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Indice articoli

CAPITOLO OTTAVO

ARTIS E FAINAS DIVERSAS
MESTIERI E ATTIVITA’ DIVERSE

Presentazione

Sono stati raccolti in questo capitolo mestieri diversi. Alcune attività sono strettamente correlate all’economia contadina, al lavoro della terra; altre sono di carattere burocratico o amministrativo; altre appartengono alla Chiesa e al culto; altre ancora possono dirsi attività ludiche o comunque legate a festività e a momenti ricreativi.
Alcune attività qui comprese si sarebbero potute inserire o raggruppare in capitoli specifici, ma così come è questa prima stesura mi pare ben fatta. Semmai è mia intenzione completare, in un prossimo futuro, per quanto possibile, questa raccolta, evitando una elencazione arida, una sorta di nomenclatura, con pochi elementi descrittivi, per privilegiare le testimonianze, la descrizione di ciascun mestiere, possibilmente riferita dalla stessa voce di chi lo ha praticato per tutta una vita.


SU GIARRERI
LO STRADINO ADDETTO A SPARGERE LA GHIAIA

«Prima che venissero bitumate le strade, annualmente, in autunno, l’Amministrazione provinciale provvedeva - tramite imprese che si aggiudicavano l’appalto - alla fornitura della ghiaia necessaria per la riparazione del fondo stradale. Alcune imprese fornivano la ghiaia preparata da un frantoio (“sconcassòri”), altre invece assumevano del personale, generalmente donne e ragazzi, per raccogliere i ciottoli sparsi sui campi adiacenti alle strade bianche. La ghiaia, in gergo locale, veniva chiamata “giàrra” mentre i raccoglitori prendevano il nome di “giarrèris”.
Per il lavoro di raccolta e di trasporto sul posto “i’ giarràius o giarrèris”, adoperavano delle piccole ceste dette “scattèddas”. Scaricata la cesta colma di ciottoli sul ciglio della strada in cui veniva formato il mucchio, l’operaio od operaia che fosse riceveva da un caposquadra addetto ai lavori un pezzetto di lamina punzonata detto “marchetta”, il cui valore era di 25 Cmi (“mesu-pezza”).
Il lavoro in argomento poteva dirsi duro e, talvolta, mal compensato. Infatti le donne che durante la giornata usavano cantare e stornellare, a volte improvvisavano mottetti di questo tenore:

    “Oi fazzu manéra             Oggi avrò occasione
    de mi biri s’amanti.            d’incontrarmi col mio fidanzato.
    Oi fazzu MANERA:            Oggi avrò occasione
    sa pèdra gi-e’ pesanti            Le pietre sono pesanti
    ma sa paga e’ LIGGERA”.            Ma la paga è leggera

Con tale espressione la lavoratrice intendeva dire che il compenso non era adeguato alla portata del lavoro.
Il pagamento avveniva a fine mese. “I’ giarrèris” consegnando all’ufficio pagatore le “marchette” ottenute durante il periodo di lavoro, riscuotevano così il corrispondente valore in moneta legale».128


SU STRADONERI
LO STRADINO

Era l’uomo addetto alla manutenzione delle strade importanti, che noi chiamavamo stradonis (accrescitivo di strada), perché in rapporto alle altre erano più larghe.
Su stradoneri, che apparteneva al mondo contadino, conservava la mentalità e le abitudini de su massaju, appunto, del contadino. All’alba, messo nella bisaccia su pani e su ingaungiu, pane e companatico129 e, presi gli attrezzi da lavoro, la pala, la zappa larga, il falcetto e la cote, la pietra per affilare la lama, si recava al lavoro. E al tramonto, come il contadino, egli smetteva il lavoro e rientrava in paese.
Il compito de su stradoneri in primo luogo era quello di controllare la ghiaia che periodicamente veniva scaricata dai carri ai margini della strada, quando non c’era l’apposita piazzola. Abile nell’uso della pala, egli modellava perfette piramidi di ghiaia. Quotidianamente, per un lungo tratto, verificava che i mucchi di ghiaia non fossero stati manomessi dai ladri.
Usava la ghiaia per riparare il fondo stradale colmando le buche e con la zappa larga puliva le cunette laterali per farvi scorrere bene l’acqua piovana onde evitare allagamenti.
A primavera, con il suo falcetto dal lungo manico, falciava l’erba che si era fatta alta ai margini e all’interno delle cunette, e potava le siepi del ficodindia o le recinzioni dei terreni privati confinanti, quando pale e ramaglie invadevano il fossato. A tratti si vedeva su stradoneri sedere sul ciglio del fossato, tergersi il sudore dalla fronte, dalla nuca e dal collo, e riposare - quindi passava lieve lieve la cote sulla lama del falcetto per rinnovarne il filo.
Quando arrivava l’estate su stradoneri si metteva in maniche di camicia e sotto il berretto sistemava un fazzoletto di cotone che lasciava ricadere dietro sulla nuca, onde proteggersi dai dardi cocenti del sole e dalle fastidiose punture degli insetti.
A contatto della natura, in una campagna prodiga di frutti, egli svolgeva, insieme all’attività propria de su stradoneri quella del raccoglitore. In autunno raccoglieva funghi e racimoli d’uva, tra le foglie rossicce della vite, scampati ai vendemmiatori. D’inverno le lumache e in primavera gli asparagi. E tutt’intorno nei campi non mancava mai la frutta di stagione. I perastri ai margini della strada eran di tutti; ed egli li innestava e li curava e insieme ai viandanti abituali ne raccoglieva il frutto.


SU CANTONERI
IL CANTONIERE

Su cantoneri è l’addetto alla manutenzione e al controllo delle strade e dei mezzi di locomozione che vi circolano.
Abbiamo quindi cantoneris statali, provinciali e comunali. Nelle strade statali e provinciali, date le distanze, c’erano lungo il percorso le case cantoniere con l’abitazione per l’addetto e la sua famiglia e un altro caseggiato per riporre gli attrezzi da lavoro.
In Sardegna, dove per storia e cultura la campagna non era abitata, raramente il cantoniere viveva nella cantoniera, perché la sua famiglia preferiva starsene nel paese e non in solitudine, in d’unu logu sperdiu, in una località sperduta.
Per su cantoneri che aveva famiglia, ottenere l’incarico era una manna piovuta dal cielo, poter godere di uno stipendio fisso e sicuro, e tutta la famiglia che dava una mano nel lavoro di manutenzione - comunque, da lui dipendevano anche uno o più stradoneris, stradini. Se si era sposini, e lei accettava di fare la vita dell’eremita - ma erano rare quelle donne coraggiose - andavano a vivere in una singolare dimensione di vita, fuori dal proprio paese, lontano dalla propria comunità, dalla gente del vicinato, dalla gente del parentado, con cui si aveva un forte rapporto affettivo e sociale.
Usavano il caseggiato adiacente alla palazzina d’abitazione come magazzino e ripostiglio. Accanto alla casa cantoniera c’era un bel pezzo di terra, di solito con il pozzo da cui con una pompa premente aspirante a mano si riforniva d’acqua corrente l’abitazione e l’acqua per l’irrigazione. La terra poteva essere coltivata a orto e a frutteto. Inoltre, a portata di mano c’erano le campagne con le colture - di cui il cantoniere e la sua famiglia erano insieme custodi e usufruttuari - i proprietari dovevano fare buon viso a cattiva sorte, se volevano mantenersi buoni i “potenti” vicini.
Su cantoneri comunali, oltre al quotidiano lavoro di manutenzione delle strade e delle cunette e siepi e spargimento di ghiaia e riparazione delle buche, aveva anche il compito di far rispettare i regolamenti stradali agli utenti della strada e in caso di infrazioni aveva il dovere di multare i contravventori (dovere “piacevole” perché aveva una percentuale sulle multe che appioppava alla gente sui mezzi di locomozione)
Aveva dunque il compito di controllare che i mezzi che transitavano fossero in regola con le targhe e i bolli e che avesse e funzionasse il lampione per la notte. E che il bestiame avesse il bollettino di accompagnamento che ne indicasse la proprietà.
A proposito di multe, quella d’uso alle biciclette che venivano fermate senza bollo o senza fanalino si chiamava “dexi e dexi” ,cioè “dieci e dieci”, perché era dieci lire la multa e dieci centesimi il bollo; e si doveva pagare al cantoniere che contestava l’infrazione, la somma prevista dalla legge di lire dieci e centesimi dieci, pena il sequestro del mezzo. Stessa regola per i carri o le carrette che circolavano, specie di notte.
Una notizia curiosa: erano esenti anche di notte dal portare il lampione i carri che trasportavano paglia. E ciò perché la presenza del lampione (che normalmente funzionava con il petrolio) costituiva un pericolo di incendio al carico e al carro.
Un aneddoto sui cantonieri dalla multa facile: Un contadino seddoresu, sanlurese, rientra in bicicletta da San Gavino al proprio paese. Viene fermato dal cantoniere, che gli intima il “dexi e dexi”, (dieci e dieci.) Su seddoresu, facendo orecchie da mercante, risponde: “Andat beni. Bolit nai chi a is undixi seu a Seddori!”, “Va bene. Vuol dire che alle undici sarò a Sanluri”.


SU CANNEGGIADORI
IL CANNEGGIATORE, AIUTANTE DEL GEOMETRA

Su canneggiadori est s’oberaiu chi aggiudat su giometru. Il canneggiatore è l’operaio ausiliario del geometra. Con il quale va a misurare i terreni agrari. Sa canna, la canna metrica, equivale a una palina da tre metri. Il mestiere del canneggiatore evoca nella mia memoria immagini dell’infanzia, di quando la mattina alle prime luci mio padre che faceva il geometra partiva in calesse verso la campagna di Arborea seguito da due o tre canneggiatori in bicicletta, che recavano a spalla o legati alla canna gli strumenti d’uso, le paline o canne metriche e il treppiede su cui inserire il prezioso teodolite o tacheometro,130 detto volgarmente livello, per le rilevazioni topografiche, cioè i dislivelli e le distanze del terreno. Va da sé che il teodolite lo tenesse mio padre in calesse, ben protetto nella sua custodia. Talvolta, insieme ai canneggiatori, al seguito del calesse di mio padre, c’era anche qualche geometra neo-diplomato in bicicletta, il quale apprendeva il mestiere recando anch’egli a spalla le paline.


SU CANTADORI
IL POETA ESTEMPORANEO

In occasione della festa del patrono, durante le manifestazioni della sera, si esibivano is cantadoris, i poeti estemporanei. In un lato della piazza veniva eretto un rustico palco su cui is poetas davano spettacolo, in coppia o da soli, dissertando o dialogando intorno ad un tema che veniva loro proposto dalla giuria o dallo stesso pubblico.
Is cantadoris - che possiamo paragonare agli aedi, ai cantori del Periodo omerico - avevano una discreta cultura storico-mitologica e una buona memoria, di modo che su un tema per lo più scelto dal pubblico o relativo all’oggetto della festa, essi sapevano improvvisare un discorso in versi, metricamente corretti e rimati, comunemente ottave in endecasillabi, inserendo frequenti citazioni colte.
Una vera e propria professione artistica quella de su cantadori, di grande prestigio sociale ed economicamente redditizia.
Così scrive l’Angius nel Dizionario del Casalis del 1853:
«Improvvisatori. Sono frequentissimi in Sardegna, massime nelle regioni pastorali, quelli che ebbero dalla natura il meraviglioso e giocondissimo ingegno della improvvisazione.
Né come ragionevolmente può da ogni uomo intendersi sono le femmine sarde sfornite di spirito poetico, il quale in altri tempi più che nella presente età si faceva ammirare in certe occasioni, e massimamente nel lutto de’ maggiori funerali, quando erano chiamate agli estremi onori per una persona notevole.
Un improvvisatore delle regioni campestri non usa cantare senza l’accompagnamento delle canne, uno delle regioni montane senza il concerto di tre voci, basso, soprano, contralto.
Essi soglion rallegrare con le loro poesie le festevoli brigate invitate in occasione di qualche allegrezza. Ma la principal palestra dove spiegano la loro potenza, è nelle feste rurali. Ivi gli improvvisatori di diversi luoghi e i più famosi vengono a prove d’ingegno tra loro, e cantando sopra un tema dato da qualcuno degli astanti continuano per lunghe ore, applauditi spesso dalla moltitudine che fa corona intorno ad essi ed ascolta in un quieto silenzio».


SU SONADORI
IL SUONATORE

Sonadori est su chi sonat unu strumentu musicali: ghitarra o fisarmonica o sonettu a bucca o launeddas o ateru, e accumpangiat sempiri unu o prus cantadoris. Suonatore è colui che suona uno strumento musicale: chitarra o fisarmonica o armonica a bocca o launeddas o altro, e accompagna sempre uno o più suonatori.
Is sonadoris impari cun is cantadoris, i suonatori insieme ai cantanti, venivano invitati a tutte le feste. Erano sempre presenti ai matrimoni, ai battesimi e alle feste ricorrenti, pubbliche o private; così pure in occasione di sagre o scampagnate, o alla fine di lavori agricoli,131 alla scialla, il banchetto di prammatica, ultimata la costruzione di una casa d’abitazione; ai balli di carnevale o in occasione delle festività religiose in onore dei vari Santi venerati dalla comunità.

Gli strumenti più usati:
Is launeddas è così detto un antichissimo strumento musicale risalente al protonuragico. E’ ancora diffuso, particolarmente nel mondo contadino. E’ considerato lo strumento nazionale dei Sardi. Is launeddas sono un caratteristico strumento che consiste in un flauto a tre calami, di diversa misura e tonalità, di canna comune, con dei fori per la modulazione dei suoni. Gli effetti sonori somigliano a quelli della cornamusa,132 in quanto si suona a continua emissione di fiato: tuttavia, mentre nella cornamusa la continuità del suono è data da un otre di pelle che funge da camera d’aria, nelle launeddas lo stesso effetto è ottenuto con il cavo orale (che deve quindi emettere aria in continuazione). Ciò rende abbastanza difficile l’uso di questo antichissimo strumento musicale. Secondo alcuni studiosi “le zampogne dei sardi pastori pare che non differiscano da quelle di cui parla Virgilio: Pan primus calamos cera conjungere plures instituit; e che lo stesso Virgilio chiamasse tale strumento Fistula disparibus compacta arundinibus”.133
Is launas mannas,134 è detto così l’organo a mantici, con le canne, che un tempo si trovava in alcune chiese, anche di paesi minori, con parroci amanti di tale strumento. Il suo possesso era motivo di vanto per la comunità, e veniva suonato in chiesa, durante le solenni funzioni religiose, dal sacerdote o dal sacrestano o da un qualunque membro della comunità che avesse talento musicale, e naturalmente il tempo libero per apprenderne la tecnica - spesso is sonadoris de launas mannas, i suonatori di organo, erano sarti o altri maestri artigiani che lavorano in fino, o come si soleva dire “avevano mani da signori”, come i barbieri, gli orologiai, is maistus de rodeddas, ai quali restava tempo da dedicare a tale hobby artistico e chiesastico. I chierichetti a turno azionavano il mantice, mandando su e giù la leva della ventola, situata a fianco dell’organo: ed era un privilegio per i fanciulli essere chiamati a ricoprire questo incarico.
Sa ghitarra e su mandolinu, la chitarra e il mandolino, si trovavano specialmente nelle botteghe artigiane. Barbieri e sarti erano di solito appassionati ed eccellenti suonatori. Sa ghitarra accompagnava il canto del mandolino o la voce dei cantanti. Vi sono bellissime e singolari composizioni musicali cantate da tenores accompagnati da una o più chitarre. Ne ricordo qui due: Sa viudedda, una tipica aria dal ritmo assai veloce che accompagnava un indiavolato ballu tundu (o anche le terapie contro il morso della tarantola, nella rituale danza collettiva) e Su mi e la composizione assai vivace sempre sul ritmo del classico ballo sardo.
Is sonadoris de tamburru e de pipaiolu, i suonatori di tamburino e di piffero, aprivano tradizionalmente le processioni, e il loro suono dava un tono solenne ieratico all’incedere della confraternita, dei sacerdoti, dei portatori del santo e della folla di fedeli al seguito.
S’armonica, la fisarmonica, era ed è tutt’ora uno strumento musicale assai diffuso, usato spesso per accompagnare i balli popolari.
S’organettu, l’armonica a bocca, è invece usata principalmente dai ragazzi, come un passatempo.
Su pipaiolu, il piffero, che si ottiene con un pezzo di canna, come vuole il folclore, è suonato dai pastorelli che conoscono pure l’arte di fabbricarli. Suonando il piffero di canna, i fanciulli ingannano le lunghe ore del pascolo, evitando in parte la commissione di atti impuri.
Dai miei anni ancora verdi, sorge l’immagine di Papum, Barrada, Ciocci - nomignoli, e insieme nomi d’arte di tre allegri e bravi musici: Papum e Barrada erano due tenores, cantanti dalla potente voce tenorile, e Ciocci accompagnava magistralmente il loro canto con la chitarra. Sa corsicana e sa disisperada, due melodie popolari sarde, erano i loro cavalli da battaglia. Ingaggiati dal comune di Guspini per partecipare alla manifestazione canora “Il Nuraghe d’argento”, promossa dalla Rai negli Anni 60, contribuirono alla vittoria della loro squadra.


SU GIOGHISTU
IL GIOCOLIERE, L’ACROBATA

Nelle nostre comunità, è sempre stato grande l’interesse per gli acrobati dei circhi, che periodicamente visitavano anche i nostri più sperduti villaggi, in occasione delle tradizionali feste.
Affinché il circo potesse fare il suo spettacolo, era necessario trovare alla periferia del paese un vasto piazzale - che costasse poco o meglio ancora che fosse concesso gratis “et amore Dei” dal proprietario, il quale otteneva il diritto per sé e per la famiglia ad assistere agli spettacoli, anch’egli gratis et amore Dei. Ciò che invece doveva esserci e che bisognava per forza pagare era la corrente elettrica. Tuttavia ho ricordi della mia fanciullezza di qualche circo “alla buona” che, per illuminare il proprio interno, usava le lampade a gas o acetilene.
Il circo montava le sue tende nel paese più grosso e gli abitanti di tutti i paesi del circondario si spostavano, anche a piedi, per godersi lo spettacolo. In particolare, assai richiesti e seguiti gli spettacoli di bravura, l’esibizione de su gioghistu e de sa gioghista, al trapezio. Molto attesa dai maschi della comunità (funestati da una morale clericale sessuo-repressiva) l’esibizione de sa gioghista, della acrobata, la quale, in tuta attillata, mostrava le proprie grazie in tutto il loro splendore, durante gli esercizi acrobatici.
Su giogu indica il trapezio, e su gioghistu è il trapezista, l’equilibrista, chi fa giochi di acrobazia. Tuttavia, in lingua sarda, con il termine su giogu (indicando la parte per il tutto) ci si riferisce comunemente allo spettacolo del circo. Andai a biri su giogu, vuol dire andare al circo, andare a vedere lo spettacolo del circo. Mentre la frase fai su giogu significa esibirsi al trapezio. E su gioghistu è l’acrobata.
Il pagliaccio, solitamente, viene chiamato con il suo nome d’arte. Armando, era un “clown” che faceva furore nei nostri paesi negli Anni 50.


S’ARRODERI
L’ARTIFICIERE

Tra le manifestazioni tradizionali che celebrano le feste religiose nei nostri paesi vi sono i fuochi d’artificio, che noi chiamiamo comunemente sa roda (isparatoriu) che letteralmente si traduce con “la ruota”. Forse, i fuochi pirotecnici sono così chiamati perché tradizionalmente, qui da noi, cominciano con una ruota, il cui asse è inchiodato a un robusto palo. Una volta accesa la miccia, la ruota inizia a girare ora in un senso ora in un altro, mandando faville multicolori, talvolta fermandosi apparentemente spenta per illuminarsi d’un colpo e riprendere a girare lentamente e via via sempre più veloce, per ricominciare poi da capo.
Lo spettacolo pirotecnico ha dunque inizio di solito con sa roda, la ruota che gira a lungo nei due sensi, illuminandosi, spegnendosi e lanciando faville. Quindi prosegue con su cumbattimentu, una sorta di pandemonio di squettus, razzi, tric-trac, mortaretti che lo fanno somigliare a una trincea di guerra da cui parte un fuoco di sbarramento infernale. Per finire, il lancio sempre più veloce e fitto di granate che scoppiano senza interruzione, riempiendo il cielo di abbaglianti e multicolori infiorescenze. La conclusione, come l’inizio, è scandita da una granata che parte sibilando e altissima scoppia secca e forte. Nel silenzio che succede, si ode la frase augurale che s’arroderi grida alla folla: «Aterus annus mellus cun saludi!» Ad altri e migliori anni con salute!
Se ogni festa che si rispetti si apre con la solenne processione del mattino, non può chiudersi senza sa roda. della notte. Dopo cena, sul tardi, in un piazzale ai margini dell’abitato, possibilmente senza vegetazione e in posizione elevata, si fanno i fuochi d’artificio. L’inizio di sa roda viene annunciato con lo scoppio secco, fortissimo di una singola granata che disegna nel cielo un solo punto rosso, con mezz’ora di anticipo in modo da consentire agli abitanti di ogni parte del paese di finire la cena, prepararsi, uscire e raggiungere il luogo della manifestazione pirotecnica. La granata che esplode forte, cupa, secca, per annunciare lo spettacolo, è detta s’avisu de sa roda.
S’arroderi, il facitore dei fuochi pirotecnici, più che artigiano artista, era ancora a metà di questo secolo un’attività di grande prestigio, e pochi erano coloro che potevano accedervi considerata anche e specialmente la grande pericolosità connessa alla manipolazione di sostanze esplosive.
Tra i più famosi arroderis dell’Isola erano gli Oliva di Terralba, pirotecnici di origine napoletana, come d’altro canto la maggioranza dei maestri del settore. Gli Oliva, che costituivano più che una famiglia una scuola, operavano in tutto il Campidano, lasciando allievi di grande talento.
Nella Marmilla, a Pauli Arbarei, negli Anni Quaranta e Cinquanta, ricordo due abilissimi e simpatici arroderis, i quali nello spettacolo tradizionale de s’isparatoriu inserivano un nuovo elemento: davano vita a un fantoccio, accendendolo di luci multicolori a effetto. I due arroderis paulesi, mi pare nel 1950, in occasione della festa di Sant’Agostino, il patrono del paese, avevano preparato un bell’asinello di carta pesta tenuto bene in alto su un traliccio. Accesa la miccia, su molenti prendeva fuoco e appariva come vivo muovendo la testa, scalciando e alla fine mostrando eccitato il suo cospicuo patrimonio sessuale. Alla gente quello spettacolo piacque molto; ma non a tutti, particolarmente al prete e ai carabinieri del paese vicino, che erano lì per badare al cosiddetto ordine pubblico. I due arguti e bravi artificieri vennero così denunciati per atti osceni; e per difendersi sostennero ovviamente che loro avevano fatto semplicemente dell’“arte”, cosa che con la morale non ha niente a che vedere.
Il mestiere de s’arroderi, dell’artificiere, è certamente redditizio ma assai pericoloso. Non di rado si ha notizia di incidenti anche gravi in cui si hanno morti e feriti.
I fuochi d’artificio, specialmente le granate che riempivano il cielo di luci multicolori, pur essendo quasi un simbolo della festa a cui gli abitanti non avrebbero mai rinunciato, costituivano d’altro canto pericolo di incendi.
Nell’antistante cortile delle case, di solito sulla destra del portale d’ingresso, vi era situata la legnaia, composta prevalentemente da fascine di lentischio, cisto, corbezzolo, poggiante su palafitta sovrastante il letamaio, che si arricchiva appunto del fogliame secco che vi ricadeva.
Non di rado durante l’esplosione delle granate, piovevano dal cielo scintille che potevano infiammare le ramaglie delle legnaie nei cortili. E così, ogni anno, un membro della famiglia, naturalmente di sesso maschile, a meno che non fosse la nonna, doveva sacrificarsi e restare in casa per spegnere eventuali focolai d’incendio. Per la bisogna il guardiano d’eccezione veniva fornito di uno o più secchi d’acqua da gettare tempestivamente nel punto caldo.
Il familiare sacrificato perdeva, ovviamente, tutta quella parte dello spettacolo pirotecnico che si svolgeva a livello di terra, ma poteva godersi ugualmente lo spettacolo delle granate che esplodevano alte nel cielo.


SU BANDIDORI
IL BANDITORE

Bandidori o grideri o gridadori, banditore, era detto l’uomo incaricato dal comune di rendere pubbliche le deliberazioni e le ordinanze dell’autorità. Più spesso, alle disposizioni del sindaco seguivano informazioni utili alla comunità sulla vendita di prodotti della terra o anche della presenza in paese di commercianti che esponevano la loro merce nella piazza.
Su bandidori era fornito di una trombetta di ottone - si può dire il ferro del mestiere - e naturalmente di una voce squillante. Raccolte nel municipio le disposizioni, comprese le notizie che i privati intendevano portare a conoscenza della popolazione, il banditore iniziava il giro del paese. In ogni cantonata, dato di piglio alla trombetta per richiamare l’attenzione della gente, egli iniziava, a voce stentorea, a dare il bando, seguendo sempre, più o meno, la stessa formula: «Si ghettat custu bandu a totu sa populazioni po ordini de su podestadi (o de su sindigu) ca cras a merì in territoriu de Su Nuraci ci sunt de fai is cumandadas… S’avvertit puru totu sa populazioni chi oi in prazz’ ‘e cresia unu rioresu bendit tres porceddus a bonu pretziu… Chi in domu de Assuntina Lixi si bendit arreiga bella a cincu soddus su mazzu…», «Si dà questo bando a tutta la popolazione per ordine del podestà (o del sindaco) perché domani sera, in territorio di Su Nuraci ci sono da fare i lavori di interesse civico… Si avverte pure tutta la popolazione che nella piazza della chiesa un riolese135 vende tre porcelli a un prezzo conveniente… Che in casa di Assuntina Lixi si vendono buoni ravanelli a cinque soldi il mazzo…»
Su bandidori, oltre a comunicare le disposizioni di norma delle autorità municipali, faceva la pubblicità a pagamento ai commercianti del luogo o di fuori o a chiunque in paese avesse necessità di vendere un prodotto in eccedenza; soprattutto ortaggi, come fave, lattughe, cipolle, aglio, ravanelli e frutta come fichi, susine, pere e uva.


SU GRIDERI O GRIDADORI
IL BANDITORE

«Ziu Antonicu su gridadori aveva un’età indefinibile dai quaranta ai sessant’anni, nessuno conosceva il suo cognome e pochi anche il nome; era il solo banditore in tutto il paese e pochi sapevano dove abitava, ma per trovarlo bastava andare la mattina presto nella bettola dirimpetto a is loggettas, le loggette, dove due macellai e due pescivendoli esponevano la loro merce: egli doveva rinfrescarsi la gola cun una tassa de binu, con un bicchiere di vino, per avere la voce più sonora quando iniziava il giro del paese. Teneva a tracolla la sua trombetta che aveva un suono caratteristico, riconoscibile a distanza.
In ogni strada aveva il posto fisso per dare il bando. Se c’era una curva si fermava per dare il bando dalla parte larga, per dominare tutto il campo. Un primo suono di trombetta annunciava la sua presenza. Come d’incanto in tutta la strada si faceva silenzio: le comari smettevano di chiacchierare da una finestra all’altra, i bambini che giocavano nei cortili zittivano e anche il carro a buoi, che transitava rumoroso sul selciato, veniva fermato. Tre squilli di trombetta annunciavano po ordini de su podestadi a totu sa populazioni, le disposizioni del potestà alla comunità, oppure due squilli per annunciare le varie vendite: carne e ventrame, se per caso qualche cavallo o bue si spezzava una gamba e si aveva una macellazione straordinaria, o anche pesci, frutta e verdura fuori dall’ordinario.
Per ogni merce si ripetevano due squilli della trombetta. Un ultimo squillo rendeva noto che aveva finito. I rumori riprendevano; qualche ragazzino burlone ripeteva strocendu, scimmiottando, il banditore, le comari commentavano le notizie e si accordavano per correre a is loggettas per trovare ancora qualcosa della merce in vendita.
Accadeva che quando il banditore passava nelle ultime strade del percorso, anche perché ogni tanto doveva fermarsi nella bettola di transito per schiarirsi la voce gratis, i pesci erano già tutti venduti».136


SU POSTERI
IL POSTINO

Con il termine posteri veniva indicato il postino, colui che equipaggiato con gli scarponi e la tradizionale borsa di pelle a scomparti della amministrazione postale, distribuisce in paese, sotto il sole cocente o sotto la pioggia gelida, pacchi e missive in arrivo e raccogliendo - in passato - pacchi e missive in partenza previo esborso in moneta contante della debita affrancatura.
Con lo stesso termine di posteri venivano altresì indicati gli impiegati postali, compreso il capufficio.
Un tempo, gli uffici postali si trovavano soltanto nei capoluoghi di Mandamento, e lì pertanto is posteris dei paesi che ne facevano parte ritiravano la posta, e se non avevano cavallo o bicicletta dovevano percorrere diversi chilometri a piedi, con il loro borsone carico a tracolla, per distribuire diligentemente tutta la posta.137


S’INTERRAMORTUS
IL BECCHINO

S’interramortus aveva il compito di scavare, nel recinto cimiteriale, la fossa d’uso per il seppellimento del defunto. E non, come si potrebbe credere, quello di curare e adornare le tombe, compito che spettava ai parenti.
Nei nostri paesi di un migliaio di abitanti, i morti erano (non so oggi) due o tre all’anno, e stavano benissimo anche in mezzo all’erba che cresceva verde e rigogliosa. E qui interveniva l’opera de s’interramortus che vi metteva a pascolare qualche asinello di famiglia o ci pensava lui a falciare l’erba che dava ai conigli di casa.
Gli attrezzi de s’interramortus erano su piccu e sa palia, il piccone e la pala. Egli conosceva ogni componente della comunità ed era quindi in grado di dare alla fossa la giusta dimensione. Si noti che anticamente, nella maggioranza dei casi, i morti venivano interrati senza la bara, avvolti in un lenzuolo. La bara era appannaggio dei paesani ricchi o eccellenti.
La cerimonia di seppellimento e i riti funebri ad esso correlati erano gestiti dalla Chiesa, dalla famiglia e dal parentado del defunto.
S’interramortus era un esecutore di ordini e, per ogni morto, riceveva is istrinas, una mancia più o meno cospicua secondo lo stato economico del defunto.
Normalmente il becchino era un dipendente “tuttofare” del comune e durante l’anno era chiamato a svolgere diverse mansioni; tra queste quella di su bandidori o grideri, colui che informava oralmente la comunità delle disposizioni date dalle autorità o che dava notizie di interesse commerciale ed economico.


S’ACCIAPPACANI
L’ACCALAPPIACANI

Un tempo, fino agli anni sessanta, in tutti i paesi, esisteva un dipendente comunale addetto ad acchiappare i cani. Perché in quei tempi vi erano numerosi cani randagi che costituivano un pericolo sia per la gente che per il bestiame, e in particolare facevano razzia di animali da cortile, galline, conigli….
S’acciappacani era munito di una frusta rigida, a laccio, che serviva per serrare il collo dell’animale e poterlo trascinare via in un apposito recinto. Una volta acchiappati i cani e costretti nel canile municipale, (una sorta di cortiletto recintato), il comune dava un pubblico avviso mediante sa grida, il bando, con il banditore - perché magari aveva acchiappato qualche cane che randagio non era ma domestico, scappato di casa, e il proprietario poteva andare a riprenderselo. Se non si presentava nessuno a reclamarli, i cani venivano ammazzati. Si dice che qualche padrone che voleva disfarsi del proprio cane lo lasciasse apposta fuori dal portone per farlo portare via da su acciappacani e risparmiarsi la fatica di farlo fuori lui.
S’acciappacani doveva essere svelto di mano e di riflessi, perché non era facile acchiappare certi cagnetti furbi e veloci. Inoltre is acciappacanis avevano da vedersela con i ragazzini del paese che assistevano alla scena e facevano tifo per il cane braccato - talvolta anche aiutando spudoratamente l’animale, ostacolando in ogni modo il cacciatore, arrivando perfino a sgambettarlo - con grande spasso degli adulti oziosi, dei cosiddetti “oreris”, che se ne stavano a zonzo per il paese “facendo orario”, prima di rientrare a casa per il pranzo. Non era comunque un lavoro ambito e neppure ben visto dalla gente comune, quello de s’acciappacani.
Ho un ricordo d’infanzia, con immagini orride, incancellabili, di violenza di cui non riuscivo - e non riesco tutt’ora - a rendermi ragione; l’esecuzione da parte dell’accalappiacani dei poveri randagi presi per strada. Il luogo della esecuzione era il parapetto del ponte sul ruscello che attraversava la strada che da Terralba portava a Marrubiu - non so se il Rio Mogoro o una deviazione di esso. Uno per volta, i cani randagi venivano trascinati con il cappio al collo in quel luogo di morte e ivi lapidati. Taluno, se di piccola taglia, veniva dal boia afferrato alle zampe posteriori e sbattuto con la testa sulla muraglia, fino a farne schizzar fuori il cervello.
Non so come mi sia trovato ad assistere, bambino, a questa infame scena di violenza - non avrei mai avuto né il coraggio né la forza di andarci volontariamente o di accettare di assistervi. Certamente, tra tutte le immagini di violenza, dopo quelle dei bombardamenti americani su Cagliari del 26 e del 28 febbraio 1943, cui ho involontariamente assistito e subìto, è quella che più mi ha scosso, che non riesco a cancellare dalla mia mente.


SU SCOVADORI
LO SCOPINO

Una figura popolare assai caratteristica era a Cagliari su scovadori.138
Su scovadori era un mestiere considerato vile, quasi come quello de su limpiabassas, dell’addetto alla pulizia dei cessi, o come l’altro de su scarrigadori de portu, scaricatore di porto, facchino portuale.
Una figura che riporta la mente alla macchietta di Charlot, dimostrando così quanto validi e universali siano i personaggi apparentemente “macchiette” presentati dal grande regista e attore.
Su scovadori non va confuso con s’aligaiu,139 il netturbino, l’addetto al ritiro della mondezza nelle case di abitazione
Non so bene per quale connessione, da ragazzi si cantava una allegra canzoncina che aveva per protagonista sa filla de su scovarori. Ricordo le prime due strofette che facevano “Ohi, ‘ta dolori sa fill’’e su scovarori, / ohi, ‘ta dolori, ohi, ‘ta dolori!…” che si cantavano sulle note del celebre motivo della Carmen di Bizet, “Oh, toreador ritorna vincitor…”
Ovviamente la figura de su scovarori era assente nei nostri paesi, dove ciascun abitante si improvvisava scopino, impegnandosi a pulire il tratto di strada davanti alla propria abitazione. Era infatti una scena abituale, specialmente d’estate e nelle belle giornate, vedere la padrona di casa o una delle sue figlie, armata di un secchio d’acqua e di una scopa di palma o di eriche, spruzzare prima l’acqua e poi ramazzare la strada davanti alla propria abitazione.
Un segno questo di buona educazione civica, di personale impegno all’ordine comunitario in mancanza di un servizio pubblico - che mi ricorda l’usanza tedesca, che ho riscontrato a Essen, nella Ruhr, che faceva carico a ogni famiglia lo spargimento mattutino del sale davanti alla propria abitazione, per scongelare quel tratto di marciapiede, onde evitare che il “glatteis”, il giaccio sdrucciolevole, arrecasse danni alle persone che vi transitavano.
Affine all’attività de su scovarori era quella dell’uomo fornito di un secchio con sabbia, scopino e paletta, addetto a versare la sabbia sulle rotaie del tram nei punti in pendenza per evitare lo slittamento del mezzo. La sabbia che finiva per spargersi ai lati o all’interno delle rotaie, veniva pazientemente raccolta dallo stesso uomo con una apposita paletta e rimessa nel secchio, per essere subito dopo riutilizzata.


S’ALIGAIU
IL NETTURBINO

Aligaiu, che si traduce con netturbino, era ed è ancora l’operaio municipale incaricato del ritiro dei rifiuti solidi nelle case di abitazione. La sua figura e il suo lavoro si sono modificati con l’avvento della tecnologia.
Un tempo, e fino agli anni del secondo dopoguerra, s’aligaiu era a diretto contatto con l’immondezza e la sua professione, certamente utilissima sotto ogni aspetto era considerata vile.
Is aligaius vestivano su una sorta di divisa, una mantella scura cerata con cappuccio, e portavano a spalla un saccone pure cerato la cui imboccatura veniva chiusa da una fune che passava dentro occhielli di metallo.
Passavano lungo le strade della città, avvertivano gli inquilini con il loro sonorissimo caratteristico fischietto di cui erano dotati, e se non bastava dal loro sonante richiamo: “Aliga!” (Immondezza!), si fermavano davanti al portone di ciascun palazzo, attendevano che ciascuna famiglia scendesse dai piani alti con la propria pattumiera, che essi prendevano e versavano nel loro saccone. Vi erano anche padrone di casa che dai piani alti mandavano giù la pattumiera dal balcone o dalla finestra con una fune, recuperandolo dopo tirando su la stessa fune.
Quando il saccone era colmo, veniva sistemato con gli altri nel carro al seguito. E così di palazzo in palazzo, di casa in casa, is aligaius accudivano alla nettezza urbana, la mattina di ogni giorno, esclusa la domenica.


SU OBISPU O MUNSIGNORI
IL VESCOVO O MONSIGNORE

S’obispu, il vescovo, appartiene al grado più elevato del sacerdozio, pari al terzo grado del Sacramento dell’Ordine - al secondo c’è il sacerdote e al primo il diacono.
Tra i vescovi che si sono maggiormente distinti, naturalmente nelle cosiddette “opere pie” o “opere sante” o “opere di bene”, il Papa sceglie e nomina i cardinali, i quali tutti insieme, come è noto, scelgono il Papa. Mentre il prete non va mai in pensione per quella che è la sua attività nella parrocchia, i vescovi e i cardinali, arrivati a 75 anni di età, devono dare le dimissioni al Papa e, messi a riposo, vengono sostituiti con altri vescovi e cardinali di nuova nomina. Non ho mai sentito in sardo il termine cardinale - sarà perché non siamo abituati a vedere tali pezzi grossi della Chiesa, non essendoci nella nostra Isola una sede cardinalizia.
Non è certo un mestiere o una attività comune nei nostri paesi o villaggi, sia in quelli agricoli che pastorali o dediti alla pesca. Ho inserito su obispu, il vescovo, perché è una figura che assai spesso ricorre, anche nei più umili villaggi, in alcuni momenti di vita comunitaria, seppure eccezionali, come le annuali cresime o l’insediamento di un nuovo sacerdote.
Vi sono pure dei vescovi che in qualche modo danno la loro impronta nella vita politica e sociale facendo sentire la loro autorità attraverso i sacerdoti parroci della loro diocesi. Alcuni di questi obispus sono diventati popolari, come Monsignor Cabitza, della diocesi di Oristano, popolarmente detto Cabitzeddu, coinvolto suo malgrado nella rivolta anticlericale di Cabras del 1944, e Monsignor Tedde, della diocesi di Ales, uomo politico, grande elettore dello Scudo crociato e anticomunista viscerale - il che sarebbe anche potuto rientrare in un condivisibile diritto di opinione, se non avesse avuto il nobile e gravoso compito di pastore di anime e quindi di pascolare tutte le pecore del gregge a lui affidato, indipendentemente dal colore della lana di ciascuna di esse.

De su obispu, del vescovo, monsignor Cabitzeddu, come ho accennato, parlano le cronache relative alla rivolta popolare anticlericale del 1944 a Cabras.
Il fattaccio accadde per una controversia sorta tra il comitato promotore della festa di Sant’Antonio, cioè il paese, e il parroco.
Testimonia uno dei protagonisti: «(Il parroco) voleva mettere la confraternita dietro il santo, invece di metterla davanti come è costumanza. Per questo è incominciato lo sciopero. Il prete è andato da monsignor Cabizzeddu, come lo chiamavamo noi di soprannome, e lo ha imbottito bene di calunnie contro il paese. Allora il vescovo è arrivato, è salito sulla trona [pulpito] e ci rimproverava che non eravamo buoni figli di Dio, che eravamo scostumati e altre offese così. Allora quelli che erano in fondo avevano gridato: “Boigaincheddu, bogaincheddu!” [buttatelo fuori!] e avevano cominciato a tirare sassi. Volavano come mitraglia, i sassi dentro la chiesa! Già è sceso si, correndo! Il prete, che c’era anche lui, si è messo a parlare, ma è stato peggio. Monsignore è salito sull’altare: era bianco come le candele che ci aveva vicino… Ha alzato la mano per dare la scomunica a tutto il popolo, ma non l’hanno lasciato finire, perché una cosa come quella non doveva farla: si sono slanciati tutti insieme contro l’altare. Monsignore e il prete sono scappati in sacrestia e poi nella strada. Io e altri ce l’aspettavamo, abbiamo fatto il giro da fuori e li abbiamo rincorsi. Il primo sasso che ho visto per terra, l’ho raccolto. Era grande così, era. Gli è andato in mezzo alle gambe… Se lo colpiva sulle spalle, si fermava si! Quando mai scomunicare un paese per colpa di un prete eretico…».140

De su obispu, monsignor Tedde, si parla nelle cronache dei braccianti della Marmilla, in particolare di Pauli, alla fine degli Anni 40, quando occuparono le terre incolte e successivamente costituirono la prima cooperativa agricola, sfamando decine di famiglie di contadini senza terra. Coerente alla sua ideologia politica, il vescovo fu un coerente e pervicace oppositore della occupazione delle terre, che menomava la sacralità della proprietà padronale, e ancora della costituzione di cooperative agricole - specialmente se associate alla Lega rossa e non all’Unione bianca. Io che sono stato uno degli animatori della cooperativa agricola “Antonio Gramsci” di Pauli, ricordo la relazione del presidente della stessa cooperativa tornato in paese da una visita “d’obbligo” al Vescovo di Ales. Il quale, tra le altre valutazioni negative sulla nascita (non autorizzata e inopportuna) della cooperativa paulese, espresse rammarico per il nome: “Perché Antonio Gramsci, che era uno scomunicato senza Dio e non per esempio Sant’Isidoro, che tra l’altro è il patrono di voi contadini?” Questo, riportato a memoria, un brano del racconto del presidente al suo rientro a la visita a su obispu de Ales. Che Antonio Gramsci non fosse meglio di sant’Isidoro, almeno per i contadini, considerati dispregiativamente dall’ideologo del comunismo “sottoproletariato” e, in quanto sardi, “anarcoidi”, posso anche essere d’accordo; ma pensavo anche, e lo penso tutt’ora che la gente deve essere libera di ragionare e di fare scelte usando la propria testa e non quella de s’arrettori o de s’obispu - almeno per quel che non concerne la religione.


S’ARRETTORI
IL PARROCO RETTORE

S’arrettori è il parroco, che un tempo veniva anche chiamato rettore, nel senso di colui che regge la parrocchia. In sardo, quindi, permane il vecchio termine. Un tempo, s’arrettori, il parroco, era un sacerdote anziano, poiché per accedere a tale carica bisognava avere una certa esperienza di vita parrocchiale. Oggi, invece, siccome preti ce ne sono pochi e le vocazioni stentano a manifestarsi, può accadere che anche un prete giovane, di poca esperienza, venga chiamato a ricoprire tale incarico.
Essi vivono di offerte, donazioni, questue, elemosine, in pratica sulle spalle dei fedeli che più o meno sono tutta la comunità. La Curia interviene a integrare, in caso di necessità, o anche a mungere se la parrocchia è florida.
Il Concordato tra Stato e Chiesa, istituito col fascismo e non abrogato con la caduta del fascismo, anzi perfezionato a favore del clero dai cattocomunisti, assicura al clero un vitalizio pagato dallo Stato, cioè dai contribuenti.
Da ricordare Gabriele Pepe che si dimise dal PCI quando questo votò nella Costituente l’articolo 7 della Costituzione che conserva i Patti Lateranensi e che definisce la Chiesa cattolica “religione di Stato”
Ogni parroco che si rispetti ha la sua perpetua, una specie di istituzione che ha una ben precisa funzione sociale e affettiva in un uomo che per scelta prima e per legge poi non può prendere moglie. La perpetua è in pratica la compagna del prete. Amministra la sua vita e i suoi averi. Tiene in ordine la canonica, la casa del parroco che solitamente sorge accanto alla chiesa. Cura la sua persona, il suo abbigliamento. Cucina per lui e lo serve. Se poi tra la perpetua e il parroco nascesse un rapporto affettivo meno platonico la faccenda non suscitava scandalo nella comunità, dove la gente sosteneva con ragionevolezza e magnanimità che anche i preti sono uomini.
Oltre alla perpetua, la domestica tuttofare che si occupava della canonica, la casa del parroco, e della sua persona, unu arrettori che si rispettasse avevo presso di sé una netta, una nipote, di solito celebrata per la sua bellezza e sensualità (essendo, da buona chiesastica, cresciuta in ombra, e quindi “brundiciola”, ovvero tutta latte e miele)
Sa netta de s’arrettori, nella novellistica popolare, è una creatura di sogno desiderata dai maschi del paese, giovani e meno giovani. Sono diffusissimi is canzonis, is contus e pofinzas is ligendas, i componimenti poetici, i racconti e perfino le leggende, che cantano le nascoste virtù de is nettas de is arrettoris, di queste leggiadre, concupite fanciulle, facili ai verginali rossori, fatte di ghiaccio infiammabile.141
Si può infine ricordare che tra le benemerenze dei nostri parroci di provincia vi sono is contramazzinas, le contro-fatture, e is vangeus, la lettura dei vangeli, atti rituali di magia bianca per contrastare l’azione nefasta de is mazzinas, le fatture, operate dai bruxus, fattucchieri, con la magia nera, e la lettura dei vangeli o di altri testi sacri per guarire in specie bambini, fanciulli e fanciulle colpiti da malocchi e altre malie e fascinazioni, ad opera di creature demoniache.


SU VICARIU
IL PARROCO VICARIO

Su vicariu, per la gente comune non si distingue da s’arrettori, seppure su vicariu, il parroco vicario, indica il sacerdote anziano che in assenza del titolare della parrocchia, fa le sue funzioni.


SU CANONIGU
IL CANONICO

Canonigu, canonico, è un titolo onorifico che si dà a un sacerdote che si è distinto per le sue opere di bene, e talvolta anche per meriti culturali - come è accaduto ai nostri due massimi studiosi di lingua sarda, Vissenti Porru e Johanne Ispanu, il primo benefiziau e il secondo canonigau, tra l’altro autori dei due classici vocabolari della lingua sarda, rispettivamente del 1832 e del 1851.
Il canonico ha diritto a farsi chiamare monsignore e a vestire di rosso, pur non essendo vescovo.
Alcuni arrettoris vengono insigniti di questo titolo per anzianità, e non mancano di fregiarsi della porpora nei bottoni, nel colletto, nelle stringhe delle scarpe e nello zucchetto a spicchi.


SU PREDI O PREIDI
IL PRETE

Su predi o preidi, raramente saçerdotu,142 il prete o sacerdote, viene da un settennato di studi severi, nelle apposite scuole religiose dette seminari. Esercita la sua attività religiosa nelle parrocchie, compiendo il suo apprendistato, alle dipendenze del parroco.
Quali attività svolgono e di che cosa vivono i preti? All’interno della parrocchia i sacerdoti, specie se giovani e intraprendenti, svolgono principalmente una attività che si potrebbe definire di “public relation”. Intrattengono e guidano i ragazzi dell’Azione Cattolica, organizzando attività sportive e ricreative. I sacerdoti più anziani si occupano degli adulti, specie di sesso femminile, organizzando gite, riunioni, meditazioni, e viaggi a Lourdes o simili. Non pochi sacerdoti insegnano religione (ovviamente la loro) nelle scuole di Stato - giusti i Patti Lateranensi che consegnano la scuola di Stato legata mani e piedi alla Chiesa cattolica - dato che nelle scuole pubbliche non vi può essere insegnata altra religione. Nelle scuole private gestite da religiosi, gli insegnanti di tutte le materie sono per lo più sacerdoti. Come nelle scuole salesiane, dei gesuiti, camaldolesi, eccetera. Senza dire delle scuole materne, gli asili infantili, quasi totalmente in mano ai religiosi, preti e suore. Va ricordata anche la presenza dei preti con la funzione di cappellani nell’esercito, negli ospedali. Insomma, i preti li si ritrova un po’ dappertutto come il prezzemolo o se si preferisce come la gramigna…
Nelle nostre comunità, su predi era e lo è ancora per certi versi, insieme a su para, al frate, e a su messaiu, al contadino, uno dei principali protagonisti della novellistica popolare. Dove rappresenta il lascivo tentatore di floride, libidinose e mal governate mogli, e di caste ma pruriginose fanciulle non sempre difese e salvate da messaius, contadini, gelosi e vendicativi, i quali talvolta nella loro foga di giustizieri giungono con originali stratagemmi financo a tagliar le palle ai chiercuti seduttori.


SU PARA
IL FRATE

Con il termine para si indica genericamente il frate, sia esso conventuale o questuante, a qualunque ordine appartenga - a meno che non lo si voglia distinguere, facendo seguire il nome dell’ordine o del convento di appartenenza. Per esempio: para de fra’ Ignaziu, frate del convento di frate Ignazio, oggi Santo Ignazio da Laconi; para de santu Franziscu, frate francescano, para dominiganu, frate domenicano, e così via. Su para è protagonista molto spesso di racconti popolari boccacceschi, egli è ritenuto come l’asino virilmente dotato e amatore instancabile, che se la fa con le pruriginose contadinotte e attenta alla virtù di caste mogli; ma deve quasi sempre vedersela con mariti gelosi, per lo più contadini, che danno filo da torcere al “briccone” perennemente “ingrillito” - per adoperare una espressione gergale oggi in uso tra i giovani, dal significato facilmente intuibile. C’è tutta una letteratura popolare di storie di frati, taluna anche tragica, come quella che dà vita a una leggenda da noi assai nota, sa ligenda de su para e sa mongia marmuraus, la leggenda del frate e della suora pietrificati. Che riporto brevemente qui di seguito per il lettore curioso.
«A Sant’Antioco, situati nella parte dove i monti degradano verso il mare, sorgono due singolari monoliti o come le chiamiamo noi, perdasfittas, che gli studiosi fanno risalire al periodo megalitico o nuragico. Come in altre parti del mondo, anche in Sardegna, questi strani giganti di pietra sono circondati da un alone di mistero e la fantasia popolare, sempre ricchissima d’immaginazione, ha creato una leggenda per la quale queste due pietrefitte sono i corpi pietrificati di un prete e di una suora che peccarono per amore terreno.
In quell’anno, a settembre, si festeggiava Sant’Anselmo e, durante una processione di questo Santo, il frate e la suora si videro e provarono una forte attrazione l’uno per l’altra.
Da quel momento, per loro, tutto cambiò. La notte non dormivano più, ossessionati dal desiderio di incontrarsi e di congiungersi.
D’altro canto, ciò non era possibile, perché le loro sacre vesti lo proibivano.
Come d’uso in quegli anni, lei era stata educata fin da bambina a servire Dio e da giovinetta era stata mandata in convento, pur senza vocazione, per consumare la sua vita nella preghiera.
Ed egli, secondogenito di una numerosa famiglia, per alleviare i genitori da una bocca da sfamare, appena tredicenne dovette andarsene a servire in un monastero e a vent’anni si fece frate senza aver conosciuto nulla del mondo.
Il frate e la suora, innamorati, si vedevano in chiesa comunicando con gli sguardi e durante le feste, dove si scambiavano bigliettini con frasi amorose. Il desiderio di esternare la loro passione era tanto forte che lui utilizzò come messaggeri i piccioni del monastero. Ma tutto ciò non era sufficiente ad acquietare la loro brama, perciò decisero di fuggire insieme e tutto fu programmato minuziosamente.
All’alba, quando tutti dormivano, sgattaiolarono furtivamente dalle rispettive abitazioni e si incontrarono al punto stabilito. Da lì, felici, tenendosi per mano, corsero verso la libertà e l’amore.
Corsero e corsero, leggeri e veloci, con il cuore colmo di gioia, e soltanto quando furono sulla costa, in vista del mare, si fermarono per abbracciarsi, finalmente. Ma Dio si adirò molto con loro, perché stavano per tradire il voto di castità; non diede loro neppure il tempo di consumare la loro colpa: con una saetta li colpì, pietrificandoli.
Così si concluse la romantica fuga dei due sventurati amanti».143


SU PARA DE CUNVENTU
IL FRATE CONVENTUALE

Il monaco non ha un termine corrispettivo nella lingua sarda parlata144 e viene tradotto comunemente con para de cunventu, frate conventuale.
In calincunu gunventu ci sunt puru paras nomenaus fragellantis, in alcuni conventi vi sono i cosìddetti frati flagellanti, i quali si sottopongono a vigorose nerbate sulla schiena, che essi stessi si somministrano, per mortificare la carne. Ciò essi fanno sia come regola, quotidianamente, sia nei momenti in cui la loro carne si risveglia mettendo la loro anima in tentazione.


SU PARA CIRCANTI
IL FRATE QUESTUANTE

La gente sarda ha sempre avuto un profondo rispetto per colui che, povero, è costretto a fare il mendicante, su pedidori, a vivere chiedendo l’elemosina, appellandosi a su bonu coru, al buon cuore, dei più abbienti.
Nei tempi andati, su para circanti arrivava periodicamente in paese e andava a elemosinare di strada in strada, di casa in casa, di porta in porta.
Solitamente a dare l’elemosina erano le donne. Raramente gli uomini, occupati nei lavori della campagna. Indipendentemente da tale assenza, l’elemosina fatta dalle donne pare che fosse meno umiliante per chi la riceveva. C’è chi sostiene che la donna, ricoprendo un ruolo subalterno, priva di alterigia e di autorità, fosse più vicina alle condizioni del mendico.
Per quella stima e quel rispetto in cui erano tenute allora le donne, nel mondo della mia fanciullezza, io sono propenso a credere che la donna, simboleggiando la creatura angelica o come nel “Dolce Stil Novo” la “creatura tramite del divino con l’umano”, sacralizzasse, per così dire, l’atto “volgare” del chiedere e del dare.
L’offerta non veniva mai fatta con malgarbo o con sussiego, ma con molta cortesia e discrezione. Sia che si trattasse di soldi (raramente), di cibarie (pane, grano, legumi, olive), o di quant’altro forniva l’economia e il buon cuore del contadino, ciò che veniva offerto in dono a su para circanti, al frate questuante, veniva deposto con discrezione, e direi con amore, nel fondo del cappuccio, de su cuguddu.
Il frate questuante, ricevuta l’offerta, si allontanava e soltanto quando l’offerente era rientrata in casa egli, senza essere visto, prendeva dal cappuccio i doni offertigli e li riponeva nel sacco che portava a spalla.

Il termine circanti, cercante, deriva dal verbo circai, cercare. Il sostantivo circa significa non soltanto questua, nel senso di elemosina, ma anche raccolta di soldi o di altro tra i membri della comunità, per beneficenza o per organizzare feste.
«No ‘ndi ‘ollu, no ‘ndi ‘ollu,
 ghettaminceddu a su cuguddu.»
«Non ne voglio, non ne voglio,
 mettimelo nel cappuccio».
E’ una strofetta che si recita a persona alla quale viene offerto qualcosa e rifiuta complimentosa.


SU PARA SCIDADORI
IL FRATE DESTATORE

Ogni convento di rispetto aveva un frate addetto a dare la sveglia mattutina ai confratelli. Il frate addetto a tale compito era chiamato su para scidadori. Nei monasteri ovviamente c’era sa scidadora, non un frate ma una monaca, addetta a dare la sveglia alle consorelle. Tutto ciò probabilmente quando ancora non esistevano le sveglie e i galli non erano forse abbastanza mattinieri.


SU CUNFRARA - SA CUNFRARIA
IL CONFRATELLO - LA CONFRATERNITA

Su cunfrara, il confratello, è il membro de sa cunfraria, della confraternita. E’ colui che è disponibile per tutte le esigenze della chiesa; compresa la cura del patrimonio de sa cunfraria, della confraternita cui appartiene, che consiste spesso in lasciti di terreni o di immobili che vanno coltivati o curati. Sovrintendono agli addobbi delle cappelle e degli altari delle chiese; organizzano le processioni e le funzioni religiose, Mese Mariano, Quaresima, Domenica delle Palme, Settimana Santa, preparano il pane del santo da dare in offerta o da regalare ai fedeli, ai pellegrini e ai mendicanti.
Sa cunfraria, la confraternita, è una associazione religiosa che svolge anche una propria attività sociale, per esempio di assistenza ai malati, di accompagnamento ai funerali e di sostegno ai familiari del morto, affiancano pure is gremius o società che organizzano manifestazioni pubbliche, in particolare le feste del patrono o di santi venerati dalla comunità.


SU GREMIU
LA CORPORAZIONE

Su gremiu, la corporazione, è detto anche, in diversi paesi (per esempio Guspini), su oberaiu, o sociedadi de is oberaius. Oberaiu o obreri indica anche il membro de su gremiu, della corporazione.
Comunemente, così come ogni santo che si rispetti ha la propria sede che lo alloga e dove viene venerato dai fedeli, così pure ogni chiesa ha il suo gremiu, la propria corporazione, o altrimenti detta su oberaiu o sa sociedadi de is obreris. Abbiamo quindi su gremiu o oberaiu de Santu Isidoru, o de Santa Maria, o de Santu Giuseppi. In taluni paesi is obreris de su gremiu de Santu Giuseppi sono falegnami o comunque artigiani, essendo quel santo il loro patrono; così i membri della corporazione di Sant’Isidoro sono contadini, essendo quel Santo il loro patrono. Ma tale divisione in molti paesi non esiste, poiché is obreris, i membri, di uno stesso gremiu, corporazione, sono cittadini di diversa estrazione sociale ed economica, di diversa professione o che comunque svolgono attività lavorative diverse.
Il loro compito più comune e pratico è quello di organizzare la festa ricorrente del “loro” Santo. Fatto il programma dei festeggiamenti - che non manchino mai: sa brufessioni, la processione, secondo l’antica costumanza; sa roda, i fuochi d’artificio, che devono essere il più rumorosi possibile; is cantadoris, gara poetica in lingua sarda che in taluni paesi viene soppiantata da orchestrine e cantanti “civili”. E infine, non ultimo per importanza, era loro il compito di fare la questua, passando di casa in casa, per raccogliere soldi o grano o formaggio o altro in natura da cui si potessero ricavare i quattrini per finanziare il tutto, lasciando in cambio una candela, una immagine benedetta o anche presentando l’effigie del Santo venerabile da baciare.
Da precisare che con il ricavato per prima cosa veniva pagato il prete, per lo svolgimento delle funzioni religiose di sua competenza. E come ultima quota, il finanziamento della cena po is obreris de gremiu, per i membri della corporazione.


SU CERAIU
IL CERAIO

C’erano una volta in Sardegna ceraius famosi, artigiani abilissimi nella lavorazione della cera. La plasmavano animandola con il calore stesso delle loro dita, per confezionare gli ex voto dedicati ai Santi taumaturghi: mani o piedi, teste o ginocchia, braccia o qualunque altra parte del corpo fosse stata afflitta da un malanno e poi miracolata e guarita per grazia divina.
Le pareti interne dei santuari consacrati ai Santi guaritori erano tappezzate de regordus, di ex voto, modellati con la cera. Il malato che invocato un Santo avesse ricevuto la grazia, per sciogliere il voto si recava in pellegrinaggio nel santuario per portarvi il proprio ex voto come testimonianza.
Prima doveva andare da su ceraiu. Per tempo, però, ché le richieste erano tante. Talvolta su ceraiu apriva la sua bottega nei pressi della chiesa consacrata a un Santo che aveva fama di operare miracoli. Il miracolato raccontava il proprio caso e l’artigiano approntava quanto richiesto aggiungendovi di solito un fiocchetto che fungeva da cappio per essere appeso alla parete del tempio.
Alla esposizione degli ex voto e alla eventuale rimozione di quelli in sovrabbondanza o che avevano fatto ormai il loro tempo pensava il sacrista, che li riceveva, uno a uno, dai fedeli, pronunciando la formula di rito: «Po onori et gloria de Santu...» con il nome del Santo, baciando devotamente la cerea testimonianza del miracolo compiuto.
Dimenticavo di dire che in tempi recenti (tempi di tecnologia avanzata) gli ex voto si possono acquistare belli e pronti nella sacrestia dello stesso santuario, in occasione dell’annuale ricorrenza festiva. E’ come entrare in un negozio dove si sceglie e si compra ciò che confà al proprio caso e al proprio portafogli.


SU SPIBILLADORI
LO SMOCCOLATORE

Su spibillai, lo smoccolare, è una attività chiesastica che normalmente viene eseguita da su sagrestanu, il sacrista, e consiste nell’accendere di buon mattino le numerose candele che illuminano e adornano la chiesa, per poi spegnerle la sera dopo l’ultima funzione, prima di chiudere il tempio.
Is ainas, gli strumenti di lavoro, de su spibilladori, dello smoccolatore, consistevano in un lungo bastone sormontato da un particolare congegno di ferro a due braccia: in un braccio un cono, per spegnere il moccolo e a destra un porta-stoppino che una volta acceso si utilizzava per comunicare la fiamma alle candele.
Di mattina si usava dalla parte dello stoppino, e alla sera dalla parte dello spegnitoio.
Non di rado su spibilladori, lo smoccolatore, era un assistente del sacrista, per lo più un vecchio che non aveva nulla da fare e se ne stava tutto - è proprio il caso di dire - il santo giorno in chiesa, da una cappella all’altra.
Nella chiesa della mia fanciullezza, su spibilladori era tanto vecchio da avere ormai perso quasi del tutto la vista; tuttavia svolgeva la sua mansione di smoccolatore con una professionalità tale da destare la mia ammirazione.
Troppo povero per aspirare a fare il prete e ormai troppo vecchio per poter fare il sacrista, egli soddisfaceva - io suppongo - la sua vocazione religiosa e chiesastica nell’assolvere con dedizione e amore al compito di accendere e spegnere le luci della chiesa che, oggi, con l’elettrificazione, si accendono e si spengono tutte assieme con una lieve ditata su un interruttore.


SU SAGRESTANU
IL SACRESTANO

«Quando lui nacque, la madre morì. Crebbe macilento e rachitico (non superò neanche l’esame di leva!) ed ebbe cura di lui la sorella maggiore, che se lo portò in casa e ve lo tenne anche quando si sposò.
Battista aveva una carattere mite ed essendo piccolo e magro non giocava con i suoi coetanei, né poteva andare con loro a portare dalla campagna gravi fasci di legna. La sorella lo accompagnò dal parroco che lo prese sotto la sua protezione e gli insegnò sa dottrina, il catechismo, per poter fare il chierichetto, e intanto aiutava il sacrestano nelle sue mansioni.
Quando il vecchio sacrista morì, Battista prese il suo posto. Ormai era grande e aveva imparato il mestiere: all’alba, la prima cosa da fare era suonare le campane per l’Angelus mattutino; aprire la chiesa, scopare, spolverare, mettere in ordine, accendere le candele; e se non c’erano chierichetti, servire le messe. Durante gli intervalli riceveva le commissioni per i preti; se moriva qualcuno in paese (ma questo a qualsiasi ora) doveva sonai su dispidimentu, suonare a morto. Finite le messe riordinava e, quando la chiesa era deserta, chiudeva.
Si doveva tenere sempre pronto per accompagnare il prete a portare l’Olio Santo per qualche moribondo; così pure quando c’erano funerali. A mezzogiorno doveva suonare le campane e così pure all’imbrunire, l’Ave Maria dei vivi e, un’ora dopo il tramonto, l’Ave Maria dei morti. Questo era il suo ultimo impegno quotidiano.
Maggior lavoro c’era naturalmente la domenica e i giorni comandati, così pure quando c’erano le riunioni delle confraternite e delle figlie di Maria. La sorella gli diceva sempre di sceglierne una per prenderla in moglie, ma Battista aveva paura che le donne lo avrebbero “comandato a bacchetta”, come già facevano in chiesa, e preferiva continuare a pagare sa taccia de bagadiu, la tassa che allora si pagava se si era scapoli.
Era contento quando c’erano matrimoni e battesimi, perché la sua presenza era ricompensata; qualche volta lo invitavano anche a casa, insieme al prete che aveva celebrato la funzione, e prima di andar via gli davano dolci da portare a casa, anche per la sorella».145


S’ARREPICADORI
IL CAMPANARO

Arrepicadori o repicadori, campanaro, è termine che viene da arrepicai o repicai, suonare le campane. E’ un compito che svolge uno specifico addetto, conoscitore di campane, che può non essere il sacrista.
Di solito egli era coadiuvato nel compito di arrepiacai da uno stuolo di ragazzini, entusiasti di far questa attività, aiutanti suoi e del sacrista, figli di nessuno o con precoce vocazione sacerdotale, che all’occasione facevano anche il chierichetto e, a detta dei compagni, la spia a scuola.
S’arrepicadori aveva un compito importante nei nostri paesi e villaggi: comunicare con tutta la gente della comunità che poteva essere raggiunta dai rintocchi, informandola sugli orari delle funzioni da rispettare, su fatti importanti quali la morte o un grave incidente, un incendio, un crollo. Ogni tipo di comunicazione veniva data con un particolare arrepicu, rintocco di campana.
Che tale compito necessitasse di un esperto arrepicadori veniva dimostrato dal fatto che, in sua assenza, quando il suo posto veniva preso da un “supplente” ne capitavano di tutti i colori, poiché i messaggi non erano chiari e si prendevano fischi per fiaschi.
S’Ave Maria, l’Ave Maria, veniva suonata all’alba con due campane, e dava la sveglia e insieme il buon giorno alla popolazione lavorativa - chi non aveva obblighi di lavoro (ben pochi, in verità, a quei tempi) si girava nel letto dall’altra parte, e riprendeva a dormire.
Sa missa de prima o missa baxa, la prima messa o messa bassa, veniva suonata più tardi, alle sette, con la campana piccola, sa campana de cresia, per chiamare in chiesa la gente per quella funzione.
Sa campana de scola, la campana della scuola, veniva suonata con la campana grande, alle otto, per ricordare ai bambini che era ora di avviarsi.
Su mesudì, il mezzogiorno, veniva dato cun repicus allirgus, con rintocchi allegri, per avvertire i lavoratori de s’ora de scappai, cioè di interrompere il lavoro per la pausa del pranzo.
Su Rosariu, il Rosario, veniva annunciato con la campana piccola di pomeriggio, alle quattro d’inverno e alle sei d’estate, per richiamare la gente alle orazioni serali.
S’orazioni, l’Angelus, veniva suonato a scurigadroxu, al tramonto, nell’ora in cui i contadini rientravano in paese dal lavoro della campagna.
Su prugadoriu, il purgatoriu, era così detto l’ultimo rintocco di campane suonato per scandire il ritmo del tempo quotidiano che invitava le famiglie nell’intimità delle loro case a rivolgere una preghiera ai defunti, prima di chiudere la giornata andando a dormire.
Le campane, come ho accennato più sopra, venivano suonate in occasione di avvenimenti straordinari, incidenti, disgrazie, morti. Ognuno di questi accadimenti era comunicato con un particolare rintocco a una o a due campane diverse, sa majori e sa minori, la grande e la piccola.
Po sa Missa Manna, per la messa cantata della domenica, suonava una sola campana, la maggiore: era uno scampanio lungo e festoso che infondeva gioia nei cuori.
La gente era attenta ad alcuni particolari rintocchi, desiderando di non sentirli o di sentirli il più tardi possibile, come quelli che annunciavano che il sacerdote si stava recando a portare s’Ollu Santu, il viatico, oppure i rintocchi funebri, lenti e cadenzati, detti a doppiu, de su dispidimentu, del commiato, della morte. Altri rintocchi funebri accompagnavano la salma e il corteo lungo il tragitto dal paese al cimitero. Ma se muore un bimbo di pochi anni, è un angelo che è volato in Paradiso e allora le campane rintoccano a festa, cun d’unu arrepicu de alligria.
Uno scampanio concitato, veloce, dava l’allarme alla comunità per una stato di pericolo, ad esempio fogu fuiu, in su sartu o in bidda, incendio in paese o in campagna, o calincunu arrori, qualche disgrazia, come incidenti sul lavoro.
Le campane suonavano su toccu a gloria, rintocchi a festa il Sabato Santo per la Resurrezione del Cristo, e su toccu de xentu, la Notte di Natale per la Nascita di Gesù.


SU MOBINAIU
IL MUGNAIO

Su mobinaiu, il molinaio, è colui che possiede una moba, una mola, e con questa lavora, siat chi molit trigu, sia che macini grano, siat chi molit olia, sia che macini olive, o ateru, o altro.
Tuttavia, il termine mobinaiu, molinaio, usato a se stante, indica sempre il mugnaio, colui che macina il grano. Mentre lo stesso termine seguito dalla specificazione di ciò che viene macinato, per esempio mobinaiu de olia, indica colui che macina le olive; e così per su mobinaiu de fa, colui che macina fave, e così via.
Per mobinaiu, molinaio o mugnaio, si intende esclusivamente colui che macina il grano; mentre chi macina le olive è detto: su chi molit olia; o anche su chi tenit sa moba de s’olia, colui che macina olive, o anche colui che possiede la macina per le olive. Su mobinaiu, il mugnaio, lavora tutto l’anno; mentre gli altri lavorano soltanto in certe stagioni (per le olive) oppure occasionalmente (per le fave).
Fueddu de mobinaiu, parola di mugnaio, si dice a chi non mantiene la parola data. Con i mugnai sono ritenuti poco affidabili, in fatto di parola e di promesse, il calzolaio e il marinaio. I politici, si sa, sono fuori discussione, perché loro sono del tutto inaffidabili.

«Il primo mulino a elettricità risparmiò una grande fatica e perdita di tempo alle massaie, costrette prima a portare a macinare il grano al mulino ad acqua, assai distante dal paese, con la carretta perché a piedi e con il sacco in testa non ce l’avrebbero fatta; altre ricorrevano a sa moba de su burrincu, alla macina di pietra con l’asino, ma ci voleva mezza giornata per macinare unu moi, un moggio,146 di grano.
E così il mulino in paese era sempre affollato. Ziu Ungegnu, zio Eugenio, andava ad aprire il mulino all’alba, e ben presto i sacchi di grano si allineavano e le contadine stavano ben attente a non sbagliare l’ordine per non perdere il turno.
Qualche vicina di casa portava il grano direttamente nella corbula, e così si faceva prima. Tutte ci tenevano ad essere tra le prime affinché nella mola non ci fossero depositi e poi perché quando era avviata da molte ore la farina era bollente e quindi meno genuina - diceva qualcuno.
Il locale era vastissimo, polveroso e rumoroso: al frastuono del mulino si aggiungevano le voci e le risate sonore delle giovani. Le padrone non sarebbero mai andate e mandavano le domestiche che si divertivano alle battute grasse, ed anche alle manate sul sedere del mugnaio, famoso per le sue porcaccionate. Se qualcuna mostrava di scandalizzarsi, era peggio!
C’era anche la macina delle fave per gli animali da lavoro, ma veniva azionata solo se c’era l’aiutante, perché il mugnaio non si poteva spostare dalla macina da grano, per controllare che tutte le clienti prendessero soltanto la farina e la crusca che spettava loro, senza sbattere il cassettone, affinché ne restasse nel fondo per le galline che starnazzavano nel vasto cortile prospiciente.
Le più timide non osavano protestare, ma qualcuna ardita gli diceva anche qualche parolaccia senza arrossire, ma lui rimbeccava pronto.
Durante la guerra furono tempi duri: bisognava macinare solo la quantità consentita dalla legge e così anche al mugnaio restavano pochi fondi; qualche vicina andava all’alba per evitare il razionamento e così, facendo a metà col mugnaio, si poteva avere un po’ di farina in più, in barba alle guardie che vigilavano durante il giorno».147


SU CARRADORI
IL CONDUCENTE DI CARRO

Era detto genericamentecarradori o carrolanti chi faceva il conducente di carri. Vi erano però nomi più precisi per indicare questi lavoratori del settore dei trasporti, sostituiti oggi con i camionisti, secondo il mezzo da essi guidato. Carretteri era detto il conducente de sa carretta; mentre quello che guidava su carrettoni, il carrettone, era detto carrettoneri. Questi ultimi specialmente erano i mezzi adibiti al trasporto di derrate alimentari o anche di persone.
Come ho detto in altra parte di questo lavoro, il traino con cavallo era assai più spedito di quello con i buoi; tuttavia assai maggiore era la forza di questi, sempre appaiati, rispetto a quella di un cavallo. Inoltre, nelle strade tortuose e aspre della montagna i buoi con il loro stabilissimo carro funzionavano assai meglio del carro trainato dal cavallo, che poteva rovesciarsi più facilmente in strade simili.
Il materiale di piombo e zinco estratto dalle miniere della Pertusola,148 normalmente, veniva trasportato (prima della costruzione delle ferrovie, che in Sardegna sono state introdotte assai presto su pressioni del capitalismo minerario straniero) da carri a buoi che facevano la spola tra le laverie delle miniere e il porto di Cagliari, dove il minerale prendeva il volo per altri lidi. Ricoprivano questi carri una distanza di circa 80 chilometri in circa 16 ore più le pause e il riposo necessario a su carradori e ai suoi animali prima di riprendere la vita del ritorno. In pratica ogni viaggio di andata e ritorno durava due giorni.
Is carrettoneris erano allora, in pratica, i lavoratori del settore dei trasporti, sostituiti oggi dai camionisti con i loro mezzi a motore. Usavano ampi carrettoni e cavalli robusti idonei al tiro e sufficientemente veloci, coperti da un telone impermeabile fissato ad archi di ferro fissati alle sponde laterali. D’estate il telone veniva sostituito da un incannucciato che si chiamava “lossia”che ombreggiava lasciando filtrare l’aria, mantenendo fresco e ventilato l’interno del carro. Se era adibito al trasporto di persone, a lato delle due sponde, si fissavano dei sedili a spalliera imbottiti, che consentiva ai passeggeri di star seduti comodi una fila di fronte all’altra, per lo più una decina di persone in tutto.


SU BRABERI
IL BARBIERE

«Adesso sono in pensione, ma posso parlare di quando facevo quel mestiere.
Durante la settimana avevo pochi clienti, perché solo is sennoris, i signori, potevano trovare tempo libero nei giorni feriali. I contadini venivano a farsi radere la barba o a farsi tagliare i capelli di solito il sabato sera o la domenica mattina… ed ecco spiegato perché noi barbieri riposiamo il lunedì.
D’inverno saltavano anche più di una settimana, i contadini, e si facevano tagliare i capelli ogni due o tre mesi.
Per questi servigi, pagavano dopo il raccolto una quantità di grano precedentemente stabilita.
Quando il cliente era malato o troppo vecchio per potersi muovere, io andavo a casa sua, il giorno in cui avevo tempo libero. Così pure a tutti i clienti andavo a fargli la barba a casa, dopo che erano morti; e per quell’occasione, per tradizione, veniva regalato a su braberi l’asciugamano nuovo che le donne di casa gli avevano preparato per usarlo per l’ultima rasatura.
Come mai facevo questo mestiere? Da piccolo ero un po’ malaticcio e il lavoro del contadino mi veniva pesante. Dopo che mio padre mi aveva portato un paio di volte con lui a zappare, se ne era accorto subito che io non ce la facevo, che mi sudavo tutto per la debolezza e, quasi quasi, doveva portarmi in braccio lui per tornare in paese.
Allora, per fortuna, babbo era molto amico di ziu Attiliu, che faceva il barbiere, e gli aveva parlato di me, di prendermi come scienti, apprendista, anche senza paga fino ad imparare il mestiere. Era il mio sogno, fare un lavoro civile come quello, senza dovermi rompere le ossa zappando dalla mattina alla sera, sotto il sole o sotto la pioggia.
E così fu che andai a lavorare nella bottega di ziu Attiliu: Scopavo il pavimento ogni volta che veniva un cliente a farsi i capelli e prima di chiudere la bottega lavavo anche per terra con il secchio dell’acqua e con lo straccio.
Le prime esperienze di barbiere le ho fatte sulla persona dello stesso maestro: piano piano, sotto la sua guida, con qualche urlo e ceffone ho imparato a fare la barba senza sgranare e poi a tagliare i capelli con pettine e forbice e a fare la sfumatura con la macchinetta. Per più di un anno sono rimasto senza paga, prendevo solo le mance, qualche soldo che mi lasciavano i clienti.
Dopo fatto il militare, con i risparmi, mi sono messo bottega da solo e mi sono sposato».149


SU RELOGERI
L’OROLOGIAIO

L’artigiano orologiaio, nei nostri paesi, succede ovviamente all’avvento de su relogiu, dell’orologio, uno strumento che dapprima posseduto da pochissimi benestanti, con il progresso tecnologico, diventa prodotto comune e di basso costo e si diffonde anche tra i ceti economicamente meno abbienti. Sono memorabili is relogius de bucciacca de corpettu, firmaus cun sa cadena, gli orologi da tasca con la catena, che facevano bella mostra di sé nel panciotto o corpetto che dir si voglia. Erano questi relogius i famosi “Roskoff” e i “Ville Frères” detti ironicamente cibuddas, cipolle, che, disusato l’orologio solare, ogni nostro contadino acquistava da su relogiaiu de bidda, l’orologiaio del paese, il quale, oltre che ripararli, gli orologi li vendeva.
Un orologiaio di cui ho un buon ricordo viveva, e sicuramente vive ancora, a Cabras e si chiamava Ciocci. Naturalmente Ciocci era il suo soprannome, ma in questo caso, come in molti altri paesi dell’Oristanese, la gente è conosciuta con su nomingiu o paranomini. Infatti, se si chiede del tale o del tal’altro appellandolo con il suo nome e cognome anagrafico, nessuno sa dire chi sia.
Ciocci faceva l’orologiaio e aveva una botteguccia nella piazzetta della chiesa dello Spirito Santo. E aveva una vetrinetta dove qualche orologio non mancava mai - che funzionasse o no. Naturalmente erano in mostra anche alcuni modelli di cinghiette, bracciali e catenelle.
Il mercato degli orologi non è che fosse molto florido e neppure numerose erano le riparazioni: il “Roskoff”, su relogiu de su messaju, l’orologio del contadino, non si fermava mai, neppure a sbatterlo su una pietra. E così il nostro artigiano negoziante aveva un mucchio di tempo da dedicare al suo hobby, che era quello di suonare la chitarra e di esercitarsi nell’arte del canto di canzonis sarde classiche.
Voce ugualmente nomenada, in paese e dintorni, avevano altri due paesani, Papum, che faceva il bidello, e Barrada, che faceva non ricordo che cosa. Naturalmente erano amici e insieme formavano un trio canoro, che diventò famoso, diciamo in tutta l’Isola, partecipando al “Nuraghe d’argento”, una trasmissione radiofonica che pure vinsero.
Non ho notizie di questo simpatico terzetto, mentre scrivo - mi auguro che goda ottima salute.
Per concludere, riporto dallo studioso Vissentu Porru la nomenclatura in sardo de su relogiu:
«Sa cascia, la cassa. Su quadranti, mostra,… quadrante. Su ponti, ponte, castello. Su spiragliu, lo spiraglio. Is turnus, le viti. Is ascias, i perni. Sa verga, la verga. Palitta de sa verga, paletta. Su fusu, piramide. Su tamburru, tamburo. S’ascia de su tamburru, chiavistello. Su barrilettu, chi contenit sa molla maista, bariletto del tamburo. Sa molla, molla, fascia. Sa corda, corda. Donai corda, caricare. Su cristallu, vetro. Sa fleccia, lancetta. Su balanzinu, bilanciere. Is rodas, le ruote. Sa roda de incontru, ruota dei riscontri. Sa aletta de custa roda, paletta. Rocchettu, rocchetto. Ala de su rocchettu, ala del rocchetto. Sa crai, chiave. Cadena a duus o tres filus, catena a due o tre fili. Pumu de seda guerniu in oru, cordone di seta guarnito in oro. Relogiu streccau, orologio schiacciato. Relogiu a sabonetta, a doppiu quadranti, orologio a savonetta, a doppia mostra. Relogiu cun isvegliarinu, orologio colla sveglia. Relogiu cun contornu de giargonis, o siant diamantis grogus, orologio con contorno di giargoni, o siano diamanti gialli. Relogiu a aqua, clessidra, oriuolo ad acqua. Relogiu de soli, orologio solare. Su spigoni de ferru, chi signalat is oras, stilo. Relogiu di arena, orologio a polvere».150


SU SINDIGU
IL SINDACO

Su sindigu est su chi cumandat su comunu, il sindaco è il capo del comune.
La carica e la funzione di sindaco può farsi risalire all’antica Grecia, dove tale figura, eletta di volta in volta dalla comunità, rappresentava la stessa davanti alla autorità giudiziaria. Più avanti negli anni, il sindaco diventò una sorta di moderno pubblico ufficiale in pianta stabile, avente funzioni di vigilanza e controllo, nonché di tutela della economia
Con la legislazione giustinianea, l’istituzione del sindaco, con diversi nomi e titoli e funzioni, variabili da città a città nei particolari, entrò nell’ordinamento amministrativo di tutti gli Stati dell’Occidente, Americhe comprese.
In Italia, fino al 1926 su sindigu, il sindaco, è a capo del comune. Con l’avvento del fascismo, viene sostituito dal podestà. Alla caduta del fascismo, con un giro di valzer, al podestà subentra di nuovo il sindaco.
Attualmente quella di sindaco è una carica elettiva che dura quattro anni. Nelle grandi città è di solito il cadreghino di lancio per la carriera politica di aspiranti alla classe dirigente, ovvero aspiranti a far parte della consorteria al potere.


SU SECRETARIU
IL SEGRETARIO

Nella parlata paesana, con l’appellativo di Su secretariu si indica comunemente il segretario comunale. Ossia il funzionario dello Stato, responsabile dei servizi amministrativi di un comune o di un consorzio di piccoli comuni.
Su segretariu dipende dal sindaco, che è il capo del comune.


S’APPLICAU COMUNALI
L’IMPIEGATO COMUNALE

Era detto anche scrivanu, scrivano, poiché prevalentemente aveva compiti di copiare o trascrivere a mano sui registri e gli atti pubblici. Nella gerarchia degli impiegati comunali c’erano diversi funzionari con compiti più o meno importanti e più o meno ambiti e redditizi. Per esempio s’applicau de s’abigeau, l’applicato che rilasciava i bollettini d’accompagnamento del bestiame, che in pratica viveva delle regalie dei proprietari di bestiame che necessitavano di risolvere pratiche di sua competenza.


SU SCRIVONELLU
LO SCRIVANO

Scrivonellu, scrivanello o scrivano pubblico, era colui che ad uso della comunità si prestava a scrivere lettere per parenti lontani, specie a fidanzati e a figli che si trovavano in Continente per servizio militare; oppure a fidanzate e a figlie, anch’esse in Continente per prestare servizio domestico in casa di famiglie benestanti.
Su scrivonellu, lo scrivano, veniva richiesto anche da is meris, i padroni, quando volevano redigere contratti scritti, raramente di lavoro, quasi sempre relativi a vendite e acquisti, a donazioni, lasciti o altro.
In quei periodi di diffusissimo analfabetismo, che non risparmiava neppure i ceti abbienti, su scrivonellu, era una figura rara eppur necessaria alla comunità nelle circostanze in cui c’era bisogno di leggere o di scrivere. Quando qualche “singolare” ed “eccentrico” membro della comunità aveva fortunosamente appreso l’arte del leggere scrivere e far di conto, sia che fosse stato in seminario per qualche tempo, sia che avesse appreso da militare, sia che fosse stato un chierichetto “volenteroso” preso in simpatia dal prete, poteva campare facendo quel mestiere, da signore, senza sporcarsi le mani - come dicevano con una punta di invidia i loro compaesani.
Il compito di scrivonellu era di solito svolto anche da su preidi, su secretariu e su maistu de scola, dal prete, dal segretario comunale e dall’insegnante.
Scrivonellu, come l’italiano scrivanello, indica anche, dispregiativamente, uno scrivano o in generale un impiegato di poco conto.


SU FUNTANERI
L’ADDETTO ALLA DISTRIBUZIONE DELL’ACQUA

Su funtaneri è attualmente l’addetto comunale alla rete idrica e in particolare alla distribuzione dell’acqua, alla apertura e chiusura della rete, secondo quantità e bisogni. Quando non c’era rete idrica, su funtaneri indicava - come vuole l’etimologia del termine - l’addetto alle fontane pubbliche, ovvero ai pozzi, cui attingeva la gente del paese. Suo compito era di vigilare sull’uso corretto, di manutenzione dei pozzi e di costruirne di nuovi se necessario.


SA GUARDIA COMUNALI
LA GUARDIA CIVICA

Vi erano diverse guardias: sa guardia municipali (o semplicemente sa guardia), che svolgeva il compito di vigilanza nel centro abitato; e sa guardia campestri o campariu che invece svolgeva lo stesso compito in su sartu comunali, ossia nei terreni del demanio comunale.
In tempi abbastanza recenti, diciamo fino alla seconda carneficina mondiale, “conditio sine qua non” per fare su campariu era il possesso di un cavallo da sella - poiché per poter svolgere il suo compito di vigilanza in campagna necessitava di tale mezzo di locomozione.
Non sempre ben visti dalla gente, perché affibbiatori di multe, spesso ingiuste, delle quali godevano la percentuale, is guardias, nei tempi andati avevano vita breve. Attualmente la gente si è ormai abituata a ricevere ogni genere di angheria, è diventata abulica, fatalista e non reagisce più come un tempo. A proposito di mestieri un tempo assai pericolosi.


SU DAZIERI
IL DAZIERE

L’importanza del daziere in una comunità per quanto riguarda il suo lavoro di riscossione delle imposte (il dazio) si desume anche dal fatto che perfino nella macellazione del maiale di famiglia (che veniva conservato per essere consumato durante l’inverno) bisognava preventivamente avvisare non solo il veterinario (quando c’era) ma soprattutto il daziere (che c’era sempre), e bisognava pagare sa taccia, la tassa, l’imposta relativa. Se si considera che ogni famiglia aveva almeno un maiale da macellare per le provviste invernali, se ne desume che il salasso era notevole.
Il daziere era una longa manu del fisco, arrivava dappertutto, qualunque cosa facessi arrivava per riscuotere il balzello. In definitiva su dazieri riscuoteva oltre la tassa in quattrini anche le regalie o i pizzi cui la gente doveva sottostare per tenerselo buono. A questo proposito, nei periodi festivi, quali il Natale o la Pasqua, si dice di dazieri che abbiano rivenduto nelle macellerie di città gran quantità di agnelli e capretti e maialetti, ricevuti in regalo…
Tale professione era di solito svolta dai ceti notabili, che godevano la fiducia del padronato e della consorteria al potere, ed erano considerati doppiamente sfruttatori della povera gente.


S’UFFIZIALI GIUDIZIARIU
L’UFFICIALE GIUDIZIARIO

S’uffiziali giudiziariu, era ed è un funzionario di livello esecutivo del tribunale, di stanza negli uffici del comune, che notifica ai contribuenti tasse da pagare, avvisi di mora, contravvenzioni, atti giudiziari e altri luttuosi e nefasti eventi, quando non anche esegue atti di pignoramento giudiziario per pagamenti mancati, in tal caso spesso accompagnato dalla cosiddetta “forza pubblica” che risulta essere “forza del potere” che è sempre “privata” in quanto non appartiene al popolo ma ai privilegiati che detengono il potere. La gente comune definisce s’uffiziali giudiziariu un vero e proprio “uccello del malaugurio”.
In lingua sarda s’uffiziali giudiziariu è tutt’uno con su pignoradori, su chi leat in prenda, colui che in nome della legge e con la forza sottrae al cittadino i propri averi, per non aver pagato una gabella, o per altri motivi addotti dalla autorità giudiziaria.
Imprendamentu o pignoramentu o anche leai in prenda hanno il significato di pignoramento.
Diversi cronisti parlano della difficile vita degli ufficiali giudiziari del secolo scorso i quali, per conto degli esattori delle imposte, erano costretti per vivere a recarsi fin nei più sperduti ovili di campagna per notificare taccias, gabelle, o po leai in prenda, per pignorare, povere suppellettili, e più spesso capi di bestiame. Gli anni a cui si è precedentemente accennato, erano quelli successivi agli Editti delle Chiudende151 di infausta memoria, che aveva sancito nell’Isola la proprietà privata della terra, arricchendo un pugno di profittatori e riducendo in miseria intere popolazioni. Accadeva che, lungo i viottoli campestri in cui si avventurava, s’uffiziali giudiziariu venisse fulminato dalla impietosa doppietta di iracondi pastori o contadini, esacerbati per l’eccessivo fiscalismo dello Stato italiano.152


SU GIUGI
IL GIUDICE

Su giugi è il giudice, colui che si arroga, in virtù di una laurea e di un concorso, il diritto di giudicare, condannare o assolvere, i propri simili.
Su giugi e sa giugessa, il giudice e la giudichessa, sono termini riferibili al periodo storico dei Giudicati, di cui si dà qui un breve cenno.
Il Giudicato - una originale organizzazione sociale sviluppatasi in Sardegna in pieno Medio Evo - è da ritenersi una risultante storica dell’antichissima città-stato, che può farsi risalire alla organizzazione nuragica, e che ritroviamo nell’Isola nel periodo pre-cristiano secondo un modello comune ai Greci e ai Fenici.
I Giudicati si costituiscono e si sviluppano dal VII secolo (cessata la dominazione bizantina) al X secolo, durante il periodo dei reiterati tentativi di conquista da parte dell’Islam. Dopo il 1015 l’interferenza politico-militare di Pisa e di Genova ha influenzato e certamente modificato negativamente l’originale forma di organizzazione del Giudicato.
Ritroviamo nel Giudicato ordinamenti e istituti presenti nel passato, quali appunto il Giudice (detto Sufeto dai Fenici e Arconte dai Greci) e i Majorales o maggiorenti, gli anziani della casta aristocratica che costituiscono un Senato, e le Assemblee popolari, con poteri che appaiono non esclusivamente consultivi.
Il Giudicato può così definirsi una organizzazione sociale di tipo patriarcale evolutasi autonomamente e originalmente in Sardegna durante il Medio Evo, su fondamenta di istituti e tradizioni del passato.
La comunità, costituita da contadini e pastori e da artigiani, è retta da una aristocrazia, i Majorales, e tra questi uno assume l’alta funzione di Giudice. Periodicamente vengono indette le Assemblee, cui partecipa il popolo e il clero, quando si tratta di prendere decisioni di fondamentale importanza per la collettività.
Il Giudice è il supremo reggitore del Giudicato. Erroneamente viene chiamato “re”: giustamente è stato scritto non senza ironia che in Sardegna non sono mai esistiti i “troni”. E’ certo che nei primi tempi, che possiamo definire “democratici”, qualunque Majorale, o cittadino notabile, poteva assumere la carica di Giudice; e che soltanto più tardi, dopo la pesante interferenza Pisana, c’è una tendenza del Giudicato a diventare Signoria, e quindi a fare del Giudice una carica ereditaria. Pare anche certo che la durata della carica di Giudice fosse limitata inizialmente a un anno (come nelle città-stato dove l’Arconte governava per un anno), poi a cinque anni, poi anche a dieci anni e infine a vita.
Il Giudice governa con i Majorales (o Majores) che sono di rango pari al suo. Spesso, anzi, le funzioni del Giudice sono delegate, nell’amministrare e nel giudicare, ad altri Majorales, indicati nei documenti ufficiali come “Frades”, fratelli, o Donnikellos, signorotti.153
La moglie del Giudice è detta Donna de Logu, signora del luogo (per Logu si intende il territorio del Giudicato) o anche Donna de Arborea (o de Gallura), dal nome di “quel” Giudicato. La madre del Giudice è invece chiamata Donna Manna, testualmente donna grande. Tali titoli onorifici riservati alle donne dell’aristocrazia giudicale, secondo alcuni studiosi con i quali concordo, sarebbero residui di un passato regime matriarcale, riaffiorante con la presenza, in tale sistema patriarcale, di figure femminili di grande rilievo storico, come la Giudichessa Eleonora d’Arborea.
I Majorales o Majores costituiscono, come detto, una sorta di Senato che governa insieme al Giudice, e sono la casta dominante, l’Aristocrazia. Altro ceto, il più numeroso, è quello dei Liverus o Liurus (liberi): contadini, pastori, commercianti artigiani, militari e clero. Quindi vengono i Servi.


SU PRETORI
IL PRETORE

Importante membro della consorteria al potere, presente per fortuna soltanto nei grossi centri, rappresenta la giustizia dello Stato nei nostri paesi.
Il modo di amministrare giustizia è molto semplice e sbrigativo: i carabinieri rappresentano l’accusa e compiono le indagini a loro necessarie per dimostrare la colpevolezza dell’imputato, il quale viene arrestato e processato dal pretore. L’imputato, di solito un poveraccio (perché i notabili sono immuni dal commettere reati e di solito sono amici sia del maresciallo che del pretore e quindi “al di sopra di ogni sospetto”) non ha alcuna possibilità di difendersi. Anche perché non può mai pagarsi un avvocato, e quello che pro forma gli affibbia la “giustizia” si rimette sempre “alla clemenza della Corte”.


SU CANCELLERI
IL CANCELLIERE

Il segretario del pretore - compito talvolta affidato al segretario del comune dove ha sede la pretura.


SU MARESCIALLU
IL MARESCIALLO

Il termine Maresciallu indica sempre il maresciallo dei carabinieri, che è di norma il comandante della caserma; mentre per indicare il maresciallo di finanza, si aggiunge a maresciallu l’esplicativo de finanza, maresciallo di finanza.
Il compito de su maresciallu è quello di far rispettare la legge dello Stato, che assai poco coincide con quella della comunità, e in particolare con gli interessi della gente. Su maresciallu, che è una autorità “armata” e rappresenta insieme a su giugi, “sa forza”, ossia il potere costituito, o anche “sa giustizia”, giustizia in senso dispregiativo. “In ci fiat totu sa giustizia parada”, che si traduce letteralmente: "c'era tutta la giustizia schierata", è una diffusa espressione popolare per indicare dispregiativamente una radunata di autorità varie, civili e militari, in “pompa magna”.
I marescialli, i comandanti militari in genere, per l’autorità che rappresentano e il potere che detengono, configurando un tacito ricatto, sfruttano la popolazione ricevendo, anche non richiesti, regalie e favori. La gente, per tenerseli buoni, li unge in continuazione, temendo, ciascuno e tutti, di essere pizzicati da un momento all’altro, per essere incappati in qualche maglia di quella complicata legge che a bell’apposta non ammette ignoranza…


SU BRIGADERI
IL BRIGADIERE

Nei piccoli centri, in logu de unu maresciallu, est unu brigaderi chi cumandat sa caserma de is carabineris, al posto di un maresciallo è un brigadiere che comanda la stazione dei carabinieri.
Comunemente il termine brigaderi indica il brigadiere dell’arma dei carabinieri, che è spesso anche comandante della caserma, se è ubicata in un piccolo comune.
Di solito, alle proprie dipendenze, su brigaderi tenit unu appuntau e unu o prus carabineris, il brigadiere ha un appuntato e uno o più carabinieri.


SU CARABINERI
IL CARABINIERE

Su carabineri rappresenta una tipologia sociale caratterizzata, dal punto di vista caratteriale e del comportamento, dagli attributi della balentia, nel senso di ardimento sfrontato, qualcosa di simile al significato che i popolani di Napoli, e in specie le donne dei bassi, danno al termine “guapperia”.
E’ risaputo che lo Stato, (nella fattispecie dei membri della consorteria al potere) attinge nell’immenso serbatoio della disoccupazione e della povertà i giovani che utilizza nelle istituzioni repressive, carabinieri, polizia, finanza e guardie carcerarie, i quali hanno la nobile funzione di difendere l’ordine pubblico, funzione che certe ideologie definiscono da cani da guardia dei privilegi e degli interessi delle classi al potere: magistrati e politici, generali e tecnocrati, boiardi e alto clero, quelli che un tempo, da quelle stesse ideologie, prevalentemente comuniste, venivano definiti il padronato con i suoi satelliti.
Is carabineris, come i suoi affini poliziotti, finanzieri e guardie carcerarie, rappresentano la “crema” dei diseredati pescati nel cosiddetto “serbatoio di morti di fame”, - c’è da presumere che di proposito venga creato, conservato e alimentato dal sistema, appunto per assolvere allo scopo di rifornire manodopera alla base del potere esecutivo, la “forza pubblica”. Essi, gli addetti alla repressione statalista, vengono scelti innanzi tutto tra le famiglie che non abbiano conti aperti con la giustizia del sistema, si vuole cioè che appartengano a famiglie timorate di Dio e della Legge, fedeli servitori del potere costituito, o in via di costituzione, ma che allo stesso tempo abbiano prestanza fisica e carattere aggressivo, appunto “balentia”, nel senso sopra specificato di guapperia - caratteri che vengono anche sostenuti e rafforzati durante i corsi di addestramento nelle apposite scuole. Tristemente famose le scuole dell’ardimento, che mitizzano il principio della obbedienza cieca e assoluta al comando, alla consegna ricevuta, del coraggio, del sacrificio, della dedizione totale alla causa, e dell’uso della violenza più becera e cieca contro i riottosi, contro gli oppositori, contro chiunque sia additato dal potere come nemico, come un pericolo per certi fumosi valori, quali “l’ordine costituito o in via di costituzione” o “la difesa dei sacri confini della patria”.
Sta di fatto che ancora oggi, l’arruolamento da parte dello Stato di manodopera da utilizzare nelle istituzioni repressive, quali le forze armate e la polizia, configurano una forma di vero e proprio colonialismo interno, similare all’arruolamento degli ascari, le truppe di colore, nei paesi colonizzati.
Infatti, non si è mai dato che un giovane di una famiglia ricca e potente, che so, un Agnelli o un Berlusconi, sia stato arruolato come semplice carabiniere o poliziotto. Se mai, i rampolli di tanta schiatta, se si ritrovano la vocazione militare, dopo il liceo classico e la laurea in giurisprudenza, e l’accademia, si ritrovano in breve tempo a fare il comandante di legione, con il grado di tenente colonnello. Attività non contemplata in questa raccolta di mestieri perché del tutto improbabile nella nostra Isola, che non ha la fortuna di aver dato i natali a un Agnelli o ad un Berlusconi, ma soltanto a un Segni o ad un Cossiga.


SU FINANZERI
IL FINANZIERE

Arruolarsi nella Guardia di finanza è prestigioso per i giovani, forse più che nell’arma dei carabinieri o nella polizia o nella sorveglianza nelle patrie galere. Ciò, forse, perché su finanzeri controlla il traffico delle merci per reprimere il contrabbando, avendo quindi la possibilità di cavarne degli utili per esempio in cioccolata e sigarette. A livelli più elevati, gli utili possono essere più cospicui, ossia in mazzette, quando si chiudono gli occhi su certi oneri fiscali inevasi. Inoltre si viaggia molto, specie se si svolge servizio nelle frontiere - che, per quel che riguarda l'Italia, si trovano tutte a Nord, lungo l'arco alpino, essendo le coste, come il mare, sconfinate, e quindi liberamente aperte a ogni genere di traffico.


SU COMESSARIU
IL COMMISSARIO DI PUBBLICA SICUREZZA

Su comessariu indica il commissario di pubblica sicurezza, il comandante della caserma di polizia, detta in sardo quarteri,154 nelle accezioni di “fabbricato adibito all’alloggio di truppe” e di “base di operazioni militari”. Su quarteri, la caserma di polizia, o meglio il commissariato di PS, è presente soltanto nei grandi centri abitati, bastando e avanzando nei piccoli la presenza e l’opera dei carabinieri.


SU GRASSADORI
IL RAPINATORE

Grassadori, dall’italiano grassatore, colui che compie grassazioni, rapine a mano armata. Ieri si diceva anche brigante da strada, oggi si dice rapinatore, vedi rapinadori. Il termine grassadori è voce dotta derivata dal latino “grassatus”, pp. di “grassari”, andare avanti con impeto, assaltare alla strada.155
La poesia che segue è un documento di rilevante interesse sociale, trattandosi della composizione di un certo Loi, di mestiere fabbro ferraio, accusato della rapina all’ufficio postale di Cabras, grosso paese dell’Oristanese, avvenuta il 19 gennaio del 1900.
Il Loi viene accusato di questo reato e trattenuto in carcere, in cella di isolamento, in attesa di giudizio.
Il presunto grassatore, durante gli interrogatori della polizia e durante il processo, si dichiara innocente. Così pure nella sua poesia-testimonianza, egli ribadisce la propria innocenza. Sconta quindici mesi di carcere, poi un tribunale - dalla canzoni del Loi si direbbe d’appello - lo assolve e viene rilasciato senza scuse.


Canzoni
posta po sa grassazioni a s’offiziu postali de Crabas
su degannoi de grannaxu de su millinoighentus.
Canzone
composta per una grassazione all’ufficio postale di Cabras
il diciannove di gennaio del millenovecento

M’ ad’ arregodai su Millenoighentus
de Grannaxiu fiad sa dì degannoi,
in Crabas de chizzi s’intendint lamentus:
a sa Posta anti fattu una grassazioni.
Furau anti sa summa de francus dughentus.
Contras a mei fiad s’imputazioni;
arrestau e potau a su dibattimentu
e cundennau puru a s’arrecrusioni.
… una notti disastrada,
s’aria fiad ammantada, su bentu fiad forti:
cussa fuid sa notti chi anti fattu s’arrori.
(Mi ricorderò il millenovecento / era il giorno 19 di gennaio, / all’alba a Cabras si odono grida: / hanno fatto una rapina alla posta. / Hanno rubato la somma di duecento lire. / L’imputazione era rivolta contro di me; / mi hanno arrestato e portato al processo / e anche condannato alla reclusione. /… (Era) una notte orrorosa, / il cielo era coperto, il vento era forte : / in quella notte fecero il danno.)
A su mengianu m’anti avvisau a Quarteri,
a mei poberitu m’est toccau a ddu andai.
Innia appu incontrau a su brigaderi
e i m’ad fattu sezzi e i m’ad fattu istentai.
In cuss’ora est intrau su cancelleri
cun su pretori, po m’interrogai.
Mi narad: - Ses tui, o Loi su ferreri? -
- Deu, sissignori - dd’apu deppiu nai.
Insara’ ‘n d’est bessiu unu carabineri;
m’ammostad un ‘otteddu, un cumpassu e una crai.
- Deu: sissignori - dd’appu deppiu nai.
Funti arroba mia, no ddu pozzu negai. -
- Insara’ gei ses tui cuddu chi oberi’
pottas e fentanas, po intrai a furai.
Si tui non torras su ‘inai a su posteri,
is ossus in presoni ti fazzu scallai! -
(Di mattina m’hanno avvisato in caserma, / e io poveretto ci son dovuto andare. / Lì, ho trovato il brigadiere / e mi ha fatto sedere e mi ha trattenuto. / Subito dopo è entrato il cancelliere / con il pretore, per interrogarmi. / Mi chiede: - Sei tu, Loi il fabbro? / - Io, sissignore - Ho dovuto rispondergli. / Allora è entrato un carabiniere; / mi mostra un coltello, un compasso e una chiave. / Io: sissignore - ho dovuto dirgli / Sono roba mia, non posso negarlo. /- Allora sei tu, quello che apre / porte e finestre, per entrare a rubare. / Se tu non rendi i soldi all’ufficiale postale, / ti faccio marcire le ossa in prigione! -).

A questo punto il poeta estemporaneo descrive l’interrogatorio. Con ritmo acceso e rapido egli denuncia le percosse con cui si cercava di strappargli una confessione.
Unu mi boffettada,
s’atturu mi narada: - Torraddu su ‘inai
ca ti ‘n ci lassu andai, e su processu non sigu. -
- Si tenis atturu amigu, naraddu liberali… -
Unu mi boffettada,
s’atturu mi narada: - Torraddu su ‘inai
ca ti ‘n ci lassu andai, e no sigu su verbali.
Mira ca t’est pru’ mali! -
Uno mi boffettada,
s’atturu mi narada: - Torraddu su ‘inai
ca ti ‘n ci lassu andai... Tanti dd’as fattu tui ! -
O fessid de arrui,
toccàda a mei sa funi. Toccàda ‘e dda pigai.
(Uno mi schiaffeggiava, / l’altro mi diceva: - Rendili i soldi / che ti lascio libero e interrompo il processo -/- Se hai un complice, dillo liberamente… - / Uno mi schiaffeggiava, / l’altro mi diceva: - Rendili i soldi / che ti lascio libero e non continuo il verbale. / Guarda che è peggio per te! / Uno mi schiaffeggiava, / l’altro mi diceva: - Rendili i soldi /che ti lascio libero... Tanto sei stato tu. / Forse era destino, / toccava a me esser preso al collo. Dovevo prendermela, la fune.)

I versi che seguono non abbisognano di commento: è un costume ancora attuale, purtroppo, quello di maltrattare la povera gente, che è la sola a essere sospettata e incriminata…
Appena chi fiad s’interrògu accabau
in d’una cella a solu m’anti collocau.
Ni lettu e ni nudda po pigai arriposu.
Appena su merì i m’est iscurigau
su logu i s’est fattu meda friorosu.
Domand’una manta e non mi ‘nd’anti giau.
Mi lassanta in terra po essi prus penosu.
Una tassa ‘e aqua chi appu domandau
benint e mi ‘onant corpus de punnigosu.
(Appena finito l’interrogatorio / mi hanno chiuso in una cella di isolamento. / Né letto né altro per riposare. / Appena la sera s’è fatta buia / la cella è diventata molto fredda. / Ho chiesto una coperta e non me l’hanno data. / Mi lasciano per terra perché soffra di più. / Per un bicchier d’acqua che avevo chiesto / son venuti e mi hanno picchiato).

E il Loi, dichiaratosi innocente, dopo aver descritto l’istruttoria, il processo, il carcere e la liberazione, conclude :
A quindixi mesis de arrecrusioni
a sa fini de is contus m’anti castigau.
Immoi ca de su tottu seu liberau
dogniunu mi mirad cun tradizïoni;
immoi prus de prima seu odiau
de dognia brutta villana personi.
(A quindici mesi di reclusione / M’hanno condannato, alla fine dei conti. / Adesso che sono del tutto libero / ognuno mi guarda con malanimo; / adesso sono odiato più di prima / da ogni indegna, villana persona.156


SU GRASSADORI
L’INGRASSATORE

Grassadori, ingrassatore, era detto anche colui che raccoglieva grasso animale, specie delle pelli da conciare, per poi rivenderlo all’industria della fabbricazione del sapone.
Grassadori è infine l’addetto all’ingrassaggio delle macchine articolate o snodate, da lavoro o da trasporto, quali le falciatrici e le trebbiatrici, i treni e le carrozze.


SU PEDIDORI
IL MENDICANTE

Su pedidori, letteralmente “colui che domanda”, da pediri, chiedere per ottenere, è il mendico, colui che vive chiedendo l’elemosina. Nella nostra tradizione il mendicante è una figura sacra.
Indipendentemente da ogni sua possibile deformazione fisica o disturbo mentale, qualunque sia il suo aspetto, il mendicante non può essere oltraggiato né deriso e tutti i membri della comunità, compresi i bambini, devono portargli rispetto e aiutarlo in caso di necessità.
Ogni paese ha i propri mendicanti, maschi per lo più, per ovvie ragioni morali, in quanto le mendicanti, se giovani, possono venire offese dalla turpitudine di possibili depravati o di strangius, stranieri ed estranei alla cultura della comunità. Tuttavia, superata una certa età, abbiamo una quasi parità di sesso tra is pedidoris, i mendicanti.
A is pedidoris propri del paese si aggiungono quelli di altre comunità, per lo più giovani, che vagabondano spostandosi di paese in paese, spesso in modo regolare. E’ anche regolare, abitudinario direi, che ciascun pedidori, visiti periodicamente alcune famiglie di una o più comunità, dove è stato trattato benevolmente, e dove spera di ritrovare uguale generoso trattamento.
Possiamo così dire che sa pedidoria, la questua, costituisce da noi una sorta di istituzione, quella appunto dell’elemosina, che regola il modo di farla e il modo di essere chiesta. Oltrecciò risolve anche il problema dei diversi (disturbati mentali, sordo-muti, non vedenti, handicappati) i quali in pratica vengono affidati alla responsabilità di tutti i componenti della comunità, senza emarginamenti.
Essi cioè fanno parte a pieno titolo della società comunitaria in cui sono nati, che assegna loro doveri e dà loro diritti.
Pur trovando il portale del cortile o la porta di casa socchiusi, non era lecito a su pedidori aprire ed entrare senza il permesso della padrona di casa. Da notare che, nei nostri paesi, portali e porte d’accesso ai cortili o alle case, durante il giorno erano socchiusi, e parenti, amici e gente del vicinato, potevano entrare in casa dando una voce perché la padrona poteva essere in cucina o nel cortiletto sul retro.
Anche se in casa c’era la padrona, su pedidori doveva attendere sui gradini o sulla soglia dell’uscio di casa e talvolta saper attendere pazientemente seduto sugli stessi gradini o sulla stessa soglia. Non di rado però sa meri, la padrona, se su pedidori o sa pedidora erano di età avanzata o visibilmente affaticati, li invitava a entrare e avvicinata una sedia sull’uscio di casa li faceva sedere. Ciò si verificava anche se c’era pioggia, freddo o maltempo.
Normalmente l’elemosina, monete o cibarie, veniva messa direttamente nel sacco del mendicante. Talvolta, se il mendicante mostrava di gradirlo, veniva servita una pietanza calda, minestrone, minestra o pastasciutta, che su pedidori consumava tenendo il piatto sulle ginocchia.
Al di là delle personali curiosità della padrona di casa che si informava sullo stato di salute e sugli spostamenti che il questuante operava da paese a paese, il dialogo tra l’elemosiniera e il mendico seguiva un certo rituale.
Di domanda: «A su bonu coru… In nomini de su Babbu… Po amori de Deus.» («Al buon cuore... In nome del Padre... Per amore di Dio»)
Di ringraziamento: «Deus si ddu paghit… Deus si ddu torrit a prus et prus». («Dio glielo ripaghi... Dio glielo renda moltiplicato»)
Di commiato da parte della padrona: «Bai cun su Babbu (o cun sa Mama)… Bai in bon’ora… Bai cun saludi.», oppure: «Andit cun Deus!» («Vai con il Babbo - o con la Mama... Vai in buon’ora... Vai con salute...», oppure: «Vada con Dio!»)
Di commiato da parte del mendico: «Atturit cun su Babbu ( o cun sa Mama)… Atturit cun saludi» .(«Resti con il Babbo - o con la Mamma... Resti con salute».)
Tra le altre consuetudini, quella di metter da parte, durante il raccolto, una certa quantità di grano e di legumi da distribuire a is pedidoris nell’arco dell’anno agricolo, e ancora quella di metter da parte una certa quantità di pane, il giorno dell’infornata, da distribuire ugualmente ai mendicanti.


IS PEDIDORIS DE DOMU MIA
I MENDICANTI DI CASA MIA

Non so dire bene perché ma, durante la mia infanzia e specialmente nel tempo trascorso in paese, i fatti che mi accadevano, anche i più comuni, i più consueti, avevano una rilevanza straordinaria. Immagini e sensazioni di quel periodo sono rimasti incisi indelebilmente nella mia memoria e ne porto ancora con me il ricordo vivo, che molto spesso si tramuta in nostalgia.
La mia casa era visitata periodicamente da diversi pedidoris, mendicanti. Alcuni erano sconosciuti, altri invece, i più abituali, erano sempre gli stessi che con una periodicità fissa bussavano alla nostra porta per chiedere l’elemosina. Questi mendicanti abituali erano is pedidoris de domu mia. Erano di età e di sesso diversi, così come diversi erano nella costituzione fisica e nell’abbigliamento; ma per la maggior parte erano anziani o invalidi, gente alla quale non si poteva dire: «Ma perché non vai a lavorare?»
Ne ricordo alcuni in particolare: zia Clara, una donna di mezza età, piccola, rotondetta e con un viso paffuto dove a tratti lampeggiavano due occhi neri da spiritata. Dicevano che fosse matta, infatti la gente del mio paese la chiamava Crara sa maca. E poi ricordo Licu, scarno, alto, asciutto. Anche di lui dicevano che fosse matto, toccau de su marteddu de Santu Amadu, toccato dal martello di Santo Amato, perché gli venivano delle crisi epilettiche e talvolta ciò gli accadeva anche per strada. La gente, in paese, lo aveva soprannominato Gesù Cristu Aresti, Gesù Cristo Selvatico.
Is pedidoris de domu mia, i mendicanti abituali di casa mia, si davano tra loro convegno e arrivavano tutti insieme un certo giorno della settimana, il giovedì mi pare, una sola volta al mese. Le domestiche avevano l’ordine di farli entrare nel cortile dietro casa, cui si accedeva da una stradina privata. Venivano sistemati degli scanni uno accanto all’altro dove is pedidoris si sedevano, riposandosi dalla fatica del loro camminare. Ciascuno di loro recava con sé una bertula, bisaccia, o un sacco dove riponeva quanto gli veniva offerto. La mamma disponeva che a ciascuno venisse dato in parti uguali del denaro, del pane, del grano, dei cereali, del vestiario e infine faceva versare loro in una scodella una buona minestra che era stata preparata la notte prima in previsione della loro visita. La mamma si tratteneva un po’ con loro prima di congedarli; chiedeva del loro stato di salute e li faceva parlare, e li ascoltava; e io assistevo curioso alla scena e pareva a me che is pedidoris de domu mia fossero persone normali, gente che si comportava con dignità e naturalezza, niente affatto tristi o affamati o macilenti. Quando essi si congedavano, io apprendevo il rituale dei ringraziamenti e degli auguri che si devono scambiare tra colui che offre e colui che riceve.
Dicevano essi alla mamma, rivolgendole sguardi di riconoscenza: «Deus si ddu paghit.». E la mamma, augurando loro un buon viaggio, diceva: Bendit cun su Babbu.», cui faceva eco la risposta: «Atturit cun sa Mama.»
Ricordando is pedidoris, i mendicanti del mio paese, ho ritrovato l’immagine di uno di questi seduto ai margini della strada in ombra, intento a consumare il suo spuntino con le gambe allungate in avanti per riscaldarsi i piedi nudi al sole. Il suo viso è sereno e pacato; non esprime né infelicità, né disagio, né tristezza; egli si sente perfettamente sistemato: il capo e parte del corpo all’ombra e le gambe e i piedi al sole; accanto a sé mezza bottiglia di vino, un cartoccio con del pane e del formaggio. Egli ha la salute e non gli manca il necessario per vivere. Guardando in questa foto l’immagine del mendicante ho fatto alcune riflessioni. Noi viviamo in una società dove il superfluo è necessario. Ma allora siamo veramente liberi oggi? Sicuramente posso affermare che quel mendicante era libero. Libero nel vero senso della parola. I suoi ritmi biologici non erano segnati dal lavoro, dalla famiglia, dagli orari da rispettare, ma erano regolati da orari naturali, dall’armonia della vita con il fluire del tempo. Si svegliava e si alzava quando non aveva più sonno; si coricava e si addormentava quando aveva sonno; camminava quando era in forze, quando aveva bisogno di muoversi o voleva recarsi da qualche parte; si sedeva quando era stanco e voleva riposare; faceva tutto ciò che poteva fare quando ne sentiva la necessità o quando ne aveva l’opportunità; mangiava quando aveva appetito, dove e quando voleva, perché sapeva accontentarsi di ciò che possedeva o che gli veniva offerto.
In sardo, quando si vuole indicare una persona felice, senza pensieri, si dice: «Innui ddi scurigat si corcat », che tradotto significa: «Dove gli si fa buio si corica» o se si preferisce «Dove gli vien sonno si addormenta».
L’occupazione del mendicante è girovagare per i paesi, senza una meta precisa, vivendo della generosità del prossimo. Se libertà vuol dire essere felice, e se essere felice vuol dire essere libero, allora si può dire che su pedidori è un uomo libero e felice.
Il mendicante è una figura di grande rilievo nella nostra comunità. Come lo era nel mondo greco fin dai tempi antichi, addirittura mille anni prima dell’avvento di Cristo. Quando Ulisse rientra a Itaca, dopo vent’anni di lontananza, si presenta alla propria corte sotto le vesti di un mendicante, e come tale viene accolto con benevolenza e rispetto. Nei tempi passati, in tutti i paesi, i mendicanti sono sempre stati oggetto di particolari attenzioni e di particolare rispetto. Anche, e in specie, nelle comunità di fede cristiana, dove il mendicante rappresenta Gesù stesso, la Divinità, e nei Sacri Testi sta scritto che chiunque sarà stato misericordioso con uno di essi verrà premiato. Uno dei ringraziamenti rituali del mendicante che ha ricevuto l’elemosina è: «Deus si ddu torrit a prus e prus », cioè «Dio glielo restituisca moltiplicando ciò che è stato dato».
La presenza di un mendicante in occasione di una solennità, nascita o matrimonio, è sempre stata considerata di buon auspicio. Era assolutamente vietato trattarli male, burlarsi e perfino essere scortesi con loro. Un famoso psichiatra tesse l’elogio dei mendicanti scrivendo che essi sono ciò che l’uomo era in origine: privo di qualunque contaminazione della civiltà, libero e asociale. Nell’antica Grecia, chi era misericordioso con un mendicante si ingraziava gli Dei. Anche con il Cristianesimo i mendicanti venivano invitati alle feste della natività, perché era ritenuto che essi portassero fortuna al nascituro. Ai matrimoni, per propiziare salute e benessere alla nuova famiglia. Alle cerimonie funebri, alle lamentazioni e alle inumazioni per la salvezza dell’anima del defunto.
In Sardegna anche in tempi recenti is pedidoris, i mendicanti, erano sempre presenti in occasione delle tre più importanti ricorrenze della vita di ogni creatura umana: nascita, matrimonio, morte. Tanto più numeroso era lo stuolo dei mendicanti che partecipavano alla cerimonia, tanto più ricchi e prestigiosi erano i festeggiati. In particolare, in occasione dei banchetti matrimoniali, is pedidoris, i mendicanti, stavano nei gradini della porta d’ingresso della casa o sulla soglia della sala del banchetto con il piatto sulle ginocchia che veniva riempito di ogni ben di Dio personalmente dalla padrona di casa , la quale, a cerimonia ultimata, offriva loro del denaro.
Is pedidoris non si fermavano per lungo tempo nello stesso paese, ma si spostavano di paese in paese secondo un loro calendario per mantenere costante il livello della questua, cioè per ricavare quel minimo che era loro necessario per sopravvivere. Inoltre, così facendo non pesavano troppo sui loro donatori che, per lo più, erano sempre gli stessi in ogni paese. Nel loro giro di questua avevano però i loro paesi preferiti, dove si recavano più spesso e certamente anche più volentieri, in quanto la popolazione era più generosa. Ci sono diversi detti in sardo che lodano i paesi generosi e inveiscono contro quelli avari. Un esempio: «An chi ti scurighit a Bosa!», che tradotto significa: “Che ti venga la notte quando sei a Bosa!», una frase che si dice quando si vuole augurare del male a qualcuno, ritenendo evidentemente che gli abitanti di quella cittadina siano parecchio inospitali.
Sembrerebbe che il mendicante abbia nelle comunità il ruolo di stimolare la bontà della gente. Si dice che su pedidori consente a ciascun membro della comunità di mostrare la propria generosità. In altre parole egli sarebbe lo strumento necessario perché la generosità si manifesti. E’ messo lì dal Signore - si dice - per misurare la nostra bontà, e Gesù stesso ha detto che chi farà l’elemosina a uno di essi sarà come se l’avesse fatta a lui.
Quindi per un cristiano credente è un dovere morale altissimo da parte degli abbienti aiutare i poveri.
I poveri si conoscevano tutti l’un l’altro e spesso tra loro si creavano rivalità e gelosie, se avevano ricevuto uno più dell’altro. Si creava anche tra loro una gerarchia, e quindi aveva maggior prestigio chi riceveva l’elemosina da famiglie molto ricche (perché si supponeva fossero più generose; anche se in effetti i più ricchi talvolta sono quelli che danno di meno).
Io e i miei familiari conoscevamo uno per uno, anche per nome, i nostri pedidoris e sapevamo anche in quale giorno della settimana o del mese sarebbero venuti a farci visita, e li aspettavamo. E quando qualcuno di loro non si era fatto vivo il giorno previsto ci preoccupavamo perché si pensava che gli fosse accaduto qualcosa. Infatti, tra una visita e l’altra, qualcuno passava a miglior vita e prima che lo venissimo a sapere trascorreva un bel po’ di tempo perché allora le comunicazioni erano lente.


SU PABONIMPU
IL PARANINFO

Pabonimpu, paraninfo, è colui che si occupa per conto dell’uomo di indagare presso la famiglia della donna desiderata per concordare il fidanzamento.
Nel paese di Gonnosfanadiga, per antica usanza, in cambio di questa “prestazione d’opera”, su pabonimpu riceveva una gallina.
“Cadira de pabonimpu” era detta la sedia che veniva data a su pabonimpu, il paraninfo, in occasione della sua visita di sondaggio. Sedia che era sgangherata perché ci stesse scomodo e andasse via al più presto. Quando si andava a fare una visita di cortesia e si riceveva anche involontariamente una sedia un tantino scomoda, sanzia sanzia, sgangherata, si diceva: «Nara tui, ita m’has donau, sa cadira de su pabonimpu?», «Di' tu, mi hai forse dato la sedia del paraninfo?».

Ziu Fideli su pabonimpu

«Ziu Fideli era anziano, piccolino, vestiva sempre allo stesso modo in qualsiasi stagione: giacca e pantaloni a righine grigi, un po’ stinti, e berretto a visiera, pure grigio, pure stinto. Era vedovo ed abitava da solo in una casetta alla periferia del paese, con un grande orto, unico oggetto delle sue fatiche quotidiane. All’imbrunire andava ogni giorno alla piazza della chiesa e chiunque avesse bisogno di lui sapeva di poterlo trovare lì.
Tutti lo conoscevano e lo apprezzavano per la sua discrezione: ricevuto l’incarico si avviava a passo veloce e furtivo a fare l’ambasciata, facendo bene attenzione che non lo si vedesse entrare nella casa delle giovani, perché sarebbe stato vergognoso, se la risposta fosse stata negativa, che in paese si sapesse chi a ziu Fideli dd’hiant torrau crocoriga, che a zio Fedele gli avevano detto di no.
La padrona di casa lo accoglieva compiaciuta della sua visita e gli offriva un bicchierino; egli tesseva gli elogi del mandante, elencava i suoi beni e, infine, quale fosse la figlia richiesta. Toltasi quella curiosità che la teneva in ansia, sa meri, la padrona, chiamava la prescelta - le altre sorelle spiavano dalla porta socchiusa col rischio di far sentire le loro risatine… e meno male che il Cupido era un po’ sordo! Ziu Fideli non chiedeva una risposta immediata: sarebbe tornato dopo una settimana per avere conferma - lui sperava.
E di solito l’esito era positivo. Andava allora velocemente, non in piazza a bere, ma a casa del mandatario, e stavolta sarebbe stato ben felice di essere visto nel dare la risposta positiva, su si, il si, all’interessato. E così si procurava un invito ad un matrimonio ed una lauta ricompensa.157


SU MERI DE SU DINAI
IL BANCHIERE, IL PADRONE DEL DENARO

Nei nostri pesi, purtroppo o per fortuna, (dipende dai punti di vista) non c’erano, tuttavia se ne parlava assai spesso e si raccontavano di loro tante storie da mille e una notte... Erano tutti avari, ebreus, dediti all’accumulo dei soldi, non sapevano nemmeno godersi la vita, erano per lo più froci e le loro donne se le godevano gli stallieri e i cambereris - altro mestiere, quello dei camerieri, come l’altro dei maggiordomi, al vertice della gerarchia servile, che in Sardegna non esisteva. Figura, questa de su meri de su dinai, del banchiere, che abbiamo imparato a conoscere da “Disney”, con “Paperon dei Paperoni”, che faceva il bagno nelle piscine piene di monete d’oro. Da noi, ancora, in molti paesi, dove pure c’è il televisore, la caserma dei carabinieri e l’esattore delle imposte, non ci sono ancora neppure le vasche per fare il bagno, né i bidet per pulirsi sotto, e spesso neppure il rubinetto dell’acqua.


S’EBREU
L’USURAIO

Come altre volte detto in questa raccolta di mestieri, le attività mercantili erano svolte da strangius, forestieri, gente di fuori che vendeva per danaro e più avanti prestava denaro a usura a contadini e pastori indebitati, in particolare per mancato pagamento di tasse o multe comminate dallo Stato - che favoriva appunto lo strozzinaggio con il suo fiscalismo. Nessuno era più odiato dell’esattore delle imposte, dal contadino e dal pastore poveri: illustri storiografi del secolo scorso raccontano della fine che facevano codesti funesti messaggeri dello stato che venivano abbattuti a colpi di doppietta, mentre tentavano di entrare nei villaggi per notificare qualcuna delle loro sciagurate “taccias”, ovvero bollette di pagamento delle imposte.
Is istrangius dediti ad attività commerciali erano detti mercantis ed erano malvisti e disprezzati pur essendo ricchi (o forse proprio perché ricchi) e indicati con gli appellativi di ebreu, giudeu, usuriu, cadranca e simili. Sottolineando il loro attaccamento al denaro accumulato sfruttando il lavoro della povera gente.
Molto spesso is ebreus di mestiere, gli usurai, stavano nelle città o nei grossi paesi, dove ci si recava appunto in caso di estrema necessità... Talvolta però per imitazione, vi era qualche furbo proprietario terriero che possedendo qualche risparmio si improvvisava banchiere, dando denaro a usura. Diventava così per la morale comunitaria unu ebreu, uno strozzino, una creatura spregevole seppure spesso necessaria per risolvere drammatiche situazioni economiche.


SU MARTINICHERI
CHI FA' IL MERCATO NERO

Martinicheri era detto colui che in tempo di guerra operava nel settore del mercato nero o clandestino. In particolare durante gli anni del secondo conflitto mondiale e in quelli successivi, diciamo dal ‘40 al ‘48, vi era gran penuria di alcuni prodotti, alimentari e tessuti in specie, quando non mancavano del tutto, o quasi, come il caffè, lo zucchero, il burro. Tali prodotti di prima necessità, come il pane, la pasta, lo zucchero erano razionati, ma difficilmente li si trovava in commercio anche ad aver la tessera annonnaria. Più facile trovare questi generi alimentari o tessuti per l’abbigliamento nel mercato nero, dove ovviamente i prezzi erano assai più alti. Certamente il mercato nero era organizzato da potenti lobbies economiche che trassero dalla guerra, anche in questo settore, lauti guadagni sul bisogno della povera gente. Alcuni profittatori, dapprima facendo incetta e poi rifornendo il mercato nero, acquistarono ingenti ricchezze che più tardi, a guerra finita, investirono nel settore della ricostruzione. Il mercato nero spicciolo, ossia gli spacciatori - una attività che comportava il rischio della galera - era gestito dai martinicheris, persone astute e avide ma talvolta anche brava gente caritatevole, che aiutava famiglie in serie difficoltà economiche o malati che necessitavano di farmaci, introvabili nel mercato ufficiale.
Una figura di martinicheri che ho ancora vivissima nel ricordo è ziu Chichinu, diminutivo campidanese di Francesco, nome di battesimo comunissimo a Cagliari. E appunto cagliaritano era ziu Chichinu, un ometto bruno magro vestito con calzoni-gilet e giacca di colore scuro, che non cambiava mai: gestire vivace, viso intelligente, occhi neri acuti, parlata sciolta, attento e ricettivo.
Lo conobbi a Mogoro nella primavera del 1943, l’anno dei bombardamenti americani su Cagliari, che desertificarono la città, spingendo i suoi abitanti a “sfollare”, a rifugiarsi nei paesi dell’interno, dove si presumeva, e si sperava, che le bombe dei “liberatori yankee” non sarebbero arrivate. Ziu Chichinu era uno dei tanti sfollati, capitato in questo grosso centro dell’alta Marmilla. Per sopravvivere, e penso anche per non morire d’inedia, dopo aver studiato la situazione socio-economica della zona, il nostro uomo organizzò un piccolo ma efficiente mercato nero utilizzando sia i prodotti che ancora erano reperibili nella città pressoché deserta, a Cagliari, sia quelli di cui disponeva il circondario agro-pastorale di Mogoro.
La città forniva, a lui e ad alcuni suoi fidatissimi collaboratori, prodotti della tecnologia: filo elettrico, lampadine, interruttori e altro materiale elettrico assai richiesto, pellame, cuoio, abiti e scarpe anche usati; teleria, consistente per lo più in lenzuola, tovaglie e coperte, buone anche per ricavarne camicie, abiti e cappotti con l’operosità e l’estro propri delle donne contadine, che erano le principali destinatarie. Tutto questo materiale, e altro, si acquistava da un mercato ovviamente clandestino, sorto ai margini della città, rifornito da sciacalli dediti al saccheggio - c’è da ritenere con la complicità di almeno una parte corrotta delle autorità militari e di polizia preposte all’ordine pubblico nella martoriata città. Bande organizzate di sciacalli rovistavano e depredavano le case bombardate e che spesso penetravano con scasso e rubavano anche in quelle rimaste intatte e disabitate - la fucilazione sul posto era la pena prevista ma mai eseguita in quel periodo per il reato di sciacallaggio in flagranza.
Mogoro e i paesi dell’interno offrivano generi alimentari: grano, farina, pasta, pane e legumi; carni di bestiame macellato di nascosto, nottetempo; uova e animali da cortile, specie pollame e conigli.
Tra parentesi: la frutta e la verdura tendevano a diventare di uso comune: chi le voleva andava in campagna e se le raccoglieva. Tuttavia, penetrando furtivamente nei terreni coltivati a frutteto o ad orto, c’era il pericolo di incappare nel legittimo proprietario, il quale, vendicativo, reagiva con cattiveria esplodendo sui deretani di quei “comunisti per bisogno”, doppiette caricate con sale grosso misto a lardo rancido.
C’è da precisare che ziu Chichinu, a suo merito, per i suoi commerci non usava moneta corrente ma l’antico e onesto metodo del baratto, ossia lo scambio merce: tu dai una cosa a me e io do una cosa a te. Una percentuale spettava a lui, che organizzava il traffico commerciale: lo scambio reale avveniva ovviamente tra i possessori delle diverse merci che venivano barattate, che passavano così da una mano all’altra. Ziu Chichinu sovrintendeva. Ed era ricercato e stimato, considerato galantuomo, uomo di parola. Chiunque avesse necessità di un alimento, di una lampadina, di un vestituccio, di un paio di scarpe, o di un utensile familiare, un paio di forbici, o aghi o filo da cucire, o un attrezzo da lavoro, un paio di tenaglie, dei chiodi, una striscia di cuoio o qualche cos’altro, cercava ziu Chichinu, che di solito stazionava in qualcuna delle piazze del paese, e chiedeva a lui. Ed egli, sempre, si dava da fare e trovava quanto gli veniva richiesto, facendolo pagare onestamente tanto quanto aveva faticato per trovarlo, cioè attribuendo all’oggetto il valore in rapporto alla sua rarità. Il pagamento - come detto - avveniva sempre con scambio merce: il richiedente pagava con prodotti in suo possesso: se era contadino con grano o legumi; se era pastore con carne d’agnello o formaggio. A ziu Chichinu, come mercede per il lavoro fatto, giustamente restava un arrosto d’agnello o una buona fetta di pecorino; oppure della farina da trasformare in malloreddus, gnocchetti, o ceci di buona cottura, non concimati, da ricavarne un gustoso minestrone con bietole selvatiche e ciccioli di maiale.158


SU TRAMPERI O TRASSERI
L’IMBROGLIONE

Questa attività e quelle che seguono, a chiusura di capitolo, non sono propriamente nobili e neppure produttive; tuttavia tendono a diffondersi con l’avvento di questa civiltà mercantile, che esalta l’avere e deprime l’essere, che assopisce la coscienza comunitaria e stimola l’egoismo individuale.
Oltre a is trasseris, i maneggioni autorizzati dalla legge a imbrogliare la gente semplice o sprovveduta, e a parte gli ingegnosi matrancheris, truffatori dalla fervida fantasia, maestri del vivere a sbafo, che le inventano tutte per sbarcare il lunario lavorando e stancandosi il meno possibile, ci sono is tramperis, gli imbroglioni veri e propri, che si inseriscono per lo più nelle attività commerciali.
Ai margini di alcune attività mercantili - che nonostante l’antica diffidenza si sono guadagnate almeno in parte una certa dignità sociale e morale - ci sono quelle attività che la legge tollera quando non tutela, nonostante siano chiaramente truffaldine. Si tratta quasi sempre di attività che hanno lo scopo di vendere prodotti di scarso o di nessun valore, attribuendo loro qualità eccellenti per farli pagare a prezzi esorbitanti, o anche di vendere favori, grazie, felicità, guarigioni, divinazioni, miracoli ed altre simili facezie usando la furbizia, l’inganno, il raggiro, cogliendo la buona fede e la credulità e, spesso, sfruttando perfino il dolore, l’angoscia, la disperazione, la morte, per rifilare il vero e proprio “bidone”.
Oggi, i nuovi imbroglioni computerizzati, i truffatori del video e della carta stampata, con i loro nuovi strumenti di comunicazione, si sono moltiplicati e i loro metodi per carpire la buona fede e il consenso della gente sono diventati gioielli di perfezione tecnica. Davanti a questi sofisticatissimi sistemi di truffa impallidiscono i vecchi e rozzi sistemi di truffa, che tuttavia avevano almeno il pregio di possedere un certo contenuto di fantasia e di umanità. Che cosa c’è di “intelligente” nella truffa del “gratta e vinci” o nella vendita di biglietti di lotterie i cui soldi al 9O per cento vengono trubaus, fregati, dallo Stato? E’ una forma di tassa che si basa sul sogno del poveraccio di diventar ricco. Lotterie alle quali non hanno mai giocato e vinto gli Agnelli, i Cuccia, i De Benedetti, i Berlusconi - e per quanto risulta nemmeno i Rothschild e i Rockefeller.

Questo un breve elenco di imbroglioni:
- su tramperi est su chi fait trampas;
- su trasseri est su chi fait trassas;
- s’imboddicheri est su chi fait imboddicus;
- su pinniccheri est su chi fait pinnicas;
- su matrancheri est su chi fait matrancas;
- su trubadori est su chi fait trubas.

Nel linguaggio comune, su tramperi, su trasseri, s’imboddicheri, su pinnicheri, su matrancheri, su trubadori, sono sinonimi: indicano sì diverse genie di imbroglioni o truffatori, ma la gente non sta a fare sottili distinzioni, e quando vuol dare dell’imbroglione o del truffatore a qualcuno, prende e usa il primo di questi termini che gli capita a mente.
Tuttavia, a essere linguisticamente pignoli, si può fare una certa distinzione tra loro, a seconda del genere di truffa o di imbroglio che si commette.
Per trampa si intende un raggiro; per trassa, un inganno bene ordito; per imboddicu, che vuol dire involto, un pasticcio fatto ad arte; per pinnica, che significa piega, una falsità, un gioco sporco; per matranca, che significa un aggeggio complicato dall’uso incerto, un raggiro machiavellico; per truba, una vigliaccata, una fottuta, dato che trubai significa fottere.


SU BRANTAXERI
IL MILLANTATORE

Su brantaxeri, il millantatore, assai spesso cerca credito spacciandosi per s’amigu de su meri mannu o de s’onorevoli, l’amico del padrone o dell’onorevole.
Vi sono sempre, in ogni comunità, individui che hanno il ruolo di divertire il prossimo, che sapevano raccontare spacciandole per vere le storie più fantasiose e improbabili - oggi si direbbe che sanno raccontare le barzellette. Costoro, che possedevano oltre alla capacità di raccontare quella dell’ironia, erano assai contesi nelle compagnie. E va da sé che mangiavano e bevevano gratis. Quella che segue è la bozza di una figura di buontempone, un reduce ormai disabituato a zappare la terra o ad allevare le pecore, che trascorre il suo tempo nelle bettole a raccontare le sue avventure di guerra.

Su reduci amigu de su rei / Il reduce amico del re

Prima c’erano più guerre. Ogni volta ne partivano quindici o venti. I due o tre che ritornavano si provavano a descrivere le stranezze che avevano visto, ma ci rinunciavano presto per non passare da svitati. Zio Gesuino, reduce brigadista, ha accettato il ruolo di svitato e vive raccontando le sue memorie di guerra. E’ rimasto otto anni fuori - neppure lui sa precisamente dove. Appostato in un canalone a sparare sui nemici che gli passavano a tiro - dice. Al rientro non aveva più i calli della zappa; l’odore delle pecore gli dava svenimenti e l’aria dei campi coltivati gli gonfiava la milza.
Ziu Gesuinu il brigatista se ne sta tutto il giorno in giro per le bettole in cerca di uditorio. Appena l’ha trovato, comincia: «Un giorno ero di sentinella e sai chi ti vedo? Il re in persona, venuto a ispezionare insieme ai generali. Mi vede e subito mi riconosce. Si avvicina. Mi mette una mano sulla spalla e mi dice: “E che cos’hai tutto triste e nero, o Gesuinu?”. Io gli dico: “Eh, già non lo saprai tu, Vittoriu, otto lunghi anni fuori di casa!”. E Vittoriu, allora: “Ci hai ragione, Gesuinu, bravo! Domani si va in licenza.”».
Se l’uditorio è prodigo, prosegue: «Piano piano siamo entrati in confidenza. Una domenica - mi venga un colpo se non era la Domenica delle Palme! - Vittoriu è venuto a prendermi in macchina per andare a pranzo insieme. Mi ha portato in una reggia che ci aveva da quelle parti in mezzo a un boschetto. C’era ogni ben di dio. Le mogli dei generali avevano preparato tutto loro, insieme alle serve. Vittoriu si era puntato subito sulle serve - tutta roba fresca. Si sfregava le mani dalla contentezza. Dice: “Forza paris, Gesuinu! Dobbiamo fare onore all’esercito”.
C’era una tavolata grande come la piazza di una chiesa; da bere avevano portato diverse botti di malvasia, nieddera e vernaccia; da mangiare, un gregge di pecore arrosto con tutti gli intestini fatti a treccia in padella, con le frattaglie e i piselli. Alla fine, gli attendenti hanno portato anche la frutta. E non ti portano le ciliegie? Non ci crederete: una cesta da vendemmia piena, ne hanno portato, ricoperta di foglie di finocchio. Dapprima mangiavo tutto alla pari; ma quando la pancia mi si è tesa come un tamburo ho cominciato a sputare i noccioli. Gli altri commensali erano tutti seri composti svogliati: una ciliegia se la mangiavano in cinque morsi. Io allora per rallegrare la compagnia ho preso a lanciare noccioli, così, strizzandoli tra due dita… Uno è andato dritto sul naso della regina. Quando ha visto che ero stato io, mi ha guardato ridendo e muovendo un dito mi ha detto: “Eh, Gesuinu, birbaccione!”. Ed è entrata in gioco pure lei, lanciando noccioli sulla pelata dei generali… Vittoriu rideva come un matto….
Eravamo diventati come fratelli, con Vittoriu. Non fa a crederlo, gli scherzi che ci facevamo l’uno con l’altro! Io ho sempre pensato che fosse della nostra razza: piccoletto, figlio di buona mamma e col naso sempre in tiraggio....


S’ORERI, SU MANDRONI CHI CONTAT IS ORAS
IL POLTRONE CHE CONTA LE ORE

De no cunfundiri cun s’omonimu oreri, su chi traballat s’oru e sa prata, da non confondere con l’omonimo orefice, colui che lavora l’oro e l’argento, descritto in altra parte di questo libro. Come detto nel titolo, s’oreri indica popolarmente il poltrone a tutto tondo, il quale vive senza far nulla, perennemente stravaccato ovunque vi sia la possibilità di stendersi, stuoia, divano o terra soffice, a contare le ore che passano, che ci siano o non ci siano mosche che gli ronzano attorno o formiche che gli passano sulle gambe.


FAI S’ARTI DE SU MOLENTI CHI MOLLIT
FARE IL LAVORO DELL’ASINO CHE MACINA

Fai s’arti de su molenti chi molit, ossia fare il lavoro dell’asino che macina, significa fare un lavoro che non comporta alcuna responsabilità, un lavoro utile quanto si vuole ma vile.
Ricordo l’uso frequente di tale modo di dire, che diventava una vera e propria accusa ideologico-politica, che mia madre rivolgeva nei confronti degli intellettuali, del lavoro impiegatizio e degli operai delle industrie, che si danno l’aria di essere loro a portare avanti il mondo, che disprezzano il lavoro manuale, il lavoro del contadino, il lavoro di chi crea con le proprie mani, il lavoro delle donne casalinghe, ritenendosi loro soli produttivi, nel senso di “guadagnare e portar soldi” a casa, arrogandosi con ciò il diritto a comandare.
Per mia madre il lavoro principale, il più utile e il più nobile, era quello del contadino e del pastore in quanto produttori degli alimenti necessari alla sopravvivenza dell’umanità. Nel lavoro del contadino e del pastore non erano escluse le attività della mente e della fantasia, delle scienze naturali e dell’arte. Tutte le altre attività, che possono definirsi burocratico-cartacee, di natura astratta, erano da lei considerate pari a s’arti de su molenti chi molit, al lavoro dell’asino che gira la mola.

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