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Il Camposanto Nuovo

Alle due del pomeriggio le campane suonarono a morto.  Il sindaco don Antonio, tornato dalla campagna più tardi del solito, s'era appena seduto a pranzare.  Nell'udire i rintocchi restò con il cucchiaio davanti alla bocca aperta, poi schizzò in piedi strappandosi dal collo il tovagliolo, lanciandolo in mezzo alla stanza.
"Ci siamo, finalmente!".  Esclamò concitato, scappando in strada in maniche di camicia, senza neanche forbirsi i baffi impiastricciati di sugo.
Donna Concetta, la sindachessa, era stata tre anni in collegio dalle suore Giuseppine e non approvava certi modi di fare del marito, piuttosto volgari.
Lo compativa, lui che fra buoi e pecore non poteva certo sapere dove stessero di casa le regole del galateo; ma che almeno non desse cattivi esempi ai suoi figli che lei voleva crescere signori, di quelli che la gente saluta rispettosamente levandosi il capello.  Ma al sentire i rintocchi (li contò ad uno ad uno: il morto era un maschio) non riuscì a contenersi neppure lei.  "Bambini, finite di mangiare da bravi!  E tu, Mariolino, stai composto!".  Si levò rumorosamente in piedi, gridando verso la cucina: "Marianna!  Muoviti a venire qui!".
Marianna apparve da dietro la tenda, strascicando le ciabatte.
"Stai attenta ai signorini: io devo uscire subito!".  Salì per la scala di legno fino alla camera da letto.  Si cambiò rapidamente l'abito.  Ne indossò uno scuro, quello che le parve più adatto alla circostanza.  Sul capo mise il velo di pizzo color cenere della Congregazione.
Passando in camera da pranzo, con un'occhiata severa, fulminò Ginetto, il piccolo, che cercava con le mani i ceci nella minestra, e diede l'ultima raccomandazione:
"Finito di pranzare, Marianna, lava i signorini e mettili a dormire per due ore".
Uscì.  Il sole forte le fece socchiudere gli occhi.  Girò a passo svelto l'angolo della strada e di diresse, tenendosi all'ombra delle case di destra, verso la chiesa.
La porta della canonica era socchiusa.  Entrò.  Nella penombra, sedute accanto a don Emilio, tre Dame di Carità che l'avevano preceduta già discorrevano fitto.
"Sia lodato Gesù Cristo!"  Salutò donna Concetta.  "E allora, chi è il morto?"  Chiese facendosi avanti.
Don Emilio sollevò gli occhi al soffitto e aprì le braccia: "Peppe Arrebellu!..."  Sussurrò con rassegnazione.
Donna Concetta si segnò, sbarrando gli occhi.
"Libera nos Domine!"  Esclamò; e si sedette di schianto sulla sedia che le altre avevano aggiunto al cerchio.

Nel comune, Don Antonio passeggiava fra le sedie in disordine, nella saletta delle riunioni.
"Proprio quell'eretico doveva capitarci per inaugurare il camposanto nuovo!  Il rosso più rosso di tutto il paese, doveva capitarci!"
Gli assessori, mandati a chiamare d'urgenza con la guardia campestre, cominciarono ad arrivare.
"Beh, meglio Beppe Arrebellu che uno dei nostri... E poi, sono tre mesi ormai che il camposanto è pronto.  Non possiamo aspettare altri tre mesi..."
 Disse il maestro di scuola, assessore vicesindaco, e continuò a parlare finché non convinse tutti che, in definitiva, era preferibile un morto rosso oggi a un timorato di Dio morto domani.
"D'accordo, per domattina.  Ma che non manchi nessuno!"  Ammonì il sindaco. 
"E tu" - disse rivolto al maestro - "ti occuperai delle scolaresche...  Tu e tu" - proseguì rivolgendosi agli altri due assessori - "avvertirete con un bando tutta la popolazione... e tu" - ordinò con tono di voce mutato, più imperioso e più duro, puntando gli occhi in faccia alla guardia rimasta in piedi accanto all'uscio - "tu, corri a riferire al parroco don Emilio che la cerimonia è fissata per domani mattina in pompa magna.  Poi passa dall'appuntato e digli di venire qui subito...  Esigo e non transigo!  Tra dieci minuti ti voglio di ritorno: marsch!"
La guardia, toccandosi la visiera del berretto, si avviò con tutta la velocità che gli permettevano i suoi novanta chili e la gamba di legno che sostituiva quella sua, donata alla patria tra i reticolati del Carso.
"La riunione è aggiornata a stasera dopo cena al bar di Crisantemu".  Concluse don Antonio, congedando i tre assessori.

Nella bettola, intanto Gasparre, Aristarco e Raimondo, i tre consiglieri dell'opposizione discutevano animatamente attorno a un litro di vino nero.
"Io propongo di astenerci, in segno di protesta!"
"Ma che protesta!  Se il morto è nostro!"
"Come no?  Il morto è nostro e noi staremo in prima fila e senza preti!... 
Il discorso dell'inaugurazione lo farà il nostro onorevole".
"Ben detto!  Se il prete e il sindaco vogliono farsi belli con un morto nostro, si sbagliano di grosso... che stiano loro dietro il nostro corteo..."
"Bisogna spedire subito il telegramma alla federazione.  Il discorso dobbiamo farlo noi, se no quelli sono anche capaci di raccontare che Arrebellu era uno dei loro..."
Gasparre strizzava gli occhi e schioccava la lingua sul palato dopo ogni bicchiere.  "Certo, Peppe Arrebellu gli ha dato una bella fregatura, morendo!"  Disse come parlando tra sé e sé.  Gli altri assentirono con brevi cenni del capo.

Alle dieci di notte, nel loro letto a due piazze, don Antonio e donna Concetta non riuscivano ancora a prendere sonno.
Nel tardo pomeriggio, il parroco don Emilio era venuto a informarli che le donne di Peppe Arrebellu avevano ceduto il morto alle autorità in cambio di una bara di castagno lucidato, di un carro funebre preso in affitto in città e di un sussidio "una tantum" dell'ECA.  Perciò i rossi, con tutta legalità, erano stati estromessi dalla direzione dell'iniziativa: padronissimi di seguire la cerimonia, di partecipare al corteo, ma restandosene in coda.
Il camposanto nuovo era l'orgoglio di don Antonio.  Aveva chiamato un geometra di fuori per i rilievi e per il progetto.  L'espansione edilizia, non avendo altro sbocco se non a valle, aveva raggiunto e superato il vecchio camposanto.  Il nuovo sarebbe sorto a mezzo chilometro dall'abitato, in cima al colle Pedraxus, in un chiuso espropriato a un pastore.  Dopo un anno, il progetto era stato approvato e il suo onorevole, con qualche viaggio a Roma, aveva ottenuto il finanziamento.
Durante i lavori di costruzione del muro di cinta e della cappella mortuaria, i pastori, rientrando dal pascolo con le pecore, e i contadini, con la zappa a spalla, si fermavano a curiosare.  Allora don Antonio faceva notare ciò che significa una buona amministrazione comunale: "Guardate!  Non è una meraviglia di camposanto?  La cappella la faremo tutta di marmo.  Beato il primo che verrà a riposarvi le ossa!  Ecco, tutto merito nostro e dell'onorevole nostro... non lo dimenticate!".
Contadini e pastori se ne stavano a guardare a bocca aperta.  "Un grande onore davvero per il nostro paese, un camposanto bello come questo..."  Pensavano.
Quando l'impresa levò le impalcature e caricò operai e attrezzi sul camion, il consiglio comunale di riunì immediatamente.  Si deliberò di inaugurarlo con il primo che fosse morto e si fecero anche i nomi dei probabili.  Ne contarono almeno cinque, che, a parer loro, non avrebbero visto l'anno nuovo: Anselmo il sacrista, che girava per la chiesa tastando muri e confessionali con le mani; Gesuimino, pensionato della guerra contro Menelik; Antioco il matto, che viveva di elemosine e di erbe in una baracca di paglia fuori paese, da almeno un secolo; la signora Rosina, nonna del maestro di scuola, paralitica e malata di cuore, alla quale il parroco aveva portato l'Estrema Unzione un paio di volte; e infine il vecchio canonico don Aristodemo, che usciva soltanto col sole primaverile, portato in carrozzella dalla nipote zitella.
La morte di Peppe Arrebellu non era nelle previsioni; don Antonio - voltandosi e rivoltandosi nel letto - pensava che quel birbone era stato capace di morire improvvisamente, nel fiore degli anni, proprio per fargli un dispetto, per metterlo in imbarazzo davanti all'elettorato.  Ma ormai era andata così... Peppe Arrebellu, eretico o no, sarebbe entrato in chiesa per la funzione solenne, sarebbe stato accompagnato da tutte le sacrosante autorità civili e religiose e avrebbe avuto in camposanto il discorso suo di sindaco e quello dell'onorevole democratico.
Donna Concetta, a occhi spalancati, rifaceva memoria dei particolari.
"Hai telegrafato l'ora esatta della cerimonia?"  Chiese senza voltarsi, al marito che sentiva sveglio.
"Ma si... per chi mi hai preso?  Alle nove in punto l'onorevole sarà qui".
"Seguirà il corteo a piedi o in macchina?"
"Questo non lo so...  vedremo quando sarà il momento".
"Forse è meglio in macchina... Tu starai in macchina con lui, no?"
"Beh, come primo cittadino, certo..."
"Se ci sarà posto, non dimenticarti i bambini..."
Tacquero per un poco, distesi supini, fissando il soffitto appena rischiarato dalla luce della strada che filtrava attraverso gli scuri della finestra.
"Te lo sei ben preparato il discorso?"
"E' un anno che ce l'ho pronto...  piuttosto: l'abito scuro è pronto?"
"Come?  non hai visto che sta lì sulla sedia, ai piedi del letto?...  E i consiglieri, sono stati convocati tutti?"
"Avvertiti...  E il vescovo?  Verrà?  Cosa ti ha detto don Emilio?"
"Che se non avrà impegni più grossi, non mancherà".
"Quindi le macchine saranno due..."
"No, tre; dimentichi quella del veterinario..."
"Giusto...  Speriamo che i ragazzi di scuola non se ne vengano scalzi e mal messi!  Gliel’ho detto chiaro al maestro: chi non porta scarpe, per domani, rimandalo a casa!"
"Speriamo bene!..."
Tacquero di nuovo.
Il levante aveva soffiato tutto il giorno; la stanza era calda come un forno.
Don Antonio si sfilò i mutandoni che sentiva appiccicati alle natiche, umidi di sudore.  Si spostò per cercare un cantuccio di letto fresco; trovatolo ci si distese beato.
Donna Concetta, non sentendolo più vicino, allungò una mano, ritirandola subito come se avesse toccato il fuoco.
"In una notte come questa, tu vai a pensare..."  Esclamò indignata.
"Ma che cosa ti passa per la testa?" - mugugnò lui - "le ho levate per il caldo..."  E, distendendosi bocconi, chiuse gli occhi per prendere sonno.

Il corteo funebre mosse dal sagrato alle dieci.
Peppe Arrebellu, dopo la solenne funzione in chiesa, aveva aspettato per due ore, dentro la bara di castagno lucido, l'arrivo del vescovo e dell'onorevole.
I ragazzi di scuola, stanchi di stare al sole, s'erano seduti per terra ammassati in uno spicchio d'ombra, a giocare a figurine.  Alcuni, cogliendo pretesto dal capo squadra che batteva a tradimento l'asta del gagliardetto in testa ai vicini, avevano iniziato le ostilità a pedate e a gomitate.  Il maestro aveva avuto un bel da fare per riportare all'ordine quegli svergognati che non rispettavano neppure i morti.
Finalmente, una appresso all'altra, erano giunte le due macchine. L'onorevole aveva condotto con sé la sua signora, un bel pezzo di donna carica di collane e di bracciali, coi capelli biondi come paglia di grano, in bilico su un paio di scarpine dai tacchi così alti da non capirsi come potesse fare a camminarci.  Gli uomini le si erano fatti tutti intorno, per vederla meglio e avevano allargato le narici per aspirare quanto più potevano di quel suo profumo inebriante ed esotico che ricordava loro certe memorabili serate di libera uscita della vita militare.
Il vescovo, scendendo dalla vettura, aveva frettolosamente benedetto il popolo inginocchiato ed era entrato un momento in chiesa, passando sul tappeto di velluto rosso steso dalle Dame di Carità.
Alle dieci, dunque, il corteo funebre mosse dal sagrato.  Davanti, la Confraternita della Buona Morte, con il lungo crocifisso nero; i bambini dell'asilo, preceduti da due angioletti bruni con ali celesti e tunica rosa - dopo lunga discussione erano stati scelti il figlio del sindaco e quello dell'appuntato, risultati i più bellini - e i ragazzi di scuola, col maestro in mezzo a menar colpi di bacchetta a destra e a manca.
Il carro mortuario - una vecchia millecento furgoncino adattata - procedeva ronfando con due enormi corone inchiodate alle sponde: una, quella di destra, portava una scritta dorata: l'AMMINISTRAZIONE COMUNALE; l'altra, a sinistra, tutta rossa di garofani, diceva: I COMPAGNI ALLA MEMORIA.
Subito dopo la banda musicale veniva il sindaco con la sciarpa tricolore, tra l'onorevole e il vescovo; poi il parroco, le Dame di Carità, i parenti e a distanza quasi tutto il paese.
I rossi, una ventina, un poco intimiditi dalla presenza del vescovo e mal sostenuti dal loro onorevole, che si era fatto sostituire da un funzionario di partito di poco conto, chiudevano il corteo tenendo quasi nascosta la bandiera rossa ancora avvolta all'asta; ripromettendosi però in cuor loro di levarla in alto cantando l'internazionale, al ritorno, per rifarsi dei requiem.
Il levante aveva ripreso a mandare folate calde.  La stradetta polverosa che portava in cima al colle si andava facendo sempre più ripida.  La vecchia millecento starnutì due o tre volte e finì per fermarsi.  Don Antonio, con prontezza di spirito, ordinò ad alcuni giovani di spingere.
Mancavano sì e no altri cento metri all'ingresso del camposanto nuovo, il cui cancello spalancato era apparso all'ultima svolta, quand'ecco si vide uscirne di corsa Nicodemo, il becchino.  Agitava le braccia e gridava parole incomprensibili, come se fosse stato morso dalla tarantola.
Il corteo, allibito, si fermò.  La banda smise di suonare.  Si udirono allora alcune parole del discorso concitato di Nicodemo che continuava a venir giù balzelloni per il viottolo: "E' tutta roccia, percristo!...  Non fa!...  Neanche con la dinamite...  Tutta roccia...  Ci vogliono le bombe, percristo!..."
La realtà fu chiara a tutti in un baleno: il camposanto nuovo era stato costruito su un banco di roccia appena ricoperta da qualche centimetro di terra.  Per scavare una sola fossa sarebbe occorso un quintale di dinamite.
Don Antonio era diventato prima bianco, poi verde, infine paonazzo. 
Dovettero sostenerlo gli assessori accorsi preoccupati.  Il vescovo e l'onorevole, superato il primo momento d'imbarazzo, si davano un contegno tossicchiando, ammiccando tra loro con mezzi sorrisi.
Ad un tratto, senza che nessuno avesse dato disposizioni, il corteo fece dietro front, riprendendo mestamente la via del ritorno verso il camposanto vecchio.
Fu così che i rossi si ritrovarono in prima fila, intonando l'internazionale senza che nessuno, neppure l'appuntato, trovasse il coraggio di zittirli.
 

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