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CAPITOLO QUINTO

IS ARTIS DE S’ALLEVAMENTU
LE ATTIVITÀ DELL’ALLEVAMENTO

Presentazione

Certamente l’argomento di questo capitolo non è stato trattato in modo sufficiente. E ciò per diversi motivi. In primo luogo perché io faccio parte della cultura contadina dei Campidani, un’area geografica ed economica (dove is artis de su messaju prevalgono su is artis de su pastori) di cui possiedo pertanto una conoscenza più diretta e più approfondita. Insufficienza inoltre causata dalla vastità della materia e dal tempo avaro e fuggitivo, che non si concede a lungo all’uomo e meno ancora a chi è di salute cagionevole. Ciò ovviamente non giustifica un limite. Che c’è, e che mi riprometto di colmare soffermando ancor più in futuro la mia attenzione di ricercatore al mondo pastorale, al mitico mondo delle Barbagie, cui tanto spesso facciamo riferimento, noi intellettuali, ogni volta che andiamo a rivisitare la nostra storia, e specialmente quando vogliamo trovare una nostra identità nazionale e una nostra dignità di popolo che vuole ottenere la propria indipendenza, che vuole essere libero da ogni oppressione - non soltanto straniera.

Sa paradura, la ricostituzione del gregge perduto. Lo Spano66, alla voce “Paradura”, scrive: «Dial. Com. paratura. In Log. propriamente è l’uso dei pastori allorché per disgrazia hanno perduto la greggia, di dimandare un capo dai compagni per formarla di nuovo».67
Sa paradura è un antichissimo istituto mutualistico dove ciascun pastore della comunità dava un capo del proprio gregge a chi come lui pastore avesse patito la perdita del gregge a causa di calamità naturale, in caso di moria, per furto, per sequestro da parte del fisco, per detenzione del pastore che se lo era dovuto vendere per pagare l’ avvocato.


SU MERI DE BESTIAMINI
L’ALLEVATORE

Su meri de bestiamini est unu meri, e candu unu est meri est meri puru de is terra e de totu sa ‘idda cun sa genti a intru, il proprietario di bestiame è un padrone, e in quanto padrone possiede anche la terra e tutto il paese, compresa la gente che ci vive.
C’è sempre stata una tendenza da parte del proprietario terriero, meri de una sienda, padrone di una azienda, di avere di rincalzo anche del bestiame, non soltanto per il lavoro ma anche per l’allevamento.
Così come il grosso proprietario di bestiame finiva per diventare anche proprietario di terre. Oltre tutto per una questione economica: il suo bestiame aveva bisogno di terre dove pascolare e prenderle in affitto non conveniva.
«I proprietari de sienda, di azienda agricola, come quelli di azienda armentizia che nel passato avevano dei salari fissi (“tzaraccu pastori, tzaraccu massaiu e tzaracca ‘e domu”) - testimonia A. Garau nella sua inchiesta già citata - usavano fare un contratto di lavoro verbale ossia a parole. Comunque, pur non esistendo un contratto legale per iscritto, quanto veniva stabilito restava sempre scrupolosamente rispettato da entrambe le parti. Per i servi agricoli e la domestica l’anno di lavoro (“s’annu de accodriu”) aveva inizio il due settembre; per i pastori invece iniziava il 24 giugno, ricorrenza della festività in onore di S. Giovanni. Due settimane prima delle date appena accennate dovevano decidere o di rimanere nella stessa azienda (“furriai annu”) oppure di trasferirsi presso un altro datore di lavoro (“cambiai meri”). E così alla scadenza del 24 giugno per i pastori e del 2 settembre per i dipendenti agricoli, si era già provveduto al rinnovo del contratto o all’assunzione di altro personale.»


SU PASTORI DE BREBEIS
IL PASTORE DI PECORE

Prima di tutto va detto che con il termine di pastori si intende esattamente il pastore di pecore. Per gli altri animali di allevamento invece il termine con cui si indica la persona che li accudisce e li porta al pascolo cambia :
angionaiu = il ragazzo che pascola gli agnelli;
crabaxu o cabraxu = colui che pascola le capre. I capretti non vanno al pascolo e quindi non hanno bisogno di un ragazzo che ci badi;
braccaxu o baccargiu = vaccaro che si occupa solo delle vacche;
boinaxu o boinargiu = il ragazzo che pascola i bovini maschi;
procaxu o porcaxu = colui che pascola i maiali. Un mestiere che non esiste più perché i maiali non possono essere a pascolo brado ma solo nelle porcilaie;
molentargiu o molentaxu = colui che pascola gli asini.
Il lavoro del pastore di pecore consiste nel procurare i terreni per il pascolo, condurre il gregge al pascolo, badare al gregge, costruire il riparo per le pecore, inoltre deve mungere e lavorare il latte se non lo versa nei caseifici, tosare le pecore, macellare gli agnelli, oltre che occuparsi dell’acquisto e della vendita delle pecore e dei prodotti come lana, latte, formaggio, carne.
Così come non esiste pastore senza pecore non esiste pastore senza mazzocca. Sa mazzocca è un bastone di olivastro ben stagionato grosso circa tre quattro centimetri, lungo circa un metro e mezzo massimo due e terminante da una parte con una capocchia più o meno grossa e più o meno lavorata a seconda della fantasia e della bravura dell’artigiano. Si trovavano facilmente da comprare nelle feste, così come la maggior parte degli utensili necessari per ogni arte o mestiere; anche se assai spesso è lo stesso pastore a costruirsela a suo piacimento. Per inciso, i pastori sono bravi intagliatori e incisori del legno. Le funzioni de sa mazzocca sono quelle di sostenere e indicare il cammino del pastore - lo sostiene in quanto gli permette di appoggiarsi e glielo indica, soprattutto lungo gli spostamenti notturni, facendogli capire se ci sono sassi, acqua o qualsiasi ostacolo - di guidare il gregge, se non si hanno abbastanza cani; infatti, se le pecore stanno andando in una direzione sbagliata, il pastore lancia sa mazzocca sulle pecore che sono fuori strada, e queste si spostano immediatamente; qualche volta è vero azzoppa una pecora ma… la severità, quando ci vuole ci vuole. Inoltre sa mazzoca serve per difesa personale e contro la volpe.
Il cane è il vero amico e compagno del pastore e si può dire che appaiati alle pecore ci sono i cani. I cani da pastore sardi sono tra i migliori. Sono, questi, i mastini sardi, una razza che ancora oggi è possibile trovare a Fonni e in alcuni altri centri delle Barbagie. Sono animali intelligenti, fedeli, attenti e vigili guardiani delle pecore e abili lottatori.
Una breve parentesi. L’origine storica di questi mastini, divenuti cani-pastore, è quanto mai singolare. Essi sono i discendenti di quei mastini romani che i vari colonizzatori dello stampo di Tito Manlio usavano nella caccia al barbaricino, durante le loro spedizioni punitive contro le popolazioni ribelli dell’interno dell’Isola. Da quei mastini, rimasti nell’Isola e che qui si sono riprodotti, ambientati, “integrati” e che con l’antico nemico sono diventati amici fedeli e preziosi. Essi hanno costituito una nemesi storica, poiché durante il periodo cosiddetto “caldo” del banditismo sardo, fenomeno volutamente dilatato e drammatizzato per consentire a uno stato di polizia di sperimentare nuove tecniche antiguerriglia e sistemi nuovi di repressione e militarizzazione del territorio, i discendenti di quei cani “colonizzatori”, integrati nella economia del pastore barbaricino, costituirono una valida difesa contro i cani-lupo largamente usati dai baschi blu e dalla polizia di Stato nel Nuorese, e contro gli stessi uomini armati che venivano segnalati dal loro fiuto, durante le azioni di rastrellamento.
Il pastore veste in modo funzionale al suo lavoro e al suo ambiente naturale. Calza scarponi di cuoio robusto, un tempo fatti dal calzolaio in cambio di qualche forma di formaggio. Nelle zone impervie di Su Cabesusu usa anche i gambales, ma nei Campidani non sono necessari poiché il terreno non è così impervio né fa tanto freddo. Veste pantaloni solitamente di fustagno, camicia e corpetto di tessuto di cotone robusto o di pelle. Nelle giornate fredde e ventose, ma senza pioggia, indossa anche sa besti niedda, la mastruca. Quando piove usa ripararsi con su saccu nieddu, una sorta di mantello, un doppio telo cucito a elle, che mette sulla testa e lascia ricadere fino ai piedi. Su saccu nieddu, che somiglia a un sacco a pelo aperto da due lati, è di orbace, un tessuto di lana così fitto da essere impermeabile. L’abbigliamento del pastore era lo stesso, sia che andasse a piedi sia che montasse a cavallo. L’unica differenza consisteva nel fatto che a cavallo portava un saccu nieddu più lungo, tanto da ricoprirgli i piedi con i fianchi dell’animale.

La lavorazione del latte.

Per raccogliere il latte della mungitura viene usata sa tolla de mulliri, un secchio basso e largo, di lamiera zincata, dalla capienza di circa 18-20 litri. Dev’essere un recipiente basso e largo per una maggiore stabilità, affinché non si rovesci e inoltre, essendo la pecora di bassa statura, consente al pastore di compiere i movimenti necessari per la mungitura.
Sa tolla de portai su latti, il recipiente per il trasporto del latte dall’ovile al paese, a dorso di cavallo o di asino, consiste in un bidone di lamiera zincata dalla capacità minima di litri 25 massima di litri 50, formato da un tozzo cilindro a base ovale, leggermente schiacciato da una parte68; si restringeva in cima a tronco di cono, terminando con un secondo cilindro dal diametro di cm 10, molto più piccolo di quello sottostante, entro cui si inseriva un robusto tappo di sughero rivestito di tela per una chiusura ermetica. Era fornito di manichi larghi e di anelli, per essere facilmente legato al basto con funi, una volta sistemato uno su un fianco e uno sull’altro dell’animale da soma. Is tollas de portai latti o più semplicemente is tollas venivano pure usate per il trasporto del latte al caseificio e de su soru, del siero che veniva dato loro dal caseificio per l’allevamento dei maiali.
Is tollas, i bidoni da latte fatti in lamiera zincata presentavano all’interno una parete non perfettamente liscia e quindi difficile da pulire. E come tutti sanno la pulizia dei recipienti da latte andava fatta in modo perfetto, perché i residui lattici fermentavano guastando così tutto il latte che vi si versava. In tempi recenti sono state sostituite da is tollas in alluminio e successivamente da quelle in acciaio inossidabile. Ultimamente anche queste sono state superate perché per il ritiro del latte passano i camion cisterna.
I recipienti del latte, sia quelli per la mungitura che quelli per il trasporto, is tollas de mulliri e is tollas de portai su latti, venivano fatte dallo stagnino, de su lattarraneri o liauneri, detto anche stangiaiu perché nel suo lavoro usava lo stagno.
Il latte non portato al caseificio veniva lavorato direttamente dal pastore con i servi nell’ovile o in casa dalla moglie, con l’aiuto delle figlie.
Per lavorare il latte occorrevano:
-    su cardaxu, il calderone, dalla capacità da 50 a 100 litri;
-    sa discua (detta anche casiddu) de pesai casu e sa discua po arrescottu, la ciottola, o meglio, il recipiente a tronco di cono in legno forato, più grande per il formaggio, sostituite poi da quelle in alluminio per il formaggio e in vimini o plastica per la ricotta. Sa discua era in legno di castagno o di pero - ed era preferibile il pero perché legno bianco che a differenza del castagno non macchia. Usando sa discua de castangia, la ciottola di castagno, specie se nuova, le forme del cacio venivano macchiate di marroncino e così la ricotta, che prendeva pure un sapore strano;
- sa frocidda de ollastu, un bidente in olivastro che andava appoggiato sugli orli de su cardaxu, mentre sopra sa frocidda si appoggiava sa discua (o casiddu);
- sa cubidina de amurgiai su casu, un tino in legno utilizzato esclusivamente po sa murgia, per la salamoia. Detto tino riempito di acqua salata riceveva le forme del formaggio appena fatto per restarvi a bagno dalle 24 alle 48 ore, secondo la grandezza;
- is teus de linu, i teli di lino che servivano per colare il latte e ricoprire su cardaxu e sa cubidina per proteggerli dagli insetti;
- is taulas, le mensole in legno in zona ventilata per porvi il formaggio tolto dalla salamoia e farlo stagionare;
- sa ziminera o sa forredda, il caminetto dove accendere frequentemente il fuoco, possibilmente che faccia fumo, per essiccare e affumicare al meglio il formaggio.


SU ZARACU PASTORI
IL SERVO PASTORE

Su zaracu pastori, il servo pastore è colui che accudisce un gregge di cui non è padrone.
Spesso il padrone di bestiame è anche unu possidenti, un proprietario terriero che ha da badare alla coltivazione e, ancora, che svolge attività di carattere commerciale nel settore della vendita dei prodotti agricoli o degli animali da allevare o delle carni macellate. Allora tra la sua servitù sceglie quello più idoneo e più fidato e gli affida un gregge.
Solitamente il proprietario delle pecore, cercava un servo pastore che possedesse già alcuni capi; ne erano consentite da 15 a 25 pecore da aggiungere al gregge di 120/150 capi che gli sarebbe stato affidato. Ciò perché il servo pastore avrebbe curato meglio il gregge in quanto composto in parte anche da capi di sua proprietà. La durata del contratto era pari all’anno agrario69. Il servo pastore riceveva, in cambio del lavoro, da 8 a 10 pecore filiate, con l’agnello, che sceglieva lui stesso e dopo il parto, in modo da sceglieva le migliori: quelle che avevano gli agnelli più belli e che davano più latte. Tanto che alla fine dell’anno, il bestiame del servo pastore aveva sempre una resa molto più alta di quella del gregge che aveva custodito. E’ evidente che tali regole favorivano colui che iniziava la professione, in diversi modi incentivandolo. Riceveva inoltre: il vitto al completo per tutto l’anno; due paia di scarpe di cuoio, da lavoro; due camicie; due carri di legna. Secondo che il servo pastore avesse nel gregge, che aveva in custodia, più o meno pecore di sua proprietà, riceveva altresì un compenso in denaro, se era scapolo, o in grano, se aveva famiglia. Aveva anche diritto a un giorno di riposo ogni quindici giorni - non erano però 24 ore complete, in quanto non poteva lasciare il gregge se non dopo la mungitura e la lavorazione del latte (tant’è che arrivava in paese, a casa, per il riposo quindicinale, con la ricotta fresca). In taluni contratti, ma “una tantum”, era previsto per lui, a spese del proprietario, unu saccu nieddu, un mantello di orbace, o sa besti, la mastruca, un cappotto di pelliccia di pecora smanicato.
In virtù di un regio decreto, le pecore, e il bestiame in genere, devono portare un sonaglio, un campanaccio. Ancora oggi, a scanso di pagare multe salate, in un gregge o in una mandria, ci devono essere almeno un sonaglio ogni dieci capi - meglio se la percentuale e maggiore, fino al cento per cento, come previsto dal detto regio decreto.


SU PASCIDORI
L’ADDETTO AL PASCOLO

In mancanza del pastore - pecoraio, capraro, vaccaro o bovaro che fosse - gli animali da allevamento andavano accuditi da un suo sostituto, che poteva essere un membro de sa zarachia, della servitù, facente parte della famiglia del padrone, o un salariato esterno,il quale doveva in primo luogo portarli al pascolo. Questi era detto su pascidori, ossia l’addetto al pascolo, e veniva tenuto per il periodo di assenza del pastore e pagato per i giorni lavorati.
Era anche detto pascidori il ragazzo che anche saltuariamente portava gli animali al pascolo. Costui, spesso, era da considerarsi un apprendista pastore. Si trattava assai spesso del figlio del pastore che aveva raggiunto i dieci anni, età ritenuta nei nostri paesi “giusta” per svolgere alcuni lavori servili come quella appunto de andai a pasci brebeis o de andai a marrai trigu; di andare a pascolar pecore o di andare a zappare grano.


S’ANGIONARGIU
IL PASTORE DI AGNELLI

Talvolta gli agnelli, naturalmente dopo lo svezzamento, venivano separati dalle loro madri e dal gregge e affidati alle cure di unu angionargiu, un custode di agnelli, per lo più un fanciullo di tredici, quattordici anni, che li accompagnava quotidianamente nel pascolo. Per il suo lavoro, s’angionargiu riceveva oltre a una piccola somma di denaro, alcune agnelle. Che con gli anni queste diventavano il nucleo che avrebbe formato il suo gregge, promuovendolo a pastore di pecore.
Nei nostri paesi agricoli vigeva l’usanza dell’agnello di famiglia, che si acquistava alla fine dell’autunno e veniva sacrificato per la Pasqua - arrostito al forno, secondo l’antica tradizione. Spesso, gli agnelli “pasquali” di un vicinato o di un parentado veniva riuniti a formare un piccolo gregge che veniva dato in custodia a un giovane angionargiu. Il quale li conduceva in campagna, facendoli pascolare nei terreni incolti di proprietà degli stessi padroni degli agnelli. Per il suo lavoro, questo angionargiu riceveva una mercede in denaro.

Lo svezzamento degli agnelli.

La pecora normalmente filia una sola volta all’anno, dopo una gestazione di quattro mesi e tre settimane, può anche avere parti gemellari, e allatta soltanto il proprio figlio. Infatti, quando muore un agnello e la pecora non può allattare, si cerca di darle un agnello di un parto gemellare o figlio di madre gracile, per poter utilizzare il suo latte. Farglielo accettare però è assai difficile, per cui si ricorre a uno stratagemma: si mette sull’agnello che si vuol fare adottare la pelle dell’agnello morto.
Lo svezzamento avviene naturalmente allontanando l’agnello dalla pecora madre. Ma non basta. Gli agnelli da svezzare vengono scambiati con quelli di un altro pastore, di un altro gregge. Dopo circa un mesetto, quando lo svezzamento è compiuto, si ritirano e si riportano nel gregge di appartenenza. Questo, ovviamente, quando non si ha possibilità di avere unu angionargiu, un ragazzo ch si prenda cura degli agnelli e li custodisca e li porti al pascolo tutti insieme.
Si dice “seberai”, l’operazione che il pastore fa a fine anno quando seleziona gli agnelli da latte, da macellare dagli altri che resteranno nel gregge, soprattutto femmine.


SU CRABAXU
IL CAPRARO

Is crabas, le capre, hanno una brutta fama. Per il contadino, per le sue colture, sono un pericolo, assai più grave di quello costituito dalle pecore e dagli animali da allevamento in genere. Probabilmente non per caso, nella lingua contadina, craba, capra, è sinonimo di ragazza o donna disordinata sozza e poco seria. Se poi a craba si aggiunge l’aggettivo maca, matta, allora l’epiteto è davvero negativo, perché sa craba maca - o media - indica una femmina poco seria in tutti i sensi, compreso quello morale. Non so di preciso se tale appellativo appartenga soltanto al mondo contadino, in odio verso il mondo pastorale, e precisamente in odio alle capre che se non vengono custodite da su crabaxu, dal capraio, possono seriamente danneggiare i mandorleti e i vigneti che nei Campidani sono per la maggior parte non recintati.
Ho assistito io stesso, in diverse occasioni, alla devastazione di mandorleti da parte di un gregge di capre. Dopo aver invaso il terreno, il capro in avanscoperta si avvicinava a una pianta e drizzandosi sulle zampe posteriori raggiungeva le cime dei rami intermedi, le addentava tirandoli giù e trattenendoli per consentire alle capre di mangiarsi le foglie e le parti tenere delle ramaglie.
Durante il fascismo fu emanata una legge sui pascoli assai restrittiva per le capre e qualcuno, in Sardegna, si indignò contro il propositore di quella legge, Arnaldo Mussolini, accusato di essere ignorante della realtà della nostra Isola e delle sue esigenze.
Aldilà dei pregiudizi del contadino (e perfino del legislatore) nei confronti del pastore di pecore e in particolare del capraio, c’è da dire che in talune regioni impervie della Sardegna, dove i pascoli sono radi e stenti, per mancanza di terre fertili e per la siccità cronica, le capre erano e sono l’unica fonte di sostentamento dove l’economia si basa sulla pastorizia, con il pascolo brado. Ciò non vuol dire che insieme non possano anche costituirsi forme di allevamento più moderne - dove sia possibile e non comporti la distruzione premeditata del sistema produttivo esistente e della sua cultura.

Lo svezzamento dei capretti.

S’accamu indica un bastoncino di legno, grosso quanto un dito e lungo circa dieci centimetri che similmente a un morso viene messo ai capretti tra mascella e mandibola, in fondo tra i denti, e legato con una funicella alle corna. Ciò per impedire loro, già grandicelli, di succhiare il latte materno ma non di iniziare a brucare l’erba. Nel loro primo periodo di vita, i capretti vengono ricoverati in s’aili un riparo di frasche appositamente costruito.70

Mi piace, qui, in memoria del passato scomparso, riportare dalla sua Opera su Morgongiori, un brano di T. Contu che suona quasi come una commossa orazione funebre per la scomparsa de su crabaxu.
«I caprari che svolsero la loro attività nel comunale di Morgongiori erano moltissimi. I loro greggi raggiunsero il numero di oltre settecentocinquanta capre. La vita dei caprari è fatta di solitudine, di sacrifici e di rinunce, ma il loro amore per quelle bestie era così forte che non esitavano a tramandare di padre in figlio quella atavica occupazione.
Nella montagna non c’era un’altura soleggiata dove non sorgesse un ovile; esso rappresentava un punto di riferimento per il viandante bisognoso di riparo e di ristoro. L’ospitalità dei caprari era proverbiale. Se un ospite di riguardo capitava al loro ovile, alla rustica mensa non mancava mai il capretto arrosto. Come era consuetudine che nello steccato dell’ovile non mancasse mai appeso ad un alto palo “su casiddu” di sughero ricolmo di siero e di zolle di formaggio fresco, a disposizione del viandante bisognoso di essere rifocillato.
Si racconta che un vecchio capraro, “ziu Piricu” era stato una volta invitato a partecipare ad una partita di caccia grossa coi suoi cani. La battuta ebbe esito sfortunato. I componenti la comitiva, quasi tutti di fuori, si apprestavano, demoralizzati, a rientrare ai loro paesi. Il buon capraro li invitò a passare nel suo ovile, e dopo aver sgozzato tanti capretti, ne distribuì uno a ciascuno.
Si dirà che erano altri tempi e che i tempi sono cambiati. E’ vero. Ma io aggiungerei che più che il tempo è cambiato il cuore degli uomini. I poveri caprari furono sempre presi di mira e accusati quali incendiari dei boschi e del sottobosco in specie, per ottenere virgulti novelli. Furono istituiti vincoli forestali e restrizioni di zone pascolative; i caprari furono oberati di contravvenzioni e di tasse e l’allevamento caprino cominciò a decadere. Sopraggiunse la legge fascista sui caprini che sanzionò definitivamente il divieto del pascolo alle capre nelle zone boschive e nel sottobosco. Fu la fine. I poveri caprari trovatisi di punto in bianco senza pascoli per il loro bestiame furono costretti a svenderlo, a patir la fame, a sparire! Dei loro nomi (o soprannomi) oggi è rimasto un pallido ricordo dove i loro ovili fiorirono».71


SU PROCAXU
IL PORCARO

Porcaxu, procaxu, è il porcaro, colui che cura questi animali e li porta quotidianamente al pascolo.
Unu procaxu de respectu, un porcaro che si rispetti tiene con sé unu tallu de a su mancu binti procus, un branco di almeno venti porci, per la maggior parte scrofe, con un verro, a parte la figliolanza.
Di preferenza i maiali vengono allevati nei paesi di montagna, ricchi di boschi di querce, dove questi animali trovano un pascolo più ricco e più affine alla loro natura. Tuttavia tale allevamento era diffuso in tutti i paesi sardi - a parte quel particolare allevamento detto “de su porcu de domu”, del maiale di casa, che veniva tradizionalmente macellato dopo “Dogniasantu”, dal primo novembre a dicembre.
Un branco di maiali necessita di un riparo stabile per la notte e per il giorno, quando il tempo è tempestoso. Su procaxu possedeva in campagna una baracca per sé e una costruzione idonea al riparo degli animali. A questo stabile rifugio rientrava ogni sera dopo il quotidiano pascolo nei boschi.
In tempi più recenti, negli anni 70, l’allevamento dei maiali era diventato un affare, con poche spese di investimento si ricavava un buon profitto, gli animali ingrassavano nelle porcilaie alimentati con i mangimi che offriva il mercato, e non allevati con il pascolo brado - aumentando la quantità a scapito certamente della qualità delle carni. Questo “moderno” sistema di allevamento si era di molto sviluppato dando luogo alla creazione nelle nostre campagne di una miriade di porcilaie, spesso ad opera di giovani, da un lato spinti dalla disoccupazione e dall’altro attratti dalla speranza di facili guadagni, che però abbandonavano l’impresa alle prime difficoltà.
Assai spesso nei nostri paesi si vedevano piccoli branchi di sette od otto maiali, messi insieme da alcune famiglie imparentate tra loro o dello stesso vicinato e affidati alle cure di un ragazzino, promosso al rango di procaxu, seppure il suo vero ruolo fosse quello di pascidori de procus, un addetto a portare al pascolo i maiali, che alla fine della giornata venivano riportati ciascuno a casa propria.


SU BOINARGIU
IL BOVARO

Su boinargiu è l’addetto alla cura e al pascolo di una mandria di soli bovini maschi adulti non domi, siano questi vitelloni, mallorus, manzi, mallorus mallaus, buoi, bois, o tori, mallorus de fedu. Su malloru, il vitellone, è il maschio giovane che viene allevato per il consumo di carne, destinato alla macellazione. Il manzo è il vitellone castrato, che viene ugualmente allevato per la macellazione. Su boi, Il bue, è il soggetto che verrà prima mallau, scotolato, cioè evirato mediante scotolamento, e poi domato e aggiogato, per il trasporto e per il lavoro dei campi. I tori vengono allevati, beati loro, per l’accoppiamento, in funzione della riproduzione.
«Nella zona del Parteolla, il contratto di lavoro tra il proprietario del bestiame e su boinargiu viene stipulato il giorno di san Michele, o comunque nei primi giorni di settembre, e dura per tutto l’anno agricolo. In cambio delle sue prestazioni di tutto un anno, su boinargiu ha diritto a ricevere dal proprietario: due carri di legna; due paia di scarpe da campagna; unu saccu nieddu (mantello di orbace nero) tessuto con lana di capra; uno staio di terra (4 mila mq.) seminato a grano, uno staio a orzo, uno staio ad avena e uno a fave - il padrone mette il terreno, la semente e l’aratura; mentre il lavoro per le colture è a carico del bovaro; il raccolto comunque vada va al bovaro; il proprietario del bestiame si riprende la terra. Il vaccaro ha diritto gratuito del lavoro del barbiere: la barba ogni settimana e il taglio di capelli all’occorrenza. La ricompensa d’uso per questa prestazione del barbiere consiste in: o due stai di grano (circa 80 chili) oppure un carro di legna da ardere, ovviamente a carico del proprietario del bestiame. Il bovaro ha ancora diritto a una quarra, uno staiello, di grano, pari a circa 20 chili, ogni settimana, per il pane familiare. Se il bovaro dà ai buoi su murzu, la colazione, ossia il primo pasto della giornata, ha diritto a ricevere anch’egli unu murzu, una colazione, da parte del padrone; se dà ai buoi la cena, ossia l’ultimo pasto, anch’egli ha diritto a ricevere una cena.
Guai a segai s’annu!… Guai a interrompere un contratto prima della fine dell’anno agrario. Neanche per grave provocazione. Interrompere un contratto significa dimostrare poca affidabilità e per tanto si corre il rischio di restare senza lavoro per parecchi anni».72

«Mi chiamo Antoneddu Melis, classe 1920, senza padre, di mestiere boinargiu. Appena finita la terza elementare, mia madre mi accompagnò all’ovile di don Lino, dove c’era il servo-pastore suo compare, e a lui mi affidò perché mi insegnasse a badare agli agnelli e a diventare angionaiu.
Quel brav’uomo mi guardò con commiserazione, ché ero magrolino, scalzo e lacero. Prese un paio di scarpe ferrate vecchie, ma abbastanza morbide, e me le fece indossare: io ci caddi dentro fin quasi alle ginocchia, ma mi avrebbero difeso dalle spine. Poi mi mise addosso una besti de brebei, una pelliccia di pecora senza maniche, e mi condusse al campo recintato. Fece uscire gli agnelli facendomeli contare uno ad uno, dicendomi di tenerli nel campo vicino e di stare molto attento che non andassero a pascolare nei campi circostanti seminati.
Mi diede un pezzo di pane e su frascu, il brocchetto dell’acqua, e mi disse di stare lì tutto il giorno, mentre lui avrebbe portato le pecore al pascolo più lontano.
La sera, richiuso il gregge in s’accorrazzu, nel recinto, accendemmo il fuoco in sa forredda, nel focolare, dove abbrustolimmo belle fette di pane e di formaggio fresco. Dopo, il servo-pastore mi fece vedere come dovevo prepararmi su cuebi, il giaciglio, con fasci di paglia. Per coperta mi diede su saccu nieddu, un telo di orbace che nero non era più, ma faceva ancora caldo. Quello fu il mio primo giorno di lavoro. Passò qualche anno ed io crescevo bene, sano e robusto. Quando portavo gli agnelli al pascolo, guardavo con ammirazione i vitelli che pascolavano nel campo vicino e invidiavo su boinargiu, il bovaro, che li custodiva.
Un bel giorno passò lì don Lino che, benevolo, mi avvicinò e mi chiese se fossi contento del lavoro. Io presi il coraggio a due mani e gli dissi che il mio più grande desiderio era quello di poter far pascolare i vitelli. Il padrone disse che un giorno mi avrebbe dato quell’incarico e, più tardi, convinto anche dalle parole del servo-pastore che mi voleva bene come un padre, mi promise che, quando il bovaro fosse partito per fare il soldato, il posto sarebbe stato mio.
E così sono diventato bovaro. Ero molto contento quando, da giovane, portavo i vitelli al pascolo, li sorvegliavo e, se necessario, usavo il frustino che io stesso mi ero preparato o, in casi estremi, su strumbu, la lunga pertica di olivastro che finisce con un chiodo, per farli allontanare dai campi seminati, per non far danni al contadino. Nei pomeriggi afosi e tranquilli, seduto all’ombra di un cespuglio di moddizzi, di lentischio, suonavo su pipaiolu, un semplice flauto di canna fatto da me, oppure intagliavo qualche pezzo di legno per farne mestoli o taglieri. La sera, richiusi i vitelli nel recinto, riempivo le vasche dell’acqua per farli abbeverare e is frascus, i brocchetti, per me e per su bracaxu, il vaccaro, e acceso il fuoco mi riposavo».73


SU VACCARGIU
IL VACCARO

Su vaccargiu o braccaxu, il vaccaro, est su chi pascit una cedda de baccas, è colui che accudisce e porta al pascolo una mandria di vacche. L’insieme degli appezzamenti di terra entro i quali la mandria pascola si chiama carrera o cussorgia. A Guspini, zona Montangia, cioè la fascia collinosa che va da Monte Linas a Monte Arcuentu, è area di floridi allevamenti bovini. Gli allevamenti bovini in questa zona sono a pascolo brado di carattere stanziale.
Su vaccargiu si occupa di tutto ciò di cui ha bisogno la mandria: segue l’allattamento facendo si che i vitelli seguano le fattrici, provvede alla mungitura delle lattifere, deve provvedere il foraggio e l’acqua da bere nei periodi in cui i pascoli sono poveri e le sorgenti in secca, deve controllare affinché il bestiame non sconfini e pascolando abusivamente produca danni all’agricoltura.
Nella mandria affidata al vaccaro sono presenti vacche fattrici, in massima parte, e vitelli fino al loro svezzamento. Le vacche da latte stanno solitamente nelle stalle, raramente vengono portate e lasciate a pascolo brado (se non quando mostrino di averne bisogno, quasi una terapia, come il mandarle in “villeggiatura”).
Dopo lo svezzamento, i bovini maschi vengono separati dalle femmine e affidati a su boinargiu, il bovaro.
Nella zona del Parteolla, come per il bovaro, anche per il vaccaro, il contratto inizia i primi di settembre, all’inizio dell’anno agrario e dura dodici mesi. Il vaccaro in cambio del suo lavoro, riceve dal proprietario dei bovini due vacche che abbiano appena filiato, più i loro due vitelli; due carri di legna da ardere; un paio di scarpe da lavoro; una mantella di orbace tessuto con lana di capra (che è più caldo e impermeabile della lana di pecora); uno staio di terra seminata a grano74; uno staiello settimanale di grano per il pane familiare; e infine ha diritto ai pasti quotidiani, prima colazione, pranzo e cena.


SU PALAFRENERI
IL PALAFRENIERE

Su palafreneri è l’addetto alla cura dei cavalli. Compito che comunemente viene assolto dallo stesso contadino, proprietario di uno o al massimo di due cavalli. Soltanto nel caso di ricchi allevatori, questi stipendiavano palafreneris, che si occupavano della cura dei cavalli a loro affidati.

SU MEDIADORI DE ANIMALIS PO MUNTAI
IL MEDIATORE DI ANIMALI DA MONTA

«Alfonsino faceva il mediatore.75 Mediava maschi da monta per la riproduzione del patrimonio zootecnico. Pecorai e bovari si rivolgevano ad Alfonsino, che garantiva i risultati dell’operazione. Se si verificavano casi di nullità, la colpa era sempre della femmina. Alfonsino esercitava scrupolosamente il suo mestiere, e quando il montone, o toro che fosse, si rivelava freddo o maldestro, “Può accadere a tutti, no? Come i cristiani anche loro sono soggetti all’emozione...”, non si faceva scrupoli di allungare una mano, o tutte e due, per agevolare l’operazione. Alfonsino usciva ogni giorno all’alba. Stazionava in piazza, sull’uscio della bettola, in attesa di clienti. Sorseggiava vernaccia e guardava la gente, taciturno. A mezzogiorno in punto - con o senza affari conclusi - rientrava a casa, pranzava, si metteva a letto e dormiva fino al tramonto. Al tocco dell’Ave Maria si levava, prendeva una chicchera di caffè e usciva, stavolta per svago».76


SU STALLONERI
L’ADDETTO ALLA MONTA DEI CAVALLI

La monta dei cavalli vien data in appalto dall’I.I.E. (Istituto Incremento Equino) e i possessori di cavalle per la riproduzione devono rivolgersi a su stalloneri, l’addetto alla monta, titolare della Stazione di monta, che, per altro, non c’è nei paesi piccoli. Ogni Stazione ha stalloni di diversa razza, a secondo delle esigenze della zona in cui è situata e opera. Un tempo, quando su stalloneri era assente o impedito per qualsivoglia motivo, di norma doveva occuparsene la moglie, che aveva il compito di vice. Ancora oggi, la monta è regolata dall’I.I.E.
Tuttavia, un tempo, quando certe incombenze non erano ancora burocratizzate, i proprietari di stalloni e di cavalle da ingravidare si accordavano tra loro per accoppiare i loro animali nel miglior modo possibile, traendone ciascuno il proprio tornaconto. Di solito lo stallone (cioè il padrone e su stalloneri) riceveva una certa somma in denaro, soltanto quando la cavalla fosse rimasta gravida. Non di rado i proprietari non se la sentivano di dirigere certe operazioni, da taluno pudico e chiesastico ritenute perfino sconce, e così si rivolgevano all’esperto del paese, detto per l’appunto su stalloneri. Quando non ci fosse di mezzo anche su mediadori che era un intenditore di animali in genere e quindi sapeva valutare se un accoppiamento fosse giusto e desse buoni frutti - su stalloneri si occupava dell’operazione, e se, a suo giudizio, non fosse andata per il giusto verso, si preoccupava di farla ripetere, ovviamente con il consenso dei due interessati.
La monta avveniva di solito in unu cungiau, un campo recintato, dove i due si accoppiavano sotto la diretta sorveglianza de su stalloneri. Il quale doveva stare attento che i due animali nella foga non si facessero male, lei scalciando e lui ingroppando, e suo compito principale, per evitare spinte a vuoto, era di afferrare al volo e dirigere con maestria l’estremità del membro eretto e oscillante nella fessura, introducendovelo... Il resto veniva da sé e non restava altro da fare che stare a guardare.
A proposito dello “stare a guardare”, tra i ricordi della mia fanciullezza vi sono immagini di monta di cavalli di valenza fortemente erotica. Ci si passava la voce in paese, tra ragazzi, quando c’era una di tali accoppiate - e c’erano pure stallonis nomenaus famosi per la loro virilità, come lo erano certi asini, quali su molenti de Marchini a Mogoro - e all’ora stabilita gli habituès c’erano tutti, e non tutti ragazzi, sistemati in posizioni discrete onde non disturbare e soprattutto per evitare d’essere cacciati da su stalloneri o dai proprietari dei due animali, quando c’erano e volevano assistere alla cerimonia nuziale.
Sotto il profilo tecnico, come previsto dal regolamento ufficiale, lo stallone non deve fare più di due monte al giorno, perché l’accoppiamento sia positivo. Pertanto l’attività di uno stallone è di 12 monte alla settimana, tutti i giorni esclusa la domenica (evidentemente, anche in questo caso, riservata al Signore). La monta deve essere ripetuta finché la cavalla non è ingravidata. C’è però un limite: la monta non può essere ripetuta per più di cinque volte. La si ripete comunque o dopo 38 ore oppure ogni 19 giorni (alla ovulazione successiva). La cavalla può restare gravida anche dopo la prima monta. Viene comunque ripetuta una seconda volta: se la cavalla si rifiuta, può significare che è pregna oppure che non c’è simpatia per quel cavallo. Si ripete ancora una terza volta, e se anche stavolta la cavalla si rifiuta, significa che è ingravidata. Da notare che ci sono cavalle che pure essendo gravide accettano ugualmente la monta, perché le “porcaccione” evidentemente ne traggono diletto.
Attualmente,77 una monta andata a buon fine costa 380 mila lire, se non si vuole la documentazione burocratica relativa che fa salire il prezzo a lire 900 mila circa. Da notare che la prima soluzione è fuorilegge, come un acquisto senza la ricevuta fiscale.
E’ certamente singolare la figura dello stallone ruffiano, presente soprattutto quando nella stazione ci sono stalloni di gran pregio, detti i PSI (che non sono socialisti ma Puro-Sangue Inglesi), la cui prestazione e il cui seme vanno risparmiati al massimo. Anche per una questione di quattrini, perché l'ingroppata viene a costare da dieci a quindici milioni78 e quindi non è conveniente spendere questi soldi a vuoto, se non è strettamente necessario. Lo stallone ruffiano ha il compito di fare la controfigura, sostituire lo stallone purosangue avvicinando la cavalla da ingravidare e annusandola accorgersi se è ancora in calore; poiché se la cavalla non fosse rimasta pregna, essendo necessaria una nuova monta, si allontana lo stallone cosiddetto ruffiano e allora si porta colui che è stato eletto a fare da genitore. Qualche Stazione di monta si fornisce di cavallini di razza piccola, come quelli della Giara o Pony, che assolvono benissimo il compito di verificare lo stato della cavalla, ma non ci arrivano a ingropparla, e quindi più facilmente vendono allontanati e sostituiti da chi di dovere. Accadono talvolta degli incidenti, e cioè che lo stalloniere, seppure coadiuvato dagli aiutanti, non riesca a evitare che lo stallone ruffiano, una volta “gasato” si ingroppi di prepotenza la cavalla.
Per la cronaca: I tempi di gestazione per la cavalla: 11 mesi; i parti gemellari sono rari. Per l’asina: 12 mesi più tanti giorni quanti sono gli anni dell’animale; i parti gemellari sono rari. Per la mucca: 9 mesi; i parti gemellari sono frequenti. La scrofa: 3 mesi e 3 settimane. I parti gemellari, da 5 fino a 15, sono normali. La pecora e la capra: 4 mesi e 3 settimane.


SU CRASTADORI
IL CASTRATORE

Nell’economia contadina, nel settore dell’allevamento, vi sono animali che vengono castrati, sia quando servono per l’alimentazione, sia quando servono per il lavoro. Per fare qualche facile esempio, il maiale viene solitamente castrato per l’ingrasso, mentre per la riproduzione, ovviamente, si sceglie il miglior esemplare di verro, conservandone intatta la virilità.
Cavalli, buoi e talvolta anche asini, vengono castrati per domarli e abituarli a tirare il carro o l’aratro. Da notare che i buoi venivano castrati mediante la scotolatura, sa malladura, cioè con lo schiacciamento dei testicoli, non con l’esportazione.
Vengono castrati anche i galletti e non soltanto perché diventino dei floridi capponi, ma anche per non disturbare “su caboni de fedu”, il gallo da riproduzione, nell’esercizio delle sue funzioni.
Per la castrazione ci si rivolge normalmente a su castradori, un esperto eviratore; mentre per la castrazione di animali di piccola taglia, come i galletti o il gatto, (quest’ultimo affinché non scappi di casa), provvedono direttamente le massaie, le donne di casa, alcune delle quali compiono tali operazioni anche per soddisfare le esigenze di tutto il vicinato.
Nella testimonianza che segue si delinea quello che può definirsi un mestiere vero e proprio, anzi un’arte: s’arti de crastai, l’arte del castrare. Con lo scontro inevitabile tra la tradizione, il vecchio, ovvero l’esperienza acquisita dalla pratica, e il nuovo, scientifico, ma talvolta con la sola presunzione di scientificità.


SU MALLADORI
CHI EVIRA I VITELLI

Era detto malladori colui che evirava i vitelli destinati al lavoro, al traino del carro e dell’aratro. L’evirazione dei vitelli avveniva in un modo crudele, mediante scotolatura, cioè le coglia dell’animale venivano con su mallu, il mangano. L’operazione de sa malladura, della evirazione, avveniva comunemente in campagna a opera di un boinargiu, bovaro, che ne avesse la capacità, e veniva detta “a mallu de figu” perché si usava un mangano di legno di fico: i testicoli dell’animale venivano appoggiati a una pietra e pestati con detto attrezzo.
Se invece la stessa operazione avveniva in paese, veniva compiuta da su malladori - che poteva essere o un addetto, o su maniscai79, il maniscalco, o su frau80, il fabbro ferraio o, infine, dove c’era, su veterinariu, il veterinaio, il quale usava un metodo considerato leggermente più “umano”, e cioè un paio di apposite tenaglie piatte, che schiacciavano i testicoli del bovino. Attualmente, è stato messo a punto un attrezzo, una sorta di forcipe che infila un robusto elastico alla attaccatura delle coglia, atrofizzandole. (Non so dire per quanto tempo l’animale soggetto alle “cure” dell’uomo deve tenere “l’elastico” atrofizzante).81


SU DOMADORI DE BESTIAMINI
IL DOMATORE DI BESTIAME

Abbiamo visto che is mallorus, i tori, vengono mallaus, evirati mediante scotolatura, per poi essere domati e aggiogati, sia per tirare il carro che l’aratro. Su domadori de bois est su chi ddus domat, è colui che li doma. Per boi, bue, si intende unu malloru mallau, cioè un toro smaschiato, evirato mediante scotolatura.
Sulla doma de is bois, dei buoi, testimonia un anziano domadori della Trexenta:
“Il capo da domare viene preso al laccio e isolato dal branco. Lo si lascia quindi per circa due giorni cun sa funi tira tira, con la fune a strascico. Passati i due giorni, gli si impone il giogo, legandoglielo per le corna cun is lorus, con le corregge; quindi gli si applica s’ordinagu, (odriangu), la briglia, una funicella, legandogliela a un corno e poi facendogliela passare attorno a un’orecchia. Anche questa funicella, gliela si lascia pendente, tira tira, cioè a strascico, in modo che calpestandola ne senta lo strappo, e così si abitui a sopportarla finché l’orecchio non si adatti. Quando il domatore lo ritiene opportuno, comincia a manovrare l’animale mediante s’ordinagu, la briglia. In un secondo momento, si procede ad attaccare i due buoi al giogo, e quindi a fissare questo all’estremità del timone del carro, tendo presente che bisogna legare al giogo per primo “su boi chi bincit”, letteralmente “il bue che vince”, il bue più forte, che domina - ciò per evitare che questo risentito cerchi una rivalsa dando cornate al bue più debole, il quale se venisse legato al giogo per primo non potrebbe neppure difendersi.”
Per domare un cavallo, il metodo non si differenzia molto, anche se è più faticoso, e ci vogliono metodi più drastici, essendo il cavallo assai più indocile e più ribelle del bue. - a parte il fatto che non sempre viene castrato.
Il cavallo da domare viene legato ad un albero con una fune lunga circa due metri,82 detta funi accappia cuaddus, e l’altra estremità viene fissata ad un particolare morso applicato alla bocca dell’animale.

Domatura dei buoi.

I vitelli anche dopo svezzati vengono lasciati nel branco insieme alle vacche fino all’età di due anni; quindi i torelli vengono allontanati: una parte di essi verrà lasciata per la monta delle vacche; una per la produzione di carne e l’altra per la doma. I torelli destinati sia alla produzione di carne sia alla domatura vengono castrati. La castratura serve sia per avere una crescita maggiore come altezza e come mole sia per renderli più docili e più facilmente domabili.
Sa sanadura o malladura, la castratura, si effettua applicando una tenaglia alla base della borsa che contiene i testicoli recidendo così il condotto testicolare. Anche se il sistema più usato è quello de sa malladura che consiste nello schiacciare i testicoli dell’animale con un maglio cioè su mallu; qualcuno usa a parer suo un sistema un po’ meno cruento: si fanno scendere i testicoli spingendoli in fondo allo scroto e legando quest’ultimo con un elastico.
La domatura dei buoi ha il principale scopo di renderli docili per poterli aggiogare e quindi utililizzarli nel lavoro o per il traino del carro o per il traino dell’aratro.
La prima fase consiste nel parlare e nell’accarezzare i buoi in modo da vincere la loro diffidenza; poi li si lega a un albero con una fune non molto lunga in modo da non lasciare molta possibilità di movimento così pian piano i buoi si abituano a non poter fare sempre quello che vogliono; intanto che sono legati gli si dà anche poco da magiare in modo da indebolirli e far si che abbiano meno forze e oppongano minore resistenza.
La seconda fase consiste nel legare un orecchio dell’animale con una cordicella su ordinagu e lasciargliela penzoloni mentre è al pascolo: si otterrà così che il bue pian piano si abitua a questo contatto fondamentale per ricevere i comandi. A questo punto i buoi possono già essere aggiogati. Viene prima, come si è detto anche in altre parti, legato al giogo il bue più forte e sempre dalla stessa parte: infatti l’orecchio abituato a essere legato è uno solo, poi l’altro e imparano a ricevere i comandi del conducente attraverso is ordinagus che risultano legati a nodo scorsoio alle orecchie che sono all’interno della copia. Qualcuno usa legare allo stesso giogo un bue già domato con uno ancora da domare, ma questo sistema non sempre dà buoni risultati.
Un momento molto adatto per cominciare a domare una copia di buoi era la trebbiatura: anche se era un lavoro ripetitivo permetteva di fare in modo che le due bestie stessero molto tempo insieme e rispondessero insieme ognuna per la propria parte. Un altro elemento come si diceva prima: il parlare. Più che di parole, almeno per i comandi, sono dei suoni per esempio: accosta (a su carru) avvicinati, aia via, aiaia più in fretta, boh! fermati, torra torna indietro.
Un fenomeno singolare, e anche interessante per l’aspetto poetico, sono i nomi dati ai buoi che stanno sotto lo stesso giogo e si può dire legati allo stesso destino. Si tratta di nomi complementari formati da due quinari. Di seguito alcuni esempi:
Affacciadì / Mira ca passu = Affacciati / Guarda che passo
Tropp’è s’affettu / No mi ‘ndi stau = Troppo è l’affetto /Non riesco a farne a meno
Troppu batallas / Pagu ‘ndi sumu = Troppo tu parli / Poco ti credo
Preparadì / Mira ch’è tempus = Preparati / Guarda che è tempo
Lassamì stai / Pagu ti circu = Lasciami stare / Poco ti cerco
Caru s’onori / Poderadiddu = Caro l’onore / Tienitelo

Domatura del cavallo

Intorno ai due anni o al più tardi a due anni e mezzo il cavallo viene domato sia che venga adibito al traino dell’aratro per la lavorazione della terra, al traino della carretta o del calesse o della carrozza come mezzo di trasporto, o sia che venga sellato e cavalcato. Non sempre la castratura è associata alla doma.
In Sardegna, il cavallo è poco usato per lavorare la terra, si preferiscono i buoi, molto più resistenti, mentre per il trasporto il cavallo essendo assai più veloce viene maggiormente utilizzato.
La doma deve essere eseguita dall’inizio alla fine sempre dalla stessa persona, con polso duro e fermo in modo che l’animale impari più rapidamente possibile ad accettare i comandi e a ubbidire. Assogau, preso al laccio, il cavallo tolto dal branco viene legato a un albero o un palo appositamente piantato all’interno di un recinto. Lo si lascia pian piano a fune sempre più corta, perché abbia poca libertà di movimento; senza mangiare e soprattutto senza bere per due giorni, in modo da indebolirlo e fiaccarne la riottosità.
Dopo di che gli si mette su murrali, il morso specifico per la doma, con le briglie, e si inizia la doma vera e propria. Tutto questo avviene né più né meno come si vede in tante scene di film western, dove il cavallo, tenuto alla fune, gira intorno al recinto al comando verbale, di frusta e di polso del domatore. Quindi, viene sellato e cavalcato, se è destinato a questo uso. Diversamente, la fine della domatura avviene con l’attaccare l’animale al calesse o all’aratro e insegnargli quel lavoro.
Anche i cavalli, quando sia necessario, come pure i vitelli che non servono per la riproduzione, vengono castrati sia con il sistema de sa malladura, o scotolatura, oppure con l’apertura della sacca scrotale, asportandone i testicoli.


S’ADEREZZADORI DE CORRUS
IL RADDRIZZATORE DI CORNA

Questa attività è certamente da annoverarsi tra le più singolari non soltanto della nostra Isola ma di tutto il mondo. S’arti de aderezzai is corrus de is bois, l’arte di raddrizzare le corna dei buoi era praticata quando si voleva modificare una malformazione che non consentiva l’aggiogamento dell’animale con il compagno, o anche nel caso di corna “a bandera”, molto aperte, che rendevano difficile l’accesso all’animale aggiogato in taluni varchi o portali o strettoie, o anche per una questione semplicemente estetica. Per esempio, la coppia di buoi selezionata per tirare il cocchio del santo Patrono doveva avere anche le corna eleganti e in regola, e venivano pertanto sottoposti a una rigorosa cura di bellezza.
Riporto testualmente la testimonianza di A. Garau da”Trad. popolari nella zona del Monte Arci” - 1987.
«Su boi corritrottu (Bue con malformazione alle corna). I contadini di un tempo che esercitavano tale mestiere per tradizione, si sentivano orgogliosi quando possedevano dei bovini “bellus po traballai” (pieni di brio nel lavoro) ed ancora belli di presenza, ossia di mantello rosso senza chiazze, di bella andatura, ben conformati di testa, di corna e di coda. Fra i difetti che l’animale può presentare sulle citate qualità, l’uomo è in grado di correggerne soltanto uno, ossia la malformazione delle corna. Ecco l’operazione da eseguire: si introduce la bestia nella “macchin’ ‘e ferrai bois” (travaglio) e la si lega bene in modo da immobilizzarla; poi s’infila, sul corno storto “un civraxiu buddiu appena bogau de su forru” (un grosso pane appena sfornato). Dopo un po’, bastano un paio d minuti, si toglie “su civraxiu” e si raddrizza il corno reso molle dal calore trasmesso dal pane caldo. Un agricoltore di questa zona che nel passato si occupava di operazioni del genere, aveva ideato un congegno che sostituiva “su civraxiu”: si trattava di un pezzo di tubo di metallo flessibile che, scaldato un po’, si infilava nel corno da raddrizzare e si toglieva dopo pochi minuti ad operazione compiuta.»
Questo singolare mestiere era un tempo assai diffuso nei paesi dei Campidani. Era svolto talvolta anche dal fabbro o meglio dal maniscalco, che usavano un apposito tubo di ferro debitamente riscaldato. Tuttavia si trattava di una operazione assai delicata e pertanto spesso ci si rivolgeva allo specialista, appunto su aderezzadori de corrus. Chi faceva questo mestiere provvedeva anche alla bisogna di “spuntai is corrus”, arrotondare le corna eccessivamente appuntite e pertanto pericolose. Quest’ultima operazione veniva fatta oltre che sui buoi anche sui montoni.
Gli artigiani che lavorano il corno per ottenerne piccoli recipienti, tra cui un tempo usatissime le tabacchiere, sanno bene che riscaldandolo il corno del bue può assumere la forma desiderata. In questo caso, per ammorbidire il corno, si usa l’acqua calda dove viene immesso per il tempo necessario a renderlo malleabile.83


SU BASONI
IL BUTTERO84

«A Morgongiori i cavallini selvatici rappresentavano, oltre che una pittoresca caratteristica locale, una preziosa fonte di guadagno.
I puledri venivano tutti gli anni presentati dai singoli proprietari alla Fiera di Santa Croce in Oristano e venduti a coppiette ai mercanti siciliani che a loro volta li spedivano in America dov’erano molto ricercati.
Su basoni era una figura tipica di Morgongiori e di qualche paese della Giara. Era una specie di cow boy del quale doveva possedere tutte le qualità fondamentali e prima fra tutte quella di saper stare sicuro in sella e saper tirare il laccio, conoscere il modo di afferrare un puledro per buttarlo a terra con sveltezza e col minimo sforzo, saper immobilizzare un cavallo riottoso preso al laccio.
L’opera del basoni era assolutamente necessaria al tempo delle messi.
Verso la metà di giugno, infatti, i proprietari, accompagnati dai loro basonis, montati in sella e armati di laccio, soga, si recavano in montagna per raccogliere i singoli branchi in un’unica mandria e convogliarli in paese.
Una fatica non indifferente da veri cow boy e non scevra di pericoli.
Occorrevano corse sfrenate in sentieri scoscesi che spesso rasentavano precipizi, salti di macchie e di fossi, inseguimenti e agguati, per prendere al laccio qualche cavallo impazzito che veniva poi legato alla cavalcatura del basoni e trascinato ricalcitrante fino alla mandria.
Raccolti tutti i cavalli in un’unica mandria, venivano condotti in paese e rinchiusi in un apposito steccato o cortile.
Dopo aver provveduto alla marchiatura a fuoco dei piccoli, gli adulti venivano, uno per volta, presi al laccio, buttati a terra e dopo aver stretto in un unico nodo le quattro zampe, venivano forniti di ferri. La fornitura di ferri era un’operazione molto necessaria per la protezione degli zoccoli delle bestie durante la trebbiatura.
Indi venivano avviati nei paesi del Campidano dove più necessaria era la loro opera per l’abbondanza delle messi, perché la trebbiatrice non aveva fatto ancora, in quei tempi, la sua comparsa in Sardegna.
Compito del basoni era quello di accompagnarli ogni sera, dopo una giornata di lavoro, al pascolo notturno, per ricondurli la mattina di buon’ora in paese, per la consueta fatica.
Rinchiusi in un cortile venivano, ad uno ad uno presi al laccio, legati ad una lunga fune detta catena in modo da formare una specie di cordata.
Indi venivano avviati nell’aia per la trebbiatura.
La catena (o cordata) era costituita da una grossa fune fatta di crini di cavallo, come lo era il laccio.
Ad essa venivano legati per tutta la sua lunghezza, a distanza di un metro una dall’altra, speciali funicelle (anche queste di crini di cavallo) chiamate barenzus, quanti erano i cavalli che dovevano essere legati alla cordata.
Su barenzu aveva la lunghezza e la grossezza di una comune serpe; anzi le rassomigliava, in quanto la testa era rappresentata da un occhiello che la funicella aveva a un capo e la coda dall’altro capo più sottile.
La funicella faceva un giro intorno al collo del cavallo, indi infilata l’estremità di essa sull’occhiello apposito, veniva assicurato alla cordata con un nodo speciale a fiocco semplice di facile scioglimento.
Questa precauzione era necessaria perché quei cavallini, bassi e di piccola mole, costretti a girare in uno spesso strato di covoni, specialmente nei primi giorni, potevano affondarvi, inciampare e cadere; e, trascinati dalla foga degli altri, correre il rischio di morir soffocati.
Altro compito del basoni, sempre presente nell’aia, era quello di vigilare il movimento dei cavalli per essere pronto ad accorrere, in caso di emergenza, e con un semplice strappo sciogliere il nodo e liberare la bestia dalla stretta.
Ordinariamente anche i proprietari dei cavallini si recavano nei paesi del Campidano a fare le mansioni di “cow boy” perché, non essendo dediti ad altro lavoro manuale pesante o a quello dei campi, era questa una occupazione gradita, dignitosa, signorile e, starei per dire, spavalda, e costituiva per loro uno sport molto ricercato».85


S’ASSOGADORI
CHI PRENDE ANIMALI ALLO STATO BRADO CON IL LAZO

Sa soga indica specificamente il lazo, mentre su lazzu indica genericamente un laccio, in particolare la trappola di fil di ferro a nodo scorsoio per prendere uccelli, lepri e altri animali. S’assogadori è il mandriano che acchiappa un capo di bestiame, in specie un bovino, cun sa soga, con il lazo.
Sa soga, il lazo, consiste in una fune di canapa particolare, che deve essere al tempo stesso rigida e duttile. Quando sa soga viene lanciata deve avere la consistenza giusta per vibrare bene nell’aria e la duttilità necessaria per chiudersi intorno a quella precisa parte dell’animale da catturare.
Sa soga è ancor più esattamente il cerchio che si forma a una estremità della corda.
Due elementi caratterizzano la bravura de su assogadori, del lanciatore di lazo. Il primo: deve saper fare una soga abbastanza larga da abbracciare ambedue le corna dell’animale, lasciando fuori le orecchie, perché nel cadere deve andare a collocarsi esattamente tra corna e le orecchie e stringersi immediatamente in modo da afferrare saldamente la testa, per poi far cadere la bestia con uno strattone. Il secondo, è quello di riuscire ad assogai, ad acchiappare la bestia al primo lancio - tenendo conto che s’assogadori è a piedi, alla stessa altezza delle bestie, (a differenza dei cow-boys americani o dei butteri della Maremma - ma c’è pure da noi qualche balenti, che assogat, prende al lazo stando a cavallo, all’americana), e che la bestia è in mezzo al branco, che sa assogadura non è una esercitazione e neppure una esibizione di bravura, ma è una necessità di lavoro, cioè c’è bisogno di catturare in quel dato momento quella data bestia. Pertanto s’assogadori deve essere uomo svelto e astuto, conoscitore dei comportamenti, delle reazioni dei bovini indomiti, difficilmente avvicinabili. La tecnica del lancio de sa soga: non è semplice: la fune viene lanciata in senso antiorario nel momento in cui la bestia sta camminando in senso orario e, praticamente, s’assogadori sta al centro dell’immaginario orologio.
Più che un lavoro s’assogai può dirsi un’arte, che viene esercitata sia dai vaccari che dai bovari che ci sono portati e ci si esercitano; ed è una attività necessaria perché è l’unico modo per catturare alla bisogna un dato capo di bestiame in mezzo a una mandria indomita e difficilmente avvicinabile.


SU TOCCADORI O TRUBADORI
CHI GUIDA IL BESTIAME DA UN PAESE ALL’ALTRO

Su toccadori o trubadori è il conduttore, l’accompagnatore, a piedi o a cavallo, di bestiame - mandrie, greggi, branchi - per trasportarlo da una località ad un’altra. Questo mestiere, nei Campidani è detto trubadori, mentre nel Guspinese e in Montangia viene detto toccadori. Da notare che nella Trexenta trubadori è detto anche colui che nell’aia, durante i lavori della trebbiatura, guida dall’esterno del cerchio i cavalli che trottano trebbiando il grano
Un tempo, quando non c’erano mezzi di trasporto adatti, un contadino che comprava un giogo di buoi e doveva spostarlo dal paese d’acquisto a quello della propria residenza, affidava l’incombenza a su toccadori, il quale, a cavallo o a piedi, “passo passo”, accompagnava i buoi portandoli a destinazione.
Spesso i proprietari di bestiame grosso, cioè buoi e cavalli in specie, per esempio, allevatori di Gonnosfanadiga, spostavano i loro capi dai terreni vicini al paese a quelli di Padru Atzei, nei pressi di Nabui, e in questo caso si rivolgevano a is toccadoris, i quali accompagnavano le mandrie da spostare. Si trattava spesso anche di centinaia di capi. E noi ragazzi andavamo a vederli passare in sa ‘ia de is gonnesus; che è il percorso più breve e diretto tra Gonnosfanadiga e Padru Atzei, e questa strada ancora oggi è detta “sa bia de is gonnesus”, la strada dei gonnesi.
Su toccadori deve essere ovviamente un conoscitore sia del bestiame che ha il compito di condurre, che del territorio, in quanto spesso deve percorrere decine di chilometri di campagna, talvolta siti impervi, tal’altra terreni coltivati o alberati, specie oliveti e mandorleti, di proprietà privata, che possono attraversare chiedendo l’autorizzazione ai padroni e senza fare danni. Inoltre il bestiame durante il tragitto deve poter fare le debite soste per riposare, mangiare e bere. Su toccadori deve quindi sapere in quali punti ci sono sorgenti d’acqua e pascoli liberi.
A differenza dei pastori di pecora, di maiali o di capre, is toccadoris e is baccargius sono più corretti, nel senso che arrecano meno danni alle colture e attraversano le proprietà altrui più in fretta. Qui si potrebbe dire che, anche contro la volontà dei pastori che le conducono, le capre passando in un mandorleto lo danneggiano perché strappano avidamente i germogli giovani e teneri - quando non si arrampicano sull’albero e lo devastano…
Nonno Floris (pur essendo lui stesso pastore) si preoccupava quando i pastori di pecore del Capo di Sopra scendevano nei Campidani a valle per svernare. Arrivati al periodo, già due o tre giorni prima che arrivassero, si metteva all’erta e piantonava i suoi terreni che si trovavano sulla linea di pericolo, che sarebbero stati attraversati dalle greggi transumanti dei barbaricini, per evitare che vi si fermassero, a bivaccare. I pastori di pecora, a differenza dei pastori di buoi, si fermano a lungo nei terreni che attraversano, lo pascolano per bene, lo radono a zero, prima di proseguire per il loro lungo e lento cammino, verso una meta che spesso non esiste, perché vagano girando in tondo per tornare in effetti al punto da cui sono partiti - intanto, furbi furbi, hanno svernato “gratis”… Come li vedeva arrivare, nonno Floris, che era molto ospitale, preparava il banchetto, li accoglieva con tutti gli onori e allo stesso tempo li stava già rimettendo in sella per farli ripartire.86


SU TUNDIDORI
IL TOSATORE

«E’ detto su tundidori, il tosatore, colui che ha la mansione di tosare le pecore. Le pecore si tosano tutti gli anni e il periodo varia a seconda dell’andamento meteorologico, ma nei Campidani non inizia prima del 5 maggio e non finisce dopo il 25 maggio. Sa tundidura, l’operazione della tosatura, dura circa 15-20 giorni.
Così come altri momenti del lavoro col bestiame, come può essere la marchiatura o la segnatura (a is brebeis si fait unu signu in is origas, po ddas distingui de una cedda a un’atera - alle pecore si fa un segno nelle orecchie per distinguere quelle di un gregge da un altro), è necessario svolgere il lavoro nel più breve tempo possibile, per non creare disagi al bestiame. Pertanto si riuniscono diverse greggi con i rispettivi pastori, e chiamati is tundidoris, i tosatori, tutti insieme sbrigano il lavoro.
In altre parole, durante questo periodo, i tosatori (che sono spesso anche pastori di professione) si spostano da una zona all’altra.
Il pastore si accorge che è giunto il momento della tosatura, oltre che dal tempo che fa, dal fatto che le pecore quando sono raggruppate fitte tirano fuori la testa dal mucchio per cercare più aria da respirare, hanno cioè bisogno di fresco.
Ci sono tosatori che lavorano tutti gli anni solamente con un pastore di molte pecore, e ci sono tosatori che tosano diverse greggi e lavorano per tutto il periodo della tosatura.
La tosatura è una grande festa nel mondo pastorale e alla fine si fa un gran festino, a base di arrosto, in ogni ovile.
Il numero di giornate impiegate nella tosatura, in una stagione, per un tosatore, sono circa 20. Un buon tosatore riesce a tosare fino a 15 pecore in un’ora».87


SU BOCCIDORI DE PROCUS
L’UCCISORE DI MAIALI

Era colui, non necessariamente un macellaio, abile nello sgozzare animali da carne, in particolare il maiale che si allevava in ogni famiglia, anche la più povera del paese.
Sa festa de su procu, la macellazione e il lavoro di conservazione del maiale familiare, inizia dopo Dognasantu, Tutti i Santi, e dai primi di novembre si protrae fino a mesi de idas, a dicembre. Comincia una famiglia, poi seguono tutte le altre della comunità, secondo un ordine stabilito dalla disponibilità di tempo de su boccidori, del macellatore o sovrintendente alla conservazione delle carni, dalla fase lunare, dal vento che spira, dal ciclo mestruale della padrona di casa, e infine dalle esigenze proprie di ciascuna famiglia.
Nel giorno stabilito, già dall’alba, tutti i componenti la famiglia, grandi e piccoli, sono in piedi in fermento. Il cortile viene riordinato e approntato: ramazzato l’acciottolato; arrimadas is carramazinas, rimessi gli oggetti in disuso e le carabattole; il tavolo della cucina, stretto e lungo, viene sistemato in un lato. Sono già pronti gli utensili d’uso: i coltelli per affettare carni e lardo; sciveddas, scivedditas, pingiadas e prattus mannus, conche, conchette, pentole e piatti da portata, per raccogliere il sangue, le frattaglie, il fegato in particolare, e is fazzas, le animelle e le ghiandole, su cerbeddu, il cervello, e altre parti che vengono distinte in recipienti diversi, e talune cucinate subito. E ancora, su codru, gli intestini, che ben puliti con acqua tiepida, aceto e foglie di limone, diverranno il contenitore di su sartizzu, delle salsicce; a questo si aggiungono is mannadas: budella di vacca, acquistate tempo prima, per insaccare su sartizzu ‘russu, il salame.
E’ pronta anche la legna per abbruschinai su procu, abbruciacchiare le setole del maiale: quelle del dorso verranno rasate prima, conservate o vendute per ricavarne spazzole e pennelli, oppure regalate a su maistu de crapittas, al ciabattino, che le userà per infilare lo spago impeciato. Sono d’uso per l’abbrustolimento le fascine di ciorixina, un arbusto nano arido, filiforme, che brucia consumandosi in una vampata. L’animale intero, appena dissanguato, viene completamente avvolto con fascine di ciorixina, cui si dà fuoco contemporaneamente da più parti.
Il maiale resta digiuno dal giorno innanzi, per ovvi motivi igienici, ma nei giorni precedenti è stato alimentato da signore, a base di cereali e legumi. Nelle sue ultime ore di vita, l’animale, cui le donne e i piccoli si sono affezionati, riceve particolari attenzioni e coccole: su procu si ddu pensat chi est accanta de s’accabai, il maiale è presago dell’imminente fine.
La piccola folla di uomini e donne che dovranno occuparsi de fai sa festa a su procu, di far la festa al maiale, si assiepa nel cortile: ciascuno è pronto a svolgere un proprio compito. Ed ecco finalmente arrivare su boccidori, l’uccisore, l’esperto nella macellazione del maiale. Reca con sé un solo arnese, su gorteddu de pungi, il coltello puntuto, che avvolto in un pannolino depone sopra il tavolo. Viene accolto con un buon bicchiere di vino bianco e si scambiano con lui poche parole d’occasione. Quindi si fa silenzio. L’esecuzione ha inizio.
I bambini, ai margini, seguono lo spettacolo con occhi rotondi: curiosità e angoscia davanti alla morte.
Alcuni uomini, anche quattro o cinque secondo la mole dell’animale, tengono ben ferma la vittima sull’acciottolato, mentre su boccidori lo sgozza. Immediatamente il maiale viene issato sopra il tavolo inclinato, con la testa e il collo penzoloni, affinché tutto il suo sangue fluisca dentro la conca, che due donne si sono affrettate a porgere; e mentre una tiene fermo il recipiente, l’altra immerge una mano nel sangue e lo rimesta perché non si raggrumi. Quindi, prontamente il sangue viene trasferito nella cucina dove, nella stessa conca, viene insaporito con zucchero, cannella, anice, noce moscata, uva passa e mandorle o noci tritate.88 Più tardi, a sera, le donne insaccheranno il sangue in buddas, budella di vitella, a mo’ di salami corti, che verranno infine bolliti e conservati tra rametti di finocchio selvatico per essere mangiati nei giorni di festa. Il sangue così confezionato viene chiamato buddedda, sanguinaccio.


SU CASTIADORI DE MOLENTIS
IL GUARDIANO DI ASINI

Era detto molentargiu , asinaio, colui che custodiva gli asini, un mestiere come il bovaro o il capraro.
Presso le comunità sarde, l’asino svolgeva numerose attività lavorative, concorrenti alla risoluzione dei problemi economici della famiglia: trasporto di legna, di grano, di frutta; arature superficiali negli orti, dove la terra è morbida, e irrigazione con il sistema arcaico della noria; traino del carretto o cavalcatura; per non parlare di quel suo paziente prestarsi ai giochi dei ragazzini. Ma l’attività primaria dell’asino, presso le nostre comunità, era quella di macinare il grano. Attività certamente antichissima del nostro animale tuttofare che gli è valsa il nome di molens, cioè molenti, come lo chiamavano gli antichi Romani e ancora oggi i Sardi.
Se si considera che in ogni famiglia anche modesta non mancava mai nella cucina la mola per macinare il grano e l’asino che la faceva girare, se ne deduce che in ogni comunità gli asini fossero parecchi. Su molentargiu era appunto colui che badava agli asini della comunità ed era un mestiere di molta utilità, tenuto in grande considerazione.
Ogni sera all’imbrunire, finito il quotidiano lavoro, l’asino veniva liberato dalla mola e se ne usciva per strada. Su molentargiu li richiamava a sé con una trombetta formando un branco, e tutti insieme andavano in campagna, in un chiuso non molto lontano dal paese, dove appunto is molentis trascorrevano la notte. Questo campo recintato, dove gli asini da mola della comunità pascolavano liberamente, era chiamato molentargiu.
La mattina dopo, compito de su molentargiu, del custode degli asini, era quello di aprire il chiuso e di accompagnare gli animali ciascuno a casa propria per riprendere il quotidiano lavoro: macinare.
Va detto per inciso che il compito de su molentargiu si riduceva in pratica a tenere d’occhio i soggetti più turbolenti che approfittavano di ogni occasione favorevole per combinarne qualcuna delle loro; di solito gli asini erano assai disciplinati e, sia la sera, in libera uscita verso la campagna, che il mattino, rientrando in paese, si comportavano correttamente - in senso asinino, si capisce.
Propongo ai lettori la descrizione che di questa singolare attività ci fa Giuseppe Dessì nel suo arguto libretto Contus de forredda.89 La traduzione del brano dal sardo è del redattore.
«A quei tempi gli asini, is molentis, stavano tutto il giorno attaccati alla macina, con la testa coperta da una maschera, su faccili, per evitare lo stordimento di quel continuo girare e per non distrarsi; all’imbrunire si lasciavano liberi. A quell’ora passava l’asinaio, su molentraxiu, strada per strada, suonava la tromba, e gli asini, a quel segnale ormai noto, da soli, per abitudine uscivano di casa e seguivano l’asinaio, che li guidava e accompagnava nel prato comune degli asini, pardu o arei, situato vicino al paese, dove pascolavano e riposavano liberamente e in piena armonia fino alla mattina del giorno dopo, all’ora in cui l’asinaio suonava la tromba dell’adunata per riaccompagnarli in paese, distribuirli ciascuno in casa del proprio padrone (cosa per altro che essi sapevano fare a memoria dato che non erano teste d’asino, come si dice oggi di molti studenti). Questa operazione si ripeteva tutti i giorni, fatta eccezione per la domenica, festa comandata e per le altre feste importanti».
Perché da noi, - commenta il redattore - anche gli asini hanno il diritto di santificare le feste, non lavorando.


SU MOLENTARGIU
L’ASINARO

«Mezzo secolo fa, Morgongiori contava oltre duecento famiglie. Ogni famiglia panificava a casa perché non c’era un forno pubblico.
Mancava anche un mulino pubblico, per cui era d’uopo che ogni famiglia disponesse di una macina familiare per la macinazione del grano settimanale.
E’ superfluo dire che in simili condizioni ambientali il numero delle macine era stragrande e più grande ancora era il numero degli asinelli che dovevano trainarle, per il semplice motivo che nelle famiglie con prole e servitù numerose, di pane se ne consumava assai, per cui l’opera di un solo asinello, tenuto conto della sua resistenza fisica, non era sufficiente a macinare tutta la quantità di grano occorrente per il fabbisogno settimanale.
Si rendeva perciò necessaria l’opera di uno o più asinelli che lo sostituissero con turni di lavoro ragionevoli.
Stando così le cose era chiaro che il numero degli asinelli superasse di gran lunga quello delle macine.
E se si considera che nelle famiglie poco numerose gli asinelli godevano di svariati giorni di riposo, se ne deduce che era sentito da tutti impellente il bisogno di sistemare il numero rilevante degli asinelli in vacanza facendoli condurre al libero pascolo, perché era opportuno che essi non gravassero molto sul bilancio familiare.
Da qui la necessità dell’opera di un pastore speciale, chiamato appunto su molentargiu, ossia l’asinaro.
Come si può arguire non era una carica molto ambita né troppo onorifica, per quanto remunerativa.
Era l’occupazione più umile del paese, disprezzata da tutti, perciò veniva ricoperta dalle persone più misere, perché come insegna un proverbio popolare la fame non ha occhi e chi ha bisogno di un pane per la famiglia non guarda troppo per il sottile, l’importante è di sopravvivere.
L’uomo che si sobbarcava a fare quel mestiere era per lo più un rassegnato o un… filosofo!
Egli stesso, pur conscio dell’umiltà della sua occupazione, non se ne adontava, anzi ci scherzava sopra chiamando le sue bestie le mie pecorelle...
Ogni famiglia pagava per la custodia dell’asinello unu quartu di grano all’anno.
Sembrerebbe poco, ma se pensate che gli asinelli da custodire superavano il centinaio e che l’anno conta cinquantadue settimane, potete capire che il pane per il fabbisogno settimanale era più che sufficiente.
Perciò tutte le mattine si recava di buon grado, canterellando a sa truma, una specie di recinto comunale dove venivano raccolti tutti gli asinelli nei giorni di riposo.
Appena giunto, dall’alto di una roccia sopraelevata, dava fiato al suo corno che teneva sempre a tracolla come uno scettro.
Era, si può dire, l’arma o l’arnese del suo mestiere, o meglio, dei suoi mestieri; perché con esso dava il segnale dell’ora per far condurre gli asinelli allo steccato donde venivano accompagnati al pascolo, e al pomeriggio, quello del rientro allo steccato per essere prelevati e ricondotti a casa.
E con lo stesso strumento avvisava la popolazione per impartire ad essa, con bandi, gli ordini dell’Autorità Comunale.
Non bisogna dimenticare che all’impiego privato di asinaro, nei piccoli villaggi, se ne aggiungeva un altro: quello di banditore, e spesso, un altro ancora: quello di becchino.
Come tale era considerato un impiegato comunale a tutti gli effetti, perché dal Comune percepiva un congruo stipendietto che serviva ad arrotondare la mercede ottenuta dalle famiglie per il suo servizio di asinaro.
Ma non gli mancavano altri proventi dall’una o dall’altra occupazione.
C’erano le strenne da parte delle famiglie, quando nasceva un asinello, e le regalie per le feste solenni.
C’era la mercede per qualche bando privato ordinato dal pescivendolo o dal macellaio, per il quale ci scappava anche il pranzetto di pesci, la mezza testa di bue per il brodo, due zampe per la gelatina e la coratella pecorina per la fricassea.
E tutto faceva comodo!»90


S’ALLEVADORI DE STRUZZUS
L’ALLEVATORE DI STRUZZI

Non di rado la categoria dei maestri elementari svolge nella comunità un ruolo progressista, al di là del compito strettamente professionale dell’alfabetizzazione. Su maistu de scola, il maestro di scuola, quando non miri a integrarsi nella borghesia compradora, è testimone e interprete delle vicende e delle istanze della sua gente. E proprio perché proviene dai ceti medi e poveri, e non ha acquistato una mentalità padronale, con un corso di studi classici, in continuo contatto con i fanciulli che sono l’espressione più genuina e immediata dei problemi e delle esigenze della comunità, il maestro acquista capacità innovatrici e assume un ruolo di leader.
Tra i mille esempi di maistus de scola divenuti leaders di qualcosa, si ricorda il Cavalier Giuseppe Meloni, di Tortolì - lasciamo ai posteri un giudizio sul maestro Lucio Abis di Villaurbana, che diverrà Ministro della Repubblica Italiana.
Il maestro Meloni mise in piedi, nel 1910, un allevamento di struzzi. Una singolarissima impresa, per la Sardegna, che lo rese noto in tutta Europa. Iniziò con 9 esemplari, su una estensione di quattro ettari opportunamente sistemati, con viali alberati e appositi recinti.
Lo Struthio camelus è considerato il più grosso uccello vivente. Raggiunge l’altezza di m 2,50 e la lunghezza di oltre m 2. Il peso è sui kg 70 e oltre. Con una falcata di quattro metri raggiunge la velocità di km 60 orari e si dice che tenga testa a un buon cavallo. Vive allo stato brado in Africa e in Arabia. La femmina depone le uova, lunghe circa cm 20 e pesanti kg 2, in buche scavate nel terreno, al ritmo di un uovo ogni due giorni fino a una ventina.
La fattoria del Meloni era anche fornita di incubatrice, perché soltanto nel periodo più caldo, dopo il mese di giugno, era possibile lasciare le uova nel terreno alle cure dei maschi e delle femmine che, insieme, le covavano.
In soli cinque anni l’allevamento contava 175 struzzi. Era l’unico in Sardegna e in Italia, e uno dei pochi e dei più razionali d’Europa.
Non si sa fino a qual punto l’attività del maestro Meloni fosse redditizia. Il prezzo delle piume, allora, oscillava dalle 600 alle 1000 lire al chilogrammo. Una sola coppia di struzzi valeva, a due anni di età, dalle 1600 alle 2000 lire.
In Sardegna questi volatili venivano usati anche come cavalcatura. La possibilità d’essere cavalcati è certamente dovuta, oltre che alla potente muscolatura di cui gli struzzi sono dotati, anche alla piccola corporatura del Sardo, il cui peso era ideale per fare il fantino. Non è difficile, a Tortolì, la cittadina che si affaccia sul Golfo di Orosei, trovare tra le vecchie fotografie le immagini di inservienti della fattoria a cavallo di struzzi bardati di tutto punto, ripresi durante veloci scorribande all’interno dei recinti.
Ricorda ziu Tomasicu: «Si era nel 1915, subito dopo l’entrata in guerra dell’Italia. In quel periodo scarseggiava il carbone, e così mi ero occupato in una impresa del Continente che faceva il taglio della legna nei boschi in agro di Tortolì. Durante il mio lavoro, ebbi spesso l’occasione di vedere nella zona gli struzzi dell’allevamento del Cavalier Meloni. Era uno spettacolo per noi inusitato che ci incuriosiva molto».91
In tempi più recenti, altri imprenditori di paesi più avanzati tecnologicamente tentarono di lanciare la corsa degli struzzi come sport, usandoli negli ippodromi come trottatori trainanti agili calessini.
La brillante intrapresa del Meloni era, purtroppo, legata al capriccio della moda femminile. Fallì quando le signore decisero che il “boa” - quel lungo aereo sciarpone rimasto nelle “vedettes” dell’avanspettacolo, il simbolo degli “anni ruggenti” del proibizionismo in USA e del “charleston” - era da considerarsi un ornamento “demodé”.
D’altro canto, il sorgere di allevamenti monopolistici e governativi di altre specie di struzzi, dovette essere una formidabile concorrenza, tale da spazzare via letteralmente i modesti avversari pennuti del Cavalier Meloni - il cui stomaco, pur vorace, non riusciva a competere con quello di divoratori di strade asfaltate, palazzi in cemento armato e aeroporti con piste laminate.
Anche per altri versi, lo struzzo si accomuna al politico. Per i governanti che temono di affrontare i problemi sul tappeto, la gente dice: «Faint cument’ is istruzzus de Tortolì, cuant sa conca asutta ‘e is paperis», fanno come gli struzzi di Tortolì, nascondono la testa sotto le scartoffie.92


SU BALENTI
L’ABIGEO

L’abigeo est chi furat bestiamini, è chi ruba bestiame. Non esiste eguale voce in lingua sarda. L’ho tradotto con balenti, uno che vale, chi tenit biscottu in bertula, che sa il fatto suo, secondo la morale del codice barbaricino.
In tempi passati, floridi allevamenti di bestiame popolavano la Sardegna, dai Campidani di Cagliari agli Altipiani di Sassari, per non dire dei monti del Nuorese che erano ricoperti più che di boschi di pecore e di capre. A ricordo di quei tempi, di ingiuste distribuzioni del patrimonio e del diritto dell’escluso alla rivalsa, nella tradizione popolare è rimasta la leggendaria figura di balentes-abigei. Uno di questi, ziu Cappeddu, morto in vecchiaia una ventina d’anni fa - precisamente l’anno che arrivò la luce elettrica in paese - è ricordato nei contus de forredda, racconti del focolare, e immancabilmente in occasione di sa festa ‘e su procu, la festa del maiale, che nei Campidani si tiene nel mese di Dognasantu, novembre.
Si narra della sua diabolica abilità notturna nel fare sparire qualunque grassa giovenca si fosse trovata nel raggio di molti chilometri, senza lasciare traccia alcuna - ed è che una giovenca non è facile da caricarsi sulle spalle.
Assogadori, lanciatore di lazo, infallibile al buio, alla luce del sole non gli riusciva con il lazo di assogare, di accalappiare, un manzo alla distanza di tre metri. Usava un metodo ingegnosissimo, non brevettato, per catturare una pecora stando in sella al cavallo: munito di una robusta e flessibile pertica di spinoso rovo, tenendolo ben impugnato lo attorcigliava al vello, tirandosi la preda sin sopra la sella.
Conosceva l’arte di catturare un vitello, senza che un solo muggito si levasse per la campagna - con un semplice pezzo di spago legato alla lingua forata dell’animale, egli ne diveniva sicuro padrone, portandoselo appresso docile come un cagnolino. Pavido e schivo durante le ore diurne, si racconta che egli rifiutasse di avvicinarsi, sia pure protetto dal guardiano, a una qualunque scrofa di recente sgravata. «Sa giustizia dda currat!... Gei no hat a mussiai a mei, no?!…». «La giustizia la rincorra!... Non morderà me, no?!...». Ma, calate le tenebre, si animava, trasformandosi in astutissimo predatore di maialetti, che egli sapeva rapire e insaccare alla presenza della più selvaggia e zannuta mardini, o troja, come si dice in lingua civile.
Divenuto con gli anni tardo e stanco, seppe adattare la difficile arte dell’abigeo alla sua età, senza demordere. Adottò il sistema di far morire de puntori, di accidente,93 una prospera giovenca con il semplice ausilio di un berretto. Gli bastava applicarglielo per un certo tempo sul muso, non prima di aver avuto l’accortezza di ficcarle le corna rovesciate per terra. Più tardi, indisturbato, si impadroniva della vittima, che l’allevatore (tratto in inganno dall’apparente morti mala, “antrace”, malattia epidemica che colpisce il bestiame), aveva lasciato abbandonata in campagna alla “mercé” di cani, corvi e di ziu Capeddu.
Il suo declino giunse rapido e inesorabile quando in paese arrivò la luce elettrica. Destino volle che proprio davanti alla porta d’ingresso di casa sua gli piantassero il palo con la lampadina in cima.
«A che punto siamo arrivati, oggi, se un pover’uomo deve far vedere agli altri quel che entra in casa propria!» . Si dice che egli esclamasse, addolorato e offeso.
Ziu Cappeddu era ormai vecchio e il suo cuore non seppe resistere a una civiltà che faceva luce anche di notte.94


IS CIRCADORIS E IS MEDIADORIS
I CERCATORI E I MEDIATORI

Rilevante è il fenomeno dell’abigeato, che all’osservatore superficiale o slegato dalla realtà sarda appare tout court la piaga che pregiudica lo sviluppo in senso moderno dell’economia basata sull’allevamento zootecnico... Non si può non riconoscere che gli effetti dell’abigeato possono risultare funesti per il pastore che ha investito tutto il proprio patrimonio e ipotecato il lavoro di anni a venire per edificarsi un ovile moderno per garantirsi stabilmente pascoli e foraggio. Si creano certamente in lui complessi di frustrazione che alimentano assenteismo e vittimismo, quando non lo portano a scegliere la via dell’emigrazione, quando non lo obbligano a cambiare mestiere, quando non lo conducono a scegliere la soluzione radicale del diventare egli stesso abigeo e fuorilegge.
Eppure, per altri versi, in questa economia pastorale, il fenomeno dell’abigeato ha una sua validità, una sua riconosciuta funzione che rientra nei rigidi schemi della sua organizzazione sociale. In sostanza, il mestiere dell’abigeo è un mestiere come un altro.
«Bella arti t’has pigau!», «Bel mestiere hai scelto!». Si rivolgeva scherzosamente un pastore ad un amico notoriamente abigeo. E questo, di rimando: «S’arti gei est bella, si dda lassessint fai!», «Il mestiere non è male, se lo lasciassero fare!». Tutto, evidentemente, sta nel pericolo che il mestiere comporta; ma, sostanzialmente, nell’etica comunitaria pastorale, non risulta indecoroso o addirittura vile come quello del contadino e, meno che mai, criminale come quello de s’ispioni, dello spione, per il quale è previsto l’ostracismo o l’eliminazione fisica.
Al di fuori della legge che il maresciallo dei carabinieri e il pretore vorrebbero imporre, ne esiste un’altra, più antica e più forte, più sentita e più rispettata, che stabilisce norme di comportamento cui tutti si assoggettano. Tale ordinamento prevede, ad esempio, attività di rilievo sociale legate al fenomeno dell’abigeato. Queste attività vengono svolte dal chircadore, cercatore, e dal mediadore, mediatore, che la comunità ritiene di grande utilità e sono rispettati e onorati. Sos chircadores, i cercatori, sono uomini di prestigio, conoscitori della gente e delle loro vicende e sono tenuti in grande considerazione per la loro serietà e onorabilità. La loro opera viene richiesta sia dai grandi che dai piccoli allevatori di bestiame, quando subiscono un furto di una certa entità. Essi, i chircadores, entrano in contatto con i mediadores, i quali a loro volta si mettono in contatto con il mondo degli abigei e dei latitanti che sanno sempre tutto. Si arriva così a fissare - i primi per il proprietario e i secondi per l’abigeo - la taglia che deve essere pagata per la restituzione del bestiame sottratto. Ovviamente, da questa taglia essi defalcano l’onorario a se stessi dovuto.
Sempre, da quanto può rilevarsi dalle testimonianze, i chircadores e i mediadores risparmiano all’allevatore guai maggiori, e questo è ben lieto di cavarsela con una tassazione, talvolta neppure onerosa.
Il chircadore, d’altro canto, con la sua autorità e con il suo prestigio può giungere ad influenzare la volontà dell’abigeo, può limitarne l’esosità delle richieste, può perfino indurlo a rendere il mal tolto senza nulla chiedere in cambio - se l’abigeato è in quel caso ritenuto ingiusto o contrario alle leggi delle comunità, quando il derubato sia indigente.
Egli, su chircadore, lascia comunque sempre l’immunità all’abigeo usando il mediatore, cioè una interposta persona, che garantisce così l’anonimato. Se si riflette, si tratta di un anonimato soltanto apparente, ma l’immunità è rigidamente mantenuta.
Raramente l’opera del chircadore fallisce, se egli accetta l’incarico. Il suo compito è protetto dal più rigoroso silenzio e dalla più assoluta discrezione. Così come sacra e inviolabile è la persona del mediatore che ha il compito di avvicinare e contattare l’abigeo.
Il fenomeno dell’abigeato non può definirsi semplicisticamente, almeno in tali comunità, un comune reato. Il fenomeno - di cui è difficilissimo documentare la prassi e la vastità per l’ovvio riserbo della gente - obbedisce a leggi non scritte che hanno la forza che deriva dal loro millenario uso: violarle significa venire meno alle leggi dell’onore che costituiscono le basi dell’aggregazione della comunità.95

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