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CAPITOLO PRIMO

IS REGOLLIDORIS
I RACCOGLITORI


Presentazione

L’attività del “raccoglitore” è vecchia quanto l’uomo. I nostri progenitori hanno vissuto cercando e raccogliendo nel loro ambiente tutto ciò che di commestibile o di utile offriva la natura.
Ancora oggi, ma sempre meno, nelle nostre campagne e lungo le coste è possibile “raccogliere” frutti selvatici o animali commestibili, “secondo natura”. Per esempio asparagi, cardi e carciofini, bietole e cicorie, lumache e chiocciole di terra e di mare, e ancora, lungo le coste, ricci, patelle e arselle. Per non parlare delle bacche del mirto, che si mangiano o si usano per ricavarne un aromatico liquore, o delle bacche del corbezzolo, dolci e pastose, di un bel rosso brillante, o anche le deliziose bacche del rovo, sa mura de orru’, la mora del rovo, da non confondersi con sa mura de gessa o mura de matta, la mora del gelso, dolcissima, succosa, delizia dei fanciulli “predatori” delle campagne.
«Col benessere dei nostri tempi - è il commento di un anziano ma attento testimone della zona del Monte Arci - non solo si trascurano o si dimenticano del tutto i vari frutti selvatici, ma a volte si tiene poco conto anche di quelli delle piante coltivate. Questo perché oggi la gente ha la possibilità finanziaria di comprare a scelta al mercato e persino di essere servita a domicilio. Cinquant’anni fa invece i frutti spontanei delle piante selvatiche, ghiande, bacche di lentischio, mirto, corbezzolo e fichi d’India venivano considerati, come gli altri delle piante coltivate, un vero ben di Dio».
Darò più avanti uno spazio, sia pure breve, per ciascuna delle attività che rientrano nel capitolo dei raccoglitori.


SU SINZIGORRAIU
IL RACCOGLITORE DI LUMACHE

Per quel che ne so, il mestiere (se così si può definire) di regollidori de sinzigorrus, è tra quelli rimasti ancora di uso comune. Almeno sinché ci saranno ancora lumache nelle nostre campagne, dopo il loro sterminio con pesticidi e diserbanti.
In autunno è frequente vedere lungo le strade di grande traffico, dopo un abbondante acquazzone, numerose persone, di età diversa, parcheggiata l’auto in una piazzola, percorrere le cunette laterali con buste di plastica, alla ricerca delle chiocciole che numerose escono a pascolare dalle vicine siepi.
Per inciso, va detto che si stanno organizzando “allevamenti razionali” di chiocciole, che vendono nei supermercati il loro prodotto in contenitori di plastica. Il sapore delle chiocciole d’allevamento, rispetto a quelle “ruspanti” o selvatiche, che dir si vogliano, è certamente diverso, assai più scadente comunque le si cucini.
Tra le tante specie di lumache o chiocciole, quasi tutte commestibili, ne citerò soltanto alcune.
Sinzigorru, o gioga, è la chiocciola dal guscio striato bianco o bruno Is sinzigorrus sono le chiocciole più comuni e anche le più usate nella cucina del contadino.
Sinzigorreddu, o giogaminuda, sono dette le lumachine, di cui è ricca la campagna incolta, dove crescono la ferula e il finocchio selvatico, piante basse cespugliose erbacee, alle quali is sinzigorreddus si attaccano a grappoli. Nell’Oristanese, i raccoglitori di mestiere di giogaminudas usano stendere sotto la piantina un fazzolettone su cui fanno cadere le lumachine che poi vengono versate nel sacco. Se ne raccolgono in un sol giorno grandi quantità. Si vendono ai grossisti che le distribuiscono nei mercati. Is sinzigorreddus, le lumachine, si consumano tradizionalmente in occasione di feste e sagre popolari, dove vengono venduti a misurini, già bolliti in acqua aromatizzata con sale e aglio, per stimolare sete di vino.
Mungetta, detta anche tappada quando è in letargo. E’ la lumaca pomatica, di colore marrone uniforme, con il guscio sottile ed elastico. E’ certamente la lumaca più apprezzata, gustosissima e la più costosa nei mercati.
Sinzigorru de coloru, letteralmente chiocciola serpentina: è una varietà comune di chiocciola dal guscio striato somigliante alla pelle della serpe, ritenuta dalla gente non commestibile.
Pertiazzu o boveri o boboitana è detto il lumacone. Si tratta delle grosse chiocciole carnose dal guscio robusto giallastro-marrone, assai apprezzate anche nella cucina internazionale. Fanno il paio con “les escargots”, i lumaconi francesi.
Gingella, in alcuni paesi detta singella, indica la chiocciola in generale e talvolta anche le pomatiche quando sono sigillate.
In margine, si accenna brevemente a su sinzigorru de mari, di cui l’esemplare più comune è su bucconi, il murice. Nei nostri mari, lungo le coste scogliose, esistono centinaia di specie di sinzigorrus, chiocciole, che vanno dalle dimensioni minuscole alle enormi, pesanti oltre il mezzo chilo, come appunto certi murici.
Le chiocciole in generale (escluse is mungettas tappadas, che si trovano sotto terra), si raccolgono dall’autunno fino alla primavera, ogni volta che cade una pioggia abbondante. Si trovano specialmente lungo i muretti di pietra e a lato delle siepi del ficodindia, dove si sono rintanate durante l’estate.
Buca-moddi, sono dette le chiocciole giovani che hanno il guscio ancora tenero, molle all’apertura.
Sazzauga, sinzigorru sene croxu, la lumaca vera e propria, senza il guscio, non è commestibile e viene combattuta come assai nociva per le colture orticole.
Dopo raccolte, le lumache devono essere conservate po mattiri, per purgare, dentro un corbello a intreccio largo, affinché passi l’aria e gli animali respirino. A inantis de ddas coi, deppint essiri mattias; prima di cuocerle devono essere purgate, in modo che abbiano gli intestini puliti, perché non di rado le chiocciole mangiano erbe amarissime. Nel periodo del “purgatorio” non si lasciano completamente digiune, ma sul fondo de su scarteddu, del corbello, come detto, si mette un po’ di poddini, crusca.
In alcuni paesi esistono appositi recipienti per conservare le lumache, per lo più un corbello a intreccio lasco, con coperchio rigido incernierato con una funicella di cuoio o di giunco. Si usa anche il semplice scarteddu che viene chiuso con un pezzo di sacco legato tutto intorno al bordo con uno spago.
Dopo che le lumache sunt mattìas, sono purgate, prima di essere cucinate, vanno trattate con sale e aglio, per togliere loro la bava, e quindi lavate con acqua corrente. Per questa operazione occorre sa saliocca, o biocca, sale grosso, che va sparsa sopra le chiocciole che reagiscono sbavando. Lavate per bene, vanno immerse nell’acqua bollente e lasciate cuocere per circa mezz’ora. Dopo scolate, prima di essere versate nel sugo, le chiocciole vanno “sculacciate”, cioè si taglia la parte terminale del guscio, per favorire la penetrazione della salsa o di altri condimenti all’interno del guscio, e quindi consentire l’aspirazione del mollusco per bocca o l’estrazione mediante stuzzicadenti o forchetta a un solo dente.
Sono tanti i modi di cucinare is sinzigorrus, le chiocciole, sia quelle comuni che le pomatiche e i lumaconi. Ottime arrostite in su farifari, nella cenere calda, o in griglia, o sulla piastra, o sulle braci, o al forno (gratinate), farcite di una pastella ottenuta con pane grattugiato, olio, sale, aglio, prezzemolo e, a chi piace, con una aggiunta di peperoncino. Ottime anche al naturale, arrostite con un pizzico di sale e un goccio di olio d’oliva.
Nell’Oristanese, is pertiazzus, i lumaconi, una volta bolliti vengono soffritti nell’olio d’oliva con aglio e prezzemolo ben tritati e una spolveratina di pane grattugiato. Questo piatto si accompagna sempre al vino nero, denso e gagliardo. In questo stesso modo, oppure in salsa piccante di pomodoro, vengono cucinate is mungettas, le pomatiche, ovviamente dopo la bollitura.
E’ interessante vedere in quanti diversi modi viene indicata in Sardegna la chiocciola. Si può dire che ogni paese usi un proprio termine: sitzigorru, sinzigorru, sinsigorru, zizzigorru, tivigorru, zinzorra, gingella, sunzorra, zonzorra, pivigorru, tabagorra, barbagorra, coccorra, portamincorrus, barragorru, gioga e giogaminuda.
Normalmente, ciascun componente della famiglia o della comunità, secondo la passione e i gusti, si improvvisa “raccoglitore di lumache”, dall’autunno alla primavera, ogni qualvolta cade una pioggia abbondante e le lumache escono a pascolare. Ma vi era, e vi è ancora, chi va a raccogliere lumache per mestiere, per rivenderle al grossista o direttamente nei mercati. E poiché non si può vivere soltanto raccogliendo chiocciole (seppure si vendano a buon prezzo: fino a 30 mila lire al chilo per is mungettas), si raccolgono altri frutti spontanei che la natura offre, come su sparau, gli asparagi, sa tàparra, i capperi, sa murta, il mirto, s’olioni, i corbezzoli, e cosi via.


SU RIZZONERI
IL RACCOGLITORE DI RICCI
E ALTRI FRUTTI DI MARE

Siamo ai primi giorni dell’anno, alle cosiddette “secche di gennaio”. Is rizzoneris indicano questo periodo come il pieno della stagione della pesca dei ricci di mare. La stagione dura fino alla primavera inoltrata. Ogni giorno di bonaccia, specialmente quando spira la brezzolina della tramontana, è una buona occasione di lavoro.
Con s’ancuredda e su saccu, una sorta di ronciglio e un sacco di juta, su rizzoneri parte a s’orbescida, all’alba, se non prima, per essere nella costa scogliosa alle prime luci.
Alcuni tratti di mare, tra banchi rocciosi, pullulano di ricci (echinus esculentus) dagli aculei mobili, iridescenti, dal nero al marrone, dal blu al viola. Sono più saporiti i ricci pescati su fondali ricchi di alghe.
Su rizzoneri raccoglie la preda con s’ancuredda, il ronciglio, o con una conocchia di canna, cannuga, riempiendone il capiente sacco che egli porta con sé, trascinandolo alleggerito dall’acqua.
Più tardi, a mezza mattina, carica il sacco sul portapacchi di una bicicletta, che egli spinge, camminando a piedi di lato, fino al paese più vicino, dove, andando di casa in casa, vende i suoi frutti di mare a un tanto la dozzina.
Più spesso is rizzoneris vendono i loro ricci lungo le strade trafficate, oppure nella piazza del paese, sopra un tavolo che si fanno prestare da un conoscente del luogo. Talvolta, con i ricci, essi vendono anche altri frutti di mare, che vengono pescati nelle stesse coste e insenature: is orziadas, le attinie, is pagellidas, le patelle, talune specie de cocciulas, di arselle, nonché is bucconis, i murici, is resoieddas de mari o gutillonis, i cannolicchi, is sinzigorrus de mari, le chiocciole marine, is cozzas, i mitili o cozze, e su cavuru, i granchi - specialmente le femmine con le uova che bollite e condite con olio, pepe e sale vengono vendute nelle bettole in autunno, nel tempo delle castagne.


SU COCCIULAIU
IL RACCOGLITORE DI ARSELLE

Su cocciulaiu indica sia il raccoglitore che il venditore ambulante di arselle. Come su pizzigaiolu, o pisciaiu, il pescivendolo, era un mestiere assai diffuso non soltanto a Cagliari e nel suo hinterland ma anche nei Campidani d’Arborea, nel basso Oristanese, in tutto l’arco del Golfo di Oristano, il cui entroterra è disseminato di stagni e di lagune un tempo pescosissimi.
Appunto nelle acque basse e calde degli stagni e nello stesso Golfo di Oristano si pescano le arselle, sa cocciula. Oggi è rimasto ben poco da pescare; e quel poco che è rimasto è inquinato. Si è rimediato in parte con gli allevamenti e l’impianto di stabulari per la depurazione.
Non considerando le numerose specie di importazione che vengono allevate e immesse attualmente sui mercati, abbiamo diverse varietà de cocciulas, di arselle.
Sa cocciula bianca, una specie di arsella chiara, con le valve ondulate a ventaglio, talvolta con macchie giallastre, marron e nero, più o meno scure, non molto polposa ma assai saporita, che potrebbe paragonarsi alla vongola.
Sa cocciula cau, una specie di arsella schiacciata, abbastanza grande, non molto carnosa e insipida, poiché vive in acque paludose, poco salate.
Un’altra specie che merita di essere menzionata è sa cocciula pintada, un’arsella di media grandezza, molto carnosa e saporita, certamente la più pregiata.
Vi è anche, simile a sa cocciula pintada, una specie minuta, detta cocciuledda, che un tempo si trovava in grande quantità nel bagnasciuga sabbioso di tutto il golfo oristanese, specialmente a Torre Grande e a Foxi, nel Cirras. I villeggianti dei paesi dell’entroterra, che dopo il raccolto trascorrevano qualche settimana sulle rive di quei mari, portavano con loro dei setacci che lasciavano passare la sabbia e trattenevano sa cocciuledda, le arselline, raccogliendone ingenti quantità che distribuivano, rientrati in paese, a parenti e amici. Scherzosamente, questa cocciuledda, minuta ma saporita, veniva chiamata spisa-spisa, termine che indica l’atto compiuto con gli incisivi per sgusciare i semi di melone e di anguria.


SU LINNAIU
IL LEGNAIOLO

Quella de su linnaiu, del raccoglitore, portatore e venditore di legna, indicava una attività assai diffusa in tutti i paesi dell’Isola. Dove, per altro, chiunque ne avesse la capacità e il mezzo (cioè essere robusto e possedere un carro), provvedeva da sé al fabbisogno della propria famiglia, senza dover ricorrere alle prestazioni di su linnaiu, del legnaiolo, di colui che faceva quel mestiere.
Tra is linnaius, più in basso stavano is fascineris, i venditori di fascine (detti anche, scherzosamente, fascistas, durante il ventennio), per lo più anziani o ragazzini molto poveri, che andavano al monte per provvedersi di legna. I loro attrezzi erano unu marroni, una zappa stretta e robusta, e una funi, una corda. Le ramaglie dei cespugli, tagliate alla base con su marroni, venivano raccolte in fascine dalla circonferenza di 30/40 centimetri, tenute da sa mussorgia, un doppio legaccio consistente in ramoscelli flessibili, per lo più di lentischio. Raccolte tante fascine quante ciascun linnaiu poteva portarne a spalle, tutte insieme venivano legate in un sol fascio dalla fune, lasciando che i due capi della stessa fungessero da bretelle.
Le fascine venivano vendute in paese, normalmente alle famiglie povere che avevano figli ancora piccoli, o solo figlie femmine, o alle vedove; persone cioè che non erano in grado di provvedere in proprio alla raccolta della legna.
Chi possedeva il carro (a buoi, a cavallo o ad asino), sul finire dell’estate dedicava alcuni giorni alla raccolta e al trasporto della legna, sia in fascine (insostituibili per riscaldare il forno e per gli arrosti), sia in cozzina, radici e ceppi per il focolare (principalmente per il riscaldamento e per cucinare).
Numerose le essenze da ardere, diversificate secondo l’uso specifico e la consistenza, po allumingiai, per accendere, po arrostiri, per arrostire i pesci o le carni del capretto, dell’agnello, del porchetto. Ciò - è il caso di dire naturalmente - in rapporto alla qualità e quantità del patrimonio vegetale a disposizione di ciascuna comunità.
Specialmente negli anni di mezzo del secolo scorso, la Sardegna assiste alla coloniale distruzione dei suoi boschi, prevalentemente a opera dei carbonai toscani e piemontesi, preceduti dai fornitori di legname per navigli della marina militare e civile. Tale dissennato disboscamento venne spesso giustificato con il pretesto socio-politico di far piazza pulita dell’“habitat” di pericolosi banditi. Numerose comunità rimasero cosi prive di quella fonte energetica, da millenni usata comunisticamente, anche dopo l’abolizione degli Ademprivi (1859), ossia del “diritto d’uso” del patrimonio naturale. Alcune comunità della Marmilla, come Pauli Arbarei, ancora alla fine degli anni ‘40, erano così povere di legna da dover usare in sua vece gli escrementi di bue essiccati e la paglia delle fave.
Le essenze da ardere più comunemente usate consistevano negli arbusti del sottobosco, che in mancanza di alberi raggiungevano un notevole sviluppo. In prevalenza, moddizzi, murdegu, arrideli, olidoni, murta (lentischio, cisto, fillirea, corbezzolo, mirto), e, inoltre, zinnibiri e ollastu (ginepro e olivastro).
Gli arbusti, recisi alla base, venivano raccolti, conservati o venduti in fascine; da lì a qualche anno, dalle ceppaie ripollonavano nuove ramaglie. In talune zone, sia per diradare, sia per aprire nuove terre ai seminativi, di queste essenze si estraevano anche le ceppaie. Sa cozzina o cozzighina, la ceppaia, forniva un materiale da ardere più ricco di calorie e più costoso delle fascine.
Sempre come combustibile erano molto diffusi, nei Campidani e nelle aree collinose, il mandorlo, e nelle aree montuose, l’olivastro; e, ovunque, la quercia, l’elce e il rovere.
L’uso che ne faceva il popolo non degradava il patrimonio naturale: rispettava i soggetti produttivi o costituenti il bosco e utilizzava le ramaglie secche o da potatura (come i sarmenti della vite) e gli alberi ormai improduttivi o mal ridotti per la vecchiaia.


SU REGOLLIDORI DE SPARAU
IL RACCOGLITORE DI ASPARAGI

I raccoglitori di asparagi sono per la maggior parte ragazzi dagli otto ai quattordici anni, appartenenti ai ceti più poveri della comunità, che evadono dall’obbligo della scuola per guadagnare qualcosa, per sé o per la famiglia.
Vanno alla ricerca degli asparagi preferibilmente in coppia, per essere in compagnia, e raramente in gruppo. Frequentano, ovviamente, le zone di campagna incolta, dove crescono spontanei gli asparagi, che formano dei cespugli più o meno spinosi, alcuni assai robusti e intricati che, in alcune varietà, possono raggiungere anche l’altezza di due metri. Talvolta, i cespugli dell’asparago crescono e si intrecciano con il rovo, nelle siepi del ficodindia, formando un tutto unico spinoso che costituisce una barriera difficilmente valicabile.
In lingua sarda il vocabolo sparau al singolare, (logudorese isparagu), indica non soltanto le piante ma anche i germogli - i turioni o polloni - ancora teneri dell’“asparagus officinalis” e dell’“asparagus acutifolius”, che si raccolgono per essere consumati, crudi e ancor più cotti. Com’è noto sono dotati di proprietà diuretiche e sono medicamentosi nei disturbi della circolazione. Comunicano all’urina un odore particolare, assai acuto.
Nelle comunità campidanesi, genericamente, si identificano principalmente due tra le tante varietà di asparagina: su sparau mascu e su sparau femina. Il primo è una pianta assai robusta che forma cespugli intricati, forniti di acuminati aculei, e dà polloni commestibili più grossi e di sapore amarognolo; il secondo costituisce una piantina più delicata, poco spinosa, che se associata ad altri arbusti diventa rampicante, sviluppandosi lungo tutta l’altezza della pianta cui si consocia, e dà asparagi più piccoli, dolciastri, assai saporiti, che possono essere consumati in insalata anche crudi. Le due varietà di asparago, mascu e femina, unendo i loro due sapori, danno un risultato di grande squisitezza, comunque li si voglia cucinare e consumare.
Qualche semplice ricetta sarda nella cucina degli asparagi:
- bolliti in acqua giustamente salata, quindi scolati e conditi con olio d’oliva e appena appena di aceto o limone;
- soffritti in padella con un po’ di olio e sale;
- soffritti in padella con del burro (io preferisco l’olio d’oliva che ne esalta maggiormente il naturale sapore) e, a fine cottura (non cuocere troppo!), versare l’uovo precedentemente sbattuto con un pizzico di sale;
- si scelgono alcuni polloni tra i più grossi, ma teneri, e si arrostiscono sulla brace spruzzandoli di sale. Il sale che finisce sulle braci scoppietta rallegrando l’operazione culinaria. Mentre si depone con l’indice e il pollice il terzo asparago il primo è già arrostito, si prende, sempre con le stesse dita, e lo si porta alla bocca. Metodo primitivo che, tuttavia, rende gustosissimo l’asparago, seppure si finisca col mangiarlo insieme ad un po’ di cenere. D'altro canto, è provato che il potassio è fondamentale nell’equilibrio delle cellule, ed è utile in molti disturbi, comprese le aritmie cardiache; infatti, si può empiricamente sostenere che è anch’esso (il potassio contenuto nella cenere) un diuretico ed esalta la stessa proprietà dell’asparago.
Una delle zone più ricche di asparago selvatico, della varietà dolce, è quella che lungo l’autostrada Cagliari-Sassari va da Uras fino a Marrubiu, esattamente nella piana e nelle pendici a Occidente del Monte Arci. Così come nelle campagne che, grosso modo, vanno da Assemini-Decimo verso l’Iglesiente è assai diffuso l’asparago che dà luogo a cespugli robusti e intricati, con polloni più grossi ma di gusto amarognolo. In quelle zone, è facile trovare, ai margini delle strade, numerosi fanciulli che vendono agli automobilisti gli asparagi raccolti e ridotti in mazzetti (che con il passare degli anni da grossi che erano si vanno facendo sempre più striminziti e man mano che rimpiccioliscono come quantità aumentano di prezzo).
Alcuni ragazzi sono organizzati con barattoli d’acqua, dove tengono immersi i polloni per evitarne il deterioramento nelle calde giornate primaverili.
Come si è accennato si tratta di ragazzi di età compresa tra gli otto e i quattordici anni, che spinti dal bisogno familiare o comunque, per rendersi almeno in parte economicamente indipendenti, evadono dall'obbligo della frequenza scolastica per dedicarsi a questa attività di “raccoglitori”. In autunno, sono gli stessi ragazzi che ritroviamo, nei medesimi luoghi, stavolta a vendere funghi, per lo più prataioli, o lumache.


SU REGOLLIDORI DE GIUNCU E CARCURI
IL RACCOGLITORE DI GIUNCO E FALASCO

In alcuni periodi dell’anno, nelle zone paludose del Golfo di Oristano, in particolare da Santa Giusta a Riola, gli abitanti delle comunità rivierasche si dedicano alla raccolta delle erbe palustri, che verranno utilizzate nei lavori di intreccio e nella fabbricazione di numerosi utensili. Tra le erbe palustri di più largo uso abbiamo: su giuncu, sa zinniga e su sessini, il giunco, il giunco spinoso, e il cipero, che ritorti o ridotti in listarelle servono per fabbricare su cannabittu, funi e cordicelle di vario spessore, e per l’intreccio di cestini, corbe, canestri e setacci.
Altre erbe palustri raccolte ai margini degli stagni nell’Oristanese sono sa spadua e su carcuri, i falaschi dalle foglie lunghe, larghe, spesse e spugnose, con cui si ottengono ottime stuoie (rinomate quelle di Santa Giusta, Nurachi, Riola), e i famosi fassonis, imbarcazioni lacustri, la cui tecnica di fabbricazione millenaria si è conservata intatta sino a oggi, e che possiamo ancora vedere negli stagni di Cabras.
Is stojas, le stuoie, costituivano un tempo il principale arredamento dell’abitazione del contadino e del pastore, fungendo da sedile, da giaciglio e da letto: ci si sedeva per mangiare o per conversare, ci si sdraiava per riposare o per dormire la notte.


SA REGOLLIDORA DE MENDULA
LA RACCOGLITRICE DI MANDORLE

Il lavoro di raccolta delle mandorle è detto andai a scudiri e arregolliri mendula, andare a bacchiare e raccogliere mandorle.
Il procedimento attraverso il quale si raccolgono le mandorle, così come per le noci nelle Barbagie montuose, e così pure per le ulive, è detto scudiri mendula, bacchiare mandorle.
Il lavoro di raccolta delle mandorle dal terreno, preventivamente ma non sempre rastrellato, è quello più faticoso e viene fatto dalle donne e dai fanciulli, che stanno tutto il giorno carponi, con la schiena piegata.
Per spiccare le drupe dall'albero occorre sa canna po scudiri, una grossa e lunga canna oppure una robusta pertica di olivastro. Bisogna mettere una buona dose di attenzione nel lavoro di bacchiatura, onde evitare che i colpi troppo vigorosi e male assestati recidano i rametti fruttiferi e di conseguenza si contragga la produzione dell’anno che verrà.
Le mandorle si raccolgono solitamente a fine luglio, o ad agosto, a seconda delle zone e del clima. Il tempo ideale per la bacchiatura e la raccolta delle mandorle è quello in cui la drupa ha il mallo, cioè il primo guscio, non del tutto secco, che sta aprendosi, permettendo così alla mandorla vera e propria, l’endocarpo legnoso dentro cui sta il seme, la parte commestibile, di essere sgusciato più facilmente.
Dopo insaccate e portate a casa, le mandorle vanno ripulite dal mallo e poi lasciate in luogo aerato. I malli secchi vengono usati per alimentare il fuoco del caminetto e così pure l’endocarpo, che dà luogo a una brace consistente, ottima per gli arrosti come la carbonella.
Con il seme della mandorla, macinato o a pezzetti o anche intero, si preparano numerose specialità di dolci. Tra gli altri gli amaretti, il torrone, il “gâteau”, i confetti, e i classici dolci sardi, quali is candelaus e is gueffus, a base di pasta di mandorla. Dal seme della mandorla si estraggono essenze e oli per liquori e bibite. Nella preparazione dei dolci di mandorle, è d’uso utilizzare una certa quantità di mandorle amare - che vanno dosate in modo da evitare pericoli per i consumatori.
Infatti, non bisogna dimenticare che le mandarle amare contengono l’“amigdalina”, «sostanza glucoside che si trova nelle foglie di mandorle amare, di pesco, di lauro ceraso e nel seme di mandorla amara, di pesca, di ciliegia, di amarena, ecc.. Sotto l’azione degli acidi diluiti, o di un fermento detto emulsina l’amigdalina si scinde in acido cianidrico, aldeide benzoica e glucosio. E’ l’acido cianidrico che rende velenosi i semi e le foglie sopra accennati. Da una mandorla amara si svolge circa 1 mgr. di acido cianidrico; circa 50 mandorle amare o semi di pesca danno la morte. Attenti all’uso di tali sostanze per fare dolci».3
Ho sentito dire che in alcuni paesi della Marmilla produttori di mandorle, al posto delle tradizionali canne, si userebbero degli speciali correggiati per abbacchiare le drupe. Tali ainas, attrezzi, per spiccare le mandorle sarebbero costituite da una lunga e robusta pertica alla cui estremità sarebbe legato, con una correggia, un bastoncino di circa trenta centimetri.


SA REGOLLIDORA DE OLIA
LA RACCOGLITRICE DI OLIVE

Il lavoro di raccolta delle olive è detto andai a scudiri e regolliri olia, andare a bacchiare e raccogliere olive.
Nei paesi agricoli dei Campidani, anche le donne con i fanciulli partecipano ai lavori delle campagne. Alle donne e ai fanciulli sono riservate normalmente le attività secondarie, di bracciantato alle dipendenze di un maschio: il padrone o un caporale.
Nelle campagne dell’Oristanese è facile vedere gruppi di donne, fornite di una sacca appesa alla cintola (qualcuna utilizza il grembiule), tra le zolle di un campo dissodato, che raccolgono ad una ad una le olive che l’uomo abbacchia con una pertica. Alle donne, e così pure ai piccoli, vengono di norma riservati i lavori di raccolta della frutta, in particolare delle mandorle e delle olive.
Nel mondo barbaricino, invece, le donne con i piccoli, che tengono loro compagnia, curano l’orto, zappano pomodori, piselli e fagioli.
Nel mondo dei Campidani, donne e bambini raccolgono pomodori per le industrie, diradano e raccolgono le barbabietole e partecipano insieme ai maschi alla vendemmia. Inoltre, le donne, le giovani sotto la direzione delle anziane, adempiono ai compiti di conservazione e di trasformazione di alcuni ortaggi, come i funghi e le melanzane, i cetrioli e i peperoni, i pomodori da salare e far seccare o da fare in conserva, e di certa frutta, come l’uva da far passire o da far la sapa, i fichidindia da consumare freschi, da dare agli animali da cortile o da far la marmellata, e, inoltre, i fichi da far seccare.


SU REGOLLIDORI DE LANDIRI
IL RACCOGLITORE DI GHIANDE

«Per i nostri nonni, uno dei lavori più faticosi e non senza qualche rischio era quello di andare a “boddì làndiri” (raccogliere ghiande).
A parte il fatto che dovevano percorrere strade e luoghi accidentati portando a spalla il sacco pieno, correvano pure il rischio di essere sorpresi e rimproverati dai porcari e caprari che tenevano in affitto il ghiandifero ceduto dall’Amministrazione comunale.
Tuttavia stante la vastità della montagna, riuscivano ugualmente in un posto o nell’altro soprattutto dalle piante isolate esistenti fuori dai lotti affittati, a raccogliere un po’ di frutto che, oltre a servire per alimentare “su proceddu” (maialetto d’ingrasso), veniva venduti per procurare “càncu soddixèddu” (qualche soldo).
Nella maggior parte delle famiglie povere, le ghiande tostate con “s’atturradòri” (l’utensile di latta usato per tostare ghiande, ceci e orzo) sostituivano il caffè, per cui nell’ambiente contadino venivano pure denominate “su caffèi de is pòburus” (il caffè dei poveri)».4


SU REGOLLIDORI DE LOSTINCU
IL RACCOGLITORE DI BACCHE DI LENTISCHIO

«I frutti del lentischio, in altri tempi, avevano un’importanza tale che la raccolta di essi veniva disciplinata da ordinanze prefettizie. Infatti solo quando il Sindaco del paese avvertiva “sa cumoidàdi” (la comunità), a mezzo pubblico bando, che la raccolta di tali frutti era resa libera, le donne potevano andare a “frigài” (fregare le fronde delle piante); ciò avveniva generalmente nell’ultima settimana di ottobre.
Il paziente lavoro di raccolta del lentischio si faceva in questo modo: le donne usavano portare “su xibìru” (crivello) legato con un pezzo di spago a tracolla e, avvicinandosi alla pianta, sfregavano le fronde per staccare i frutti. Mentre per i lavori di raccolta erano addette le donne, agli uomini, marito, figlio o fratello che fosse, spettava quello di “cazzigài” (pigiare)
Prima di procedere alla pigiatura, il prodotto veniva “lutzriàu” ossia lavorato in modo da separare i semi maturi da quelli verdi o acerbi; ciò avveniva in questo modo: il prodotto si versava nell’acqua contenuta in un caldaro da cui si toglievano i semi non maturi che rimanevano a galla, mentre quelli che restavano in fondo all’acqua, cioè i maturi, venivano cotti nello stesso recipiente. I semi verdi venivano somministrati alle galline. Dopo una giusta cottura “su lostìncu” andava versato, un po’ alla volta, in un apposito sacchetto e quindi pressato a “prant’ ‘e pei” (a piedi nudi) in una vasca di pietra oppure in un tronco cavo spaccato detto “lacch’ ‘e cazzigài”. Il liquido ottenuto veniva subito “abribìu” ossia lavorato per separare l’olio dalla parte acquosa detta, appunto, “acquàxriu”, ciò veniva fatto mediante l’uso di un sottile mestolo di legno detto “turra de ispillài”.
Dall’olio ricavato, mentre quello destinato ad uso illuminazione si lasciava grezzo, l’altro per uso alimentare veniva accuratamente cotto. Durante la bollitura, al fine di renderlo più amabile e più commestibile, ci mettevano un pugno di fichi secchi e pezzetti di mela cotogna. Bollito in tal modo l’olio diventava così buono da essere adoperato per tutti gli usi di cucina».5


SA REGOLLIDORA DE FIGU MORISCA
LA RACCOGLITRICE DI FICHIDINDIA

«Bella figu morisca / Bel ficodindia
a is spinas de oru / con le spine d’oro
totu sa ruga est trista / tutta la strada è triste
candu no passas, coru / quando non passi, amore».

La raccolta dei fichidindia impegna le donne nel periodo che, approssimativamente, va da Santa Maria l’Assunta (Ferragosto), fino alla metà di ottobre. E’ il periodo che coincide con la maturazione dell’uva, che culmina con la vendemmia, la pigiatura e la vinificazione.
In quei giorni d’autunno è facile vedere quotidianamente donne e bambini uscire dall’abitato, per dirigersi verso le località della campagna dove ci sono vigne o appezzamenti recintati a cresura de figu morisca, con la siepe del ficodindia. Le donne sono fornite di corbule, ceste, tenute in bilico sul capo con su tidili, il cercine, e de cannugas, di robuste canne la cui estremità culmina in una conocchia, atta ad agganciare e a spiccare a distanza gli spinosi frutti del cactus.
Giunte in un punto poco battuto, dove le siepi siano ricche di frutto, le donne depongono i loro recipienti e, dato di piglio alla canna, iniziano a spiccare i fichi che depongono per terra fino a formarne un mucchio, badando sempre di stare a distanza e di non mettersi controvento, per evitare le microscopiche spine.
Raccolta la quantità sufficiente a riempire corbe e ceste (nonché a satollarsi loro e sa piccioccalla, la ragazzaglia, facendo uno spuntino in loco), i frutti vengono accuratamente scovitaus, strofinati con uno scopetto di erbe, per togliere loro le spine.
A casa, scelti i frutti più belli, da consumarsi in famiglia, gli altri vengono dati in pasto al maiale da ingrasso.
Tale faticosa operazione si ripete quotidianamente po totu su tempus de sa figu morisca, per tutto il periodo di maturazione del ficodindia.
Nei paesi agricoli dei Campidani, i terreni coltivati a orto, a frutteto e a vigna, che formavano la prima fascia territoriale intorno all’abitato, erano recintati da siepi di ficodindia, rinforzate e infittite dai cespugli de s’arrù, del rovo.
Il ficodindia, “Opuntia ficus-indica”, della famiglia delle “Cactaceae”, è una pianta grassa originaria dell’America centrale. Ben presto importata in Europa si è diffusa rapidamente in tutta l’area del Mediterraneo, dove cresce spontanea. Nella nostra Isola, così come nell’Italia meridionale, era assai diffusa. Oggi, in seguito a dissennate trasformazioni fondiarie con mezzi pesanti come le ruspe e le scavatrici meccaniche, le “Opuntiae ficus-indica” vanno scomparendo.
Il frutto della nostra Opuntia viene chiamato diversamente da paese a paese: figu morisca, figuzindia, figu India, figucrabia, figu carbina.
A seconda della varietà o del grado di maturazione sa figu morisca (o figu India), può essere birdi, verde, quando è appena matura ma già dolce; birdi-groga, giallo-verde, quando è nella giusta maturazione; groga, gialla, se è troppo matura; e ancora a naseddu in foras o a naseddu a intru, cioè con il nasello in fuori o in dentro, quest’ultima detta anche a naseddu frungiu, nasello rugoso; può essere a mazza perdosa, quando la polpa ha molti semi; cotta a umbra, se il frutto è maturato all’ombra; figu-folla, se il frutto è inglobato nella pala, che si conserva per mesi ed è ottimo di sapore.
Le pale del ficodindia sono dette in sardo folla o anche carri.
Fino a tempi recenti le siepi di ficodindia erano molto diffuse e sostituivano del tutto i muretti e ogni altro genere di recinzione per delimitare un terreno dall’altro. Talvolta, nei Campidani agricoli, anche le canne e l’alloro coltivato a cespuglio venivano usati come siepi di confine, con funzione di frangivento.
Il ficodindia nostrano si riproduce facilmente per talea. Per dar vita a una siepe di questa essenza, si traccia un solco profondo non più di cinquanta centimetri e si appoggiano da ciascun lato le pale spinose che mettono radici, naturalmente, nella parte a contatto col suolo, senza che, per il momento, vengano ricoperte di terra. Negli spazi tra una pala e l’altra si appoggiano le pertiche del rovo che - queste si - vanno ricoperte di terriccio sciolto, affinché mettano radici e germoglino. Soltanto successivamente, quando è possibile vedere che le pale non sono marcite, il solco viene ricolmato, anche per assestare le piante. In pochi anni ne deriva una recinzione fitta, assai spinosa e praticamente invalicabile.
Per poter accedere alla proprietà, chiusa in tutto il suo perimetro da una siepe di ficodindia, di rovo e di pruno selvatico, è necessario tenere aperto un varco, che si chiama giassu, fatto a misura d’uomo, talché in alcuni casi bisogna avanzare carponi per introdursi nel fondo. Su giassu, il varco nella siepe, normalmente viene chiuso con sa tuppa, un groviglio grossolanamente sferico costituito da ramaglie spinose, per lo più pruno e rovo. Per aprire e chiudere su giassu, il contadino reca sempre immancabilmente con sé un arnese bivalente che viene chiamato indifferentemente sa frochitta o su cavunazzu, la forchetta o il roncolaccio. Tale attrezzo è costituito da un bastone di olivastro alle cui estremità sono inseriti unu cavunazzu, una roncola, da una parte, e una frochitta, una forchetta, dall’altra. Oltre che per spostare o rimettere il groviglio spinoso a chiusura del varco della siepe, questo attrezzo serviva per potare la stessa, riconducendola a dimensioni non eccessivamente ingombranti, dato che ficodindia e rovo sono due essenze che crescono assai rigogliose e in modo scomposto.
Il ficodindia è assai prodigo di frutti che costituiscono un elemento importante nell’alimentazione della famiglia contadina e nella dieta del maiale da ingrasso che, tradizionalmente, viene macellato in novembre.
A tarda primavera le pale si riempiono di fiori giallo e arancione e durante tutta l’estate si forma e cresce il frutto, che giunge a piena maturazione a fine agosto, in coincidenza con alcune varietà di uva. Tuttavia la tradizione popolare vuole che il frutto del ficodindia sia commestibile e salutifero soltanto se consumato dopo le prime piogge, che ridanno linfa alle piante dopo la calura estiva. Fanno eccezione naturalmente i frutti delle siepi che recingono gli orti irrigui, i quali non soffrono la siccità e producono esemplari più sviluppati, più succosi, anche se c’è chi sostiene che il frutto delle piante irrigue riempia si l’occhio, sia cioè bello da vedere, ma non soddisfi il palato, in quanto il selvatico è sempre il più saporito.
Il frutto del ficodindia è assai spinoso e spesso è situato in alto o in posizione da non poter essere raggiunto facilmente. Pertanto, è necessario fornirsi di uno specifico, seppure rudimentale, attrezzo: sa cannuga, costituita da una lunga e robusta canna che termina, nella parte più grossa, con una forcella a tre punte, somigliante a una conocchia. Il frutto globuloso viene incastrato con sa cannuga, la canna a conocchia, e facilmente spiccato dalla pala cui è attaccato. Nel compiere tale operazione bisogna stare molto attenti a non mettersi controvento perché, muovendo le pale del fico, si smuovono nugoli di spine quasi invisibili che si infiggono nelle parti più delicate del corpo. La loro puntura è fastidiosissima e assai arduo è l’estrarle, operazione che si fa con le unghie e nella quale, normalmente, tutte le donne che vanno a raccogliere i fichidindia diventano esperte. Quando la spina non è estraibile, perché si è spezzata, alcuni usano passare sulla pelle la lama del coltello, in modo da tagliare la spina più profondamente possibile: il procedimento della lametta quando ci si fa la barba.
Come si è già accennato, i fichidindia raccolti con sa cannuga si ammucchiano sul terreno e si procede all’operazione di “spinatura”, detta in sardo scovittai, scopettare. Si fabbrica con dell’erba, per lo più con i tralci della vite, uno scopetto che, ripetutamente, si passa sui frutti liberandoli dalle spine. Ma, prima di poterli gustare, sorge il problema di come vanno sbucciati, e non è facile farlo se non seguendo una ben precisa tecnica, onde liberare il ficodindia dallo spesso fibroso involucro e, soprattutto, per non ficcarsi in bocca le diaboliche finissime spine, che sempre residuano anche dopo la più attenta scovittadura. Si prende il frutto, meglio se appoggiandolo sopra un piano, e con un coltello ben affilato se ne tagliano le due estremità. Sulla parte centrale restante, con la punta del coltello, si pratica un taglio longitudinale; quindi la buccia può essere facilmente rimossa. L’operazione di sbucciare il fico con tale tecnica è detta crastai figu morisca, letteralmente: castrare fichidindia.
Nei tempi andati, specialmente al tramonto, non era difficile vedere, nei cortili di casa, donne sedute su scanni, davanti a un cesto di fichidindia, intente al lavoro de sa crastadura, della sbucciatura, per dare i succulenti frutti al maiale da ingrasso, il quale, poco distante, nel suo pertugio, grugniva seguendo impaziente l’operazione. Va detto che sa crastadura, l’estrazione totale della buccia, era riservata ai maiali schizzinosi, perché la maggior parte di questi animali domestici mandavano giù tranquillamente il frutto con la buccia, a cui però andava sempre tolto su naseddu, la parte superiore, dura e fibrosa.


SU REGOLLIDORI DE TOMATIGA
IL RACCOGLITORE DI POMODORI

«Il ragazzo ha dentro di sé una voglia immensa di imparare. Sta all’adulto fare in modo che venga coltivata e soddisfatta in lui questa voglia di imparare. Ciò non è da confondersi minimamente con lo sfruttamento del lavoro minorile, che è una cosa abietta
Nella mia famiglia il diritto allo studio era una cosa sacrosanta per tutti noi figli, anzi oserei dire che era considerato più che un diritto un dovere.
I miei genitori si prodigavano per metterci nelle migliori condizioni per fare il nostro dovere di studenti: i compiti prima di tutto, prima del divertimento, senz’altro, ma anche prima di qualsiasi altro lavoro. Voglio dire meglio che se per caso avevo da studiare così tanto da trascorrere tutta la sera sui libri, venivo esonerata persino dall’aiutare la mamma ad apparecchiare.
Nonostante questo, però, ognuno di noi figli doveva imparare a fare di tutto: sia i mestieri di casa, sia il cucito e la maglia, sia i piccoli lavori domestici di manutenzione e anche, man mano che si cresceva, i lavori di campagna, dato che la mia famiglia è di estrazione contadina.
Alla luce di queste cose uno dei regali che mi veniva promesso per la promozione era di poter andare a lavorare (per la durata dell’estate) presso qualche conoscente della mia famiglia che potesse darmi l’opportunità di imparare i primi rudimenti di una qualche attività; a me la scelta dell’attività.
Fu così che all’età di quattordici anni, dopo esser stata due estati da una sarta da donna e una da una sarta da uomo, ottenni finalmente il permesso di andare in campagna a raccogliere pomodori.
I miei genitori presero contatti con il proprietario, il quale, considerando che tutti gli altri lavoratori erano adulti, consigliò i miei di far andare anche mio fratellino: mi sarebbe stato d’aiuto per non restare troppo indietro rispetto agli altri.
La sera prima, venne preparato il pranzo da consumare in campagna. L’indomani all’alba eravamo tutti presenti all’appuntamento, pronti per salire sul rimorchio trainato dal trattore, che ci dava un passaggio fino al terreno dove erano coltivati i pomodori.
Durante il viaggio i grandi fecero subito la nostra conoscenza e si informarono anche su tutta la parentela, per meglio identificare i nuovi arrivati. Trovammo però anche grande disponibilità nel comunicarci i primi teorici rudimenti del nuovo lavoro.
Appena arrivati alla proprietà del sig. Giovanni, il primo compito fu quello di murzai, cioè di fare una piccola colazione a base di pane e formaggio o pane e salsiccia, roba portata da casa, si capisce. Questo perché se uno non mangia non ha forze e non può lavorare.
Poi ci vestimmo in modo adeguato per affrontare la giornata da trascorrere sotto il sole e in mezzo ai pomodori: per difendersi dal sole bisogna avere un cappello, un fazzoletto abbastanza grande da mettere sulla testa e una borraccia di acqua; per difendersi dai pomodori bisogna avere tutte le parti del corpo coperte, perché questi vegetali contengono lungo tutta la pianta una sostanza che al contatto fuoriesce e macchia la pelle prima di un colore giallo poi crea una patina sempre più consistente e di colore scuro - prima regola da imparare: questa patina viene via sfregando le mani con la polpa degli stessi pomodori, che al contatto con questa crea una schiuma giallo verde.
Dalla tettoia degli attrezzi, ognuno prende i paiuoli che serviranno per metter i pomodori raccolti lungo i filari. E ci si avvia a piedi fino al terreno dove sono i pomodori. Ci si dispone uno per ogni filare, tranne io che sto con mio fratello. Lungo la strada, si tratta di una striscia di terra battuta soprattutto per il passaggio di trattori più o meno carichi, sono messe le cassette di legno, che andranno riempite con i paiuoli carichi di pomodori. Ognuno sigla le sue cassette con un simbolo o con le iniziali del proprio nome. Questa operazione era cosa assai importante perché la retribuzione era calcolata un tanto a cassetta, esattamente 150 lire. Per riempire una cassetta a un adulto occorreva circa mezz’ora o anche meno, pertanto in una giornata di otto ore riusciva a riempirne dalle venti alle venticinque.
Io, data l’età e la mancanza totale di esperienza, per riempire una cassetta impiegavo circa un’ora.
Il lavoro era abbastanza faticoso, si trattava di stare chini tutto il giorno a frugare in mezzo alle piantine per togliere i pomodori belli maturi, stando attenti a non spezzare i rami, ormai tutti adagiati sul terreno, perché sulla pianta c’erano ancora tanti pomodori che dovevano finire di crescere e di maturare; trasportare i paiuoli pieni fino alle cassette e lì vuotarli; e, all’arrivo del trattore, aiutare l’autista a caricare le cassette sul rimorchio, anche se quest’ultima parte del lavoro veniva svolta soprattutto dagli uomini.
Nelle prime ore del mattino il tempo volò via molto in fretta: c’era novità in ogni cosa dal lavoro in sé ai rapporti con gli altri, tutto mi incuriosiva e mi affascinava. I grandi erano diversi lì in campagna: ridevano e scherzavano facendosi battute tra loro senza curarsi del fatto che gli altri potessero sentire, anzi sembrava persino che il pubblico fosse uno stimolo al divertimento. Ogni tanto qualcuno si ricordava che c’eravamo anche noi e ci invitava a lavorare con lena e a non prestare ascolto a tutte quelle stupidaggini che venivano dette.
Intorno a mezzogiorno, anche senza guardare l’orologio, qualcuno poi dava a voce alta il seguente avvertimento “Piccioccus... est ora de scappai a prandi” e di colpo tutte quelle schiene ricurve si raddrizzavano. Era arrivato il momento della pausa per il pranzo.
Nell’andar via dal campo si raccolgono dei pomodori che serviranno per il pranzo e altri per la pulizia delle mani.
Poco lontano era stata costruita una tettoia di frasche e di canne per ripararci dal sole e i proprietari avevano messo a disposizione un tavolo bello grande e delle panche per poterci sedere a mangiare. Erano contenti i miei compagni di lavoro per questa comodità e apprezzavano il padrone che era stato sensibile alle loro richieste.
I commensali mettevano sul tavolo tutto ciò che avevano portato da mangiare e tutti erano invitati a servirsi a loro piacimento.
Dopo il pranzo un piccolo riposino, a raccontare altre storie - per inciso in una settimana di lavoro non credo di aver sentito la stessa storia due volte, il loro numero sembrava infinito - e poi di nuovo a lavoro.
Intorno alle 16,00 veniva fatto l’ultimo carico di cassette sul rimorchio, in modo che il trattore potesse fare il trasporto e rientrare in tempo per accompagnarci in paese. Si lavorava ancora per circa un’ora e mezza - il tempo necessario per preparare il primo carico dell’indomani. Dopo di che la solita frase: “Piccioccus est ora de scappai” e tutti, raccolti le proprie cose e i pomodori per la pulizia, ci avviavamo verso la casa e al pozzo, per prepararci e tornare in paese. Al rientro del trattore eravamo tutti pronti.
Il viaggio fino a casa era tutto un canto.
Quella prima volta trovai mia mamma ad aspettarmi alla “fermata del trattore” - voleva assicurarsi che ci fossimo comportati bene. Tutti a una voce le dissero di si, e aggiunsero: “No s’hant mossiau” - non ci hanno morsicato. La prova, appunto, che io e mio fratellino avevamo fatto da bravi.
La mattina dopo tutti puntuali all’appuntamento».6


SU REGOLLIDORI DE CARRAMAZZINAS
IL ROTTAMAIO

Su regollidori de carramazzinas era un mestiere che aveva una sua rilevanza economica, ma si poteva svolgere quasi esclusivamente nelle città e nei grossi paesi. Per certi versi, può considerarsi, ancora oggi, un servizio per i ceti borghesi e benestanti, che periodicamente rinnovano arredi e utensili d’uso o li gettano via quando siano deteriorati perché ingombrano e vanno sostituiti.
Nei nostri villaggi agricoli e pastorali, dove vigeva l’autarchia più ferrea, su regollidori de carramazzinas avrebbe avuto ben poca possibilità di sopravvivenza. Nulla vi era nella casa del nostro contadino, nessun oggetto o attrezzo, che, per deteriorato che fosse, venisse gettato via. Qualunque cosa avesse cessato di adempiere alla sua originaria funzione veniva riutilizzata con una nuova diversa funzione. Tutto continuava a essere conservato e utilizzato per “quel che sarebbe potuto servire in futuro, a chiunque fosse andato in possesso”. Nel frattempo, gli utensili, gli oggetti d’uso, gli arredi, venivano stugiaus in su stauli, in mesu de totu is ateras carramazzinas, conservati sotto la tettoia, fra tutte le varie carabattole.
Una vecchia pentola di ferro smaltato, che avesse perso lo smalto o si fosse bucata sul fondo, serviva egregiamente come fioriera, come vaso di geranio o di basilico, da sistemare in bellavista sul muretto del loggiato di casa. Ricordo, nei paesi della Marmilla e della Trexenta, pentole e tegami di ferro smaltato dai colori vivaci, rosso e bianco, o verde e marrone, o blu e bianco, fare la loro bella figura sui muretti di pietra a secco che segnavano il confine tra i cortili delle case di abitazione.
Tutto poteva essere riciclato: il manico di una zappa che si fosse rotto in due diventava due manichi da martello, o da massetta, o piantatoi per l’orticello dietro casa. E che dire de is odriangus e is lorus, le briglie e le strisce di cuoio per legare i buoi al giogo, che, quando si spezzavano e non si potevano ricucire ancora perché troppo logori in quel punto, venivano utilizzati nelle parti ancora buone per fabbricare zoccoli alle bambine, o singeddus, cinture, per tenere su i calzoni dei ragazzi - i quali, detto per inciso, portavano i calzoni smessi del padre, fino al loro totale disfacimento.
Secondo una sorta di legge naturale applicata all’economia del contadino, “nulla si distruggeva e tutto si riutilizzava”. Anche quando le cose fossero putrefatte o diventate cenere, servivano come concime per dare sostanza alla terra; e da lei, dalla Grande Madre, da dove tutto veniva e dove tutto finiva, cogliere ulteriore sostentamento.
Chi proprio avesse avuto la vocazione del “raccoglitore” - lo spirito vagabondo dell’ambulante - si forniva di un carretto, per lo più tirato a mano o da un asino, e andava in giro per i grossi paesi, o per la città, a cercare reti metalliche e spalliere di letti ormai sgangherati, lavamani in ferro battuto rugginosi e malandati e quant’altro residuato potesse trovare specialmente in ferro - dato che questo metallo, in previsione di una guerra, viene accatastato e conservato nei depositi in cui i rottamai lo vendono per poche lire, per essere rivenduto a caro prezzo, a tempo debito, per “difendere e salvare la patria”.
Una figura di regollidori de carramazzinas assai nota nell’Oristanese era quella di Ziu Celestinu, diventato famoso da vecchio, mi pare nel 1966, per via di Piricu, l’asino che lo aiutava nel lavoro tirando la carretta, che gli venne sequestrato dalle competenti autorità per morosità nel pagamento della imposta sulla casa di abitazione.7


SU TUVARAIU
IL CERCATORE DI TARTUFI

Veniva a casa di frequente un uomo di mezza età con un cestino e un cagnolino che gli stava sempre alle calcagna: era unu tuvaraiu, che cercava i tartufi che poi rivendeva in paese. Mia madre, che era un’acquirente fissa, era la prima a essere visitata e a ricevere l’offerta dei prelibati funghi.
L’uomo entrava e sostava nell’ingresso; e il cagnetto ben educato si accucciava sulla soglia della porta, dal lato esterno. Mia madre arrivava e salutava l’uomo informandosi con parole di cortesia se la giornata fosse stata buona e se avesse fatto una buona raccolta, interessata alla qualità del suo prodotto che cominciava a controllare nel cestino che le veniva offerto.
Mia madre sceglieva uno a uno i tartufi, che deponeva nel piatto grande di porcellana. Prendeva soltanto quelli di media grandezza, il più possibile tondi e lisci, scartando quelli piccoli, i frammenti e quelli grandi, deformi e bitorzoluti, perché avevano fagocitato terra sabbiosa.
Tra le mie zie si faceva un gran parlare di me, allora, quando ero bambino, per una mia frase di insofferenza verso i tartufi; una frase che, raccontava mia madre, avrei pronunciato a tavola schifato di vedermi servire troppo frequentemente una certa pietanza: «Sempiri minestra de tuvara, sempiri minestra de tuvara!...» (Sempre minestra di tartufi, sempre minestra di tartufi!…)
Ne parlavano, le mie zie, come di un benedetto caso di ingenuità, non sapendo e neppure immaginando io di quale rara squisitezza avessi la fortuna di godere, fortuna di cui mi lamentavo.
Può darsi che quel mio non apprezzare una tale prelibatezza derivasse dal fatto che mia madre non fosse riuscita a farmi capire quanto raro e squisito fosse un simile piatto, servendomelo cosi spesso. Ma, forse, ero soltanto un ragazzino viziato e i tartufi non li gradivo cucinati in quel modo, per insaporire la minestra. Mi piacevano, e mi piacciono tutt’ora, nelle più gustose e sapide salsette verdi o in quelle al pomodoro, con cui condire is macarronis, i maccheroni, o is malloreddus, la tradizionale pastasciutta isolana, oppure, ancora meglio, i tartufi cucinati e consumati a sé, al posto di un volgare spezzatino di agnello o di un altrettanto volgare spezzatino di patate.
A quei tempi, negli Anni ‘40, i tartufi erano un prodotto facilmente reperibile e li si vedeva di frequente nelle cucine, e non solo in quelle della gente benestante. Con il passare del tempo, negli Anni ‘50 e ‘60, è stato sempre più difficile trovarli nel mercato, e non so spiegarmene la ragione.
Su tuvaraiu, l’uomo della mia fanciullezza, che passava periodicamente in paese con il suo cestino di tartufi, non era il solo che girasse per le campagne dell’Oristanese, dalla fine dell’autunno all’inverno, alla ricerca del prezioso fungo che nasce e vive sottoterra, specialmente nei terreni sciolti, morbidi e sabbiosi.
Come ogni mestiere, forse anche in misura maggiore, quello di su tuvaraiu necessita di una approfondita conoscenza del terreno, della vegetazione, delle tecniche di ritrovamento e di estrazione.
Per alcune varietà di tartufo, su tuvaraiu ha bisogno di un cane, non importa di quale razza, purché addestrato a riconoscere con l’olfatto il prelibato fungo che, per altro, emana un intenso, caratteristico aroma. Localizzato il fungo, su tuvaraiu usa una bacchetta rigida con una punta simile ad uno spillone, con cui tasta il terreno infilzandolo dolcemente fino a percepire il corpo duro del tartufo. Egli allora scava e raccoglie i frutti che riesce a trovare.


SU CIRCADORI DE ANTIGHIDADIS
IL TOMBAROLO

Alcune zone della Sardegna sono, o forse è meglio dire erano, ricche di reperti archeologici, specie del periodo Neolitico e di quello storico del periodo Punico-romano. Un’area di rilevante interesse che conosco è quella Punico-romana di Tharros, nella Penisola del Sinis, territorio appartenente ai Comuni di Cabras e di Riola, vicini alla città di Oristano. A Oristano e nei paesi della zona - come si apprende anche da illustri studiosi del passato, tra gli altri il Della Marmora - esiste da tempo un’attività, abbastanza redditizia: quella de is circadoris de antichidadis, dei tombaroli, che profanano le tombe della Necropoli punico-romana, per sottrarre monili d’oro e d’argento e pietre preziose, quali scarabei di squisita fattura egiziana, che ornavano le salme che venivano deposte nei sepolcri.


SU REGOLLIDORI DE COSAS ALLENAS: SU FURONI
IL RACCOGLITORE DI COSE D’ALTRI: IL LADRO

Un’arti, un’attività, custa de su furoni, questa del ladro, chi cunsistit, che consiste, in su regolliri e poniri in bucciacca is cosas allenas, nel raccogliere e mettere in tasca (propria) le cose altrui. Un’attività che può diventare pericolosa se non si possiede acuto il senso dell’opportunità, se non si ha la mente sveglia e non si hanno le mani abbastanza veloci. Essendo un’attività vietata, repressa dalla legge e poco tollerata dai benestanti, bisogna stare attenti a eventuali gendarmi e ancor più a certi individui suscettibili, molto attaccati alle loro cose, che reagiscono male se vengono alleggeriti, anche se di poco, della loro proprietà.
Come insegna la scuola napoletana - ma anche nella nostra Isola ci sono veri e propri maestri in s’arti de su regolliri e poniri in bucciacca cosas allenas - tutto ciò che è incustodito o custodito male, cioè tutto, eccettuati i soldi in banca, appartiene al primo che lo vede. Giusto anche l’antico proverbio de sa balentia, del codice d'onore: «Furat chini furt in domu», ruba chi ruba in casa propria, «e furai in domu allena no est furai», e rubare in casa d’altri non è rubare.


IS CASSADORIS
I CACCIATORI

Ho creduto opportuno inserire is cassadoris, i cacciatori, come appendice nel capitolo dei regollidoris, raccoglitori, poiché di raccoglitori pur sempre si tratta, anche se armati e con l’obiettivo di colpire una preda animata, in movimento, che non si lascia prendere, come suol dirsi, con le mani.
Raccoglitori anche perché è arcinoto che quando i cacciatori non trovano selvaggina, o dopo che l’hanno trovata e non hanno più voglia di cercarne altra, rastrellano - spesso anche in terreni recintati e chiusi - tutto ciò che capita loro sotto tiro, stavolta non di doppietta ma di mano: lumache, asparagi, olive e frutta di ogni genere - e qualcuno opina anche qualche agnellino o maialetto che “si è smarrito”.
I cacciatori, di solito appartenenti ai ceti abbienti o a quelli senza un mestiere fisso, sono malvisti dal contadino, per quel loro modo di fare prepotente, per quel loro entrare da padroni nei terreni altrui, spesso danneggiando le colture che sono costate tanti sacrifici. Dure critiche vengono loro fatte anche dagli ambientalisti, per i danni che producono alle specie animali e al loro habitat.
Personalmente ritengo che ciò che va male non è tanto la caccia in sé, ma il modo in cui è organizzata e le speculazioni che ne vengono fatte dalla società dei consumi. Per non parlare dei ricatti da parte delle “competenti” autorità per la concessione del porto d’armi.
Ci sono, in linea di massima, tre tipi di cacciatore: quello solitario, quello che va in coppia e quello appartenente a un clan o congrega.
Il primo è il cacciatore classico, introverso e quasi bisognoso di stare a contatto della natura - sia pure in un rapporto che per certi versi è violento - che si vuole cimentare in primo luogo con se stesso, forse per dimostrarsi ciò che vale, nell’affrontare situazioni difficili se non anche pericolose.
Il secondo è lo sportivo che ama star in compagnia, che necessita di consenso e in particolare crede che in due (anche se due mediocri) si riesca a fare meglio che da soli. E’ di solito, insieme al pescatore per hobby, un classico ballista che ama raccontare le sue fenomenali prodezze di caccia e decanta le sue eccezionali prede.
Il terzo è il cacciatore organizzato, al quale piace sparare senza risparmio, possibilmente con fucili “mitragliatori” e, a parte i cani, con seguito di battitori e portatori di arsenali; che ama le mattanze, sia quelle di anatre e folaghe negli stagni, sia quelle di cinghiali nei boschi o di lepri e quaglie in campagna.
A quest’ultima categoria di cacciatori appartengono i ceti ricchi e benestanti che capeggiano le battute; ma vi si possono trovare pure cacciatori appartenenti alle categorie servili, che nei clan o congreghe hanno la funzione di facitori e portatori: tengono i cani, fanno da battitori e da riporto, trasportano le proviande e, all’occorrenza, accendono il fuoco e cucinano… per lo più la selvaggina portata da casa: anguille e muggini del Mare di Pontis.
La caccia, almeno da noi, è considerata uno sport virile, pertanto è appannaggio degli uomini che, bene o male, si ritengono virili. Soltanto in tempi assai recenti e raramente abbiamo il caso di donne cacciatrici - per lo più “forestiere” o appartenenti ai ceti benestanti - quando non si trattava di amanti di famosi latitanti, che apprendevano l’arte della caccia per uno stato di necessità.
Presso le nostre comunità dell’interno, tali donne, “eccezionali” sotto ogni punto di vista, sono mal giudicate. Per essere più chiari sono considerate “di facili costumi”. E, ironizzando, si dice di esse che “sunt feminas chi andat a cassa de pillonas”, sono femmine che vanno a caccia di uccelli - dove pillonis, al maschile, in lingua sarda, significa “uccelli piumati” e pillonas, al femminile, significa “uccelli d’altro genere”.


SA CASSA
LA CACCIA

«La caccia era un’attività comune nei nostri villaggi, cui i più dotati si dedicavano per vivere; una attività da non confondersi con quella fatta per passatempo, “per sport”, dai benestanti con la guida dei balentes della comunità, i quali, nei giorni estivi o in particolari periodi dell’anno, in comitiva, davano vita a memorabili battute di caccia che duravano anche più giorni. Chi in montagna, per cinghiali o cervi, lepri o pernici; chi in pianura, per conigli, quaglie o tordi; chi negli stagni, per anatre o folaghe.
Con quella del “raccoglitore”, la caccia è l’attività più antica del mondo. I Sardi hanno fama d’essere ottimi cacciatori, fucilieri dalla mira infallibile.
Io sono testimone del mio tempo, che è ormai passato; non dirò, pertanto, dei modernissimi e sofisticati fucili a ripetizione oggi di moda. Io ricordo i cacciatori che possedevano la “preziosissima” doppietta, su fusil’ ‘e cassa, che custodivano e curavano con mille attenzioni, da cui non si separavano mai.
Su cassadori era considerato un signore, in paese, perché nella sua attività non era dipendente da alcun padrone, la sua famiglia mangiava spesso carne e buoni erano i proventi della vendita della selvaggina, che finiva nelle case dei ricchi o nei mercati delle città.
Ogni cacciatore, naturalmente, era maggiormente esperto in un settore particolare, proprio dell’ambiente geografico della sua comunità. Se di montagna o di pianura o di zone paludose, la selvaggina cambiava e cambiavano insieme le tecniche e i modi della caccia».8


SU CASSADORI
IL CACCIATORE

Su cassadori de respectu, il cacciatore di rispetto, a qualunque ceto sociale appartenesse, esibiva sempre unu preziosu fusili, una preziosa doppietta, con una cartuccera ben fornita e una pariga de crapittas accioladas, un paio di scarponi da campagna con doppia fila di chiodi.
Nei tempi andati, la caccia era l’attività produttiva e insieme lo sport più diffuso, praticata esclusivamente dai maschi della comunità, una volta raggiunta la maggior età. Intanto, fin dall’infanzia, la ragazzaglia si addestrava alla caccia con armi rudimentali, quali su tirallasticu, la fionda, ricavata da un ramo biforcuto, due elastici e un pezzetto di pelle rettangolare.
I requisiti di legge richiesti per ottenere il porto d’armi, in special modo la fedina penale pulita, non sempre erano presenti; tuttavia, la cosa non limitava contadini e pastori nell’uso del fucile che, essenziale strumento di difesa e di caccia, era posseduto da tutte le famiglie, anche le più povere.
Per i ceti meno abbienti, il possesso del fucile e il suo uso per la caccia consentiva di rifornire la frugale mensa contadina con carne di selvaggina, per lo più lepri, tordi, quaglie, pernici, folaghe, anatre e cinghiali.
Per i ceti benestanti, la caccia era esclusivamente un hobby, uno sport proprio del loro status sociale e non di rado veniva esercitata nelle riserve padronali, sempre in gruppo, con seguito di fanciulli battitori e portatori e di cani addestrati a puntare, a scovare e a riportare la selvaggina.
Un buon cacciatore partecipava periodicamente a battute di caccia grossa, in particolare al cinghiale di cui si hanno testimonianze letterarie di rilevante interesse etnologico. Tra queste, la testimonianza di Tigellio Contu,9 dove racconta con dovizia di particolari lo svolgersi della caccia grossa.
L’apertura della caccia aveva inizio il 1° maggio, in piena primavera, in un periodo in cui gli abitanti erano liberi da importanti lavori agricoli, quali la semina, la zappatura e la mietitura.
Le battute di caccia fatte in comitiva duravano dall’alba al tramonto e a mezzodì si interrompevano per sa picchettada, il banchetto agreste: veniva acceso un gran fuoco per arrostire, con spiedi di legno, parte della selvaggina che costituiva un ulteriore arricchimento alle provviste portate da casa, in occasione del pranzo.


SA CASSA DE IS TRUDUS
LA CACCIA AI TORDI

«Taccula est unu mazzu de pillonis, chi deppint essiri turdus o meùrras, ni mancu de ottu in dogna mazzu», taccola è un mazzo di uccelli che devono essere tordi o merli, non meno di otto in ogni mazzo. Annota diligentemente Vissentu Porru, il celebre estensore de su "Dizionariu", del "Dizionario", e aggiunge che la “taccola” di Firenze ne contiene sei. Gli uccelli sono tordi o merli.

«Un mestiere, quello di andare a caccia di tordi, ormai quasi scomparso, perché quasi scomparse sono le persone che lo sanno fare o che sono in grado di farlo.
E’ un mestiere ricco di fascino e avvolto da un’atmosfera magica. La montagna era tutta segnata e divisa e ognuno aveva la sua zona. Qualche anno andava così così, ma qualche anno non si faceva quasi a tempo a lavarli, tanti ce n’erano. Dipendeva dal tempo: se l’autunno era caldo e piovoso quanto bastava, in particolare pioggia la notte e sole di giorno, le olive si sviluppavano bene e la loro maturazione cominciava presto. In questa situazione, i tordi, che vengono dalla Spagna, arrivano qui che sono già belli grassi, e saporita è la loro carne, perché in Spagna hanno fatto a tempo a cibarsi di olive e mirto, e arrivano qui pronti per finire in padella.
Il lavoro più importante è quello di preparare la montagna. A casa sono già stati preparati i “lacci” o “lazzus” detti “a campanella” per la forma che assume il legaccio, e, arrivati nel punto dove passano i tordi, i “lacci” vengono disposti tra i rami degli alberi e dietro ogni “laccio” un’esca alimentare che attiri un tordo, facendogli infilare “involontariamente” il collo nel cappio. Questo si chiude e per il tordo è finita.
La preparazione del terreno è importante perché l’uomo deve cancellare ogni traccia, ogni ombra del suo passaggio quando mette i “lacci”, altrimenti i tordi non si fermano. Sono astuti come l’uomo, ma più diffidenti. Questo lavoro si fa tutti i giorni, per i mesi di ottobre e novembre e un poco di dicembre.
I tordi presi vanno puliti, tolte le piume, lavati e messi a cuocere in acqua e sale. Poi, caldi caldi, si avvolgono nel mirto e si lasciano sfreddare. Dopo di che, si confezionano a mazzi di otto tordi, e così si fa sa taccula, infilando un giunco mùlliu, scotolato, nelle teste, trapassando gli occhi. Nel cuocere, quando sono belli grassi, lasciano andare una certa quantità di grasso. Le famiglie povere e numerose usavano questo grasso, lasciato rassodare, come il burro, per condire due spaghetti, ma soprattutto per fare il soffritto per il minestrone».10


S’ARREZZADORI
IL CACCIATORE CON LE RETI

S’arrezzadori, il cacciatore con le reti, o uccellatore, alterna o completa la caccia con i lacci, soprattutto per catturare uccelli, maggiormente trudus e meurras, tordi e merli, ma anche conigli e leprotti. E’ un sistema di caccia usato in montagna, in aree boschive. Le reti vengono sistemate naturalmente nei canaloni o punti di passaggio dei volatili e degli altri animali da catturare, che sbattendovi vi si impigliano, diventando così facile preda de s’arrezzadori.


SU CANARGIU O CANATTERI
IL CONDUTTORE DI CANI DA CACCIA O BATTITORE

Nel “Dizionario” del Porru si legge che canargiu è colui che ha il compito di tenere is canis de sa canatteria, i cani della muta, durante le battute di caccia, mentras su canatteri est su chi guvernat is canis, mentre il canettiere è colui che governa i cani.
Nella caccia al cinghiale, in particolare, su canargiu bada alla muta e, dopo aver stanato la preda, fa da battitore conducendo i cani.


SA CASSA A SU SIRBONI
LA CACCIA GROSSA

«La caccia grossa costituisce lo svago preferito dei bontemponi del paese e di quelli dei paesi vicini, ai quali la natura non ha elargito ricchezza di boschi.
L’apertura della caccia grossa avveniva nei tempi della mia giovinezza il 1° maggio, nella pienezza della primavera, in un periodo cioè in cui tutti erano scevri dalle preoccupazioni della mietitura e dei raccolti.
Allegre comitive di cacciatori si davano convegno in un dato punto di Monte Arci portandosi appresso ogni ben di Dio.
La quantità del bottino per molti non contava, ciò che contava era l’allegria e la spensieratezza.
Le partite di caccia grossa diventavano in quei tempi delle vere sagre campestri che duravano tre ed anche quattro giorni, nelle quali non mancava a rallegrarle il suono delle “launeddas” o della fisarmonica
Il luogo dei bivacchi è sempre scelto in un punto della montagna dove più folto è il bosco e più rigoglioso e fitto il sottobosco e dove non manchi una sorgente d’acqua freschissima, tanto necessaria per tutti i bisogni della comitiva.
Giunti nel punto prestabilito della riunione e sistemate le provviste, le coperte, le armi, i basti dei quadrupedi e i quadrupedi stessi usati per il trasporto delle vettovaglie, si danno da fare per raccogliere verdi frasche per i giacigli e sterpi e rami secchi per il fuoco che deve durare tutta la notte ed oltre.
Quando cala la notte s’intrattengono intorno ad esso per preparare e consumare la cena irrorata da buon vino e rallegrata da spiritose barzellette.
Poi ciascuno prende posto nel comune giaciglio per un sonno tranquillo e ristoratore, sognando forse fantastiche avventure di caccia.
Alle prime luci dell’alba la sveglia li trova temprati e distesi per la incombente gioiosa fatica delle battute.
Ciascuno dopo essersi rinfrescato il viso alla vicina sorgente e tracannato un sorso di caffè o d’acquavite, consuma una frugale colazione con pane, salsiccia e formaggio abbrustolito alle braci sempre vive.
I battitori hanno cura di legare i cani perché, sospinti dallo istinto, non anticipino le loro corse attraverso il bosco e il sottobosco circostanti per scovare la preda.
La brezza mattutina infatti annuncia al loro finissimo fiuto la presenza non troppo lontana della selvaggina.
Indi si avviano per raggiungere nella parte bassa della vallata un punto loro indicato dal capocaccia, dove sostano in silenzio, trattenendo ancora i cani legati, in attesa del segnale per dare inizio alla battuta.
Nello stesso tempo i cacciatori col fucile a tracolla e la cartucciera ben munita seguono in fila indiana il capocaccia verso la parte alta della vallata, in direzione opposta ai battitori, osservando anch’essi un rigoroso silenzio.
E’ buona norma per una felice riuscita della battuta che il capocaccia tenga conto della direzione del vento.
Perciò ha cura di sistemare le poste contro vento in modo che la preda scovata non fiuti la presenza dei cacciatori e possa tornare indietro o deviare dalle piste ad essa consuete.
Man mano che si procede verso la cima della valle il capocaccia distribuisce le poste avendo riguardo di assegnare le migliori ai tiratori più provetti e quelle di secondo e terz’ordine ai novellini.
Ad ognuno, ma specie a questi ultimi, non manca d’indicare le piste che può seguire la selvaggina scovata, avverte di non sparare al solo movimento delle frasche per evitare il pericolo di colpire qualche cane, di non muoversi dalla posta, di non sparare al di là di un tal settore, i cui limiti gli vengono indicati con dettagliata precisione, onde non invadere il campo di tiro riservato di regola ai compagni delle poste vicine; tutte queste ed altre raccomandazioni costituiscono una vera e propria consegna militare, severa e rigorosa, a cui ogni corretto cacciatore deve attenersi.
Finita l’assegnazione delle poste il capocaccia va a prendere posto nell’ultima posta a chiusura della rete delle doppiette.
A questo punto egli con un fischio dà il segnale convenuto per dar inizio alla battuta.
I cani vengono immediatamente liberati dai lacci e sguinzagliati nella foresta in direzione delle poste.
Grida frenetiche dei battitori, spari di mortaretti e di doppiette a salve echeggiano nella valle per intimorire e stanare la selvaggina.
Dall’alto della posta i cacciatori tendono l’orecchio spiando con l’occhio attento nella vallata sottostante il movimento dei cani.
Quando l’abbaiar di questi e le grida più intense e frenetiche dei battitori annunziano che la preda è stata scovata, l’occhio esperto degli anziani scopre e segue la direzione presa dalla selvaggina rilevandola dal movimento e dallo strepito delle frasche pestate e agitate dal passaggio di essa e con la calma consueta dei veterani l’attendono al varco; mentre qualche novellino agitato dal batticuore, presagendo la sicura “padella” della sua doppietta, pensa forse ai lazzi e ai sagaci commenti dei compagni alla fine della battuta.
Ricordo che quando un novellino fortunato aveva l’onore di abbattere un capo, la sua gioia era immensa.
Fatto ritorno al luogo del bivacco veniva applaudito e complimentato lungamente.
Ma poi, quando si accorgeva che qualcuno complottava contro di lui… cercava di mettersi in salvo fuggendo.
Ma veniva inseguito, raggiunto, circondato, sollevato di peso e riportato a spalle sul luogo del bivacco.
Colà veniva scaricato vicino alla sua preda e un gruppo di anziani, fattosi vicino, compiva il rito del “battesimo di sangue” in uso per i novizi che abbattevano il primo capo di selvaggina.
Il malcapitato veniva letteralmente “verniciato” col sangue della preda abbattuta e aveva l’obbligo di rimanere così conciato per tutta la giornata.
Ma il fortunato tiratore non se ne adontava, anzi mostrando il suo viso color mattone, ostentava una certa spavalderia.
Lazzi e risate chiudevano la scena.
A quel punto il festeggiato traeva dalla bisaccia qualche bottiglia affinché tutti brindassero alla sua inaspettata fortuna.
Ma la festa completa aveva luogo al ritorno in paese dopo la partita di caccia.
Intanto gli uomini addetti alla custodia de “su strexiu” (vettovaglie ed equipaggiamento dei cacciatori) ed alla cucina avevano provveduto a preparare il lieto desinare.
La caldaia della pasta bolliva gorgogliando, il maialetto allo spiedo aveva acquistato quel colore dorato girando lentamente al giusto calore del fuoco che la gente di montagna sa ben regolare e distribuire.
Dopo una mezza giornata di battute e di marce su sentieri scoscesi, l’appetito nei cacciatori e nei battitori in ispecie, non manca; perciò il pranzo, per quanto abbondante, non durava a lungo perché, oltre che dallo stimolo dell’appetito, la fretta era consigliata dal desiderio di riprendere quanto prima le nuove battute serotine che, se fortunate, dovrebbero allietare la cena con lo spezzatino delle interiora dei capi abbattuti.
Vige a Morgongiori la consuetudine che ai tiratori fortunati sia riservata come trofeo d’onore la testa dei cinghiali, e, una volta, anche la pelle dei daini e dei caprioli abbattuti.
La carne viene suddivisa in porzioni uguali tra i componenti della comitiva; ai cani è riservata mezza porzione.
D’ordinario è lo stesso capocaccia che adempie l’incarico di spezzettare la carne della selvaggina abbattuta per formarne tante porzioni quanti sono i componenti della comitiva, compresi i cani partecipanti alla battuta.
Preparato un vasto tappeto di frasche le porzioni vi vengono adagiate in modo da formare tante file ordinate.
Fatto ciò il capocaccia si rivolge agli astanti invitandoli a dare un’occhiata alle porzioni esposte per indicargli quelle che, secondo il loro giudizio, possano sembrare scarse rispetto alle altre più abbondanti.
Corrette le eventuali disparità si procede alla distribuzione, che non è fatta a caso.
Il capocaccia segna con una lunga pertica una porzione qualsiasi, quindi chiede a un cacciatore che ha in mano l’elenco di tutti i componenti la comitiva e che dà le spalle alle porzioni esposte, a chi si debba assegnare quella porzione.
L’uomo legge un nome; la persona nominata si appressa a ritirare la porzione indicata, e così via finché l’ultima è distribuita. La battuta ha così termine. Uomini e cani si apprestano a far ritorno in paese.
Una volta l’ingresso in paese, rallegrato dal suono della fisarmonica o delle “launeddas” e dagli spari a salve delle doppiette, sembrava un trionfo!»11

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