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Il raccoglitore di olive

«Che mestiere faccio?!» Mi risponde ironico, con un sorriso fino fra le labbra.
Dondola la schiena, sdraiato sulla stuoia stesa in cortile all’ombra del muro; allunga una mano, s’accarezza le dita dei piedi.
«Vede? Guardi le dita come si articolano… le arselle si pescano con i piedi».
«Allora, fa il pescatore?» Dico io.
«E che? L’uomo deve per forza fare un mestiere?» Risponde lui pronto.
Riprende a dondolarsi. «Gesù Cristo mica aveva un mestiere! E don Sebastiano, che mestiere ha? Dice: Io sono coltivatore diretto! Ma non sa neppure da quale parte si tiene la zappa… Io, se vuole saperlo, non sono della razza dei padroni. E non sono neppure della razza dei servi. sono un
lavoratore libero e indipendente».
A mezzo metro da lui c’è per terra un fiasco. Allunga una mano, lo prende, lo stura coi denti, me l’offre:
«Lo gradisce un goccio? Tenga!»
Rileva la mia incertezza.
«Non sarà mica schifiltoso, lei?» Dice, strofinando la bocca del fiasco col palmo della mano.
Ne accetto un sorso. Ciò gli permette di bere a lungo avendo osservato i doveri dell’ospitalità. Schiocca la lingua sul palato; si riadagia beato sulla stuoia reggendosi sopra un gomito. Mi guarda con un sorriso più franco:
«Chissà chi l’ha mandato da me… e che cosa le avranno raccontato sul mio conto!»
Vittorio abita nella «Corea». E’ un raccoglitore di olive sui quarant’anni.
Per l’anagrafe è scapolo, anche se ha una donna e parecchi figli.
Nel cortile di casa sua c’è un via vai di gente estranea. Egli non se ne cura affatto. L’unica sua preoccupazione, adesso, è quella di scacciare, con lenti gesti della mano, un nugolo di mosche che si è fatto eccessivamente impertinente.
«Ho capito, chi è lei!» Dice con aria furba, strizzando un occhio. «Lei è un giornalista e vuol sapere i fatti miei».
Alcune donne, dall’uscio di casa, danno una voce a una turba di monelli che lanciano canne appuntite e sassi. Vittorio volge la faccia infastidito: «Andate a rompervi l’osso del collo da qualche altra parte!», esclama, ma senza convinzione. Infatti i bambini continuano nel loro gioco.
«Vuole che le racconti la mia storia?… C’è da piangere e da ridere». Dice, e i suoi occhi paiono rattristarsi Allunga una mano al fiasco; me lo porge.
«No? Ma sa che lei è proprio delicato... bene, bevo io, alla sua salute!»
S’asciuga le labbra col dorso della mano. S’accarezza la fronte scura rugosa con le dita, come a voler raccogliere pensieri riposti e lontani.
L’espressione del suo viso è mutata: lo sguardo gli si è fatto intenso, mentre fissa un punto ai suoi piedi senza guardare.
«Mio padre buonanima, quando ero ancora bambino, mi ripeteva sempre: Ricordati che il mondo è pieno di farabutti. Se vuoi mangiare, non aspettarti mai pane dagli altri, nemmeno da quelli che ne hanno tanto da gettarlo ai cani. E specialmente non fidarti dei preti e di quelli che portano divisa, perché al posto del cuore hanno i gradi… Mio padre, reduce decorato della Brigata Sassari, l’avevano tenuto un anno in galera, con altri trecento, perché era uscito a gridare in piazza il veleno che ci aveva in corpo. Ero ancora un ragazzo quando è morto... gli è scoppiata una bomba nelle mani, pescando… Io ho fatto tutti i mestieri: chi mi voleva mi prendeva; chi non mi voleva mi lasciava. Ho pascolato pecore e maiali; ho zappato; ho remato; ho fatto scope di palma; ho lanciato bombe nel golfo; sono andato a raccogliere arselle e ricci di mare e lumache…».
«Come? Se sono andato a scuola?… No. Non mi piaceva. Ci sono andato poche volte. Il maestro mi vedeva di malocchio. Appena entravo, una dose di bacchetta, con una scusa o con un’altra. Mi piaceva leggere, questo sì; ma quando c’erano molte figure. Adesso non me ne fa voglia alcuna. Quando ho voglia di leggere mi leggo il fiasco!»
Ride divertito dell’uscita spiritosa e per associazione d’idee allunga ancora la mano. Fa soltanto il cenno di passarmi il fiasco, non aspetta neppure il mio diniego; beve, socchiudendo gli occhi per sentirne meglio il gusto.
«Quand’ero giovane», riprende a dire, «c’era il dottor Nicola, capo della milizia fascista, che mi rompeva le scatole ogni santo sabato sera per la premilitare. Un bel giorno che mi si sono ben bene rivoltate, gli ho detto in piazza, in faccia alla gente, dove doveva andare… lui, Mussolini, il re e tutti gli altri di quella razza; dopo gli ho dato una buona dose di colpi e l’ho lasciato in terra come morto. Mi avevano tenuto in caserma per molti giorni; poi mi avevano rilasciato. Avevano sparso la voce in giro che ero pazzo…».
Un bambino di tre quattro anni, ricoperto di una sola camicina che gli arrivava all’ombelico, si è intanto avvicinato alla stuoia quatto quatto, si è accovacciato per fare un suo bisogno se ne sta poi con il visetto chino tra le ginocchia a guardarsi sotto, frugando con uno stecco.
«Non potevi andartene un po’ più lontano, a crepare!», Lo redarguisce Vittorio. Il bambino si allontana frignando. Un cane, che stava tutta l’ora accucciato immobile in un angolo ombroso del cortile, ritorna al suo cantuccio, si riappisola.
«Da quella volta», riprende, dopo l’interruzione, «nessuno mi ha più dato lavoro; neanche dopo che Mussolini è stato appeso al gancio della macelleria di quella città… come si chiama… sì, di Milano. Ma io, la vita, ho imparato a prenderla come viene, senza farmi sangue amaro, a differenza di molti. Troppo tardi, l’ho capito! Perciò ho avuto un mare di guai. Eh, se nascessi di nuovo!».
Si lascia portare dall’estro: «Ognuno è ciò che è. Non le pare? Io sono io e lei è lei. Qui c’è terra e lì c’è acqua. Ogni cosa al posto suo. Lei, per esempio, è uno di quelli che scrivono sui giornali. Io l’ho capito subito, perché ho visto che faceva fotografie ai poveri e alle case più scalcinate del paese. Per chi lo fa? Per nessuno, per lei stesso. Ognuno per sé. Certo, il mondo è fatto male, così… Ma chi lo cambia? se anche gli uomini sono tutti fatti male? Un modo ci sarebbe, per cambiare il mondo: portare tutte le teste alla fonderia di Sangavino, fonderle e di farle nuove. O così o niente. Perciò siamo quello che siamo, senza farci cattivo sangue: io sono io e lei è lei.».
Il suo filosofare è stato abbreviato da una ragazzina scarmigliata, venuta a chiedergli quattrini. Egli se la leva di torno con dieci lire e una manata affettuosa sul sedere.
«Lei, allora, vuol sapere se io sono un ladro di professione?… No. Io sono un raccoglitore di olive. Lavoro senza salario, perché il padrone non mi comanda e non mi paga. Io lavoro ugualmente per suo conto: vado a raccogliere olive nel suo terreno. Ciò che raccolgo lo tengo io; ciò che rimane nell’albero è la parte sua, del padrone. Insomma, una specie di mezzadria…».
Sorride con malizia. Io devo aver fatto una faccia scandalizzata, perché ribadisce: «Io lavoro a raccogliere olive, no? E’ regolare?».
Sbotta in una risata fanciullesca.
«Non creda, sa, che sia un lavoro che renda molto. Si campa. Per fortuna, quando finiscono le olive vengono i carciofi.».
Mi scruta, divenuto improvvisamente diffidente, come a voler leggere il mio pensiero. Ma subito si rasserena: «Queste cose gliele dico perché mi è simpatico. Comunque, io non ho detto nulla! Ma adesso, beva un altro sorso, ché il fiasco è quasi vuoto.».
Stavolta insiste finché non ho bevuto. Lo riprende e lo scola. «Finito», dice pesandolo.
«Come? se mi è mai accaduto qualche spiacevole incidente? Mai! Il mio, vede, è un lavoro serio e delicato. Mica possono farlo tutti. Molti ci hanno provato, ma poi hanno dovuto cambiare mestiere. Ci vogliono biscotti quadrati, ci vogliono!». Mi guarda, altero, e allarga il petto, compiaciuto.
«Se vuole, le spiego come si lavora… Gli attrezzi non sono molti: un sacco, un lenzuolo e una canna grossa. Semplicissimo: si stende il lenzuolo sotto l’albero giusto; si picchi con la canna sui rami; si raccolgono i quattro capi del lenzuolo; si versano le olive nel sacco… Però ci vogliono orecchie e occhi buoni e bisogna conoscere la campagna centimetro per centimetro.».
Mi osserva, studiandomi attentamente da capo a piedi. «Lei non è adatto», conclude dopo l’esame, «altrimenti, una notte, l’avrei portato con me, per farle vedere.».
Lo ringrazio della cortesia. Uscendo sulla strada, mi raggiunge la sua voce: «Mi faccia avere il suo indirizzo; le vorrei mandare qualche oliva a casa. Sono molto contento di aver parlato con lei!».

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