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la terra incolta
Si sono riuniti in casa di Gaetano, a notte tarda, dopo cena.
Hanno chiuso gli scuri con fare circospetto, prima di sedere intorno al tavolo della cucina.
Parlano a voce bassa - le cose importanti bisogna dirle di nascosto. Fanno fatica ad articolare le parole, dopo tanta solitaria campagna, dove è stupore e sollievo la nenia di un canto - dopo tanto pensare inespresso, ritmato al muoversi della zappa, con tonfo sordo. Fanno fatica a parlare: ogni parola si accompagna ad un loro muovere consueto delle braccia, un immaginario mietere spighe o frangere zolle.
Siedono sugli scanni, alcuni. Altri si sono accosciati sul pavimento con le spalle appoggiate alla parete ancora calda del camino.
C’è Pistilloni, il presidente della cooperativa.
La coscienza della sua responsabilità mitiga e controlla impennate giovanili e focosità personali.
Al suo fianco siede zio Antoni, l’anarchico, che ha occhi troppo neri e vivi nel biancore dei suoi settant’anni. Su di lui appuntano interrogativi gli sguardi, dopo ogni frase detta o udita, per avere definitiva sentenza.
C’è Franciscu, magro e triste come una quaresima, accoccolato in un canto, col mento sulle ginocchia che appaiono secche e scure dai pantaloni sdruciti...Ogni domenica va in chiesa, per farsi prestare i libri dal prete, per raccontare poi ai compagni, in piazza e nelle bettola, come anche Gesù stava coi poveri e quale fu la colpa dei ricchi, se romani e giudei lo misero in croce... Per il suo parlare vangelo, per la sua lunga magra figura, lo chiamano Gesù Cristu Aresti, questo uomo-bracciante che ogni uomo-padrone può portare come e quando vuole nel proprio campo.
Quest’uomo non possiede nulla, neppure una famiglia...La sera, rientrando con la zappa e la bisaccia a spalla, regala e more, i fichi, i cardi, le lumache ai bambini di strada, coi quali si ferma a giocare.
E c’è Cruccueu, piccolo e vivace, mobile come un passero, con il moncherino - una mano e mezzo braccio perduti da ragazzo: un urlo nello strepito di una vecchia trebbiatrice - che gli agita veloce, accompagnandolo allo stridulo parlare.
Sono tanti, stanotte, a tarda ora. Ci stanno a malapena, nella cucina della casa di Gaetano, l’ultima del paese.
Hanno sentito che i braccianti si stanno muovendo a Sanluri, nella Zeppara, nel Sinis, a Serramanna... Hanno sentito che il governo ha detto che le terre non lavorate dai proprietari bisogna lasciarle lavorare ai braccianti...I padroni delle loro paludi si vedono una volta all’anno, quando vengono a riscuotere i fitti dai pastori. Le lasciano a pascolo, quelle terre vergini, quelle terre che loro, i braccianti, hanno sempre sognato piene di messi prodigiose.
Hanno anche sentito che i padroni sono più forti del governo; che mandano i carabinieri coi fucili a scacciare i braccianti: perciò è necessario fare tutto in silenzio e in fretta; perché si faccia in tempo a dissodare e a seminare; dopo; nessuno, neppure la “Forza”, potrà più fermare e toccare il frutto che germoglia.
Decidono di partire all’alba, con tutti gli attrezzi e con le braccia a disposizione: zappe e aratri, donne e bambini.
Hanno deciso, eppure stanno lì ancora, come attesa di qualcosa che li rassicuri, un segno che il cielo non ha dato, un moto che non viene ancora dalla loro coscienza incerta. Al culmine dell’angoscia, guardano verso zio Antoni. Allora il vecchio si leva in piedi, commosso, stendendo le mani aperte su tutti loro: “Andate in pace!,” sussurra.
Gesù Cristu Aresti si inginocchia segnandosi; china la testa fino a baciare la terra.

Sono partiti all’alba. Quasi cinquecento, tra piccoli e grandi...
Non hanno dormito. Nessuno ha dormito.
Sono rimasti a bere in compagnia, davanti alle braci dei camini, come alla vigilia di una festa grande.
Così sono arrivati al luogo di riunione prima del convenuto.
Lo scalpiccio degli scarponi e il tintinnio delle zappe sui ciottoli della piazza si odono fino ai vicoli bassi, fanno muovere più lesti i passi dei sopraggiungenti.
Hanno voluto che zio Antonio tenga il comizio per spiegare a tutti quel che si deve fare.
Dicono che zio Antonio ha girato il mondo e conosce tutti i mestieri che un uomo può fare con le mani. La sua miglior parte della vita, dicono che l’ha trascorsa chiuso nelle prigioni; proprio lui che sogna cortili e campi senza recinti.
Zio Antoni parla alla gente come un padre ai figli. Parla di “cara anarchia”, com’egli la chiama, pronunciando con dolcezza. Racconta la vita dei poveri paesi lontani; di poveri che sono sempre gli stessi, anche se parlano lingua diversa, anche se hanno diverso il colore della pelle. Egli parla dei poveri, delle donne e dei figli dei poveri. Parla della fame, della schiavitù, dell’ingiustizia. Ma non dice FAME SCHIAVITU’ INGIUSTIZIA. Egli che le ha patite e le conosce, sa anche che le parole sono difficili da capirsi, molto più difficili delle cose. Ed è delle cose che si parla. Delle cose degli uomini. Delle cose che gli uomini fanno e che non fanno, che devono e che non devono fare.
Quando zio Antoni chiude il suo parlare, non applaudono, né fanno commenti: il vecchio ha detto ciò che ciascuno sentiva dentro sé.

Sono partiti all’alba.
Gli uomini davanti, con le zappe e i badili a spalla.
I giovani subito dopo, con i cartelli e le bandiere.
Dietro, le donne e i ragazzi.
I ragazzi, anch’essi, con il volto aggrottato per sembrare decisi, con gli attrezzi più grandi di loro.
E Timoteo, il più piccolo, tenuto per mano dal maestro di scuola, che ha scelto la loro stessa strada.
Le donne camminano a passo lungo, col piede scalzo, senza guardarsi in viso, senza neppure capirsi: imprecano ed urlano anche, per vincere la paura, per atterrire il nemico ignoto. Profonda e angosciosa è la loro paura. Grande e disperato è il loro coraggio. Brandiscono lo scudo e la coscienza...Chi oserà offendere, colpire una madre se ha figli suoi vicini?
Sono arrivati alla palude in meno di mezz’ora. Zappe e vanghe danno rapidamente, quasi con rabbia, i primi colpi, scalzando le erbacce.
Intanto, per altre vie, sono arrivati i cavalli, i buoi, gli aratri.
I primi solchi scuri già aprono la terra, che mai aveva sentito nelle viscere sue il seme sprizzato dalle mani dell’uomo. Una terra vergine, inutile per tanto tempo, con tanti maschi a sognarla giorno e notte, ad aspettare per tanto tempo, con l’ossessione di entrare in lei.
Le paludi, una vallata di trenta ettari, risuonano le voci febbrili, di canti, di evviva. Quasi per un prodigio, in pochi istanti, scompaiono le canne, gli arbusti, le gramigne, i sassi. Appare una distesa bruna che il sole, affiorante all’orizzonte, tinge di riflessi rosa azzurri. Entrano allora i seminatori, con le bisacce colme di grano a tracolla; dietro, le fanciulle sotterrano con le mani i semi caduti fuori dal solco.
Le donne si sono sedute ai margini del campo, accanto ai cartelli e alle bandiere rosse confitti per terra; traggono dalle capaci tasche il pane per i ragazzi che hanno sempre fame per il loro troppo crescere e levano dalle bluse le gonfie mammelle per zittire il pianto lagnoso dei più piccoli.

Ma non tardano molto ad arrivare. Su tre camions, sono arrivati.
Saltano dalle sponde aperte con fragore, leggeri come acrobati da circo.
Si allineano al centro della palude, calpestando i solchi appena tracciati.
Attendono immobili rigidi, con le armi puntate.
Le donne, per prime, hanno dato il benvenuto, astiosamente: “Delinquenti!”
“Silenzio!” Ha gridato Pistilloni, accorrendo
“Silenzio!” Ha gridato agitando in alto le mani.
“Silenzio!” Ha ripetuto rivolgendosi ai quattro lati della palude.
“Silenzio! Nessuno si muova! Niente paura!” Ha gridato più forte, per tutti.
L’ufficiale che comanda i carabinieri si fa avanti: “Questa terra non è vostra”. Dice. “Non avete alcun diritto ad occuparla. Perciò andatevene o vi arresto tutti quanti siete!” Pronuncia le parole tranquillo, sicuro di sé, ai braccianti allineati giù nel cortile col berretto in mano.
Gesù Cristu Aresti si sposta in avanti di qualche passo, un po' timido: “C’è la legge nuova...la legge nuova dice che la terra appartiene a chi la lavora...” Mentre parla indica con le mani la sua gente, “noi la stiamo lavorando, quindi è nostra”.
L’ufficiale mette le mani ai fianchi e allarga le gambe: “La politica non mi interessa!” Storce la bocca con disprezzo. “Vi do cinque minuti di tempo per sgombrare!” Guarda l’orologio al polso: “Cinque minuti. Capite? Marsch!”
Le donne si sono levate in piedi come furie, ringhiando coi denti scoperti: “Andarcene noi?! Questo è il nostro pane!” Raccolgono pugni di terra mostrandola sulla palma aperta tesa. “Tu vattene! Tu... chi sei, tu?”
E’ impallidito l’ufficiale. Sembra impaurito. Ha fatto cenno ai soldati di farsi avanti. Ma prima ancora che uno solo abbia mosso piede, le donne si sono lanciate in avanti, rompendo l’ordinata fila con l’urto delle mani protese, chiuse, dure.
L’ufficiale è rimasto isolato, coi braccianti gesticolanti attorno che urlano per spiegargli le ragioni loro.
E’ a questo punto che interviene zio Antoni. Si è mosso arrancando fra le zolle e i solchi per portarsi al centro della mischia. Ha allontanato con un gesto brusco la nipote che voleva sorreggerlo.
“Siamo venuti qui per lavorare o per fare guerre, noi?” chiede a voce irata ed alta, volgendo attorno uno sguardo corrucciato.
“Siamo come cani, che ci mordiamo gli uni agli altri, noi? Tornate, donne, a dare il pane e il latte ai vostri figli. E voi, tornate a lavorare questa terra, che già per troppo tempo ha atteso. E voi, gente che al posto del cuore avete divisa e gradi, tornatevene alle vostre case, tornatevene in pace!”
Sono ridiventate donne e uomini.
Per un lungo attimo l’ufficiale resta allibito davanti al vecchio del bacolo fitto nella terra; poi ritorna ai suoi uomini, scattando come un indemoniato...

Sono scappati urlando, inciampando , cadendo, trascinando, piangendo, bestemmiando.
Nella palude sono rimasti davanti ai mitra soltanto i morti, i feriti e le bandiere rosse, come in un campo di battaglia.
E’ caduta zia Clara. E’ caduto zio Antoni. E’ caduto Gesù Cristu Aresti. E’ caduto Giorgio, che ha soltanto tredici anni.
Si sono fermati alle prime case del paese. Non parlano, guardandosi appena l’un l’altro, atterriti e umiliati. Non carezzano neppure il piangere dei piccoli accoccolati alle loro ginocchi, tremanti.
Si sono fermati. Pensano tutti la stessa cosa. Se la leggono l’un l’altro in un lampo d’occhi.
Si sono fermati. No, non si lasciano i morti per terra; non sono bestie...Neanche i feriti, si lasciano soli, a piangere rabbia e dolore. E neanche le bandiere, si lasciano per terra, seppure sono soltanto degli stracci rossi...
Ritornano. Tutti, ritornano. Subito, ritornano.
Hanno pensato tutti la stessa cosa. Una cosa che fa vincer la paura dei mitra che mordono le carni con denti feroci. Una cosa che niente più lascia vedere ad occhi umani, su questa terra niente se non i compagni morti.
Pauli, 1949
 

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