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Capitolo I - Dai Cartaginesi ai Baschi Blu

1 - Nel VI secolo a.C. Cartagine occupa le coste e le pianure dell'Isola utilizzandole come basi per il traffico commerciale, edificando porti e fortificazioni militari.
I Sardi che resistono all'invasore vengono ricacciati nell'interno montuoso. In quelle zone aspre e impervie, gli indigeni con le loro ispide greggi - l'unica possibile fonte di vita - sopravvivono richiudendosi sempre più in strutture socio-economiche rigidamente autarchiche, alla cui base sta l'uso comunitario della terra. Il resto degli isolani, invece, è costretto ad accettare le leggi e le usanze dell'invasore, occupando un ruolo subalterno nelle colonie che fioriscono lungo le coste.
Risale a quel periodo l'attuale frattura culturale dell'Isola. Da una parte i pastori delle montagne, i Barbaricini resistenti, dall'altra parte i colonizzati, i ras dei Campidani con le masse contadine.
Il conflitto di natura economica tra il contadino e il pastore si confonde spesso con il conflitto tra l'invasore e i Barbaricini resistenti. Il contadino e più in generale gli abitanti delle coste sostengono gli interessi del colonizzatore in cambio della sua benevolenza: un compromesso portato avanti dai ceti indigeni dominanti che barattano la conservazione dei loro privilegi garantendo la sottomissione del popolo al potere dello straniero.
Nel 217, durante lo scontro tra Cartagine e Roma per il dominio del Mediterraneo, Ansicora, ras del Campidano arborense, organizza un esercito impegnando le truppe romane in difesa di Annibale. In questa circostanza; per la prima volta, i Sardi vengono utilizzati in qualità di ascari.
Amsicora viene battuto dalle legioni romane in una sanguinosa battaglia a nord dell'attuale Oristano e muore in un modo che agli storici piace tanto: saputo l'esito della battaglia e avuta notizia della morte del figlio Josto - caduto pugnando valorosamente sopra un mucchio di cadaveri nemici - Amsicora non regge all'onta della disfatta e si trafigge con la propria spada.

«Non però la morte gloriosa di Amsicora assicurò ai Romani il possesso pacifico dell'Isola; perché il desiderio di libertà fu compresso, non spento: germogliando continue guerre e ribellioni, contro cui combatterono pertinacemente Metello e Tiberio Gracco, il quale tra le feste trionfali poté fare incidere nel tempio dell'Aurora la scritta 80.000 Sardi uccisi o presi» (F. Pais Serra - Relazione d'inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna - 1896 - pag. 19).

Della dominazione romana si hanno maggiori notizie. I Romani avevano la mania di voler tramandare ai posteri, anche nei minimi particolari, le loro gesta di ladroni, affidando il compito ad appositi scribae.
Apprendiamo così dallo scriba Tito Livio che dal primo sbarco delle legioni nell'Isola, nel 238 a.C., cominciano le spedizioni militari contro le popolazioni dell'interno, con le stragi, gli incendi, le cacce all'uomo, la cattura e la riduzione in schiavitù di migliaia di Barbaricini.
Durante tutto il periodo della dominazione romana, la resistenza popolare è ininterrotta nell'interno montuoso e frequenti sono le rivolte anche nelle pianure e lungo le coste colonizzate. Se gli indigeni delle coste avevano trovato, comunque, un modus vivendi con i Cartaginesi, che lasciavano una certa autonomia, l'integrazione coi Romani si presenta molto difficile. Colonizzatori integrali, eletti dagli dei a dominare il mondo, questi non lasciano alcun margine di autonomia ai popoli barbari: integrarsi significa semplicemente lasciarsi ridurre in schiavitù.

Il popolo sardo, «alle calamità della guerra, al saccheggio dovette aggiungere il disprezzo dei vincitori, che per ischerno appellarono i vinti: sardi venali e pessimi schiavi perché al servire spesso preferivano la morte. Dovette aggiungere anche la crudeltà e l'avarizia dei pretori, questori, consoli, proconsoli che lo governavano… E ai Sardi possono ben applicarsi le parole che un imperatore riferiva a tutti i barbari soggetti a Roma: - I barbari tutti arano e seminano per noi soli; le genti varie del mondo pascolano armenti per noi; per noi le razze dei cavalli si moltiplicano, e i nostri granai sono ripieni del frumento dei barbari. Possiedono bensì essi la terra, ma ogni bene che da essa frutta, noi possediamo -» (F. Pais Serra - Relazione d'inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in S. - 1896 - pagg. 19-21).

Ancora una volta, l'impervia catena di monti dell'interno offre scampo ai Sardi resistenti. Da lì muovono le rapide azioni di guerriglia, le bardane, scorrerie contro i presidi militari e i depositi di armi, viveri e vestiario, contro i centri agricoli e commerciali nelle pianure e nelle coste. Le bardane dirette contro uffici postali, case di possidenti o anche contro stazioni di carabinieri sono rimaste in uso fino ai primi anni di questo secolo. Nella borghesia compradora e in quella del Continente, le bardane suscitavano una grande impressione e violente reazioni, in quanto azioni di rapina concorrenti dal basso a quelle della accumulazione del capitale.

«Concepite e condotte come un'impresa guerresca, ricordante quelle che gli antichi Barbaricini avevano condotto contro i conquistatori e contro le popolazioni sottomesse, erano spedizioni di bande armate, composte talvolta di 50 o 100 uomini, provenienti da paesi anche molto distanti tra loro, i quali, dopo essersi nascostamente concentrati sul far della notte nelle vicinanze del villaggio, muovevano poi apertamente all'assalto dell'abitato, gridando e sparando per intimorire la popolazione, assediando perfino la caserma dei carabinieri, mentre il gruppo scelto attaccava la casa della vittima designata ad essere derubata del suo denaro. Raggiunto lo scopo (e chi si opponeva veniva ucciso senza pietà) la banda si scioglieva immediatamente ed ognuno tornava alla propria casa» (Aa. Vv. La società in Sardegna nei secoli - 1967 - pag. 245.).

Una delle più recenti e sensazionali bardane è quella di Tortolì, avvenuta nella notte tra il 13 e il 14 novembre del 1894, di cui parlerò più avanti. Una bardana folkloristica ha luogo ancora oggi a Sedilo, in occasione della festa campestre di Santu Antine: un nutrito drappello di spericolati cavalieri esegue una veloce sfrenata cavalcata giù per un costone impervio e scosceso, facendo largo uso di polvere da sparo.
Intorno al 180 a.C. la resistenza all'invasore esplode in una serie di sollevazioni popolari che vengono sanguinosamente represse. A Tito Manlio, nel comando delle legioni inviate per domare le rivolte, succede Tiberio Sempronio Gracco, al quale si attribuisce il vanto di avere ammazzato oltre 27.000 Sardi e di averne catturato e ridotto in schiavitù «tante migliaia da non potersi vendere tutti» sul mercato di Roma.
I metodi di dominio e di repressione dei Romani sono noti e fanno ancora testo. Ce li illustra lo scriba Strabone: incendiare i boschi; passare a fil di spada indiscriminatamente gli abitanti dei villaggi «pregiudicati»; razziare le greggi; istituire taglie; incentivare la delazione col denaro o con l'impunità per crimini commessi; diritto di saccheggio e di stupro alle truppe; uso di armi speciali, tra cui mastini addestrati nella caccia all'uomo. Per inciso: i discendenti di quei cani, integrati nella economia del pastore barbaricino, costituiscono una difesa contro i cani-lupo largamente usati dai «baschi blu» e dalla polizia nel Nuorese, configurano così una singolare nemesi storica.
Ogni arma, ogni mezzo vengono usati per assoggettare o per sterminare le comunità barbaricine che non si piegano, che continuano a resistere anche soltanto sopravvivendo, radicate alle pietre dei loro monti, isolate, chiuse da una cinta di fortificazioni in un assedio che dura secoli. Si tenta anche la immissione nell'Isola di gruppi etnici diversi, deportati da altre colonie, che dovranno fare i «pionieri» in terra straniera sterminando gli indigeni per strappare loro terra e averi e conquistarsi il diritto di vivere.
Numerose deportazioni di cristiani avvengono intorno al 174. «Il suo aspetto negativo di provincia penale le diede il privilegio di conoscere molto presto il cristianesimo», è stato scritto (Aa.Vv. - Breve storia della Sardegna - 1965 - pag. 10.). Un privilegio, come altri venuti dal mare, che i Sardi non hanno saputo apprezzare, preferendo mantenersi fedeli al culto proprio dei loro padri.
L'impero romano - l'immenso tempio del privilegio edificato e ornato col sacrificio e col sangue di milioni di schiavi - crolla sotto la spinta di giovani popoli che muovono alla ricerca di spazi vitali nelle fertili e temperate terre che si affacciano nel Mediterraneo.
Nel 455 la Sardegna viene occupata dai Vandali, e mai più l'Isola conobbe tempi migliori. I Vandali aboliscono i privilegi del clero, confiscano i beni delle chiese, tolgono le terre ai latifondisti e le distribuiscono alle popolazioni.

Circa ottanta anni dopo, nel 533, «una fortunata e rapida campagna militare, voluta dall'imperatore d'Oriente Giustiniano e condotta dal generale Belisario, riportò l'Africa e la Sardegna in seno alla romanità e liberò la Chiesa Cattolica dall'incubo dell'eresia. Ma, mentre da un lato il governo bizantino si diede di buon grado a ristabilire la legalità e l'ordine restituendo le terre ai legittimi proprietari e rimettendo le chiese e i monasteri in possesso dei loro beni, dall'altro impose ai sudditi un grave sistema fiscale, che l'avidità e la corruzione dei funzionari imperiali resero ancora più insopportabili» (Aa.Vv. - Breve storia della Ssrdegna - 1965 - pag. 10.).

Dopo i Bizantini, gli Ostrogoti e gli Arabi si arriva a un periodo di relativa e breve autonomia coi Giudicati. Quindi, dai Genovesi, dai Pisani e dagli Aragonesi la Sardegna passa sotto la dominazione spagnola, nel 1479.

«La Sardegna divenne non solo una provincia spagnuola, ma un possedimento di signori spagnuoli. Di 376 feudi in cui… era ripartita l'Isola, 188 appartenevano a nobili di Spagna; 32 erano diretto dominio del re, e i rimanenti 156 erano bensì intestati a famiglie residenti nell'Isola, ma per la maggior parte spagnuole di origine… Due secoli di questo feudalesimo spagnuolo distrussero ogni rigoglio di vita economica e civile… Spento il commercio… cacciati i Corsi ed espulsi gli Israeliti che coi loro capitali fecondavano l'agricoltura, ridotta a trovar benefica perfino l'usura, l'Isola, che già nutriva il popolo di Roma, si trovò in breve ridotta a difettare della semente per coltivare le terre! Col decadere del commercio e dell'agricoltura divennero deserte le città, abbandonati i castelli… Rimasta segregata dal consorzio nel mondo civile, non aveva nemmeno rapporti con l'Italia, quando questa, pur di mezzo al servaggio, rifioriva nel campo del pensiero e dell'intelligenza… nell'Isola spegnevasi con la civiltà anche l'uso della propria lingua… Così il popolo sardo dovette per due secoli soggiacere al dominio di un governo prodigo, fiscale e venale; senza credito, senza amministrazione, senza finanze, tanto che dovea ricevere dai Municipi fideiussione ai propri prestiti, finendo di ruinarli; un governo che neppure sapeva assicurare la pubblica sicurtà, e costringeva i cittadini stessi a provvedervi da sé creando quelle primitive associazioni di assicurazione che sono le compagnie barraccellari…» (F. Pais Serra - Relazione d'inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna – 1896 - pagg. 24-25.).

2 - Col trattato di Utrecht del 1713 che conclude la guerra di secessione spagnola, la Sardegna, nel complesso gioco di spartizioni territoriali per un equilibrio di potere tra famiglie reali, passa nelle mani di Carlo d'Austria. A conclusione di una nuova guerra tra Spagna e Austria, il trattato di Londra del 1718 aggiudica l'Isola a Vittorio Amedeo II, principe sabaudo, che perde la Sicilia. Ma soltanto nel 1720 ha inizio l'effettiva dominazione sabauda della Sardegna, e con la clausola, imposta dalla Spagna, che non vi sarebbero stati modificati gli ordinamenti e i privilegi feudali.
L'opposizione popolare al feudalesimo e al riformismo della borghesia piemontese si articola in forme diverse su due ben precisi fronti.
Nelle città di Cagliari e Sassari, nelle aree costiere e agricole, dove la borghesia compradora ha assunto il suo ruolo di lacchè, le masse popolari subiscono il dominio, chiudendosi nel fatalismo tipico dei peones. L'alcool, i rituali misteriosi e la scenografia pomposa di un cattolicesimo paganeggiante, i costumi variopinti e le sagre religiose sono droghe che danno alle masse una illusoria dignità di popolo. I lunghi periodi di letargo civile, che nascondono forme di resistenza passiva, sono rotti da improvvisi violenti e spesso sanguinosi tumulti, che esplodono senza una causa apparente o per cause che possono apparire futili ma che sempre finiscono per colpire i detentori del potere e del privilegio: amministratori, preti, gabellieri, possidenti, militari. Le masse contadine maturano lentamente la coscienza della propria forza, e modificandosi almeno in parte le vecchie strutture economiche si diffondono le idee socialiste. La punta avanzata che sostiene e trasmette le nuove idee è costituita dai minatori dell'Iglesiente e del Guspinese, i quali provengono dalla economia agricola e mantengono rapporti con il loro mondo, a cui vogliono tornare dopo l'esperienza operaia con una nuova dignità. Essi, i contadini-minatori, vivono in modo disumano lo sfruttamento e la violenza del primo capitalismo colonialista.
Su un altro fronte si battono gli abitanti delle zone interne, i Barbaricini allevatori di pecore. Essi conservano originali strutture economiche e sociali basate sull'uso comunitario dei pascoli. Hanno una propria cultura e propri ordinamenti giuridici e non vogliono sostituire la loro civiltà con quella imposta dai conquistatori. Le nuove idee socialiste trovano scarsissima eco nel loro mondo, che pure ha in sé le fondamenta per l'edificazione di una società comunista. In rapporto ai tempi, i Barbaricini costituiscono una funzionale e florida comunità pastorale, forte e fiera di una lunga storia e di una grande esperienza di lotta contro gli invasori. Da duemila anni cinti d'assedio, isolati, in perenne conflitto con i nemici ambientali e con i nemici venuti dal mare, non avrebbero potuto sopravvivere se non con una economia autarchica, con tutte le preclusioni, gli irrigidimenti e la staticità che ne derivava alla loro cultura. E' certo che i Barbaricini hanno sempre mantenuto il conquistatore in uno stato di tensione, di insicurezza, di paura. Nelle Barbagie, tutti i colonizzatori hanno trovato il maggiore ostacolo al loro disegno di assoggettamento dell'Isola, e ancora oggi costituiscono il focolaio di ogni possibile rivolta. Per questo, contro i pastori si è sempre applicata la repressione più accanita e feroce, la stessa in uso contro un popolo nemico in tempo di guerra.

3 - In lingua sarda Boginu ha il significato di boia. Quando si è mossi da un forte risentimento verso qualcuno, gli si lancia l'invettiva: «An ki ti currat su Boginu!» (Che ti possa perseguitare il Bogino!).
Bogino Gian Battista Lorenzo è ministro sabaudo per la Sardegna dal 1750 al 1773. Uomo di punta della nascente borghesia piemontese, statista liberale a casa sua, in colonia diventa un arrogante boia. In un testo universitario di storia sarda si sostiene che «le benemerenze» del Bogino «verso l'Isola sono innegabili», fra queste «basterà ricordare la migliore regolamentazione dell'amministrazione della giustizia» (Aa.Vv. - Breve storia della Sardegna - pag. 134.). E l'Enciclopedia Nuovissima comunista, attingendo a fonti borghesi, scrive: «Giureconsulto ed uomo politico del Regno di Sardegna; coprì alte cariche e compì opere benemerite».

«Su tutta la Sardegna e particolarmente in Barbagia si abbatté una furiosa ondata di violenza a danno dei contadini e dei pastori. Atroci campagne contro il brigantaggio vennero condotte nel 1735-37 dal viceré marchese di Rivarolo, nel 1747-51 dal viceré marchese di Guarnera, nel 1770 dal viceré marchese di Hayes, queste ultime e maggiori concertate tutte e guidate dal ministro Bogino.
In tutti i paesi le truppe regolari con le armi e con la violenza contennero i pastori, tennero a bada i briganti. Su tutti i paesi si eressero in permanenza le forche, i cadaveri dei giustiziati vennero strappati a pezzi, bruciati e le ceneri disperse al vento…
Sulla stessa linea della lotta contro il brigantaggio (briganti e oppositori politici del resto, per la Corte di Torino, erano sullo stesso piano) fu anche perseguita la repressione dei moti Logudoresi e Galluresi. Per tutto l'ultimo decennio e oltre, i seguaci di Gio Maria Angioy - costretto all'esilio - furono perseguitati: tutti i giacobini sardi, ammiratori della rivoluzione francese o semplicemente nemici del feudalesimo, popolani, contadini, pastori, preti riformatori furono braccati, arrestati, orrendamente torturati, trucidati nelle strade o nelle prigioni per opera di Carlo Felice e di Placido Benedetto suo fratello. I villaggi del Logudoro vennero assaliti dalle truppe regie, cannoneggiati, incendiati, e molti dei loro abitanti uccisi o arrestati in massa» (G. Gabitza - Sardegna: rivolta contro la colonizzazione - 1968 - pagg. 14-15).

In quell'oscuro periodo di dominazione sabauda, l'Isola si accende di speranze illuministiche, e si verifica un fatto nuovo e di rilievo nella sua storia: negli strati più avanzati della borghesia indigena, in particolare a Sassari e nella Gallura, si forma una attiva corrente giacobina che riconosce le aspirazioni e gli interessi delle masse contadine e insieme a queste conduce una intransigente politica antifeudale e anticlericale che sfocia nei moti Logudoresi.
Lo scontro delle masse popolari contro il privilegio e il parassitismo feudali avrebbe potuto - come avvenne altrove - favorire la borghesia piemontese, indebolendo il suo antagonista storico; ma avrebbe anche irrobustito e scaltrito nella lotta le masse popolari: un antagonista, queste, se scatenato, ben più temibile e irriducibile dell'altro ormai decrepito. Un conto sono le «guerre di successione», quei movimenti di assestamento tra ceti dominanti per la gestione del potere, che, pur cruente nello scontro tra i popoli armati e mandati al macello per sostenere gli interessi dei relativi monarchi, a livello di vertice mantengono un tono cortese e cavalleresco, e ovviamente lasciano le cose come prima. Un altro conto sono le «guerre servili», le rivolte degli schiavi contro i padroni, che vanno condotte senza esclusione di colpi, fino allo sterminio totale dei rivoltosi perché minacciano nelle fondamenta gli ordinamenti del sistema.
Il passaggio dal vecchio al nuovo ordinamento viene attuato con una serie di dosate riforme, realizzando un compromesso tra gli interessi della borghesia e i privilegi della nobiltà e del clero, gravando le masse popolari di nuovi e più insostenibili oneri.
La borghesia francese aveva fatto una esperienza pericolosa, utilizzando le masse popolari nella «sua» lotta per il potere; e il fatto che le forze popolari avrebbero potuto sfuggirle di mano e costituire una società di uomini liberi e uguali le dava brividi di terrore.
La borghesia piemontese perciò va cautamente. Finché può si annida nell'assolutismo monarchico, tramando in attesa di tempi propizi. Utilizza sì demagogicamente le masse popolari soffiando sul fuoco del malcontento e promettendo il benessere generale, ma si guarda bene dall'inserirle direttamente nello scontro. Anzi, nella misura in cui ha il potere per farlo, reprime ogni tentativo di rivolta contro il feudatario, perché il popolo sappia che deve rispettare il padrone in quanto tale, vecchio o nuovo che sia. Il padrone può essere dichiarato decaduto soltanto da un altro padrone.
I moti antifeudali, così come qualche decennio dopo i moti contro le riforme borghesi, vengono infatti repressi con uguale ferocia tanto dall'assolutismo quanto dal liberalismo dei Sabaudi.
A Sassari, tra il 1796 e il 1797, i capi del movimento antifeudale che non riescono a espatriare vengono massacrati dalla sbirraglia piemontese capitanata dal commissario Valentino. Ancora a Sassari, nel 1802, vengono arrestati, pubblicamente torturati e giustiziati tre patrioti: il Martinetti, il Bettino e il Frau. Questi ultimi due, pastori, dopo il trattamento riservato loro a Sassari, verranno condotti con le ossa fracassate ad Aggius, paese della Gallura dove più viva si era accesa la rivolta, e impiccati nella piazza.

Sebastiano Pola ha così descritto il supplizio dei due pastori galluresi: «Si procedette dal Battino: spogliatolo dalle vesti ad eccezione della camicia, strettegli le mani e le braccia nude dietro la schiena ebbe la prima ammonizione: denunciasse i complici, eviterebbe la tortura se non la morte. Rispose fermo: "Non so niente". Il delegato Cicu ordinò agli alquazil (dall'arabo al vazir, ministro di giustizia; in spagnolo alguacil; in lingua nostra aguzzino - n.d.r.) di stringergli con violenza le corde attorno ai polsi e di far girare la carrucola del soffitto. Il giovane gallurese (aveva 23 anni) fu così sollevato in alto fino a che gli si slogarono le braccia, ma ciononostante continuava a protestare di non conoscere altri che il Sanna, il Corda e il Cilloco. Il Cicu ordinò uno strappo violento, ma dal petto dell'infelice non poté uscire che un urlo straziante di dolore: "Non so niente, misericordia, ho da ricevere la comunione, quel che sapevo l'ho detto!" Ed altrettanto avvenne del Frau. Pochi giorni dopo i due infelici furono ricondotti nella loro terra selvaggia, ad Aggius, per ornarne la forca» (S. Pola - I moti delle campagne sarde dal 1793 al 1802 - 1923 - pagg. 174-175).

L'ultimo bagno di sangue giacobino è del 1812, a seguito dei moti capeggiati da professori, avvocati e magistrati. La paura di un contagio della rivoluzione francese terrorizza Vittorio Emanuele I. La «rivoluzione» borghese si farà, ma a tempo debito, dall'alto e senza sanculotti.
Il monarca sabaudo ha dovuto abbandonare, insieme alla sua Corte il Piemonte invaso dalle truppe napoleoniche, ancora contagiate dal morbo giacobino. Vittorio Emanuele deve ora adattarsi a vivere nel suo feudo sardo. A Cagliari, viceré, clero e nobili si prodigano per rendergli l'esilio il più confortevole possibile. Il re - si disse al popolo - era arrivato «con la sola camicia» nella fretta di fuggire per evitare l'onta di cadere nelle grinfie demoniache dei napoleonici. Pertanto, contadini e pastori sardi devono provvedere con il loro lavoro anche a mantenere «dignitosamente» il «loro» re in esilio. Vengono decretati oneri fiscali supplementari a una popolazione già ridotta in estrema miseria. Gli obblighi fiscali ordinari si aggiravano intorno alle 218.000 lire sarde; a queste se ne aggiunsero come straordinarie 109.360 per il mantenimento della famiglia reale e della Corte di Cagliari. Poco tempo dopo, gli straordinari vengono elevati a 240.000. Intanto, la regina consorte Maria Teresa si fa cesellare dagli orafi un orinale d'argento massiccio, sul cui fondo a sbalzo sta effigiato il Bonaparte: su questo prezioso cacatoio, il real culo irride al grande nemico e alla fame dei Sardi.

4 - Eliminata la concorrenza napoleonica a Sant'Elena e spenti i fermenti giacobini, la consorteria al potere in Europa è esonerata dalla fatica di «restaurazioni» in Sardegna. D'altro canto, durante il loro forzato soggiorno nell'Isola, i Sabaudi si sono resi conto che la Sardegna non frutta loro abbastanza, e che potrebbe rendere molto di più se venissero razionalizzati e intensificati i moduli di sfruttamento. Saranno quindi varate riforme che comprendono, fra l'altro, l'introduzione della proprietà privata delle terre usate comunitariamente, il riassetto fondiario, la burocratizzazione degli apparati amministrativi e fiscali, la costruzione di fortificazioni militari.
    Nel 1821, Carlo Felice apre il suo regno sconfessando i velleitarismi costituzionali di Carlo Alberto e condannando a morte 97 oppositori sardi. Segue una feroce capillare epurazione nei quadri dell'esercito, della burocrazia, delle università. Il monarca non nasconde il suo odio per la cultura; egli afferma che «soltanto chi non sa leggere né scrivere può essere un suddito fedele». Dal che si può dedurre che a epurazione conclusa, militari, burocrati e insegnanti fossero tutti analfabeti.
E' dell'anno precedente - 6 ottobre 1820- il primo di una serie di editti delle Chiudende (i successivi verranno emanati nel 1824 - 1830 - 1831) che aboliscono l'uso comunitario della terra e saranno causa, per molti anni, di rivolte popolari. La borghesia piemontese imporrà ai Sardi la «civiltà» della proprietà privata con la violenza delle armi.
Banditi e oppositori politici vengono confusi ad arte e accomunati nello stesso giudizio infamante e nelle stesse forme repressive. La confusione si ottiene mettendo in moto il meccanismo del pregiudizio sociale. Nel secolo scorso, era diffuso nella borghesia il pregiudizio che il comunismo fosse una setta criminale, e si attribuivano ai suoi membri le peggiori nefandezze. In tempi più recenti, trovato da parte della borghesia un rapporto di pacifica convivenza col comunismo, lo stesso pregiudizio (con sempre minore credibilità) viene usato contro gli anarchici.
I pastori e i contadini che si oppongono nella prima metà del secolo scorso alla privatizzazione della terra vengono accusati di comunismo. Il gesuita Antonio Bresciani, riferendosi ai Barbaricini e in particolare ai pastori di Orgosolo, inveisce: «Costoro potrebbero tener cattedra di comunismo in certe università d'Europa!» Anni dopo, il Lei Spano - magistrato, agrario, politico, saggista e sostenitore della colonizzazione capitalistica - a un pastore che davanti al tribunale rivendica il diritto a permanere col suo gregge in un pascolo comunale, rinfaccia aspramente di volere in tal modo negare «il diritto della proprietà, di essere comunista e di voler importare il regime della Russia Sovietica». Ancora più avanti, i marxisti accusano i Barbaricini di anarchismo. E' un socialista che scrive: «Alla radice del banditismo non è difficile riconoscere una condizione di vero e proprio anarchismo sociale, determinato e favorito dalla carenza dello Stato, in quanto organo di giustizia» (G. Pinna - La criminalità in Sardegna - 1970.).

Giorgio Asproni sintetizza così la storia della dominazione sabauda dal 1720 alla «Fusione» col Piemonte: «Per 120 anni fu la Sardegna governata come una colonia; l'elemento indigeno vi fu inesorabilmente cancellato; alla metropoli appartenevano gli utili, a noi toccavano il lavoro, l'obbedienza e i sospiri: sulla fronte di ogni sardo era impresso il marchio della più ributtante schiavitù» (G. Asproni - Da un suo discorso del 1853.).

L'anno 1847 segna la fine del Regno di Sardegna. E' l'anno della fusione dell'Isola con le altre provincie di terraferma. Carlo Alberto annuncia il «lieto evento» nell'annuale discorso della Corona: «La Sardegna, gettato funesto retaggio di antichi privilegi, volle essere unita con più stretti vincoli alla terraferma, e fu accolta dalle altre Provincie come diletta sorella».
La fusione non getterà «il funesto retaggio di antichi privilegi» ma li perpetuerà e ne aggiungerà di nuovi.

«In realtà è avvertibile che le misure di ammodernamento hanno soltanto un duplice scopo: di creare in Sardegna una condizione che rende impossibile lo sviluppo di una vita economica, sociale e politica che consenta una originale evoluzione delle tradizionali forme di autonomia, per giungere ad una progressiva assimilazione delle istituzioni sarde con quelle degli altri stati di terraferma; e di rafforzare l'Isola nelle sue strutture difensive in rispondenza delle caratteristiche dello stato piemontese e della sua politica» (G. Sotgiu - Alle origini della questione sarda - 1967).

5 - Dopo la realizzazione dell'unità territoriale nazionale, il brigantaggio viene alimentato e strumentalizzato nel Meridione dal vecchio padronato borbonico soppiantato dalla borghesia piemontese. E' un esempio di incentivazione del banditismo da parte di una élite in conflitto con un'altra élite per il potere. E mentre scorre il sangue della povera gente - affamata, frastornata e truffata - la decaduta nobiltà borbonica finirà per trovare soluzioni di compromesso con la vittoriosa borghesia piemontese: ereditiere e baroni cementeranno la fusione con vincoli di sangue e la classe spodestata conserverà in parte intatti e in parte rammodernati gli antichi privilegi. Non parlo dell'apparato burocratico e sbirresco e del costume borbonici che restano ancora tali e quali nell'attuale repubblica «democratica».
Negli anni post-unità, la repressione del bandito sardo si inquadra nella campagna organizzata su vasta scala, con truppe regolari, per soffocare nel sangue i moti contadini per la terra. Incendi, spoliazioni, rastrellamenti, fucilazioni sommarie sono all'ordine del giorno nel Meridione e in Sardegna. Con una differenza. Qui la campagna prosegue sempre più aspra e vasta fino ad assumere il carattere di vera e propria guerra coloniale.
Con rinnovata fame di rapina, dopo il 1860, calano come avvoltoi gli imprenditori del capitale del Nord-Italia, aggiungendosi ai Francesi e ai Belgi che già sfruttano le risorse minerarie. Il patrimonio naturale e storico-cultirale viene saccheggiato fino a creare il deserto. Le popolazioni vengono assoggettate a uno sfruttamento bestiale e costrette a sfamarsi con pane di farina di ghiande e argilla. Il banditismo è più che mai una copertura alla presenza massiccia di un apparato repressivo coloniale, senza il quale il popolo si sarebbe certamente sollevato per scrollarsi di dosso gli sciacalli che lo dilaniavano e lo spolpavano.
Le sollevazioni popolari negli anni di fine secolo sono un disperato sacrificio che non ha alcuna possibilità di vittoria. Le leggi del dominatore che legalizzano la rapina e lo sfruttamento sono imposte con la forza delle armi. Una forza organizzata, efficiente, lucida portata avanti da quei professionisti del crimine che sono gli stati maggiori militari.
Le masse popolari insorgono con la rabbia cieca della disperazione. A Macomer e in altri numerosi paesi di allevatori, i tumulti esplodono contro le centrali lattierocasearie dei capitalisti. Molti caseifici vengono incendiati. Gli scampati alla morte e agli arresti si danno alla latitanza. Il sistema li chiama «banditi».
Intorno all'anno 1900 si contano almeno duecento bande armate di pastori che si battono in vere e proprie battaglie campali contro le truppe di occupazione piemontesi. Di queste battaglie, una delle più cruente si è svolta sui monti del Morgogliai, nei pressi di Orgosolo. In quegli anni caddero oltre cento militari. Non si sa quante centinaia di pastori perché nessuno si prese la briga di contarli.
Giulio Bechi - un ufficiale della spedizione - riporta numerose testimonianze sulle operazioni militari e di polizia contro le popolazioni del Nuorese. Nel suo libro «Caccia grossa», sotto il capitolo intitolato «La notte di San Bartolomeo», racconta nei particolari il massiccio rastrellamento effettuato a Nuoro nella primavera del 1899, preludio a una ondata di repressione in tutta l'Isola, che culminerà nel famigerato processone.

«Quel diavolo di capitano, zitto zitto, aveva già ideato un vero piano di assedio. La città spartita in sette rioni, il personale, carabinieri e questurini, in sette gruppi: pronti i depositi dei prigionieri: mucchi di manette, di catene, di corde: tutto calcolato e preparato da mesi, senza che ne trapelasse nulla ad anima viva, tutto previsto con cura meticolosa fino ai moccoli per le scale, fino ai lapis ed ai foglietti per le ricevute di scarico. Torno torno al paese, agli sbocchi sulla campagna, vigilano appostate pattuglie di fanteria. La consegna è semplicemente formale: - Arrestare chiunque passi. Scocca la mezzanotte: è uno sguinzagliare in tutti i sensi di carabinieri, guardie, soldati… Il giovine prefetto si gioca in questa notte la sua brillante carriera…»

Il Bechi ha la «fortuna» di partecipare all'arresto dei familiari dei latitanti Serra-Sanna: il padre di 75 anni e la figlia Maria Antonia, giovinetta.

«…Nell'uscir di caserma m'intoppo nel delegato, il quale mi agguanta per un braccio. Gli occhi gli sfavillavano come quelli d'un gatto: pareva andasse a riscuotere un terno. Dietro a lui una pattuglia di carabinieri e di guardie, e una guida mascherata con una gran barba posticcia. -Venga, venga - mi dice - si va dai Serra-Sanna… - L'uomo barbuto si ferma davanti ad una porta e senza dir parola alza il bastone con un cenno misterioso. Par la notte di San Bartolomeo… Il delegato spazientito sferra nell'uscio due pedate da svegliar tutti i morti del paese; i calci dei moschetti rincalzano in una tempesta minacciosa: finalmente si sente latrare di dentro una voce furiosa: - Chi è?… - Passa qualche istante di profondo silenzio… I calci, le spalle, i fucili ricominciano a tempestare… La porta comincia a tentennare sui cardini… Allora si sente un bestemmiar nella solita lingua infernale, un cigolar di catenacci, e, illuminato in pieno da una candela… compare un piccolo scimmiotto barbuto e bianco che schizzava fiamme dagli occhi. - Ite cheres? - ringhiò - Si vuol vedere un po' qua dentro. Dove sono i tuoi figlioli? - Lo sapete che non son qua i miei figlioli! - E la figliola?… Il delegato fa un cenno: due carabinieri tengono a bada il vecchio, altri due si danno a frugare: lui con una candela in mano infila la scaletta di legno e imbrocca di primo acchito nella camera della ragazza. Io resto fuor dell'uscio. Maria Antonia si sveglia tutta stralunata, balbetta, vuol sapere, si sdegna… E l'altro, con la sua placida faccia cerea, seduto accanto al letto, badava a ripetere: - Vestiti, Maria Antonia!… Cercava di tirarla con le buone… ma con una mano si tastava nella tasca della giacchetta il bavaglio e le corde e con l'altra accarezzava un nodoso randello… In due minuti ebbe infilato le gonnelle e il giubetto scarlatto, mentre il delegato, adocchiato un cassone in un angolo, vi faceva una perquisizione sommaria. E lì sequestra subito una collezione di gioielli sardi, pendenti, fermagli, collane in filigrana d'oro… Si scende. Un carabiniere si accingeva a legare il vecchio. ma quando costui si è visto presentar le manette… si è fatto indietro con due occhi spiritati, drizzandosi tutto nella persona con uno scatto di nume irato. - Geo appo settanta chimbe annos, nemos l'at posto sos ferros!… Che respiro, quando li vediamo giù in strada, padre e figlia, ben legati e bene scortati, fra le cabine della benemerita! Lui che aveva le sole calzette ai piedi, così com'era venuto ad aprire, guaiva e strillava saltellando sui sassi. Una serva ci rincorreva con le scarpe. - Niente! Cammina!… Da una casa vicina scaturiscono col lanternino in mano due vecchie in berretta gesticolanti e fanno per abbracciar Maria Antonia. Ma una guardia fa un salto, taglia la strada e… con una botta sola le manda a ruzzolare dentro la porta di faccia, si sbacchia dietro l'uscio… non c'è tempo di veder quel che è stato».

Sono gli stessi metodi che hanno reso tristemente famose le truppe di occupazione nazista nei territori invasi. Gli arresti proseguono indiscriminati per tutta la notte.

«Per le strette vie silenziose - riprende il racconto del Bechi - ogni tanto era la cadenza affrettata di una pattuglia, il picchiar sulle porte, un balenar di lumi alle finestre e nel quadretto chiaro una faccia spaurita, un cipiglio rabbioso… Eppure, guardate la forza di carattere! Non si scompongono per nulla alla vista dei carabinieri e delle manette: le donne senza pianto, senza strilli, impietrite, gli uomini accigliati, senza resistenza, senza domande; capivano a volo! Solo in casa d'uno… la moglie, una fragile creatura dal viso bruno di madonnina, si era avviticchiata al braccio del marito e guardava i carabinieri con gli scuri occhioni smarriti. Fanno per dividerli, ma lei si rivolge risoluta al delegato: - Se portate via lui, dovete portar via anche me. - Brava, venga anche lei! - Anche me! - salta su la suocera, una specie di parca tutta grinze… - Anche lei!… portate anche lei!… Si esce fuori con quel mazzetto: ma non è finito. Quando siamo in piazza del mercato, un ragazzo, uno studentello, che doveva essere parente dell'arrestato, ci corre avanti schiamazzando… Dopo pochi passi eccone un altro, al quale hanno arrestato il padre, che si mette a sbraitare contro il gruppo. - Dov'è mio padre? Voglio veder mio padre! Sono prepotenze queste! Sono vigliaccherie! - Ah, sì? - fa il maresciallo che comanda la pattuglia - Metti le manette anche a lui. Non ha ancor finito che lo studente dà un balzo di lepre e via come una freccia. Una guardia si precipita dietro, lo raggiunge, gli dà lo sgambetto; lo studente va giù ruzzoloni, la guardia sopra: pugni, calci, legnate… Accorrono altre guardie, altre dieci mani che lo afferrano, lo rialzano tutto pesto e sanguinolento. - Lasciatemi, perdio! sono italiano! - strillava il giovinetto inviperito - Non si tratta così un cittadino italiano! Guardate, guardate, questo è sangue! - Allora rieccoti il compagno di prima: - Ha ragione, io sono solidale con lui! - E allora, - ribatte il maresciallo – mettete i ferri anche a lui! - E con quel mazzetto che va crescendo via via come la spazzatura, si arriva al deposito del rione. Da tutti i rioni poi gli arrestati affluiscono al deposito centrale, dove si trova il comando. Là, il capitano… aspettava… i dispacci dalle stazioni… Dal deposito centrale, ogni poco, una lunga sfilata di gente ammanettata, fiancheggiata dal luccichio delle baionette e seguita da un codazzo di donne in pianto, si avvia alla ferrovia, dove un treno è pronto a riceverla. Il mio plotone è di scorta… Il risveglio, la mattina dopo, è stato uno spettacolo impagabile. Sul far del giorno, stanco morto, ero riuscito finalmente a buttarmi sul letto e a pigliar sonno, quando mi scuote un busso nell'uscio, e la padrona irrompe dentro esterefatta, con le lacrime agli occhi… - Ma guardi, guardi, sono scappati tutti sui poggi… Ah, Sant'Antoni, è la fine del mondo! Difatti nel lago di cielo chiuso dal quadro della finestra i pianori rocciosi, rosati dal sole, formicolavano di minuscole macchiette rosse e nere, mentre giù per la strada, sulle porte, era un brusio concitato, sommesso di terrore… uno spavento pazzo, un correr via all'aperto, trascinandosi dietro i fagotti e i figlioli, come se in paese battesse il terremoto. Il bello è che molti, ai quali non si pensava neppure, sentendo dei crampi alla coscienza, si sono dati alla latitanza e così si sono scoperti da sé».

Un ragionamento tipicamente poliziesco, che accomuna la deficienza alla malafede: fuggire terrorizzati davanti alla brutalità e alla violenza della repressione è segno di cattiva coscienza, è prova di colpevolezza. Di quale colpa, non si dice.
Arrivano i primi dispacci dell'operazione militare dalle stazioni di tutta l'Isola: gli arrestati sono migliaia: in maggior parte vecchi, donne, ragazzi che verranno utilizzati come ostaggi per costringere alla resa i latitanti.

«L'audacia del colpo è stata tale - prosegue il Bechi - che dopo tre giorni ne sono ancora sbalorditi… Il terrore dell'ieri tien sospesi gli animi nell'apprensione del domani. E' un fermarsi per via con aria di appestati, un trottar su e giù di pattuglie di carabinieri e soldati: alle otto di sera non si incontra più un cristiano per le strade. Solo le tre ombre nere del sottoprefetto, del procuratore del re e del capitano dei carabinieri rompono la striscia di luna del corso; solo la cadenza delle ronde getta un'eco cupa nel profondo silenzio. Nuoro è nostra».

Dopo gli arresti: i sequestri e i ricatti.

«A chiunque è in odore di amicizia con qualche bandito, si sequestra il bestiame che si manda a pascolare altrove sotto al paterna vigilanza della benemerita. - Volete le vostre bestie? Sta bene: fateci avere il vostro amico… Chi è ormai famoso per queste razzie è il brigadiere di Oliena. Si è rifatto dalla madre del latitante Pau. Va là col suo bravo bollo (con stampigliato SG, sequestro giudiziario - N.D.R.) e tac, tac si mette a bollare tutto ciò che gli capita sotto. Va all'ovile, fa una razzia di tutti i porci e li manda al camposanto nuovo, dove carabinieri e soldati non riparano a timbrare a fuoco le natiche delle bestie, tra una sinfonia di grugniti, di muggiti, di belati. Poi sgranando due occhiacci spiritati e levando il terribile timbro sul muso sbigottito della vecchia: - E se in settimana non mi fai costituire il tuo figliolo, quant'è vero Dio ti bollo anche te! - Indi a suon di tamburo fa un bando in piazza. - Pochi discorsi e buoni… Se fra otto giorni l'amico non si costituisce piglio tutte le vostre vacche, tutte le vostre bestie e faccio viaggiare anche quelle» (G. Bechi - Caccia Grossa - 1900 - Pag. 45 e Segg).

Sono scene allucinanti. Sono atti di ribalderia colonialista che svelano più di qualunque analisi la vera natura banditesca della classe al potere. Agli arresti, ai sequestri, alle razzie, ai ricatti seguono i provvedimenti speciali di polizia: navi cariche di coatti lasciano l'Isola verso il Continente. E' di quel periodo la lamentazione popolare: «Sos bentos de levante / in sa marina frisca / sunt carrigande s'oro / … / Sas carreras sun tristas / como non est prus Nuoro / ca mancant sos zigantes…» (I venti di levante / nella fresca marina/ si portan via l'oro / Le contrade son tristi / Nuoro non è più lei / ora che mancano i suoi giganti…).
Si arriva alla montatura del processone. Degli arrestati, circa 600 vengono trattenuti sotto l'imputazione di «associazione a delinquere e favoreggiamento». Di questi, circa la metà vengono prosciolti in fase istruttoria, dopo una lunga detenzione, e 320 rimandati a giudizio. Durante il processo, il procuratore generale chiede il proscioglimento per insufficienza di prova di 239 imputati.

«La Nuova Sardegna», quotidiano di Sassari, scrive in quei giorni: «Bisognerà persuadere anche i più increduli che quei risultati non si sarebbero potuti ottenere se non a costo di quegli eccessi e di quegli arbitri, di quelle offese alla libertà, alla pace e all'onore del paese».

E su «Sardegna Cattolica» dello stesso periodo (dicembre 1899), Francesco Dore, avvocato della borghesia indigena legalitaria, aggiunge criticando l'operazione del prefetto sportman Giovanni Nepomucemo Cassis: «…fu operato su semplici ordini d'un prefetto che abbandonava tutto al capriccio di locali infimi agenti di polizia, creando di fatto l'esistenza e le vessazioni d'un vero stato d'assedio…».
Si tenta il vecchio gioco di far ricadere sui gregari la responsabilità storica di una azione infamante, che è stata invece concertata e voluta ai vertici del potere. La presenza di un corpo di spedizione dell'esercito italiano nelle Barbagie non era dovuta al «capriccio di infimi agenti» ma a un ben preciso piano del governo, del ministro della guerra e degli stati maggiori.
Furono poche e isolate le voci di sdegno e di dissenso che si levarono nel mondo cosiddetto civile su quanto accadeva in questa lontana e dimenticata isola del Mediterraneo, dove al pari delle terre sorelle d'Africa il potere dei civilizzatori bianchi stroncava con le stragi ogni resistenza popolare. Così come in Sardegna, più tardi in Libia e in Etiopia gli abitanti che prenderanno le armi per opporsi all'assoggettamento verranno classificati banditi e trattati come criminali insieme alle comunità che li hanno generati e li sostengono. Non molti decenni dopo, saranno gli stessi popoli bianchi dell'Europa invasa dal nazismo a provare sulla loro pelle gli effetti dei rastrellamenti, delle deportazioni, della caccia al «bandito». Da allora a oggi sono cresciute nel mondo le voci di sdegno, di dissenso. Eppure in Sardegna simili operazioni si ripetono ancora.
Angelo Sanna, giovanissimo pastore, testimonia su un rastrellamento effettuato a Orgosolo pochi anni fa, nel 1954.

«La mattina del 1° genaio, c'è stato lo stato d'assedio per tutto il paese. Dicevano che era per arrestare gli assassini dell'ingegnere».

Si tratta dell'ing. Davide Capra, di Cagliari, impresario edile, sequestrato a Dorgali nell'inverno del '53 e ucciso dalla stessa polizia nel Supramonte insieme a uno dei rapitori durante un conflitto a fuoco: fra i rapitori figurava Emiliano Succu, non un povero pastore ma un balente di facoltosa famiglia, nipote del senatore democristiano Monni.

«Dalla notte, di sorpresa, all'improvviso arrivano da Nuoroe Cagliari e Sassari due o trecento carabinieri (in verità erano oltre 500 - N.D.R.), vengono in automobili, camion, motociclette, a piedi e, tutti, circondano il paese con rivoltelle, fucili, mitra e bombe a mano… Subito si è saputo che fuori stavano prendendo tutti. Io ero curioso: ho sentito che c'era guerra. In casa mia non mi volevano far uscire. Mi metto appena fuori dalla porta e subito è scesa una pattuglia di carabinieri che si avvicinano con la rivoltella e l'altro col mitra. «Scendi giù, avanti, scendi giù!» Per un pezzo sono sceso col mitra alla schiena. E ci avevano il dito sul grilletto. «Documenti». «Io ho sedici anni: non ce li ho. E mi conoscono tutti in paese». E mi portano di corsa, allora, con il mitra in schiena, al caseggiato scolastico. (Ecco scoperta una delle funzioni dei caseggiati scolastici in Sardegna! - n.d.r.).
Quanti ce n'erano già! Chi si ricorda? Quasi tutto il paese. Mi mettono in una stanza piccola di scuola: c'erano almeno quaranta uomini. L'aria era cattiva. In quella stanza stava la finestra chiusa e non lasciavano avvicinarsi alla finestra, se no, dicevano, sparavano. Stavamo in piedi e passa un'ora. C'erano tanti carabinieri e brigadieri. Intanto continuavano a venire uomini di ogni peso e di ogni età, bambini e vecchi. Viene un capitano e ad uno ad uno ci fanno spogliare, facendo perquisizione e chiedendo documenti. Qualcuno lo interrogavano. Io aspettavo di vedere. Chi ci aveva gli orologi, glielo levavano. I carabinieri li aprivano con un coltello per studiare i macchinari. E non erano specializzati. Sempre guardavo e arriva il mio turno. C'era un carabiniere che mi conosceva. Non ci avevo penna, che non l'ho mai avuta in vita mia e non avevo orologio, perché il mio è troppo grande per portarlo: è il sole. Poi mi pigliano e mi mandano nell'altra stanza dove stavano almeno in cento o duecento. «Aprite, aprite per carità. Qui si soffoca!» Anche qui la finestra era chiusa e ci dicevano di non avvicinarci neppure: sparavano subito. C'era il brigadiere Paganello che ha ucciso a Emilio Succu. Dopo che ci hanno trattenuto ancora un'ora, fermano il fratello di Emiliano, Natale, due altri ancora e Giuseppe Sorigu, il semideficiente. A me mi hanno mandato a casa. Tutto il paese era pieno di carabinieri. E ho saputo che erano pure entrati a casa nostra a buttare tutto in aria per la perquisizione. Insomma, mi hanno detto che così facevano i tedeschi» (F. Cagnetta - Inchiesta su Orgosolo - In «Nuovi Argomenti» n. 10 del 1954).

    «Gli accerchiamenti e i rastrellamenti nei villaggi, con tutto ciò che comportano di violenza nei confronti di popolazioni inermi, non sono che gli episodi più clamorosi e appariscenti di uno stato di assedio continuo e diffuso. Gli abusi, le intimidazioni e le minacce a mano armata da parte della truppa, gli insulti, le percosse, le illegalità più varie sono fatti quotidiani e quasi di ordinaria amministrazione. Pastori aggrediti per strada, spinti a terra, malmenati coi fucili; perquisizioni notturne, improvvise e ingiustificate che portano il terrore nelle famiglie; case accerchiate e bersagliate per ore con armi da fuoco solo perché c'è il sospetto che offrano ospitalità a qualche latitante; fermi arbitrari e arbitrariamente prolungati» (G. Gabitza - Sardegna: rivolta contro la colonizzazione - 1968 - pagg. 14-15).

 

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