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CAPITOLO DODICESIMO

SU TRABALLA DE IS PICCIOCCHEDDUS
IL LAVORO MINORILE

Presentazione

Il lavoro minorile - tipico prodotto della miseria - cerca giustificazioni pseudo-morali e pseudo-pedagogiche in una mitica “santità” del lavoro propalata nei secoli dai padroni a esclusivo uso e consumo del popolo. E così la povera gente è portata a idealizzare il proprio miserevole stato di bestia da soma.
Si dice che il lavoro «fa bene allo sviluppo del fanciullo e ne tempra il carattere», che “nobilità”; e se non basta si tira fuori “l’espiazione” per il peccato originale, la maledizione biblica ad Adamo: «La terra sarà maledetta per cagion tua... Tu mangerai il pane col sudore del tuo volto...». Si ammonisce infine che «L’ozio è il padre di ogni vizio».
Bisogna però specificare che c’è lavoro e lavoro: quello a cui viene assoggettato l’uomo, e il fanciullo in particolare, è sfruttamento, non libera estrinsecazione di sé.
I venditori di fumo del sistema, per dimostrare una volontà democratica del potere politico, hanno a lungo cianciato di progresso raggiunto anche nelle più arretrate comunità sarde: la motorizzazione, le trasformazioni fondiarie, l’impianto di colture nuove, gli insediamenti petrolchimici, la diffusione di beni di consumo, quali motorette, radioline e stoviglie di plastica. tutto questo “progresso” non ha eliminato la piaga del lavoro minorile. Al contrario, a causa dell’ondata di forzata emigrazione, che ha spopolato i paesi a economia agro-pastorale, e a causa dell’aumentato squilibrio tra i bassi redditi del lavoro e l’inflazione di adescatrici offerte da parte del mercato dei consumi, la presenza del bracciantato minorile è aumentata. E’ aumentato in genere tutto il lavoro minorile, in particolare quello nero e ancor più le attività fuori legge, spesso criminali, che vanno dal piccolo contrabbando di sigarette o da altri illeciti commerci, alla mendicità, al taccheggio, fino ai furti negli appartamenti e allo spaccio di sostanze stupefacenti - al fine appunto, da parte di questi minori, di rispondere alle offerte adescatrici del mercato dei consumi.

La necessità del lavoro come fondamentale principio etico viene messo in testa al bambino mediante diversi canali: la famiglia, la chiesa, la scuola e i mass-media con un certo tipo di letteratura della sottomissione alternata alla violenza. Il valore-lavoro viene sacralizzato, mitizzato e usato come metro di giudizio morale e sociale - ma soltanto per i ceti poveri, inquadrati infatti marxisticamente come “classe lavoratrice”.
Tra i molti luoghi comuni che sostengono il “valore-lavoro” se ne sente ripetere uno molto frequentemente: «Io quando ero piccolo lavoravo (o studiavo) davvero; non ero un fannullone come te, come i ragazzini di oggi...».
Di ogni situazione di arretratezza e di miseria sono sempre i bambini la componente comunitaria che ne subisce le conseguenze più dure, più dolorose, perché la più debole e la più indifesa. Né vale in Italia a proteggere e difendere il fanciullo la retorica che sacralizza maternità e infanzia.
Qui da noi, i buoni borghesi amanti dell’ordine costituito, gente che dorme al caldo di assurdi privilegi, se ne infischia della miseria e della sofferenza di chi è nato povero. E hanno la sfrontatezza di chiedere leggi repressive quando la sofferenza che tumultua nell’anima delle nuove generazioni esplode in violenza. E si meravigliano che i giovani d’oggi siano scettici, materialisti, che non credano più nei valori... Ma quali valori?
Che cosa si è fatto, che cosa almeno si sta facendo per rendere più tollerabile, più umana la situazione dei piccoli nelle nostre comunità?
Intanto, le responsabilità più pesanti vanno alla scuola di Stato, che è rimasta - nonostante le riforme che di democratico hanno solo il nome - un logoro carrozzone diretto da caporali e bigotti che di malagrazia riesce appena a dare i cosiddetti rudimenti del leggere, scrivere e far di conto, che disprezza la cultura che non possiede o la teme come fonte di sovversivismo, che ammaestra il bambino a rispettare il prete e il padrone insieme al Padreterno e a sfuggire le idee libertarie e progressiste come fomite di criminalità e terrorismo. La scuola così com’è può essere definita una istituzione di condizionamento e di repressione delle idee o nel migliore dei casi come “fine a se stessa”, avulsa dalle problematiche della comunità dove opera, estranea e indifferente alla realtà del fattore umano cui si rivolge.
In una situazione di sottosviluppo e di miseria, cioè a dire di sfruttamento del lavoro umano e di rapina del patrimonio comunitario, la scuola dell’obbligo - proprio perché d’obbligo - aggrava la situazione del fanciullo assoggettato al lavoro, comminando sanzioni pecuniarie e penali ai genitori: oltre il danno, la beffa. Almeno fino a quando esisterà, per le famiglie, la giustificazione della necessità economica, del bisogno.
Pretendere - come fanno direttori e insegnanti - l’assoluto rispetto della frequenza, le “divise” con il fioccone, i compiti a casa e tutti gli altri “doveri” utili o inutili, è assurdo e inumano - come il far correre chi abbia le gambe spezzate. L’andare a scuola diventa un fatto coercitivo, non un diritto, diventa perfino un fatto ingiusto, se il cittadino non è messo nella migliore condizione per poter assolvere al civile obbligo di educarsi, per sé e per la società.

Per alcuni versi, i bambini dei nostri paesi costituiscono una sorta di sottoclasse sociale - come certe minoranze etniche e di colore nei Paesi razzisti.
La legge - si dice - proibisce il lavoro minorile. Polizia e magistratura dovrebbero vigilare e reprimere anche le infrazioni a questa legge. La scuola di Stato e le istituzioni che si occupano di assistenza al fanciullo dovrebbero tutelarne lo sviluppo, l’integrità fisica e psichica, dovrebbero occuparsi del suo inserimento nella società civile.
Di fatto, le prestazioni d’opera del minore rientrano negli usi e costumi patriarcali, che regolano ancora oggi in alcuni settori i rapporti comunitari. I bambini, assai precocemente, sono chiamati a dare il loro contributo nella produzione, in rapporto alla specifica situazione economica della famiglia e più in generale della comunità. E dato che essi, i bambini, sono considerati incapaci «di intendere e di volere», e pertanto tutelati da un adulto, essi non hanno “capacità e intendimento” di lavoro. Ne consegue che anche quando lavorano, i bambini “non lavorano”. E anche quando svolgono una precisa attività lavorativa, continuata nel tempo e, seppure malamente, retribuita, pari a quella di un adulto, i bambini sono considerati i “fuorilegge del lavoro”: non vengono loro riconosciuti quei diritti di tutela, protezione, assistenza e previdenza che spettano all’adulto.
Di questa situazione di assenteismo e farisaismo da parte di chi è al potere e dello stato di necessità economica delle popolazioni, profittano molti datori di lavoro per sfruttare il fanciullo, risparmiando sui salari e non pagando ovviamente alcun contributo assicurativo.
Con il pretesto dell’apprendistato, il lavoro dei bambini presso l’artigiano, il commerciante, il piccolo industriale, il fabbro, il muratore non viene pagato. Questi datori di lavoro ma non di soldi - fatte le debite eccezioni di onestà - si servono del fanciullo apprendista semplicemente per fare le pulizie di bottega, e magari di casa loro; e, sostenendo che perdono tempo a insegnare al piccolo un mestiere, si ritengono già magnanimi se regalano loro i soldi per il cinema della domenica.191


IS PICCIOCCUS DE CROBI E IS PICCIOCCAS DE MENA
I RAGAZZI DI STRADA E LE RAGAZZE DI MINIERA

Piccioccu de crobi o anche piccioccu de portu, nella parlata popolare di Cagliari e dei Campidani sta ad indicare “ragazzo di strada”, teppista; mentre in passato indicava più propriamente i ragazzi che sbrigavano il lavoro di facchinaggio, nel porto o nei mercati, con la corbula, crobi, sulla testa, ed erano tenuti in dispregio dai ceti sociali borghesi.
Picciocca de mena, nella parlata del Guspinese e dell’Iglsiente, indica una ragazza dai facili costumi. Le ragazzine che lavoravano in miniera, in mena, erano allora guardate come “pecore nere” nel mondo contadino da cui provenivano. In quello stesso mondo però non era e non è giudicato immorale il lavoro minorile, determinato da uno stato di necessità economica. Mandare a servire le bambine a otto anni, mandarle a spigolare o a far pascolare pecore e maiali, caricarle di gravosi fasci di legna o di pesanti corbe, erano e sono considerate “attività normali”.
Il lavoro minorile è un’antica piaga sociale, tuttora diffusa nelle aree economicamente sottosviluppate, cioè a dire sottoposte a sfruttamento intensivo da parte del capitalismo. Il fenomeno trova giustificazioni pseudo-morali e pseudo-pedagogiche nel principio della “santità del lavoro”, propalato nei secoli dal potere economico e religioso (e in seguito anche dai marxisti) a esclusivo uso e consumo dei lavoratori. E così la povera gente nobilita il proprio miserevole stato di bisogno idealizzando il lavoro - un genere di lavoro che è ricattatorio, prostituente e bestiale sfruttamento.
In che modo e in quale misura il minore in età scolare è assoggettato a attività lavorative?
Gli stessi bambini, nei loro elaborati, dicono che sono considerate mansioni “normali”: servire in casa di benestanti, spigolare grano, raccogliere pomodori a cottimo e trasportarli sui camion, portare al pascolo buoi, pecore, capre o maiali, zappare seminati, fare gli spaventapasseri nei campi di grano o di riso, far legna al monte, fare il garzone di bottega o il manovale muratore - oltre che accudire alle faccende domestiche di “loro competenza”. Quantitativamente, il fenomeno del lavoro minorile coinvolge, sia pure in misura diversa, tutti i piccoli appartenenti ai ceti poveri: contadini, pastori, pescatori, artigiani, cioè la quasi totalità della popolazione attiva delle nostre comunità.
Le testimonianze raccolte, ad iniziare dalla fine degli Anni Cinquanta, svelano una situazione dolorosissima e denunciano incalcolabili danni all’integrità fisica e psichica dei nostri fanciulli e mettono a fuoco condizioni di miseria e di arretratezza subumane. Le disperate voci di bambini, raccolte e pubblicate la prima volta nel 1965, provocarono un’ondata di commozione nel Consiglio Regionale, quando un consigliere, in una sua interrogazione, chiese «se non si ritenga urgente intervenire, se non sia urgente attivare una serie di interventi di carattere assistenziale affinché venga a cessare l’incivile sfruttamento dei minori».
Non era urgente intervenire, evidentemente: era sufficiente la commozione. Ancora non si è risposto, in concreto, alle grida di dolore dei nostri bambini; nulla è stato fatto per migliorare le condizioni economiche che sono alla base dello stato di necessità che costringe al lavoro creature di otto-dieci anni. Il silenzio ipocrita è ricaduto sopra uno degli aspetti più incivili di questa società - un crimine gravissimo e diffuso di cui dimenticano di parlare i procuratori generali della Repubblica nelle loro annuali relazioni cerimoniali sulla situazione della giustizia nel Paese. Né i politici, presi dai loro sporchi giochi di potere; né la classe padronale, intenta ad accumulare profitti; né le alte gerarchie della scuola di Stato, occupate a tessere le loro ragnatele burocratiche, né la Chiesa, lontana mille miglia dall’amore del Cristo, hanno risposto.


ANDAI A ISCIUIAI
FARE LO SPAVENTAPASSERI

Credo di essere stato uno dei pochi, alla fine degli Anni Cinquanta, ad aver descritto e denunciato, tra le altre attività lavorative cui erano sottoposti i minori, quel singolare mestiere detto andai a isciuiai, andare a fare lo spaventapasseri. Ci furono allora diverse e contrastanti reazioni nella pubblica opinione: molti insulti perché davo un’immagine negativa della Sardegna, una interpellanza parlamentare per sapere come mai ai bambini si facessero fare certe cose, un servizio con foto in prima pagina di un bimbo spaventapasseri su “L’Unità”, e infine una favola, di Gianni Rodari, alquanto stiracchiata e di maniera, dedicata a un inverosimile bimbo sardo che sembra vivere nelle campagne della Toscana.
Ripropongo ora ai lettori, in questa raccolta di mestieri e di attività singolari, due brani della inchiesta di quegli anni sul lavoro minorile in Sardegna.


SU ISCIUIAI
LO SPAVENTARE I PASSERI

«Nei paesi agricoli dell’Oristanese, tra i lavori riservati al fanciullo, è singolare quello detto andai a isciuiai, fare lo spaventapasseri. Tra le numerose attività tradizionalmente riservate ai piccoli questa di andai a isciuiai è da loro preferita, perché vi si sentono responsabili e liberi, e non è pesante quanto altre, come il raccogliere olive o mandorle o diradare le piantine di barbabietola.
In che cosa consiste il lavoro del bambino-spaventapasseri? Le tecniche, per altro assai rudimentali, variano da paese a paese. Quando il grano è giunto all’ultimo stadio di maturazione, i passeri lo assalgono per cibarsene. I proprietari allora assoldano bambini per difendere il raccolto, dotandoli di rumorosi attrezzi.
Tali attrezzi consistono normalmente in un barattolo di latta, che il piccolo tiene legato al collo con una cordicella, che viene percosso incessantemente con un sasso o un pezzo di legno, come tamburo. Naturalmente deve nel contempo spostarsi di continuo lungo la linea perimetrale del campo affidatogli in custodia. Altri, più progrediti, usano bombole di gas domestico vuote, sistemate ai quattro angoli, percosse in rapida successione con una verga di ferro. Altri ancora usano un rudimentale fucile così fatto: un tubo di ferro del diametro di circa un pollice; a una estremità, quella chiusa che poggia per terra, la culatta, forata, sul cui fondo si pone un pizzico di miscela esplosiva (di solito zolfo e clorato di potassio); quindi una robusta bacchetta di ferro, che si infila nella canna e si lascia cadere affinché percuota e faccia esplodere la miscela. Questo attrezzo, su fusili po isciuiai , il fucile per allontanare gli uccelli, rumoroso e caro ai fanciulli che fanno gli spaventapasseri, è causa di non pochi infortuni».

Uno spaventapasseri testimonia

«Io vado a isciuiai il grano di ziu Antoni Peppi e prendo 500 lire. Vado di mattina presto perché gli uccelli sono pronti e si alzano presto. Bisogna battere nel botto (barattolo - ndr) e gridare forte, così scappano. Quando toccano le campane di mezzogiorno è ora di scappare dal lavoro perché gli uccelli sono saziati e a quell’ora si riposano dal caldo e io vado a casa. Io ritorno quando ritornano gli uccelli che hanno sciamigau (digerito - ndr). Quando comincia a fare buio gli uccelli si fanno stanchi e se ne vanno a dormire e allora torno anche io a casa, ceno e me ne vado a letto. Una volta mi sono bruciato la mano perché gli ha preso fuoco al clorato, allora il fucile non lo uso più per isciuiai perché mio padre ha detto al padrone che non vuole».

Ha testimoniato R. Z. di 11 anni, di Cabras, nell’Oristanese. Egli frequenta molto raramente la scuola e si esprime correttamente soltanto in lingua sarda. La testimonianza riportata gli è costata una mattina di duro lavoro scolastico per la traduzione in italiano.
Interessante il rapporto umano che si viene a creare tra il fanciullo e i passeri che egli ha il compito di isciuiai: appare un reciproco rispetto per le funzioni e i bisogni dei due antagonisti, ambedue rivestiti di una loro dignità.


RIEPILOGO


Schema dei lavori minorili

Le attività lavorative comunemente svolte, fino agli Anni Sessanta, dai bimbi delle nostre comunità, in particolare di quelle ad economia agricola, si possono così schematizzare.

*Piccioccus de crobi. Ragazzini impegnati in attività di facchinaggio nelle stazioni, nei porti, negli alberghi e nei mercati.

*Piccioccas de mena. Fanciulle che un tempo lavoravano al trasporto dei minerali nelle miniere.

*Andai a marrai. Svolgere il lavoro del bracciante agricolo.

*Andai a pasci. Fare il pastore; portare a pascolare pecore, capre, buoi o maiali.

*Andai a serbiri. Andare a servire presso una famiglia benestante. Su fai sa zaraca, il fare la serva, era un tempo una attività molto diffusa tra le fanciulle dei ceti poveri. Venivano assunte presso famiglie agiate del loro stesso paese, ma più frequentemente in città.

*Andai a spigai. Andare a spigolare. S’intende grano, ma anche altri prodotti della terra come ceci, lenticchie, fave, ecc.. Inoltre, andai a scrichillonai, andare a raccogliere i racimoli, dopo la vendemmia.

*Andai a isciuiai. Fare lo spaventapasseri nei campi di grano o di riso.

*Andai a fai linna. Andare a raccogliere legna.

*Fai su manobara. Fare il manovale, in special modo riferito al muratore, al quale deve fare l’impasto di cemento o di calce cun sa palia e cun sa marra lada, con la pala e la zappa larga, e glielo deve portare a piè d’opera cun sa caldarella, con la caldarina, insieme ai sassi, ai mattoni o ai pesanti blocchetti di cemento.

*Fai su scienti o sa scienti. Per i bambini, significa fare l’apprendista e insieme il garzone di bottega del barbiere, del falegname,del sarto o del meccanico. Per le bambine, fare l’apprendista e la servetta di bottega della sarta o de sa pastissera (o durciaia), della pasticciera, la fabbricante di dolci tradizionali quali quelli elaborati con le mandorle o con la sapa.

*Andai a liai imbidi. Letteralmente, andare a legare i tralci della vite, lavorare la vigna.

*A scazzeddai barbabietola. Diradare le barbabietole.

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