il setaccio che, preso per il bordo alto, viene fatto scorrere lungo il binario de su scedezzadori da un fermo all’altro, e in questo modo il macinato si muove dentro il setaccio che ogni tanto viene sollevato da una parte e dall’altra sbattendo sopra le assi di legno per liberare gli interstizi. Solitamente per completare questa operazione basta setacciare il macinato una sola volta.
La crusca che resta nel setaccio viene raccolta, conservata in un sacchetto e utilizzata per l’alimentazione degli animali da cortile. Oggi, con la moda delle diete, la si usa per sgrassare gli intestini degli obesi.
C’erano molte famiglie che per ragioni diverse - vedi povertà, vedi necessità di panificare, vedi impossibilità di fare gli altri passaggi o perché gente più semplice o più rustica - usavano fare il pane così come si presentava dopo tolta la crusca; e si diceva fai su pani a sa crangiada, cioè fare una sorta di pane integrale certamente assai nutriente e che conteneva farina, semola e cruschello insieme. Si dice che Mussolini, in tempo di guerra, avesse dato disposizioni affinché il pane venisse fatto in questo modo.
Su poddini grussu, la crusca, si ottiene, dunque,dalla prima fase dell’operazione de fai sa farra, dell’abburattare, mediante l’uso de su sedazzu lascu, del setaccio a maglie larghe. Tutto il macinato cade dal vaglio che trattiene soltanto su poddini grussu, la crusca.
Su poddini grussu veniva utilizzato esclusivamente per l’alimentazione degli animali da cortile, in particolare per i volatili: puddas, anadis, coccas e pioncus; galline, anatre, oche e tacchi.

Seconda fase: su civraxeddu, il cruschello.
Si prende un setaccio a maglie medie, su sedazzu a tramas strintas, e si passa nuovamente, con lo stesso procedimento, tutto il macinato rimasto dalla prima fase. In tal modo, ogni volta, resta dentro il setaccio su poddini fini o civraxeddu, la crusca fine o cruschello. Anche questo cruschello si avrà cura di metterlo in un apposito sacchetto. Verrà usato per fare il pane per i cani, oppure per unirlo alla crusca da impastare per gli animali da cortile o, infine, come accade più spesso, per unirlo a su scetti, la farina, per fare il pane semi-integrale, da noi detto pani de su mannu.
Su poddini fini, il cruschello, si ottiene dalla seconda fase dell’operazione de fai sa farra, dell’abburattare, mediante l’uso de su sedazzu a tramas strintas, un setaccio a maglie più fitte rispetto al precedente. Con su poddini fini più una certa quantità di scetti, farina, si confeziona un pane semi-integrale detto pani de su mannu.


Terza fase: su scetti, la farina.
Questa è l’ultima fase del lavoro col setaccio, dopo di che si passa alla lavorazione del macinato mediante su ciuliru o cibiru che dir si voglia. In questa terza fase, sempre con gli stessi movimenti, si usa il setaccio a maglie così strette che sembra non vi siano interstizi. Tale setaccio è detto sedazzu fini.
E’ la fase più lunga e più tediosa e non sempre basta setacciare il resto del macinato una sola volta per separare su scetti de sa simbula, la farina dalla semola.
E’ un momento molto importante perché dalla riuscita di questa operazione incomincia ad esserci un salto di qualità che si evidenzierà nella successiva confezione del pane. Nelle nostre comunità, l’operato della gente, il lavoro, l’impegno che ciascuno metteva nel fare una cosa aveva un immenso valore morale e sociale. Le persone, donne o uomini, venivano per le loro capacità portate ad esempio, citate e lodate da tutta la comunità. E accadeva che nelle grandi occasioni come il matrimonio, venivano invitate per far parte delle lavoranti, quelle donne famose per la loro bravura, sia nell’abburattatura, che nella panificazione o nel fare i dolci. Nelle stesse occasioni il lavoro della preparazione del pane si commissionava alle zias o a is sorris, alle zie o alle sorelle, di solito anziane, esperte, appunto, ma gelose della loro arte, che preferivano lavorare per terzi, ma nella propria casa. Tuttavia, di solito, si preferiva avere in casa tali esperte lavoranti perché fungevano anche da maestre per le giovani che partecipavano al lavoro.
Su scetti, la farina, si ottiene dalla terza fase dell’operazione de fai sa farra, dell’abburattare, mediante l’uso de su sedazzu fini, del setaccio a maglie fitte, che trattiene la semola e lascia colare la farina.
Con questa farina finissima unita a su poddini fini, al cruschello, si confeziona un pane semi-integrale detto ugualmente pani de su mannu, come già detto sopra.
Quando si fa su pani de su mannu, di solito a pezzature grandi, is civraxus, si confezionano anche civraxas, focacce, che, appena cotte, in parte vengono divise a metà in senso longitudinale, rimesse nel forno e biscottate. Tale pane biscottato viene consumato col caffè nella colazione del mattino o anche inzuppato nel brodo caldo e condito con formaggio grattugiato.

Quarta fase: sa simbula, la semola.
Durante questa fase la semola viene divisa per grandezza e per colore. La durata dell’operazione, cioè il numero delle volte che viene passata, dipende dall’uso che della semola si deve fare, dalle necessità e dalle situazioni. Se si deve fare il pane per tutti i giorni e non serve semola per fare la pasta da cucinare o non serve semola grossa, sempre per cucinare (simbula fritta, fregula, etc.), allora la si passa una sola volta, altrimenti la si passa tre o quattro volte; e se si deve fare il pane per le grandi feste o per gli sposi, allora anche sette o otto volte. La semola per il pane degli sposi viene lavorata anche tre o quattro settimane prima della panificazione. In questo caso viene ripassata settimanalmente affinché non si formino grumi.
Nella lavorazione della semola si usa su ciuliru, il crivello, al quale si dà un movimento rotatorio in senso orario, e contemporaneamente un saltello tenendolo obliquo, con il bordo inferiore appoggiato sopra sa pobina, la canestrina, formandosi così, al centro del macinato, uno strato di semola più grossa e più scura. Questa semola viene raccolta con sa turra de linna, il mestolo di legno. La prima semola raccolta viene anche usata per fare su cadroxu, il pane scuro, che contiene ancora un po’ di cruschello.
Su scetti, la farina, e sa simbula, la semola, grussa e fini, grossa e fine, vengono conservate separatamente dentro sacchetti di tela o di lino candido a maglia fitta.


FAI SU PANI
LA PANIFICAZIONE

Un’‘orta facta sa farra, ultimata l’abburattatura, si può procedere alla panificazione.
La prima cosa da fare è la preparazione de su fromentu, del lievito.
Su fromentu è costituito da un pezzo di pasta lievitata, lasciata dall’impasto usato la volta precedente, che viene conservato in su scetti, nella farina, dentro un sacchetto di tela bianca o dentro una ciottola col coperchio, tenuto in luogo asciutto, in modo che non metta la muffa. Se il lievito si guasta, bisogna chiederne un nuovo pezzo ai vicini di casa, perché, senza questo non si può panificare. Va detto, per inciso, che su fromentu, come gli altri beni di prima necessità, non si può rifiutare mai: rientra in quelle usanze mutualistiche di vicendevole aiuto e cortesia.
Il giorno prima di fare il pane, su fromentu viene sciolto con un po’ d’acqua tiepida e gli si aggiunge circa un chilo di semola. La quantità è ovviamente relativa al pane che si vuole fare. Lo si impasta bene e lo si lascia lievitare, tenendolo ben coperto al caldo, vicino al caminetto. Questo lavoro viene fatto nel tardo pomeriggio.
Verso mezzanotte o l’una, secondo la quantità di pane da fare e del numero delle lavoranti che dovranno partecipare, ha inizio la panificazione.
In sa scivedda de fai su pani, nella conca per fare il pane, si impasta la semola con acqua tiepida dove si è sciolto il sale - cento grammi di sale per dieci chilogrammi di semola. Questa operazione si chiama cumossai sa farra, cioè impastare la farina.
Dopo aver impastato la semola, in modo che questa sia ben intrisa ma asciutta al tatto, il lavoro prosegue sopra sa mesa de fai su pani, il tavolo dove si lavora l’impasto.
Prende avvio così l’operazione detta ciuexiri, cioè gramolare, rimenare la pasta, che viene divisa in pezzi di circa due o tre chili, e ogni persona ne prende e ne lavora un pezzo. Così, le lavoranti si mettono attorno al tavolo a ciuexiri, a gramolare: si stende la pasta, la si preme con la parte callosa della mano e la si raccoglie in continuazione, fino a renderla morbida, omogenea e bianca. Le lavoratrici si passano i pezzi di pasta l’una con l’altra, in modo che tutto l’impasto abbia la stessa consistenza e lo stesso grado di lavorazione.
Dopo di che si divide su fromentu, il lievito, e ognuna ne prende un pezzetto che deve amalgamare con l’impasto, riprendendo da capo il lavoro di ciuexiri sopra il tavolo, compreso il passamano della pasta.
Una volta ciuerta beni, gramolata per bene la pasta, si comincia ad aggiungere acqua tiepida, lentamente, finzas a dda mattiri, fino a smaltirla, per poi aggiungerne ancora dell’altra.
A questo punto è necessario fare una precisazione: la quantità di acqua da aggiungere alla pasta che si sta gramolando dipende dal tipo di pane che si vuole confezionare:
1) Se si vuole fare su pani spongiau ci vuole molta acqua e se la semola è buona, tenit manisciu bellu e de aqua ‘ndi mantenit meda, mantiene molta acqua, se si lavora nella conca con i pugni, si si spongiat in sa scivedda. Con questo impasto si faranno su civraxu (pani rotondi da due, tre chili), su moddixinu o moddizzosu (circa mezzo chilo) e sa civraxa ,detta anche costedda, lada, follita e, in città, triangolo.
2) Se si vuole fare su pani coccoi ci vuole pochissima acqua e l’impasto va continuato a lavorare all’asciutto, ciuertu, gramolato sul tavolo. E’ un lavoro assai faticoso lavorare la pasta per su pani coccoi. In questa lavorazione, a differenza di quella precedente, le forme dei pani si fanno subito e poi vengono lasciate lievitare, mentre per su pani spongiau, il pane lavorato coi pugni dentro la conca, viene messo a lievitare tutto l’impasto e, soltanto dopo due ore circa di lievitazione, vengono fatte le forme.
Quando la pasta per su pani spongiau è troppo molle per poterla continuare a lavorare sopra il tavolo, la si mette tutta dentro la conca e la si lavora ancora, sempre con i pugni, con l’aggiunta di un po’ d’acqua. Dopo di che, le si fa il segno della croce, la si copre e la si mette al caldo a lievitare per circa tre ore.
Si arriva così all’alba. Dopo circa due ore di lievitazione, la pasta spongiada viene divisa in forme a seconda del tipo di pane che si vuole ottenere (civraxus, moddizzosus o ladas). Questa operazione è detta a ‘ndi pesai su pani. Sa mesa po fai su pani, il tavolo per fare il pane, si cosparge di scetti, farina, ci si bagna le mani nell’acqua calda e si prendono pezzi di pasta, più o meno grandi, dando a ciascuno la propria forma. Su civraxu è un pezzo di circa due chili; su moddixini o moddizzosu, un pezzo di circa sette, ottocento grammi, che dopo cotto peserà circa un chilo; infine, sa civraxa, la spianata o focaccia, a forma di rombo, con un taglio al centro per la lunghezza, con la pasta spessa circa un dito, di circa due, trecento grammi.
Una volta fatte le forme e messe in sa pobina, nella canastra larga, sopra un telo, ben separate l’una dall’altra, si ricoprono e al caldo si lasciano lievitare per un’altra ora.


FAI SU FORRU
PREPARARE IL FORNO

A questo punto è ora di preparare il forno. Il giorno prima si è provveduto ad andare in campagna a portare fasci e rami teneri di arbusti (lentischio, cisto, e altri) po fai is scovas de forru, per fare le scope per mondare il forno. La legna per riscaldare il forno, di solito fascine di cespugli legnosi ben secchi, è già in casa nel cortile e anche per questa si è già provveduto a portarla giù de sa biga de sa linna, dalla legnaia.
Il forno impiega circa un’ora per essere pronto. La giusta temperatura si riconosce dal colore quasi bianco dell’interno e da come si riducono le scope quando viene mondato. Per riscaldarlo si usano fascine di ogni tipo che bruciano su tutta la superficie di base e cun is furconis, con i forconi, si spargono uniformemente affinché il pavimento sia caldo dappertutto. Si continua a metter legna da bruciare finché il forno diventa prima rosso e poi bianco.
Dopo di che con una zappa larga, dal manico molto lungo, si rastrella la brace verso la bocca, la si toglie con una pala larga e la si mette nel camino. Quindi con la scopa si pulisce in modo che non resti né brace né cenere. A questo punto si depone il pane.
C’è da dire che le scope sono costituite da mazzetti di rami terminali teneri di cisto e lentischio o anche da erbe consistenti, legate alla punta de su fruconi, del bastone, con il giunco; e, prima di usarle si bagnano immergendole in un secchio d’acqua.
Il pane viene introdotto nel forno con una pala di legno, da cui scivola bene, e la pala non brucia perché la pasta è fredda. Il pane cotto viene tolto invece con una pala più piccola di lamiera, perché il pane è caldissimo e la pala di legno si brucerebbe.
Il forno è circolare e il pane si dispone: quello più grande nella circonferenza e quello più piccolo al centro. Se il pane è molto, si mettono prima is civraxas, le focacce, perché cuociono in fretta, e poi il pane grande; appena cotte, is civraxas le focacce, si tolgono e si mette al centro il pane piccolo.
Il pane impiega un’ora e un quarto a cuocere. Dopo aver infornato, sulla bocca del forno si fa bruciare un po’ di legnetta e, in questo modo, il pane diventa liscio, no ‘ndi ddu lassat scrafangiai, non lo si lascia screpolare. Si chiude il portello di metallo perché il pane venga dorato. Il portello antico era costituito da una pietra rotonda.
Quando il pane è cotto si toglie dal forno con l'apposita pala e si mette in sa pobina, nella canestra larga, con un telo di cotone che lo copre sotto e sopra, affinché si mantenga caldo e fragrante.


SU PANI COCCOI
LA PASTA DURA

Come si è appena detto, su pani fattu in domu, il pane casereccio, viene lavorato a mano e cotto in su forru de domu, nel forno familiare a legna. Le varietà do pane più comuni sono: su pani coccoi, la pasta dura di semola di grano duro, che è il pane delle feste; su civraxu o civarzu, o anche chivarzu170, è il pane di tutti i giorni di grande formato, di due o più chili, ve ne è di più bianco o di più scuro secondo la quantità di cruschello che contiene - tipico è su civraxu de seddori, il pane di Sanluri. Poi, abbiamo su moddizzosu, pane di semola di piccolo taglio, circa mezzo chilo, dalla crosta spessa e croccante; sa lada o costedda, la spianata di farina (in certi paesi con un foro centrale), pane morbido spugnoso, che si consuma di solito in giornata.
Tra i pani speciali, abbiamo: su pani de saba, il pane impastato con la sapa, che si confeziona per il giorno dei Morti, ma anche in occasione della festa di alcuni Santi. In questo caso, su pani de saba, il pane di sapa, diventa su pani de su Santu, il pane del Santo, e viene venduto nel santuario per beneficenza. Su pani de gerdas, il pane confezionato con i ciccioli del maiale, un pane gagliardo che si mangia d’inverno appena sfornato o abbrustolito sulle braci del camino.
Un cenno a parte merita su pani carasau, il pane tipico delle Barbagie, di millenaria origine e di elementare fattura, che consiste in una sfogliata di pasta al forno. Sa carta de musica, letteralmente carta da musica, si ottiene da su pani carasau: quando questo al calore del forno si gonfia, viene estratto e rapidamente diviso con un coltellone in due dischi sottili e rimesso a cuocere a forno tiepido, fino a diventare una sfoglia croccante. E’ il pane del pastore, che dura mesi, e si mangia rammorbidito con acqua o con latte.


USANZIASDE SU PANI
RITUALI SUL PANE

Il giorno che si fa il pane si usa mangiare sa civraxa, la spianata; l’altro pane si inizia il giorno dopo. D’altro canto, il pane grande detto civraxu si affetta meglio se lasciato almeno un giorno, perché diventa compatto e non si sbriciola.

Dopo che il pane è infornato, la farina che resta sul telo, sopra la canestra, viene spolverata sulla bocca del forno e mai gettata per terra. Porta bene e bisogna far sempre così.

All’accensione del forno devono prendere parte tutte le donne che hanno partecipato alla lavorazione del pane, anche mettendo nel forno una sola fascina o addirittura un rametto.

Prima di chiudere il forno con il portello di lamiera, si fa il segno della croce sulla bocca del forno e si pronuncia questa strofetta scaramantica: «Su chi no t’happu factu deu, ti ddu fetzat Deus», «Tutto ciò che non ho potuto farti io, te lo faccia Dio».

Il pane va tagliato a fette, in modo che i buchi delle bolle d’aria risultino oblunghi, di sbieco. Più il pane è bucato, meglio è riuscito, perché leggero, soffice e spugnoso, cioè ben lavorato.

Il pane non va mai buttato via. Sarebbe un sacrilegio. Se dovesse restar pane e fosse immangiabile, si ammorbidisce nell’acqua bollente e si fanno is zuppas, su mazzamurru., una sorta di pasticcio a base pane, condito con salsa di pomodoro o anche con solo formaggio grattugiato. Nella peggiore delle ipotesi il pane raffermo si dà ai cani, o alle galline o si brucia.

Il pane non dev’essere mai appoggiato sul tavolo al rovescio: la sua parte superiore deve essere sempre visibile. Porta male e soprattutto provoca dolore alle spalle di chi lo ha lavorato.

Il pane ha una crescita di circa mesu liba, duecento grammi, per ogni chilo di semola. C’erano famiglie povere che facevano il pane per altre famiglie più benestanti. Si facevano dare la farina pesata e rendevano lo stesso peso in pane. Come ricompensa tenevano per loro la crescita, circa il venti per cento, come detto. Tale usanza veniva detta: «Fai su pani po sa crescida.».

In genere il pane si faceva il sabato. Gli uomini tornavano dalla campagna il sabato sera e al rientro trovavano il pane fresco. Inoltre era pronto per la domenica sera, quando ripartivano in campagna, per lavorare in terre lontane dal paese, dove bisognava trattenersi più giorni.

Per la quantità di farina da panificare, si considerava il consumo medio di un uomo, un chilo e mezzo di pane al giorno. Si faceva quindi il calcolo del pane settimanale in base al numero delle persone.

Il sabato era anche il giorno dell’elemosina. Passavano i poveri a fare la questua e trovavano il pane fresco. Una certa quantità di pane era riservata ai poveri per tradizione.

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