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La siccità
 
Sono usciti dalla chiesa in processione: avanti gli anziani della Confraternita, con la lunga veste bianca dal colletto rosso.
Avanzano solenni con incedere rituale: il cero come un bastone nel pugno e il Cristo di olivastro nero, alto, con la scritta sbilenca INRI.
I piedi scuri scalzi, il lembo dei calzoni di fustagno, il passo pesante e cupo - usi a calcare la terra arida intorno alla vite nuova appena sepolta - li fa parere strani e antichi, maschere di carnevale in una quaresima di agonia, sopravvissuti in una terra grigia, incendiata, incenerita da un sole feroce, con crepe profonde che attendono torrenti per essere colmate.
La chiesa di arenaria giallastra senza intonaco domina dal terrapieno roccioso le case affastellate, che degradano verso la campagna senza vegetazione.
Ieri, come sempre, i vecchi erano lì, seduti per terra, la schiena appoggiata ai sassi del muro, col bastone fra mani e ginocchia, immobili a fissare il cielo sfocato, con la polvere fine come cenere al posto delle nuvole.  Neppure vedevano passare la loro gente, assorti a ruminare l'assurdo di cascate fragorose e di torrenti scaturiti dove terra e cielo sono vicini e si amano.
Appena più giù, nell'aia bionda di stoppie triturate dal molto trapestio, frotte di bambini laceri vociavano nei loro giochi violenti, rotolando avvinghiati.
Le donne, vestite in nero, attendevano il turno al pozzo:  visi dolorosi nascosti nello scialle avvolto intorno al capo.  Ritte in piedi, con le braccia conserte, dinanzi al barattolo rosso legato alla fune di giunchi.  I loro cuccioli razzolavano accanto, raccogliendo nella polvere tesori di pietruzze colorate.
Nella piazzetta del Comune i braccianti sedevano su alcuni sassi levigati dal tempo: radici affioranti di olivastro, pensieri senza parole, sassi senza germoglio.  Sudore e sangue essi hanno dato per dissetare questa terra avida.  Non è bastato.  Tutto il pianto di un Dio ci vuole, adesso; tutto il suo sangue, se basta, ci vuole, adesso, per bagnare la terra divenuta roccia, perché la roccia ridiventi terra.
Escono dalla chiesa recando i segni della sacralità, affinché il prodigio atteso da millenni si compia, la terra sia terra e l'uomo sia uomo.
Hanno con loro un Dio derelitto e povero, grigio come la terra e l'anima loro, come il cielo che invocano: un Dio con i denti scoperti nella bocca spalancata in un urlo straziante, un Dio con i polsi, con i piedi lacerati strappati schiacciati da chiodi grossi come pali.
Hanno voluto tenerlo loro, i comunisti.  Un compagno della Cooperativa lo porta sostenendolo sulla spalla con una larga bretella di cuoio, lo leva alto sopra la gente, più alto che può, più vicino che può al Grande Cuore del Padre, che si commuova, che si spacchi, che pianga sul Figlio e sulla terra che muore di sete.
Il prete, con l'otensorio fra le mani congiunte, avanza sotto il baldacchino frangiato di ori ossidati sostenuto agli angoli da quattro giovani.
Dietro c'è tutto il paese: il padrone e i servi, gli uomini e le donne, i vecchi e i bambini, confusi gli uni con gli altri; umanità divenuta branco, per fame.
Attraversano le strade deserte, in direzione della vallata. Si ode ancora il battere cupo cadenzato del loro incedere lento; si distinguono ancora gli uomini con il berretto in mano e la faccia a terra e le donne con lo scialle nero, la veste nera, il cuore nero: perché nero è il lutto, nera la fame, nera la paura.
I loro piedi sono giunti ora a premere le prime zolle che non si frangono sotto il loro passo.  Gemono una preghiera scaturita dalle viscere loro come un parto doloroso:
"Teni piedadi de nosus,
teni piedadi..."
Il coro sommesso sale, echeggia per tutta la vallata; pare che venga dalla terra stessa, dai suoi sassi, dai suoi crepacci aperti come ferite senza sangue.
Hanno lasciato il villaggio solo.  L'hanno lasciato ai cani che vagano stupiti di tanto deserto.
La Grande Madre muore.
Essi sanno, comprendono il mistero di un Dio che ha fatto l'Uomo impastando un pugno di terra con le lacrime, con tutte le lacrime che ora non può piangere più dall'alto della croce da dove urla da secoli l'orrore di essersi fatto mortale e povero.
La terra, come l'uomo, ha bisogno di lacrime per vivere.  Essi amano se stessi nella terra.  Se la terra chiama, bisogna accorrere.  Se è colma di messi e di allegria, essi danzano e la vezzeggiano.  Quando in autunno è in amore, essi entrano in lei e la fecondano.  Se soffre, le stanno intorno, commiserandola, bagnandole di caldo pianto il freddo corpo infermo.
"Teni piedadi de nosus,
teni piedadi..."
Non labbra umane, ma labbra di terra arida implorano nell'ululo del lamento.
La Grande Madre muore.
E' un morire ch’essi sentono materialmente nelle loro stesse carni, che strappa le loro viscere di figli atterriti.  Non vogliono morire.  Nessuna creatura al mondo vuole morire:
"Teni piedadi de nosus,
teni piedadi..."
Lontani, paiono un lungo serpente bruno che strisci sulle zolle impietrite. 
Un lungo assurdo fiume sembrano; un lungo fiume senz’acqua, gonfio di aridi sassi e di arene...
"Teni piedadi de nosus,
teni piedadi..."
L'invocazione si fa sempre più forte, più acre, più urlata, fino a diventare imprecazione: il Cielo deve sentire, il Cielo deve rispondere.
Più alta levano ora, agitandola in molti, la tragica maschera del loro Dio, perché urli anch’egli, perché urli come essi urlano, perché urli e imprechi anch’egli, appeso in cima ad una croce di olivastro nero.
 

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