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Capitolo II - Stato di polizia

1 - Sulle orme del passato, gli attuali governi proseguono il rapporto di forza con la società barbaricina.
In questi ultimi decenni, alla presenza dei tradizionali corpi di polizia - carabinieri, questurini, finanzieri e barracelli ( Il barraccellato è una istituzione di polizia rurale di origine spagnola, ripresa dai Sabaudi e tuttora esistente in numerosi comuni agricoli dell'Isola. Assoldate dal padronato, le compagnie barraccellari hanno il compito di vigilare le campagne e le colture nell'interesse di chi le paga.) - si è aggiunta quella di diversi corpi speciali, baschi blu, baschi neri, bersaglieri lagunari, paracadutisti. Si è venuto così stabilizzando un vero e proprio stato di occupazione militare e di polizia, che crea un clima di continua tensione nelle popolazioni, che istituisce un costume autoritario e vessatorio, che legalizza sempre nuovi poteri discrezionali nei funzionari, in dispregio dei più elementari diritti civili e umani sanciti dalla carta costituzionale.

E' stato rilevato come ciò rientri in un ben preciso piano del capitalismo, così articolato: «Sviluppo delle coste, creazione di una riserva all'interno dell'Isola in cui rinchiudere i cattivi pastori che avrebbero dovuto essere eliminati con tre mezzi: l'uso indiscriminato del confino di polizia (…), l'invasione dell'Isola da parte di reparti delle forze armate, la repressione operata da speciali forze di polizia. Si trattava, da parte di queste ultime, usando della scusante del banditismo (che compiacimenti servitori del sistema andavano agitando come lo spauracchio di turno) di operare in tre direzioni: 1) proteggere le basi e gli stabilimenti militari NATO che come funghi spuntavano nell'Isola; 2) funzionare come strumento diretto di difesa delle classi parassitarie e dominanti dell'Isola; 3) esercitarsi a spese della Barbagia, in operazioni antiguerriglia (che sarebbero potute tornare buone anche in continente). Gli strumenti adoperati furono essenzialmente due: la Criminalpol e i baschi blu, toccando alla prima il compito di direzione suprema dell'opera e ai secondi le mansioni meramente esecutive di forza d'assalto permanentemente schierata sulle montagne della Barbagia. A questi due organismi della PS (i baschi blu non sono altro che truppe specializzate addestrate presso il secondo reparto Celere di Padova), si aggiungevano notevoli contingenti di carabinieri organizzati sulla base di corpo di invasione, con armamento da guerra. Un vero stato di guerra è difatti esistito per diverse fasi del dopoguerra tra forze di invasione e Barbaricini, e i morti sono stati numerosi su entrambi i fronti. Ma i banditi nove volte su dieci sparano per difendersi (la loro posizione è sempre del resto quella della resistenza all'invasione per non essere fagocitati, distrutti, annientati), mentre le forze dell'ordine, benché molte volte siano cadute in agguati, si sono regolarmente comportate come possono comportarsi le truppe di un paese imperialista in una colonia» ( Angelo D'Orsi - Il potere repressivo: la polizia - Feltrinelli 1972 pagg. 215-216. Tesi ripresa da L. Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in S. - Feltrinelli 1970).

Va sottolineato che un così vasto apparato repressivo è sproporzionato allo scopo di dare la caccia a qualche latitante, né esaurisce il suo compito nella lotta contro fantomatici banditi. E' un vero e proprio esercito anti-guerriglia, che il sistema dispiega ed esperimenta in colonia contro l'intero popolo barbaricino (cavia ideale, in quanto storicamente pregiudicato e tradizionalmente resistente), e ha la funzione di cane da guardia dei privilegi padronali. Infatti, lo vediamo usato di volta in volta contro lavoratori in scioperi non canalizzati dal sistema o contro cittadini in genere che manifestano la loro opposizione al potere padronale.
Il 4 settembre 1904, a Buggerru, i minatori sono in agitazione. Mentre i delegati degli operai trattano pacificamente i termini della vertenza coi dirigenti della miniera, questi chiamano l'esercito per intimidire gli scioperanti, ai quali si sono uniti donne e bambini. L'eccidio si compie brutalmente, gratuitamente. La truppa spara sulla folla senza ragione. Tre sono i morti e numerosi e feriti. Si appurerà più tardi che sono stati colpiti alle spalle mentre fuggivano davanti a un assalto alla baionetta. Un certo Pilloni, colpito alla regione occipitale da una fucilata, presenta una ferita da baionetta alla coscia.
Il 19 maggio 1919, a Cabras, la popolazione è in fermento. I reduci scampati al macello della guerra tra capitalismi antagonisti, al loro rientro in paese trovano fame e umiliazioni. Vogliono farsi giustizia con le loro mani. Scoppia un tumulto. I negozi, i magazzini di viveri, le case dei notabili, l'ufficio postale e il municipio vengono saccheggiati e incendiati.

Testimonia un protagonista: «…Un po' dopo mezzanotte, sono arrivati i carabinieri e i soldati armati sui camion. Parte avevano circondato il paese e parte erano entrati dentro. La notte stessa avevano cominciato ad arrestare. Chi era scappato a casa e chi in campagna. Arrestavano, legavano e portavano via sui camion. Più di venti giorni arrestando e legando. I camion andavano e venivano a ogni ora. Trecento ne avevano preso!… Certo che di ragione ne avevano da buttare via. Nel comune di allora c'era lo zio del signor Attilio, il signor Spano, su secretariu e altri, e quando qualche padre o madre di famiglia andavano in ufficio per un bisogno, se era donna le chiedevano di andare a letto, se era uomo gli dicevano di portare la moglie o la figlia…» (U. Dessy - La rivolta dei pescatori di Cabras - Marsilio 1973).

L'11 maggio 1920, l'eccidio di Iglesias, in seguito allo sciopero dei minatori della società Monteponi. I carabinieri sparano.

«I morti sono sette. Il corteo funebre si snoda lento. Gremite sono le strade e nel silenzio attonito avanzano i morti. Madeddu, poi Cocco, poi Serrau, poi un ragazzo, Castangia, poi Orrù e Collu, e Cocco, poco distante dal fratello che l'accompagna. La bufera è finita. Ora ognuno riposa dentro una cassa e ogni cassa è ricoperta di garofani accesi. Il corteo passa lento. Gente ancora sopraggiunge dalla costa. Agli uomini si accompagnano le donne, i ragazzi, i bambini. Gremite sono le strade, oppresse da un silenzio che avanza con i morti… I morti avanzano protetti e seguiti dalla fumana. Ora riposano dopo la lunga marcia che si è conclusa così, con una scarica di fucileria, alle porte della città. Agli straccioni, questo sia il benvenuto.
Era l'11 maggio. Nelle prime ore della mattina, centinaia di operai della miniera di Monteponi decidevano di lasciare il lavoro e di recarsi alla sottoprefettura di Iglesias per chiedere la revoca del tesseramento dei generi alimentari, o che almeno fosse concesso l'aumento della razione di pane, ristretta in duecento grammi… Carabinieri e dimostranti si fermarono a pochi metri di distanza. Quattromila persone, comprese molte donne, chiedono di entrare in città, anche se liberamente accompagnati per recarsi in sottoprefettura… Dalla folla si levano urla e imprecazioni; chi si trova a distanza dal primo fronte ne è trascinato: al disorientamento subentra il panico. C'è chi fugge, chi torna indietro, chi vuole avanzare. Poi una scarica. Il sangue scorre. Hanno mirato bene… La folla lentamente si disperde… Finestre e porte sono sbarrate. Chiusi i negozi. Sulle strade deserte battono il passo i pattuglioni giunti da Cagliari.
Il 12 maggio i funerali. Cinquemila persone accompagnano i morti… I morti riposano, dopo la lunga marcia. Una marcia che è appena incominciata» (G. Cherenti - in «Sardegna Oggi», n. 77 del 1965).

Il 24 aprile 1970, nel borgo Sant'Elia di Cagliari, la violenza poliziesca si abbatte su quattro giovani anarchici e sugli abitanti del rione-ghetto. Paolo VI è in visita nell'Isola. E' la prima volta, nei duemila anni di vita della Chiesa romana che un papa mette piede nella colonia Sardegna. C'è stato sì un altro papa nell'antichità; ma come deportato. Paolo VI - dice uno slogan coniato dalla diplomazia vaticana - «viene in Sardegna Pastore tra i pastori». Il movimento anarchico contesta e demistifica tale ruolo: «Il papa - hanno scritto in un cartello - vive tra i tesori in Vaticano, mentre il popolo di Sant'Elia vive nella miseria in un ghetto».
Anche una sola voce discorde nell'orchestrato «plauso generale» è un sacrilegio. A lato del vasto piazzale confinante col mare, ci sono quattro anarchici con un megafono: vogliono far sentire in modo civile il loro dissenso. Le forze della repressione mordono il freno, in attesa dell'occasione propizia per colpire spietatamente chi osa pronunciare parole diverse. Mentre il corteo papale si allontana dal borgo, centinaia e centinaia di carabinieri e poliziotti si scatenano. Imbestialiti, colpiscono i giovani libertari e la folla che è con essi, usando manganelli, cinturoni, catene e i calci dei moschetti. Gli abitanti del borgo, coinvolti, insorgono rispondendo alla violenza poliziesca con i sassi raccolti nel piazzale.
Centinaia di cittadini vengono fermati e portati in questura. Oltre trenta esponenti del movimento anarchico e di gruppi politici extra parlamentari (alcuni dei quali assenti dai luogo degli «incidenti») vengono arrestati e processati dopo molti mesi di galera.

«E' gravissimo, degno di essere additato alla disapprovazione di tutti coloro che ancora credono ai principi di libertà… che il questore di Cagliari abbia sequestrato non un mitra, una bottiglia Molotov, una bomba, ma solo ed esclusivamente un microfono, questo moderno simbolo della libertà di parola e di espressione che per i contestatori rappresenta in quel momento tutto l'armamentario della loro azione… Che mai avrebbero potuto dire al papa attraverso quell'ordigno? Avrebbero potuto gridare: Abbasso il papa; avrebbero potuto dire: Papa capitalista, papa azionista della Montedison e della SIR; e con ciò? Quando ormai tutti i capi di governo e di Stato… vengono regolarmente presi a colpi di pomodoro… quando episodi di questo tipo avvengono continuamente in quasi tutte le capitali di tutti gli Stati nei confronti dei capi di governo nostrano o meno, non si capisce per quale ragione proprio a Cagliari si dà il via ad una operazione di alta repressione… Del resto, in tutti i tempi, pernacchie e grida ostili hanno sempre costituito una azione tonica verso gli uomini responsabili richiamandoli ai loro doveri ed esprimendo in solido l'apprezzamento popolare più genuino; non si riesce a comprendere perché non dovrebbe essere possibile esprimere determinati sentimenti verso il papa, che oltre tutto ricorda in ogni momento la necessità di un maggiore colloquio, di una maggiore intesa con le masse…» («Dissenso anarchico e diritto alla pernacchia» - in «Sassari Sera» del 30 maggio 1970. Sui «fatti di Sant'Elia» si vede anche «Umanità Nova», numero speciale del 10 ottobre 1970).

2 - La violenza della repressione si scatena con particolare ferocia nei momenti di tensione sociale, di crescita civile delle masse popolari: l'organizzazione sindacale e politica nelle miniere; le rivolte contadine durante la crisi economica provocata dalla prima carneficina mondiale; l'esplosione del movimento studentesco e dei gruppi extraparlamentari nel 68/69. Appare così evidente che l'apparato repressivo del sistema, dispiegato e mantenuto in efficienza col pretesto del banditismo barbaricino ha la fondamentale funzione di tenere inchiodate le masse popolari alla oppressione e allo sfruttamento del capitalismo.
L'impegno con cui le forze della repressione si esercitano nell'Isola è tale da travalicare anche quella esile linea di legalitarismo che occorre ai governanti per salvare la faccia. E' del giugno 1967 questa interrogazione parlamentare:

«Vengono attuati, senza alcun risultato ai fini della lotta contro il banditismo, stati di assedio, rastrellamenti di interi paesi e rioni, gli ultimi a Nuoro, Orune, perquisizioni personali e domiciliari senza alcuna autorizzazione della magistratura e contro le norme della Costituzione e della legge. I sottoscritti riferiscono a titolo di esempio uno dei tanti gravissimi episodi che avvengono quotidianamente. Alle ore 0,30 del 31 maggio u.s. (1967) la vettura con la quale rientravano a Nuoro il dott. Mario Pani e l'ins. Antonio Caboi, dirigenti della federazione comunista di Nuoro, è stata fermata a un posto di blocco a dieci chilometri da Nuoro. I due cittadini sono stati costretti a scendere dalla macchina da quattro poliziotti che puntavano il mitra contro i loro visi e iniziavano a perquisirli; alle rimostranze dei due cittadini, che ricordavano essere la perquisizione personale una violazione della Costituzione e della legge, il brigadiere rispondeva testualmente: "Non ce ne importa niente della Costituzione e della legge; la legge qui la facciamo noi; abbiamo disposizioni del ministero e noi perquisiamo e facciamo quel che ci pare". Poiché i due fermati continuavano a protestare, uno dei poliziotti puntava il mitra contro la testa del sig. Caboi urlando: "O stai zitto o ti scarico il mitra in testa!" I due cittadini hanno quindi subìto con la violenza la perquisizione personale, come sarebbero stati costretti a subirla se fermati da una banda di criminali armati».

 E' una protesta fatta all'interno del sistema che si richiama alla legalità borghese, nel cui ambito ogni genere di crimine e ogni sopraffazione sono possibili. La protesta dei parlamentari comunisti appare così un farisaico stracciarsi le vesti scandalizzati perché in Sardegna la polizia, il cane da guardia del sistema, si comporta come «una banda di criminali armati». E quale altro comportamento ci si può aspettare, tanto più in una colonia? E' del tutto inverosimile che il brigadiere e i tre poliziotti protagonisti del fattaccio siano stati censurati dal ministro per «avere calpestato la costituzione e le leggi democratiche», quando quel comportamento era precisamente «fare il loro dovere».
I comunisti interroganti dimostrano una buona dose di ingenuità, quando in altra parte della loro interrogazione informano il ministro della «inettitudine e vigliaccheria dimostrata dalla polizia contro i banditi», che trova invece «facile sfogo contro pacifici inermi cittadini, trattati come i nazisti trattavano le popolazioni dei paesi occupati nella lotta partigiana».
Ecco: non riesco a immaginarla se non ingenua la popolazione «non collaborazionista» di un paese occupato dai nazisti che manda al ministro del terzo Reich una raccomandata di protesta per il comportamento delle truppe di invasione: queste, se vogliono dimostrare il loro valore, che vadano a prendersela con i Partisanen-Banditen arroccati sui monti, e lascino in pace noi inerme popolazione civile.
La verità è che l'infortunio occorso ai due funzionari della federazione nuorese del PCI è «grave» perché tocca un «dott» e un «ins», due rispettabili cittadini borghesi verso i quali la polizia ha il dovere istituzionale di assumere un comportamento «costituzionale e legale». Lo stesso fatto, nel quotidiano contesto di illegalità, arbitri e violenze riservate ai pastori-banditi, è meno che nulla.
Il periodo definito caldo del banditismo isolano (1966/69) coincide non a caso con un periodo di tensioni economiche, politiche e sociali che il sistema utilizza per portare avanti un vasto disegno di restaurazione autoritaria e che culminerà nella strage di stato, con le bombe di Milano del 12 dicembre '69. Le rinnovate operazioni contro il banditismo creano il clima e affinano le tecniche per altre operazioni repressive: ridurre al silenzio le opposizioni politiche extraparlamentari, opposizioni non previste e non ancora controllabili e fagocitabili, che minacciano di scuotere le masse dall'assopimento telepartitico.
In quegli anni la polizia usa sistematicamente la tortura sui pastori sardi, prima di usarla sugli anarchici e sui libertari.
L'uso della tortura è un metodo antico, comune a tutte le polizie, per estorcere una confessione di colpevolezza o per ridurre alla ragione del più forte gli spiriti ribelli o eretici. Che la tortura sia ancora oggi praticata su vasta scala all'interno di molte istituzioni del sistema (dalle caserme agli istituti psichiatrici) lo dimostra una petizione internazionale presentata all'ONU nel dicembre del 1973. La petizione per l'abolizione della tortura nel mondo reca le firme do oltre un milione di persone e si richiama all'art. 5 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo: «Nessuno sarà sottoposto a tortura o a un trattamento inumano o degradante», facendo appello alla assemblea generale degli stati per «porre immediatamente fuori legge la tortura dei prigionieri nel mondo intero».
Bisogna anche dire che le consorterie al potere se ne infischiano delle dichiarazioni umanitarie, anche di quelle «ufficiali» timbrate, firmate e protocollate. Tanto è vero che in forme più o meno mascherate, più o meno crudeli, la polizia italiana continua a usare la tortura con la paterna tolleranza del governo.

«E' raro che un individuo arrestato non sia picchiato in modo orribile. La parte del corpo cui gli agenti mirano di preferenza sono i fianchi. Lì danno calci e pugni formidabili senza timore di lasciare segni. Una guardia prende il prigioniero e gli tappa la bocca, un altro lo tiene fermo per i piedi e due o tre pestano eroicamente sul ventre e nei fianchi del disgraziato… Molti di questi infelici più tardi muoiono…» (Giorio - Ricordi di questura - Milano 1882 - pag. 93).

Chi scrive con tanta cognizione di causa è un ex commissario di polizia, un addetto ai lavori, e pertanto non ci sono motivi per non credergli.
Con un pestaggio del genere è stato assassinato Giuseppe Mureddu, un giovane pastore di Fonni, nel 1964. La polizia tenterà di farlo passare - come più tardi nel caso Pinelli - per un suicidio.
La mattina del 10 marzo, Giuseppe Mureddu viene fermato in campagna dalla polizia, mentre attende al suo lavoro. Il fermo è posto in relazione alle indagini su una rapina compiuta tempo prima nei pressi di Cuglieri, distante almeno 150 chilometri da Fonni. Il Mureddu è incensurato. A suo carico sta soltanto il fatto d'essere un pastore barbaricino - individuo di natura delinquente, secondo le classificazioni del Lombroso.
Un testimone dice che il giovane non ha opposto resistenza al fermo. Non ha aperto bocca. Non si è neppure appellato alla costituzione, che in Barbagia non si sa cosa sia. Viene condotto, a bordo di una Fiat 600, al commissariato di PS di Orgosolo. Giunto a Orgosolo, il Mureddu appare - secondo ciò che dice un altro testimone - «non più in grado di reggersi in piedi».
Dopo circa 24 ore di permanenza nelle segrete del commissariato, viene trasportato nelle carceri di Nuoro. Trapelano voci secondo le quali il giovane sarebbe stato lasciato senza soccorso a lamentarsi tutta la notte, dopo il «trattamento» dei suoi carnefici.
Nel carcere di Nuoro, appena un'ora dopo l'arrivo, al Mureddu viene somministrata della Coramina perché in preda a un collasso. Il medico ne ordina l'immediato ricovero in ospedale.
Caricato su una autoambulanza, il giovane giunge cadavere all'ospedale. Dalla testimonianza del medico di guardia si apprende che i poliziotti che consegnano il cadavere tentano di farlo iscrivere nel registro di ingresso come «vivo».
Nella versione della polizia, la morte di Mureddu sarebbe stata provocata da soffocamento: egli, sentendosi ormai in trappola, per sfuggire alla giustizia, si sarebbe suicidato ficcandosi un fazzoletto in bocca.
La tesi del suicidio mediante fazzoletto appare subito una ignobile montatura. La stampa borghese accredita la versione poliziesca - in fondo si tratta soltanto di un pastore.
La verità comincia già a trapelare dal registro dell'ospedale, dove si può leggere che il Mureddu «è giunto cadavere per ragioni imprecisate» e che «presenta escoriazioni all'emitorace destro».
La verità si fa ancora più evidente dopo il referto necroscopico (e ce ne vuole, per arrivarci!) dei periti incaricati dalla famiglia dell'ucciso, i professori Businco e Montaldo, i quali giungono alla conclusione che «la morte del pastore Giuseppe Mureddu fu dovuta a uno choc traumatico provocato da gravi lesioni».
La polizia tenta di fare marcia indietro. Senza rimangiarsi la tesi del suicidio mediante fazzoletto, per giustificare la presenza delle «gravi lesioni», fa memoria e aggiunge che il Mureddu, durante il primo tragitto in «600», ha aperto d'improvviso lo sportello tentando di scaraventarsi fuori dall'auto in corsa. Nel trambusto deve essersi fatto male al fianco.
In realtà, il fegato del Mureddu era letteralmente spappolato dalle bestiali percosse dei suoi aguzzini, il commissario di PS Greco e quattro suoi agenti.
La sporca faccenda è ormai di pubblico dominio. Nell'Isola gli animi sono tesi. Ho visto in quei giorni, a Fonni e nei paesi delle Barbagie, folle mute di uomini sostare nelle piazze come in attesa di straordinari eventi. La magistratura è costretta a intervenire. I cinque poliziotti vengono incriminati. L'imputazione è di «omicidio preterintenzionale aggravato», una singolare imputazione riservata ai poliziotti e ai padroni quando ammazzano un lavoratore per eccesso di zelo, «nell'esercizio delle loro funzioni» di repressione o di sfruttamento.
Calmatesi le acque, il magistrato incaricato di condurre l'istruttoria, «in nome del popolo italiano», proscioglie il Greco e i suoi complici. Verranno trasferiti in altra sede, e c'è da credere che abbiano fatto carriera (Sul «caso Mureddu» si veda L. Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in S. - Feltrinelli 1970 - p. 36 e s).
Il caso Mureddu non è certamente l'unico «infortunio» accaduto in Sardegna alla polizia. Se di pastori fermati non ne muoiono molti, probabilmente ciò si deve alla loro forte tempra. Il fatto è estremamente grave per il ripugnante cinismo con cui un giovane incensurato, assolutamente innocente, è stato massacrato e per come sono stati protetti gli assassini. Eppure, «il nome di Giuseppe Mureddu non è noto come quello di Giuseppe Pinelli, forse perché morire in colonia non ha lo stesso peso per la pubblica opinione (sinistre comprese) di una morte nella metropoli» (A. D'Orsi - Opera citata - pag. 222).

Sulla tortura adoperata dalla polizia italiana come strumento di giustizia «abbiamo la testimonianza di prefetti, di procuratori, di magistrati e di ministri. A Baronissi, presso Salerno, un carabiniere per estorcere una confessione a un detenuto gli legò strettamente i piedi con una catena di ferro fino a far sprizzare il sangue, poi fece passare nel nodo così formato una catena penzolante ad una sbarra fissata nel soffitto della stanza di sicurezza, lo sollevò a testa in giù scuotendolo fino a che il poveretto perdette conoscenza. L'on. Farina affermò, nel corso di una discussione provocata da questo episodio alla Camera dei deputati, che alle sue rimostranze il comandante dei carabinieri rispose: "Non è nulla, e dopo tutto non si è fatto che il proprio dovere". L'autore di quell'infamia non fu neppure allontanato dal paese durante l'istruzione del processo» (F.S. Merlino - Questa è l'Italia - Coop.L.P.1953).

Tecniche e strumenti di tortura che si ritiene siano scomparsi con le segrete e gli incappucciati della santa inquisizione, che ci vengono ripresentati in certa letteratura alla De Sade e in certi films dell'orrore, nella colonia Sardegna sono invece ancora usati, e certamente molto più di quanto non trapeli.

«Mi spogliano completamente - testimonia il pastore orgolese Luigi Succu al quotidiano la «Nuova Sardegna» - e mi distesero con la pancia in su e con le braccia aperte, strappandomi i peli dalle parti molli della pancia. Questo supplizio è durato a lungo e facevo degli sforzi sovrumani per resistere. Visti inutili i loro sforzi mi misero quindi il corpo penzoloni tenendomi le gambe inchiodate sul tavolo, mentre altri due mi tenevano i polsi torcendomeli. Infine, mentre uno mi reggeva il capo, un altro mi apriva a forza la bocca pompandoci dentro un liquido tremendamente amaro…».

Il pastore Succu viene fermato dai carabinieri di Bonorva in relazione al sequestro di Peppino Pinna. Egli si dichiara innocente. Passato poi nelle mani dei poliziotti di Sassari, «i giovani leoni» della Criminalpol, ripete a questi le sue proteste di innocenza. Non c'è il minimo indizio contro di lui, però è un pastore: un pregiudicato per estrazione sociale. In più, è orgolese, di una «zona delinquente». I poliziotti che spadroneggiavano a Sassari in quel periodo sono specialisti nell'arte di far cantare anche i muti. Con la tortura, infatti, il Succu finisce per dichiararsi colpevole. Sottoscrive tutto ciò che vogliono pur di uscire da quell'inferno e farsi chiudere in una prigione. Più tardi, disperato, tenterà il suicidio: la polizia lo ha torturato, lo ha costretto a confessarsi colpevole di un gravissimo reato, lo ha fatto processare dopo una lunga detenzione preventiva, lo ha rovinato economicamente e moralmente. Prosciolto infine con formula piena dal magistrato, il pastore Succu denuncia i suoi aguzzini: il vice questore Grappone, il commissario di PS Juliano e altri scherani. Gli stessi che troveremo implicati nei fatti di Sassari, che sveleranno alla pubblica opinione l'esistenza all'interno della polizia di una banda criminale che organizza e fomenta con provocatori di mestiere il banditismo in Sardegna.
Molti fermati che hanno subito torture dalla polizia preferiscono tacere per evitare ulteriori e peggiori guai. Come fra i membri di cosche mafiose, così fra i funzionari delle varie istituzioni del sistema vige l'omertà. Non è mai accaduto che un magistrato tra la versione di un cittadino e quella di un poliziotto scelga per buona la prima - a meno che l'evidenza dei fatti a favore dei cittadini non sia tale da cavare gli occhi.

E' il caso di Franco Fadda, «un giovane di 24 anni, fermato dagli agenti della squadra mobile agli ordini del dirigente commissario Gianfranco Corrias, nel corso delle indagini per la serie di furti ad alcune gioiellerie di Cagliari e dei centri della provincia; che accusa gli uomini della questura di averlo picchiato e maltrattato durante gli interrogatori nei locali di via Tuveri. A sua volta il dott. Corrias, nel rapporto conclusivo sull'azione di polizia giudiziaria trasmesso alla magistratura, avrebbe denunciato Franco Fadda anche per calunnia, resistenza ed oltraggio» (In «Sardegna Oggi» n. 62 del 1965). Torturato e poi incriminato per resistenza alla tortura!

3 - Quando si dice che gli anni dal 1966 al 1969 sono gli «anni caldi» del banditismo isolano, si dice il falso.
Le tecniche - modi e tempi - con cui l'attuale sistema crea e commercia i suoi falsi sono opere d'arte. Si comincia col raccogliere un qualunque fatto di cronaca nera verificatosi in Sardegna - tanto meglio se ha per protagonista un pastore - e lo si presenta con grande rilievo sulle prime pagine dei quotidiani. Quindi, il fatto viene cucito a tutta una serie di precedenti falsi sulla criminalità in Barbagia, falsi già istituzionalizzati e quindi «bevibili» a occhi chiusi.
Se a irrobustire la trama della montatura non accade nel frattempo qualche altro fatto criminoso, suscettibile di essere presentato al pubblico in termini emotivi, allora se ne inventa qualcuno - e la polizia ha non poca fantasia ed esperienza in questo gioco.
Il coro che è partito in sordina diventa frastuono - un crescendo che ricorda l'aria «la calunnia è un venticello» del Rossini - che si espande, avvolge, penetra, assorda, intontisce tutto il Paese, compresi i partiti di sinistra.
Negli spazi di pausa del coro si inseriscono allora voci miste indignate, allarmate, addolorate manifestando sgomento «davanti a tanta barbarie», piangendo sulla «triste condizione dei poveri indigeni», facendo voti affinché «venga ristabilita la legalità».
E' arrivato il momento di fare ipotesi terapeutiche. Tutte le medicine sono buone - si premette - quando c'è di mezzo un cancro: dalle taglie al confino, dai cani lupo ai baschi blu, dai lanciafiamme ai gas. A questo punto entrano in scena le «teste d'uovo» - criminologi, sociologi, giuristi e altri emeriti venditori di fumo - che dispiegano i dati statistici, manipolati in funzione della tesi prefabbricata.
Anche molta gente in buona fede finisce per credere che se tutto va a catafascio la colpa è dei banditi barbaricini. E la montatura comincia a dare i suoi frutti: si è reinventato e rimpolpato un pericolo pubblico su cui le masse sfruttate potranno scaricare le loro tensioni, su cui l'apparato repressivo troverà una giustificazione storica per esistere, crescere e funzionare, su cui infine il capitale speculerà traducendo il tutto in denaro sonante.
In quegli anni, e ancora nei successivi, i banditi sardi sono diventati un prodotto che andava a ruba in tutti i mercati. Chi aveva la possibilità ne faceva incetta, giocando al rialzo dei prezzi.
Gli editori si contendono gli scritti che parlano della Sardegna, purché ci sia almeno un riferimento ai banditi. Un nugolo di intellettuali, giornalisti, scrittori riempie di idiozie tonnellate di carta in saggi, racconti, romanzi. I produttori cinematografici insediano le loro troupes nelle varie località balneari dell'Isola e tirano fuori decine di polpettoni sulla società barbaricina, conditi con le cosce della diva del momento. La tivù, la radio e i grandi quotidiani padronali, spesso senza neppure scomodarsi di venire in Sardegna a vedere, fabbricano centinaia di inchieste coi ritagli di archivio cuciti con discorsi differenziati per vivacizzare una tesi che non dice nulla.
Il parlamento non vuole restare al di fuori di una questione che «avvince e preoccupa tutto il Paese». Decide di istituire una commissione con l'incarico di fare una propria inchiesta sui banditi sardi, e ne affida la presidenza a un suo membro che non sa più come impiegare: il vecchio senatore Medici, tappabuchi rinverdito e proletarizzato dalla presenza di Pirastu, deputato comunista di mestiere, che assume la funzione di vice presidente. Il mondo della cultura ufficiale, a questo punto,ne fa un caso personale: si getta a capofitto sui pastori e sulle pecore delle Barbagie, rifacendone la storia dai protonuragici, e organizza seminari, tavole rotonde, convegni, conferenze, dibattiti, simposi e congressi, con la presenza dei soliti tromboni, in amene località turistiche marine e montane.
In occasione del convegno tenutosi a Cagliari nell'ottobre 1967, organizzato dalla UIL e dalla Società Umanitaria, e foraggiato dalla Regione, Riccardo Bauer approfitta della occasione per fare un discorso sulla educazione degli adulti in funzione di un rilancio in Sardegna della Società Umanitaria, di cui è presidente. Ma quando parla del problema del banditismo sardo, Bauer, da galantuomo qual è, deve riconoscere che «non bisogna drammatizzare».

Dice Bauer: «Se guardiamo a ciò che avviene nelle grandi zone industriali, nei grandi porti e non solo in Italia, ma anche fuori d'Italia; se pensiamo alla delinquenza organizzata che caratterizza larghi settori della vita nord-americana, che pure si presenta come doviziosa oltre ogni dire, dobbiamo ammettere che gli episodi attuali del banditismo sardo acquistano risonanza particolare soltanto perché avvengono in un territorio ristretto, in un ambiente geografico estremamente circoscritto, per cui hanno un peso che invece non si ha quando grossi colpi della criminalità organizzata avvengono là dove la popolazione di una sola città si misura a milioni, dove frenetica si svolge un'attività tecnico-economica e sociale che con la propria intensità, con la propria virulenza soverchia ogni manifestazione patologica e la riduce a fenomeno marginale…» (R. Bauer in «Il Giornale», n. 13 del 1967.)

Sta di fatto che, dopo Bauer, qualcun altro ha dovuto ammettere che in Sardegna l'indice di criminalità è aumentato con la presenza dei Baschi blu, della Criminalpol e degli insediamenti petrolchimici.
Il vezzo di ingigantire ogni più lieve reato che si verifichi in Barbagia non è nuovo. Nei primi mesi del 1963, in una intervista, un pastore di Orgosolo dice: «Appena qui si commette un reato, i giornali si riempiono di fotografie e il paese di poliziotti. In tutto il mondo ci sono criminali, ma nessuno ci scrive sopra romanzi. Spesso, appena due ragazzi si prendono a pugni si tira fuori la vecchia storia della disamistade. E tutto il paese diventa un covo di banditi…» (U. Dessy, «Un mitra puntato male» in «Sardegna Oggi», n. 19 del 1963).
).
Sono gli stessi dati statistici ufficiali che smantellano la messinscena del «banditismo ruggente» degli anni 66-69.
Nel 1932, si registrano 134 omicidi; nel 1933 sono 106; 94 nel 1938 (siamo in pieno fascismo e Mussolini ha già annunciato alla nazione di «aver spezzato le reni»al banditismo barbaricino); nel dopoguerra gli omicidi salgono, evidentemente per «imitazione»: 216 nel 1947; 217 nel 1948; 157 nel 1949; altrettanti nel 1950. Nel 1952 gli omicidi continuano a calare: se ne registrano 135; nel 1953 sono 129; nel 1966 si ha un ulteriore calo: 54; soltanto 42 nel 1967; 23 nel 1968 e 23 nel 1969. Se sono ruggenti di criminalità questi ultimi tre anni, i precedenti cos'erano?
E' da chiarire, poi, che i dati riportati si riferiscono a tutta l'Isola e non soltanto alle Barbagie; e che, in percentuale, risultano fra i più bassi in rapporto alle altre regioni italiane - per esempio la Lombardia. E cito la Lombardia non per un pregiudizio alla rovescia, ma perché è agli antipodi della Sardegna sotto il profilo socio-economico e nel giudizio del sistema. I banditologi, citando quei dati, li riferiscono tout cour alla «zona delinquente», mentre sono il più delle volte da addebitare a mariti borghesi e a padri di estrazione militaresca che hanno ucciso moglie e figlia o amante per «motivi d'onore», a sottoproletari urbani che rubando le mille lire perdono la testa e uccidono per paura, a poveri contadini che inveleniti dalla fame si accoppano l'un l'altro per un miserabile palmo di terra.
In quei dati, per ovvi motivi, non sono mai compresi i cittadini ammazzati «per sbaglio» o per «eccesso di zelo» dalla polizia e i lavoratori assassinati «preterintenzionalmente» dal padronato, e tutti gli altri che quotidianamente il sistema massacra nelle strade, nelle galere, negli ospedali, nei brefotrofi.
Non sono i morti-ammazzati a preoccupare il sistema, ma i profitti. Che non sono sufficientemente al sicuro, nel momento in cui una nuova ondata di capitale invade l'Isola e gli imprenditori che devono farlo fruttare vengono sequestrati e salassati. Non ha importanza che gli omicidi siano calati nel giro di due decenni da oltre duecento ad appena ventitre. Non ha importanza che siano in netta diminuzione anche i tentati omicidi, le lesioni, le rapine, le estorsioni e perfino le liti. Ciò che importa è che sono aumentati i sequestri: reati contro il patrimonio dei possidenti, che sono cosa ben più grave del rubare galline o dell'uccidersi tra poveri. Da una media di 4 all'anno, i sequestri di possidenti sono saliti a una media di 7 negli anni «ruggenti»: 6 nel 1966; 13 nel 1967; 7 nel 1968; 2 nel 1969 (secondo altre fonti, 1).
Il liberale Francesco Cocco Ortu a toccargli i possidenti vede rosso, e preso di petto il ministro Taviani gli urla per lettera: «Agisca con la decisione che la drammaticità della situazione richiede, perché tutto quanto sta succedendo non può continuare!».
Augusto Guerriero - noto come Ricciardetto il “gasatore” - si infiamma tutto di ardori guerreschi e su un rotocalco italo-americano propugna lo sterminio dei pastori barbaricini con i gas e altre consimili armi, non essendo i banditi firmatari della convenzione di Ginevra.
Intanto, nessuno ha pensato seriamente di vedere se i sequestri di possidenti, spaventosamente saliti da 4 a 7 all'anno, non siano organizzati da altri possidenti antagonisti, e se i pastori non vengano se mai utilizzati come manovalanza o per dirla meglio con Mesina «come coperchio buono per coprire tutte le pentole». In fondo in fondo, questa idea deve essere balenata anche a Cocco Ortu, quando, nella stessa lettera al ministro Taviani, scrive che «non sono poveri e disperati pastori quelli che vanno scarrozzando per mezza Sardegna su veloci automobili, bene informati dei conti in banca delle vittime da essi prescelte».
Infatti, non poteva trattarsi che di concorrenza tra banditi del sistema. Perché dunque prendersela coi pastori?

4 - L'accento a «quelli che vanno scorrazzando su veloci automobili», sfuggito al Cocco Ortu in un momento d'ira, consente di introdurre la tesi, sufficientemente fondata, secondo cui se esiste un banditismo nel popolo, questo è sempre un prodotto del banditismo della classe al potere. Lo stesso Cocco Ortu annovera antenati d'alto bordo, deputati, ministri e finanzieri, pubblicamente definiti «capi di cosche mafiose». Nel giugno del 1914 il giornale socialista «Riscossa», in relazione al convegno degli esponenti liberali tenutosi a Isili nel 1895, scrive: «…vi fu organizzata l'alta camorra sarda, di cui piangiamo ancora la funesta conseguenza; dove la provincia di Cagliari fu ceduta alle voglie brigantesche di quella cricca onnipotente che l'ha immiserita, corrotta e che fa capo all'onorevole Cocco Ortu». E Paolo Orano, in un articolo sull'«Avanti!» del 26 maggio 1906, nella ipotesi che il Cocco Ortu venisse chiamato a fare parte del governo (ciò che poi avvenne, con l'incarico a ministro di grazia e giustizia) scrive senza peli sulla lingua: «Sarebbe enorme che questo figuro, eletto dalle sacrestie e protetto dai milionari genovesi fosse nominato ministro… A costui fanno capo tutti gli elementi loschi che succhiano il sangue della Sardegna. Cocco Ortu vuol dire ignoranza, pretume favorito, canaglia elettorale favorita nelle sue losche mene. La sua nomina a ministro sarebbe l'apoteosi della vergogna sarda al governo».

Sulle collusioni tra classe dirigente e criminali, il Bechi scrive: «…Se si dovessero metter dentro tutti i favoreggiatori… bisognerebbe rifarsi dall'alto, ma da molto in alto… dal prete al sindaco, dal sindaco al deputato, dal deputato al prefetto… i giornali sbraitano perché i carabinieri sono pochi, perché il governo non manda forze bastanti… ma se il brigantaggio è qui negli uffici, è in quella bottega, è per tutto: per tutto si infiltra sotto ogni forma di prepotenza e di ricatto. E' di qui che bisognerebbe rifarsi, anziché dal bosco…» (G. Bechi (Miles) - Caccia grossa - La poligrafica 1900 - p. 30).

Sulle collusioni tra giustizia e criminali, il Pais scrive: «In prova che, nella opinione generale in Sardegna, l'autorità è ritenuta servire, non alla giustizia ma ai partiti, citerò un fatto: Dopo la grassazione di Tortolì in un comune furono arrestate 14 persone sospette di avervi preso parte. Dei 14 uno solo era partigiano del sindaco, che si trova in dissidio col segretario comunale; fra gli altri, 4 erano consiglieri comunali e tutti e quattro avevano votato in consiglio contro il segretario. Io voglio ammettere che negli arresti nessuna ragione di partito abbia prevalso; ma constatai che non vi era alcuno che dubitasse che se i sospetti fossero caduti sui partigiani del segretario non sarebbero stati arrestati» (F. Pais - Relazione di inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in S. - Tip. Camera dei deputati 1896 p. 61).

Sulle collusioni tra politici e banditi, il «corriere della Sera» del 28 agosto 1899 scrive: «… Torracorte (famoso bandito del Campidano - n.d.r.) non era alieno dal partecipare alle lotte politiche: della sua propaganda elettorale deve anzi esser fatta menzione in un ricorso alla Camera, per ottenere l'annullamento delle elezioni. Di tanto in tanto faceva lunghe escursioni: s'aggirava nelle regioni del Gennargentu, facendo volentieri da guida a cacciatori, ingegneri e geologi che vi si recavano per ricerche scientifiche. Torracorte fece quattrini dai primi anni della sua latitanza, sicché era diventato proprietario di bestiame e lo allevava tranquillamente. Si fa ascendere a oltre 40.000 lire il valore delle sue mandrie: i soli cavalli, sequestrati con tutto il resto, sono in numero di 80! Dava anche denaro a mutuo e i suoi crediti, rappresentati da numerose cambiali, superano le 50.000 lire. La fortuna gli arrideva sempre, sicché egli poté costantemente sottrarsi alle ricerche degli ufficiali e agenti della forza pubblica, i cui fiduciari erano spesse volte gli amici più cari di Torracorte. Quasi sempre i carabinieri giungevano sul luogo dove avevano la certezza di trovarlo e si imbattevano in qualcuno che li informava che Torracorte era partito un'ora prima. I poveri benemeriti erano diventati lo zimbello di Torracorte e protettori, fra cui doveva contare qualche santo miracoloso. Due anni fa si doveva procedere per ordine dell'Ispettorato forestale, al taglio di parecchi vecchi alberi della foresta di Corongiu. Torracorte( era preoccupatissimo e la sua preoccupazione cresceva dì per dì: egli non si riteneva più al sicuro, temendo che, profittando dell'occasione, i carabinieri potessero snidarlo. Gli alberi erano stati perfino martellati; un solo miracolo poteva impedire il taglio e quindi un agglomeramento di persone nella foresta. Ed il miracolo, per opera e virtù del Santo, si operò: il taglio fu sospeso per ordine telegrafico partito dal ministero di agricoltura e commercio!».

Il servizio del Corriere - scritto dopo la costituzione di Torracorte - si contraddice quando dà per scontato che il taglio della foresta di Corongiu avrebbe messo in pericolo l'agiata latitanza del bandito. In pratica, quel taglio era una ennesima spoliazione del patrimonio isolano, perpetrata col pretesto di snidare i latitanti. Torracorte (è lo stesso Corriere ad ammetterlo) non viveva nella macchia ma conduceva vita pubblica con il sostegno dell'agricoltura, e poteva tranquillamente e proficuamente accudire alla sua attività di allevatore e banchiere.
Di più recente data (1963) le collusioni tra società capitalistiche e società mafiose denunciate in una rivista socialista:

«Tra Gavoi e Mamoiada, sul fiume Taloro, è sorta una modernissima diga, costruita dalla omonima Società Taloro (società di comodo della Società Elettrica Sarda). Come era naturale, i paesi vicini, da Orgosolo in giù, hanno fornito alle varie imprese la manovalanza, quel genere di merce umana che è sempre abbondante in Sardegna, costa poco e frutta molto. Prima preoccupazione della Società fu quella di stipulare un accordo di buon vicinato con la mafia locale - una consorteria di possidenti. La garanzia di ordine e di sicurezza in cambio di speciali favori: la scelta degli operai da assumere e una somma segnata nelle uscite del bilancio nella voce imprevisti. Ciò ha permesso, è vero, a tecnici e maestranze di costruire la diga e di circolare indisturbati tra le montagne circostanti (se si esclude un funzionario della Società fermato per sbaglio da alcuni uomini mascherati e rilasciato con tante scuse), ma ha dimostrato anche che i miti possono tornare utili rendendo più cospicuo un conto in banca…» (In «Sardegna Oggi», n. 19 del 1963).

Sullo stesso argomento, la rivista citata rincalza: «I fatti verificatisi nella terza diga del Taloro riportano a un aspetto poco noto del banditismo isolano, e cioè la collusione e la corresponsabilità di alcuni settori del padronato locale e la soggezione - ai fini della sicurezza del lavoro e dei profitti - della società imprenditrice e (già) proprietaria degli impianti idroelettrici. I fatti: un sorvegliante delle opere in uno dei tre sbarramenti è stato assalito e malmenato da ignoti. Gli stessi hanno strappato e gettato nel lago il motore che azionava le paratie di sicurezza. Lo scopo: intimidire i prestatori d'opera che non sono del luogo, avvertire l'ente elettrico che danni ben più gravi potrebbero verificarsi se non si terrà in debita considerazione la volontà della malavita… Apparentemente si potrebbe chiudere la faccenda con le solite vecchie questioni sulla delinquenza nel Nuorese… Ma sulle vicende del banditismo nella valle del Taloro si sa di più dei soliti concetti generali per fare il discorso di prammatica… Si sa che esiste un potente gruppo di notabili che tiene in mano il potere mafioso. Si sa che la Società Taloro è scesa a patti con tale cosca e si sa anche che le stesse forze dell'ordine non agiscono contro persone rispettabili. E' scappato detto anche a «L'Unione Sarda» che ha sempre ignorato prima della nazionalizzazione i taglieggi, i sistemi della assunzione consigliata della manodopera. Nell'editoriale del 26 ottobre scorso (1963)… si dice: "Molto si è saputo, ma moltissimo non è trapelato". E' vero: moltissimo non è trapelato. Perché? L'ex Società Elettrica Sarda ha evidentemente accettato - pro bono pacis dei suoi profitti - la legge della mafia, quando non soltanto subiva l'imposizione nella formazione dei quadri di lavoro, ma mancava di denunciare per esempio la sparizione di interi camions di cemento. Lupo non mangia lupo. E chi ci va di mezzo, al solito, sono i lavoratori. Che poveri erano e poveri sono rimasti anche dopo le dighe: sfruttati da una parte e bastonati dall'altra. Come è accaduto al sorvegliante Giovanni Maria Monti» (Sardegna Oggi - n. 36 del 1963).

Chi tiene i fili delle operazioni banditesche e in particolare chi organizza i sequestri in Sardegna? E' un interrogativo che nessuno si è mai posto seriamente, per paura delle spiacevoli verità che ne verrebbero fuori. Il caso Pirari è illuminante e vale la pena rispolverarlo.

I compagni di scuola di Giovanni Pirari dicono che era un «bombolone, sensibile, capace di piangere per la morte di un cavallo». La notte del 4 maggio del 1967, il «bombolone» viaggia in auto sulla strada che da Bitti porta a Nuoro. «Ha un faro spento. In località Sa Ferula una pattuglia della stradale lo ferma. Lo riconoscono subito. Figurarsi: è il figlio di Pietro Pirari, un notabile fra i possidenti di Nuoro. Ne farebbero anche a meno, ma il regolamento lo esige: patente e libretto di circolazione. "Lei si dovrebbe ricordare di me", dice l'agente Sili. "Le ho elevato contravvenzione per eccessiva velocità. Lei corre troppo. Poi, se non sbaglio, ci siamo visti alla palestra Gennargentu". Giovanni esibisce anche il porto d'armi per una carabina che tiene infilata nella spaccatura tra i due sedili anteriori. Quelli della stradale non si stupiscono che giri armato… (Fosse stato un pastore e non un possidente si sarebbero stupiti e anche arrabbiati - n.d.r.). C'è un'altra formalità. "Può aprire il cofano?" Parlano di cofano, ma intendono il portabagagli. Il bagagliaio è vuoto. Sotto il cofano, invece, c'è, legato ad arte tra il motore e il parafango sinistro, un mitra. Il ragazzo non capisce che vogliono controllare il portabagagli. Pensa che lo abbiano aspettato al varco proprio per quel mitra. E' un'arma proibita. Ma lui rischierebbe al massimo due, tre mesi con la condizionale. Il bambino scende di scatto dalla macchina, il calcio della carabina stretto sotto l'ascella. E' ancora piegato nel movimento per uscire dalla vettura, quando comincia a sparare. Nove colpi a raffica dal basso in alto. Il brigadiere Mannu e l'agente Bianchi stramazzano a terra, feriti a morte. Una pallottola frantuma la mascella dell'agente Sili. Adesso fanno fuoco anche gli uomini che erano rimasti a dormicchiare sulla campagnola della polizia. Ma è troppo tardi. Pirari ha già preso la via dei campi… Il movente della strage sta in quel mitra. Di certo avrebbe dovuto servire a qualcosa di assai più ambiguo dell'innocente collezione d'armi (era l'hobby del bravo figliolo) sbandierata dal padre come appiglio difensivo» (G. Vergani- Mesina - Longanesi 1968 - pagg. 108-109).

Il «qualcosa di assai più ambiguo» a cui sarebbe dovuto servire il mitra non poteva che essere il sequestro di possidenti concorrenti. Circa un anno dopo il giovane possidente cade in conflitto con la polizia - o almeno così si è detto: una sostituzione di persona avrebbe garantito per sempre l'impunità al Pirari, se si fosse rifatta una faccia e una vita all'estero.
Sotto il titolo «Pirari bandito protetto», una rivista apre uno spiraglio sulla questione del banditismo:

«…Pirari non è morto mentre tentava si scappare da uno dei nascondigli in cui la polizia, male indirizzata, dubitava si nascondesse per evitare la cattura: no, egli è morto in combattimento, in aperta campagna e in servizio, attrezzato di tutto punto, in compagnia di altri fuorilegge. E' certo, come è già stato rilevato, che egli facesse parte attiva, con tutti i diritti e i doveri connessi, di una delle bande che operano sequestri di persona a scopo di estorsione.
Tutto ciò appare un capitolo nuovo nelle vicende del banditismo (io direi «nuovo» soltanto nel senso che oggi si comincia a ribaltare la tesi ufficiale - n.d.r.): ora non dovrebbe essere difficile risalire ai mandanti, dopo che per anni si sono perseguitati solo gli esecutori o i presunti tali, e con metodi che ancora oggi appaiono errati e controproducenti… Giovanni Pirari era diventato esecutore per necessità, dopo la sparatoria del 4 maggio 1967: diversamente avrebbe potuto continuare la sua attività di studente incensurato, di portaordini e di rifornitore di armi per i fuorilegge, perché egli apparteneva all'alta categoria, a quella dei ricchi latifondisti, cioè dei mandanti. CONTINUAVA LA TRADIZIONE, AGGIORNANDOLA AI TEMPI: DALL'ABIGEATO E DALLA USURPAZIONE DI TANCHE AL SEQUESTRO DI PERSONA. Egli apparteneva a una famiglia di potenti, imparentata ed amica di grossi personaggi della politica e dell'arte forense, che durante quest'anno lo hanno protetto accreditando la tesi dello studente diventato bandito per spirito di avventura, per cui la sparatoria in cui perirono due agenti era solo una tragica ragazzata e la sua mancata costituzione un estremo tentativo di sparir, anzi ogni tanto appariva la notizia che egli era già all'estero, con i connotati resi irriconoscibili da una o più operazioni di plastica facciale…
La spiata, se è avvenuta come tutto lascia supporre, è stata in alto, molto in alto. Qualcuno di coloro che per un anno lo hanno protetto, forse ora lo hanno condannato a morte: perché non parlasse: perché Pirari, ben più dei Mesina e dei Campana, conosceva chi da anni tira i fili dei sequestri di persona, chi sono gli intoccabili, i rispettati, i mammassantissima, chi, ad esempio, può consegnare lettere estorsive senza trovarsi con le manette ai polsi. Ci siamo opposti, sempre, al confino come misura di repressione anticostituzionale, arbitraria e inutile, anche perché con essa è stata colpita tanta povera gente, molto spesso estranea alle vicende della malavita. Ma ora, perché, in attesa di avere prove per sbatterli in galera, alcuni potenti che risiedono in città non vengono invitati, per esempio, a trasferirsi diciamo, in Valtellina? Forse qualche candidato alle elezioni del 19 maggio dovrebbe sospendere la sua campagna elettorale? E non sarebbe peggio procedere domani contro chi già siede in uno dei rami del Parlamento? Forse si priverebbe il Foro di qualche grosso protagonista? Non sarà davvero una grande perdita. Ma la malapianta va estirpata alla radice e subito; ed essa più che sulle impervie montagne alligna in comode abitazioni borghesi» (In «Sassari Sera» del 1 maggio 1968).

Melas, il vescovo di Nuoro, negherà a Giovanni Pirari sepoltura cristiana. Sul gravissimo provvedimento che rigetta dal seno della Chiesa un figlio che fu «prediletto», scaraventandolo nell'inferno riservato ai «reprobo-pastori», è stato scritto:

«Non osiamo neppure pensare che nel gesto disumano di un alto rappresentante della Chiesa si celi un calcolo politico. Che cioè la Chiesa, anche essa come tutte le altre istituzioni responsabile del dramma che corrode la società, voglia ammantarsi di inflessibile severità morale nel tentativo di eludere il giudizio della Storia. Spesso, gesti di solenne condanna e duri anatemi nascondono… colpe, complicità» (In «Sassari Sera» del 1 maggio 1968).

Nello stesso mese di maggio scoppia una seconda bomba nelle mani della classe dirigente. Viene alla luce, fortunosamente, un clamoroso retroscena nell'industria dei sequestri e dei ricatti nell'Isola: un notissimo avvocato sardo, un principe del Foro, appartenente alla ricca borghesia compradora, viene pescato mentre consegna lettere estorsive.

«Polizia e magistratura sono al corrente del caso. Il penalista afferma di essere stato costretto a fare il mediatore. Da chi? Perché? Egli si è dichiarato disposto a trattare nel suo studio con una Società automobilistica indicando la cifra e le modalità del versamento… Sappiamo con certezza che alcune settimane fa, uno dei massimi avvocati della Sardegna, fra i più rispettati e stimati, che nel passato ha avuto anche importanti incarichi politici, ha consegnato ad un impiegato della Società Automobilistica SATAS una lettera estorsiva, con la quale minacciava la stessa Società di gravi rappresaglie qualora non avesse versato una certa somma entro una certa data. Ci eravamo formati la convinzione che commette un grave reato chi, per un motivo o per l'altro, aiuti chiunque nell'esecuzione di un delitto gravissimo quale l'estorsione, divenuto ormai in Sardegna il reato più frequente e pericoloso: ora dovremmo ricrederci, perché il suddetto avvocato, forse per l'aureola di rispettabilità, forse per i legami che ha potuto contrarre in alto loco, forse per misteriose, ma non troppo, protezioni, è stato sì interrogato da altissimi funzionari delle forze dell'ordine ma è tuttora a piede libero e non ci risulta neppure che sia stato incriminato, per cui il novantanove per cento dei sardi ignora l'episodio gravissimo che getta nuova luce sull'intera vicenda del banditismo sardo. Siamo in grado di affermare, cioè, che polizia e magistratura sono a conoscenza dei fatti, sono in possesso della lettera estorsiva, sanno chi è lo strano portalettere, hanno potuto ricostruire le circostanze e i particolari dello sconcertante episodio: il suddetto avvocato è stato… perfino interrogato e abbiamo motivo per credere che non abbia potuto negare le sue responsabilità…» (In Sassari Sera – 1 giugno 1969).

Il notissimo avvocato è il senatore Mastino, che querela il direttore di «Sassari Sera» essendosi riconosciuto nell'articolo riportato. Il processo Mastino-Sassari Sera vede coinvolto anche il prefetto di Sassari, Zanda, il quale avrebbe «consigliato l'inoltro delle lettere estorsive». Il prefetto, dal canto suo, in una lettera al presidente del tribunale, smentisce di avere dato suggerimenti del genere. Il direttore di Sassari Sera verrà assolto con formula piena: i fatti denunciati sono veri.
Un anno prima, subito dopo le elezioni politiche del '68, c'era stato il clamoroso arresto dell'avv. Bruno Bagedda, accusato di essere il capo della «Anonima sequestri», una banda di rispettabili borghesi che avrebbe messo in piedi una industria del ricatto.

«Il 19 e il 20 maggio del 1968 gli italiani vanno alle urne. Ci vanno, naturalmente, anche i sardi. Devono eleggere i loro rappresentanti al Parlamento. Mai come in questi giorni (il questore) Salvatore Guarino si occupa di politica. Segue con trepidazione, con inquietudine, con ansia i risultati del collegio di Nuoro per la Camera dei deputati. C'è un amico in lizza per un posto a Montecitorio? No. C'è l'avv. Bruno Bagedda. Quarantasette anni, statura leggermente al di sotto della media, aria distinta, occhiali austeri, stile intellettuale. Penalista tra i più noti della Sardegna. Uomo politico. Coordinatore regionale e membro della direzione nazionale del MSI, consigliere comunale di Nuoro. Combattente fascista. Decorato con tre croci e con una medaglia concessagli dai tedeschi. Legale per anni di Graziano Mesina. La Criminalpol identifica in lui il misterioso capo della Anonima sequestri, una potente organizzazione criminale…» (M. Guerrini - L'anonima sequestri - Leader 1969).
«Per poche centinaia di voti l'avvocato Bagedda… non è diventato deputato. Se il responso dell'urna fosse stato positivo, a partire dal 22 maggio egli avrebbe goduto dell'immunità parlamentare. La Criminalpol ha pertanto corso il rischio di lasciare a piede libero, per almeno cinque anni, il presunto capo dell'Anonima sequestri. Cosa ha indotto il questore Guarino a chiedere il mandato di cattura contro il penalista nuorese dopo e non prima del 19 maggio? Le voci sul conto dell'avvocato Bagedda, messe in giro non sappiamo da chi - circolavano sin da novembre scorso. La sua cattura era ritenuta imminente già a una settimana di distanza da quella del dott. Baingio Piras e del suo amico Ballore…» (In Sassari Sera – 30 giugno 1969).

Baingio Piras, facoltoso possidente e procuratore legale, verrà processato e condannato. L'avvocato Bruno Bagedda, dopo qualche mese, verrà prosciolto per insufficienza di prove.

5 - A provocare e a coinvolgere i pastori, per dimostrare che i criminali organizzatori di sequestri sono loro, ci pensano gli appositi cervelloni della Criminalpol, sbarcati in Sardegna appunto per risolvere lo «spinoso problema» del banditismo. Fra questi Sherlock Holmes rifulgono per spirito di iniziativa il vice questore di Sassari Grappone e il commissario di PS Juliano, coadiuvati dal vice commissario Balsamo, dal brigadiere Gigliotti, dalla guardia Cinellu e dagli agenti provocatori Marullo e Rovani ingaggiati nella malavita napoletana.
Nell'agosto del '67 viene fatta circolare la voce di una fantomatica banda di criminali che ha come zona operativa Sassari e dintorni. I suoi «pericolosi» componenti sarebbero specialisti in rapine, estorsioni, sequestri di persona: lo proverebbe il fatto che numerosi notabili (industriali, commercianti, avvocati e parlamentari) hanno ricevuto una o più lettere estorsive: qualche decina di milioni in cambio della pelle, evitando inoltre i disagi di un sequestro con permanenza in umide grotte. Che si tratti di una banda di criminali «temerari» non vi è dubbio: hanno avuto il coraggio di ricattare addirittura Segni, un ex presidente della repubblica.
Ma la polizia sta all'erta. Alla sua testa ci sono i «giovani leoni» della Criminalpol, usi alle macchine elettroniche, alle soluzioni scientifiche, membri onorari dell'FBI. Il dott. Grappone - confidenzialmente Gianni - un bel fusto che fa girare la testa alle signore «bene» - viene da Milano, dove ha sgominato bande di tenutarie di casini non autorizzati: terrore di ragazze squillo e di libidinosi commendatori. Il commissario Juliano viene da Napoli, dove si è distinto per avere messo a punto un nuovo metodo di schedature che gli consentiva di acchiappare il criminale prima ancora che questi mandasse a effetto il disegno criminoso; e una volta acchiappato, non c'era scampo: il «pizzicato» cantava. Juliano aveva scoperto uno speciale «siero della verità»: costringeva il malandrino nudo sopra un tavolaccio corto, di modo che penzolasse nel vuoto dalla cintola in su, col capo amorevolmente sostenuto da fidati subalterni, e gli pompava in corpo qualche decina di litri di acqua amara e salata. Usava anche, nei casi più lievi, la depilazione a strappo, senza ceretta, delle ascelle e delle parti dette in termini sbirreschi «turpi». Già in passato qualcuno aveva avuto da lamentarsi dei «trattamenti» del dott. Elio Juliano, tra gli altri un certo Sciarretta, detenuto a Regina Coeli, e più avanti il pastore Luigi Succu. Ma i magistrati avevano alzato le spalle: Quando mai!? Un funzionario modello come l'Elio? occhioni verdi, distinto, elegante, raffinatissimo nel baciamano alle signore.
Con la fama che si portavano dietro i «Giovani leoni» della Criminalpol, i buoni borghesi di Sassari si sentivano protetti e tranquilli. Potevano dormire sognando nuovi profitti, con le guardie di ronda sotto casa fornite gentilmente dalla questura insieme ai depliants azzurro-mare con su scritto «Non siete mai soli - la polizia è con voi».
Infatti, all'alba del 14 agosto la grande notizia. La pericolosa banda (che verrà denominata «di ferragosto») è stata sgominata e i suoi membri assicurati alla giustizia. Lo stesso giorno, il vice questore Grappone convoca la stampa nel suo ufficio per diffondere la lieta novella con tutti i particolari. Sono caduti nella rete Mario Pisano, un autista disoccupato; Archelao Demartis, anche egli autista senza auto; Sisinnio e Graziano Bitti, padre e figlio, rispettivamente pastore e infermiere; infine uno studente, Antonio Setzi. I componenti più pericolosi della banda, due pastori, Umberto Cossa e Pasquale Coccone, malauguratamente, sono sgusciati dalla rete e si sono dati alla latitanza. Ma ormai sono individuati e braccati: la loro cattura è soltanto questione di tempo; basterà mettere una vistosa taglia sulle loro teste.
Con accenti drammatici, il vice questore Grappone racconta ai giornalisti la mancata cattura del pericoloso bandito Umberto Cossa, il conflitto a fuoco, la spericolata fuga. Lo stesso Grappone, alla testa dei suoi uomini, ha diretto le operazioni, circondando all'alba l'ovile del fuorilegge. Alla intimazione dell'alt, il bandito, vistosi accerchiato, non esita a estrarre una pistola e ad aprire il fuoco contro gli uomini della legge. Per fortuna di questi, l'arma si inceppa al primo colpo, e il bandito si dà a precipitosa fuga. Le forze dell'ordine decidono che è più conveniente lasciarlo scappare che fermarlo con una raffica di mitra. «A noi quel Cossa serve vivo», spiega il dott. Grappone con un sorriso enigmatico.
Il Cossa viene descritto e appare sempre più un «big» del banditismo isolano degli «anni ruggenti». Nella sua vita c'è un precedente che non lascia ombra di dubbio sulla sua pericolosità: all'età di 16 anni è stato acchiappato dai carabinieri nelle campagne di Urì con 9 pecore rubate da una delle tante greggi di proprietà di Antonio Segni, allora ministro dell'agricoltura (e allevamento). Il Cossa si ebbe per questo «sacrilego» furto 7 anni e otto mesi di galera interamente scontati.
Il dott. Grappone, assistito dai suoi collaboratori, sciorina l'impressionante armamentario sequestrato alla banda: la pistola inceppata del Cossa, mazze di ferro, martelli di gomma, piedi di porco e grimaldelli vari. Quindi passa a elencare le azioni criminali della banda (azioni, per la verità, ancora tutte in fase di programmazione, e che aumenteranno sempre più di numero con gli interrogatori abilmente condotti dal dott. Juliano). Nel mese di luglio, la banda tenta una rapina in una gioielleria. Il proprietario oppone resistenza e viene accidentalmente colpito col calcio di una pistola da cui parte un colpo che non ferisce nessuno. Spaventati dalla esplosione i «pericolosi» malviventi si danno alla fuga, senza avere preso una lira. Alcuni giorni più tardi, nuovo tentativo di rapina in un motel. Stanno per infilarsi le maschere ed entrare, quando li vede il portiere che li avverte che dentro c'è gente. I rapinatori ci ripensano e si danno alla fuga. Dalle rapine, la banda passa ad azioni più pericolose: comprano carta e penna e cominciano a spedire a destra e a manca lettere estorsive regolarmente affrancate. Cominciano con un industriale, e in attesa dei soldi - che non arriveranno mai, perché non vengono presi sul serio - se ne stanno a gironzolare nei pressi dell'abitazione dell'industriale ricattato. La polizia ne deduce che avessero in mente il progetto di sequestrargli il figlio quindicenne. Il programma delittuoso che la banda avrebbe dovuto portare a compimento appare davvero imponente: due o tre sequestri di persona; numerosi assalti alle banche. La mente direttiva sarebbe Umberto Cossa.
La brillante operazione portata a termine dai «giovani leoni» della Criminalpol strappa gli applausi: congratulazioni, ricevimenti, promozioni, telegrammi di auguri e, sulla stampa, titoli trionfali. Poi la doccia fredda.
L'8 settembre è una data infausta per il militarismo italiano, che oltre a subire una dura sconfitta si mostrò quel che era, codardo. Una data infausta anche per Grappone, Juliano e camerati, che vedono crollare ignominiosamente la montatura della «banda di ferragosto» messa su con astuzia, pazienza e molte menzogne.
L'8 settembre del '67 il pastore Umberto Cossa, «il terribile latitante», si presenta alla redazione della «Nuova Sardegna», quotidiano di Sassari, e lì vuota il sacco prima di andare a costituirsi (dai carabinieri - precisa - non alla polizia, per non fare la fine di Mureddu). Ecco il racconto che egli fa del «famoso» conflitto a fuoco nel suo ovile:

«Quella mattina stavo radunando le pecore per la mungitura, quando in lontananza notai delle persone. Le additai al fratello del mio principale, il signor Solinas, che però mi disse di stare tranquillo: non c'è da preoccuparsi. E allora proseguo verso una casa campestre diroccata. Giunto a una quarantina di metri dalla casupola vedo che all'interno ci sono delle persone, altre due sono all'esterno. Da un buco del muro vedo spuntare la canna di un mitra. Sento un ordine secco: "Fuoco!" e cominciano a spararmi addosso. "Ma siete pazzi?!" grido io, agitando la mano e avanzando un passo o due verso di loro. Quelli continuano a sparare. Di fronte alla morte, che si fa? Si fugge. E sono fuggito. Mentre le pallottole si conficcavano nel terreno attorno a me, sollevando un polverone che mi accecava! Ho corso una sessantina di metri. Poi mi sono gettato a terra, dietro un muretto a secco. Quelli smettono di sparare. Allora, visto che non mi inseguivano, mi sono allontanato dalla zona».

Alla redazione del quotidiano gli chiedono della pistola da lui usata nel conflitto, che si è inceppata e che è stata raccolta e mostrata come prova dalla polizia. «Ma che pistola! - dice il Cossa - Non avevo addosso neppure uno spillo. Sfido la polizia a dimostrare che su quella pistola ci sono le mie impronte digitali!».

Gli si chiede dei delitti di cui la polizia lo accusa. «Per fortuna - risponde - a quell'epoca ero in prigione! Per fortuna, perché se no adesso come farei a discolparmi? Il pastore porta sempre i suoi testimoni; ma sono sempre i testimoni del pastore. Sono innocente ecco perché mi sono presentato… Non ho commesso né furti, né estorsioni, né rapine! Dovevo sposarmi, mettevo in disparte i miei risparmi: che devo fare il delinquente? Ditemelo un po' voi».

Alle rivelazioni del Cossa - che intanto si è costituito - seguono le dichiarazioni fatte al magistrato dagli altri imputati, che si dichiarano innocenti di gran parte dei reati loro addebitati e denunciano le torture subite dalla polizia (qualcuno ne porta ancora i segni). Ammettono di avere rubacchiato da qualche auto in sosta, ma negano categoricamente di avere avuto l'intenzione di commettere rapine o sequestri di persona. Una parola dietro l'altra saltano fuori le figure di due «continentali che parlavano con accento napoletano». I loro nomi, Gianni e Franco. Avevano avvicinato la combriccola, vi si erano intrufolati e proponevano di mandare lettere estorsive e di compiere rapine alle gioiellerie, alle banche. Vantavano, davanti agli sprovveduti ladruncoli, un curriculum banditesco eccezionale.
I magistrati - davanti all'evidenza - devono prendere per buone le dichiarazioni degli imputati, dando incarico ai carabinieri di svolgere indagini sul caso, che presenta macroscopiche contraddizioni e che è diventato ormai di pubblico dominio. La verità finisce per venire a galla almeno nelle parti essenziali: i «giovani leoni» della Criminalpol per dimostrare l'efficienza della loro organizzazione, farsi belli e accelerare la loro carriera, hanno fatto passare quattro sprovveduti ladruncoli per una pericolosissima banda di criminali, addebitando loro gravissimi reati mai commessi. Per mettere in opera il macchinoso disegno, i funzionari della Criminalpol hanno fatto venire in Sardegna due loro confidenti, già collaudati in simili provocazioni, e li hanno inseriti nella combriccola per movimentare le acque della criminalità, che a Sassari si mostravano troppo tranquille. Si sa: se il crimine non divampa, che ci sta a fare un buon poliziotto? Intristisce. I due confidenti, individuati poi in Biagio Marullo e Vittorio Rovani, pregiudicati napoletani, hanno movimentato tanto le acque da mettersi a delinquere anche in proprio.

Il magistrato spicca i mandati di cattura. «L'incarico di eseguirli è affidato a un ufficiale dei carabinieri che però prende tempo, si consulta con i suoi superiori e infine decide di girare il mandato alla questura. E' probabilmente la prima volta che la tradizionale competitività tra polizia e carabinieri viene saggiata su un difficile caso di polizia giudiziaria: l'esperimento dà un risultato inatteso. La decisione del magistrato, cioè l'arresto di due commissari, Juliano e Balsamo e d'un sottufficiale , Gigliotti, è tenuta in sospeso dai patteggiamenti e dai convenevoli tra polizia e carabinieri intorno ai tempi e ai modi di procedere alla esecuzione d'un ordine perentorio e insindacabile» (G. Ghirotti - Mitra e Sardegna - Longanesi 1968 pagg. 188-189).

In pratica, la competitività tra i due apparati repressivi ha dato «ottimi» risultati. Non si trattava della puntigliosa competitività nel manganellare gli scioperanti o nel far fuori i pastori barbaricini. Diversi frutti ha invece dato «la tradizionale competitività» tra polizia e carabinieri, quella che si realizza nel classico borghese «far le scarpe» al collega troppo intraprendente, che ha dato modo all'opinione pubblica e al magistrato di smascherare le macchinose montature dei «giovani leoni». Infatti, costoro dovevano stare, come suol dirsi, sulle palle di certi loro colleghi, i quali presi carta e penna hanno diffuso un memoriale denso di pesanti accuse nei confronti di Mangano e camerati. Ne parlerò più avanti.
I magistrati sassaresi che si sono spinti al limite estremo di ordinare l'arresto (per altro mai eseguito) di alcuni intoccabili, hanno mostrato un coraggio che rasenta la temerarietà. Da tutte le parti si grida allo scandalo: «Come?! i banditi fuori e la polizia dentro?». L'avere pizzicato un poliziotto con le mani nel sacco e l'avere tentato di applicare anche su di lui la legge è un evento così straordinario, in Italia, e ancora di più in Sardegna, che minaccia di far crollare tutto quanto. La gazzarra che ne segue vuole ribadire due cose: l'intangibilità della polizia, qualunque crimine commetta, e la legittimità di mettere in galera, anche se innocenti, i pastori sardi, perché soltanto loro sono banditi.
Dopo lo scoppio dello scandalo, il sistema si affretta a stendere coltri di silenzio. Poi prende tempo. Il tempo, che è «galantuomo» per i poveri che in attesa di processo marciscono in galera, per i ricchi e per i potenti è «puttana». In seguito, calmatesi le acque, il processo verrà celebrato a Perugia «per legittima suspicione». Sono presenti gli imputati sardi, calunniati e torturati, e gli imputati della polizia, calunniatori e torturatori. I primi in stato di detenzione, con le manette ai polsi. I secondi a piede libero, in doppio-petto, ancora in servizio, stipendiati dallo stato e con una coorte di grossi avvocati anche essi pagati dallo stato.

«A Perugia si assiste allo spettacolo squallido di un ex vice capo della polizia che si insedia in permanenza tra Grosseto e l'Hotel Bruffani (dov'è stato Rovani la notte precedente il suo interrogatorio, quand'è arrivato in aula con un'ora di ritardo?), che sgambetta e si agita per organizzare la difesa di Juliano ma anche di pregiudicati come Marullo. Agisce per conto di Vicari? Chi lo ha autorizzato, al momento dell'arresto di Marullo, a chiedere spiegazioni ai carabinieri e a chiedere che la traduzione del confidente napoletano fosse differita? In nome e per conto di chi interviene? Chi sborsa gli oltre 80-100 milioni occorrenti per pagare l'agguerrito collegio che difende la banda Juliano? Che sia Di Stefano il tesoriere di Perugia? E a quale titolo? Se ha cessato il suo rapporto d'impegno con l'amministrazione della PS, chi lo ha riattivato? E' possibile che Vicari non si renda conto che questa presenza è discutibile? Di Stefano in Sardegna è stato indicato come l'uomo che ha patteggiato al prezzo di 120 milioni la costituzione di Graziano Mesina. E' l'uomo che ha guidato Mangano e Guarino, a loro volta indicati come gli instauratori del nuovo sistema secondo cui i latitanti dovessero essere catturati col denaro, mediante l'autocompenso diretto senza ricevuta. Non ci meraviglierebbe un'inchiesta amministrativa sulla Criminalpol. Non per mettere in dubbio l'onestà di chi ha amministrato tanto denaro senza rendiconto, quanto per vedere come è stato distribuito, a chi e in quali circostanze. Si tratta del denaro di pantalone e il ministro può farsi friggere con la storia dei fondi riservati. Perché Di Stefano invece di stare dietro le quinte non va a deporre sotto giuramento su tutto quello che sa sull'ultimo corso del banditismo in Sardegna? Quanti soldi sono stati bruciati e come? Forse più di Vicari e del ministro di polizia, è la persona più adatta a tranquillizzare le anime dubbiose…» (In «Sassari Sera» del 15 dicembre 1968).

6 - I «fatti di Sassari» hanno destato stupore perché alcuni magistrati hanno osato mettere sotto accusa alti funzionari di polizia, non perché tali fatti sono accaduti. In Sardegna, più che altrove, sono frequenti anche se non appaiono quasi mai alla luce del sole. E quando eccezionalmente esplodono, la causa non è da attribuirsi a una maturità civile, a una vigilanza delle masse popolari (che in quanto escluse dal potere non possono avere alcuna possibilità di controllo), ma il più delle volte a rivalità a livello di potere. Si può affermare, con sufficiente fondatezza, che le malefatte dei potenti di cui è intessuta la storia si sono potute conoscere essenzialmente per lo sputtanamento reciproco tra gli stessi potenti.
Nello stesso anno dei «fatti di Sassari», circola un «memoriale», uscito - si dice - dalla questura di Nuoro (ma forse più in alto) contro i metodi della Criminalpol e con pesanti circostanziate accuse nei confronti del questore Guarino e del suo vice Mangano (L. Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in S. - Feltrinelli 1970).

«…L'opera di questi esaltati doveva far subito scalpore per far valorizzare poi le loro operazioni e i loro mafiosi nomi che dovevano sistematicamente assurgere agli onori della stampa, nel modo più clamoroso possibile. Iniziarono così senza alcun criterio le numerose perquisizioni, spesso arbitrarie, che hanno portato al disappunto della magistratura, agli assedi dei centri abitati, alle rappresaglie e ai maltrattamenti contro i pastori e altri onesti cittadini, agli indiscriminati blocchi stradali, ai rastrellamenti e alle grandi operazioni di tipo militare e a tanti altri soprusi che hanno provocato le motivate lamentele da parte della popolazione ingiustamente oppressa dalla follia di questi megalomani… Per poter realizzare qualche operazione si ricorre disperatamente agli acquisti di latitanti a pagamento diretto. Il vice questore Mangano inizia personalmente la questua opprimendo gli avvocati e prescegliendo i latitanti gravati di taglia che hanno la quasi certezza di essere assolti dalle vacillanti imputazioni giudiziarie. Si mostra così l'impotenza assoluta delle ingenti forze di polizia presenti nel Nuorese. Alcuni latitanti, sentito il parere dei loro legali, trovano convenienza ad incassare la loro stessa taglia, si costituiscono con le dovute garanzie… e vengono allora catturati dal questore Guarino e dal suo luogotenente Mangano, o da altri prediletti della loro combriccola… Per valorizzare l'operazione si segnala la drammatica cattura. Vengono poi avanzate esagerate proposte e si ottengono altre somme a titolo di premio, e si usurpano immeritate promozioni da parte di funzionari e di altro privilegiato personale, con enormi vantaggi di carriera. Mediante soprusi si riesce per poco prezzo a far uccidere un latitante già classificato pericolosissimo (e portato agli onori della pericolosità), si spara sul suo cadavere per inscenare un conflitto, si compilano falsi verbali per la magistratura e si intascano milioni e si ottengono altri vantaggi per la carriera…».

La rivista che per prima ha pubblicato il memoriale sostiene che il questore Guarino e il suo vice Mangano avrebbero anche assoldato e assoggettato il comandante dei carabinieri, il quale, allettato dai grandi vantaggi dell'«operazione questua latitanti» si sarebbe associato ai due «mafiosi dittatori» (In «Sassari Sera» del 1 novembre1967).

«Anche i carabinieri - prosegue il memoriale - partecipano ora quotidianamente alle arbitrarie perquisizioni, agli assedi dei centri abitati, ai maltrattamenti contro onesti e indifesi cittadini, alle insensate ed estenuanti operazioni di tipo militare e nazista, e perdono così la stima che godevano fra la popolazione e vengono anch'essi in uno con la polizia, pubblicamente accusati dalla autorità e dalla stampa… Ma ai tre mafiosi (Guarino, Mangano e il comandante dei carabinieri? - n.d.a.) tutto questo importa poco. Per loro il bello viene dopo. Il ministro dell'interno riceverà la segnalazione della drammatica cattura e dovrà pagare diversi milioni a favore dell'inesistente ignoto confidente… Pagherà anche altre buone somme a titolo di premio per la riuscita dell'artificiosa operazione, e, sulla base di fraudolente proposte, elargirà, come è già accaduto, le usurpate promozioni al merito di servizio, che sono immediatamente fonte di duraturo benessere economico per taluni prediletti a danno degli onesti funzionari» (In «Sassari Sera» del 1 novembre1967.).

Gli «onesti funzionari» sarebbero quelli che hanno scritto il memoriale. Infatti, chi lo ha stilato e diffuso non può che essere un addetto ai lavori, visti la conoscenza della materia e il tono risentito - anche se ricorre continuo il richiamo ai diritti civili del cittadino.
La rivista «Sassari Sera» ritorna frequentemente in argomento per ribadire le accuse alla Criminalpol. Alla fine del '68 pubblica un servizio sotto il titolo: LA POLIZIA ORGANIZZA SEQUESTRI E ARMA I DELINQUENTI.

«Diciamolo francamente. Nessuno può stupirsi del fatto che i sardi non hanno fiducia della polizia. A Cagliari, durante il processo De Murtas il presidente del tribunale Pili deve ammonire l'ex questore Rosa dicendogli: "Lei ha fatto una brutta figura". Di fronte alla decisione del magistrato, l'alto funzionario di polizia ha ritrattato su una circostanza di capitale importanza. A Nuoro, il pubblico ministero che conduceva le indagini per il sequestro di Capelli ha chiesto l'assoluzione di ben quattro imputati perché gli elementi a loro carico erano fondati su accuse che l'ex capo della Criminalpol Guarino e il suo vice Mangano avevano fabbricato con la cosciente volontà di allestire una montatura. Il dott. Marcello ha avuto parole molto dure nei confronti dei due funzionari di polizia… Al tribunale di Nuoro, durante il processo contro Verachi e Tolu, accusati di aver tentato il sequestro dell'industriale Tondi, vengono clamorosamente confermate alcune rivelazioni al procuratore generale. (Nel successivo capitolo si vedrà quali fossero queste rivelazioni, trattando dell'uso di provocatori e confidenti fatto dalla polizia - n.d.a.). E' emerso chiaro che elementi della polizia, confidenti e malviventi in genere, avevano organizzato in combutta quel tentativo di sequestro finito col ferimento di un mentecatto inviato allo sbaraglio e a spese del quale la polizia ha rimediato una delle tante operazioni brillanti siglate dalla Criminalpol. Ma, sempre in quel processo, è emerso qualcosa di meno chiaro per non dire di più torbido. Il questore Anania in persona ha trattato con uno dei pregiudicati implicati, dandogli nel contesto delle trattative due milioni. Questa polizia che distribuisce milioni alla malavita, che arma i pregiudicati, che li costringe alla delazione con mille angherie (ritiro di licenze, di patenti, con diffide e misure restrittive varie), che importa agenti provocatori che poi si uniscono alle bande sarde organizzando e dirigendo azioni criminose, fa pena e desta allarme. Non importa che il questore Anania sostenga che i soldi dati al Veracchi organizzatore del sequestro a vuoto di Tondi avevano lo scopo di ottenere informazioni utili alla cattura di Mesina. L'ultimo re del Supramonte sta diventando un alibi comodo che viene utilizzato dai vice questori, dagli ispettori della polizia e addirittura dai confidenti importati da Juliano. Uno di essi, durante il processo di Perugia, avrà la spudoratezza di affermare che lui in Sardegna c'era venuto come cacciatore di taglie, un bounty killer: un ammazzasette senza scrupoli che il commissario Juliano ospita in casa propria e fa sedere a tavola con la moglie e i figli… Siamo arrivati al punto che la Criminalpol, che era venuta per stroncare un fenomeno ne ha alimentato altri in parallelo: organizzando, come dicevamo, sequestri, furti, e armando perfino i delinquenti. Attualmente abbiamo alla sbarra più commissari che delinquenti…» (In «Sassari Sera» del 15 dicembre1968.).

Ancora nel 1968, a maggio, in un esposto alla magistratura, un commissario di polizia di Cagliari viene accusato dell'omicidio del latitante Antonio Casula dalla madre dell'ucciso. «Il malvivente, confidente della Criminalpol, sarebbe stato attirato in un agguato dopo aver avuto una parte di rilievo nella morte di Salvatore Pintus e Gianni Dessolis. E' morto perché sapeva troppo» (In «Sassari Sera» del 15 maggio 1968).
Il commissario giustiziere del bandito Casula è il dott. Corrias. Questo il turpe retroscena:

«…in territorio della provincia di Cagliari fu ucciso in un conflitto inventato di sana pianta, un bandito fasullo, tale Casula Antonio, nato ad Ollolai (Nu) il 24 maggio 1944, ad opera dell'allora dirigente la squadra mobile di Cagliari dott. Corrias, il quale era riuscito ad agganciarlo tramite la guardia di PS Marchi che conosceva i familiari residenti in territorio di Gavoi. Qualche sommetta di denaro e, specie, le omesse denunce di malefatte, erano i compensi che il Casula otteneva per i tradimenti ai suoi compagni.
Un episodio gravissimo è quello verificatosi nel settembre 1966. Il giorno 19 agosto 1966 venne sequestrato il pastore possidente Pintus Salvatore di anni 52 e dopo qualche giorno, la sera del 22 successivo, fu trovato ucciso. Il dott. Corrias tramite la sua fedele guardia Marchi veniva a sapere dal Casula che i responsabili del crimine erano stati il Casula stesso e Giovanni Bussu, con altri delinquenti. Il Casula promise al dott. Corrias che avrebbe fatto catturare il Giovanni Bussu suo amico a patto che egli non sarebbe stato coinvolto nel delitto e con un compenso di denaro.
Il dott. Corrias riferì al dott. Guarino l'esito del colloquio avuto con il confidente e assieme concordarono le modalità per l'arresto del Bussu. A seguito di altro abboccamento notturno tra il dott. Corrias, guardia Marchi e il Casula, si stabilì che all'alba del giorno successivo, 2 settembre 1966, il Casula avrebbe (sic!) transitato con il suo amico Bussu in una determinata località alla periferia di Gavoi. Alcuni agenti appostati dovevano catturare il Bussu, mentre al Casula si sarebbe dato il tempo per fuggire. Da parte del dott. Corrias e guardia sarebbero stati sparati colpi di arma da fuoco per simulare un conflitto, mentre il Casula si sarebbe eclissato…
La verità venne a galla in sordina:… il pregiudicato Giovanni Bussu era stato venduto al dott. Corrias e costui aveva lasciato fuggire il Casula che era uno dei responsabili del sequestro e dell'omicidio del Pintus. Anche alla Giustizia trapelò qualcosa, ma nessuna inchiesta fu aperta e fu dato credito ai verbali che contenevano il mendacio… Prima di procedere alla vile esecuzione sommaria del Casula, poiché erano stati registrati nell'Isola altri grossi fatti criminosi, il dott. Guarino ordinò al dott. Corrias di prendere un ultimo abboccamento col Casula, per conoscere i nominativi di elementi che avevano sequestrato il possidente Dessolis Giovanni, in agro di Orani, il giorno 8 aprile 1967. Il dott. Corrias, a mezzo della guardia di PS Marchi, ebbe un altro abboccamento con il Casula Antonio e da costui apprese che il Dessolis era stato ucciso e abbandonato in una località che avrebbe indicato al Funzionario. Però prima di indicarlo aveva bisogno di qualche giorno perché doveva regolare dei vecchi conti con due familiari del povero Dessolis. E il Casula per agire impunemente chiese e ottenne dal dott. Corrias, autorizzato dal dott. Guarino, che le guardie ai loro ordini non effettuassero battute nelle zone indicate dal Casula stesso.
Il giorno successivo i due familiari del Dessolis, che erano alla ricerca dello scomparso, furono avvistati dal Casula e uccisi. Essi rispondevano ai nomi di Mereu Giovanni e Bussu Angelino entrambi di Orani… Dopo tale operazione fu dato dal Guarino il via alla esecuzione della condanna a morte del Casula, diventato troppo pericoloso, perché avrebbe potuto svelare quello che sapeva sull'attività criminosa del dott. Corrias e del dott. Guarino. Il dott. Corrias, a mezzo della sua guardia Marchi, fissò l'appuntamento mortale al Casula con il pretesto che doveva chiedergli altre notizie confidenziali. Il Casula, ignaro dell'agguato mortale che gli era stato teso, nella notte tra il 22 e il 23 aprile 1967, si recò all'appuntamento alla periferia di Paulilatino (Cagliari), nei pressi del piazzale della stazione di servizio dell'AGIP, ma fu accolto, a tradimento, a colpi di arma da fuoco e gli fu chiusa per sempre la bocca. Anche questa volta la giustizia fu gabbata,la stampa osannò i protagonisti, i superiori del Centro lodarono il dott. Guarino» (In «Sassari Sera» del 15 aprile 1970).

Sono fatti mostruosi, crimini raccapriccianti che disonorano il genere umano. Alla fine del 1969 il mito artificiosamente creato intorno ai «giovani leoni» della Criminalpol - il «gioiello» della repressione scientifica - finisce di crollare miseramente sotto l'incalzare delle accuse. La magistratura è costretta a intervenire per non farsi coinvolgere nello scandalo.

«La stagione della facile gloria è finita. Guarino e Mangano (questore e vice questore di Nuoro) dovranno comparire davanti ai giudici, ma questa volta come imputati… Qualcuno ha osservato che la Sardegna ha avuto tanti guai: le incursioni barbaresche, la malaria, le cavallette e infine la Criminalpol. Tra il 1966 e il 1967 la Criminalpol ha fatto in Sardegna più danno delle cavallette. Noi denunciammo subito gli abusi, le prepotenze, i falsi mentre la stampa governativa esaltava i successi dell'abilissimo questore Guarino e dei suoi collaboratori Mangano, Grappone, Juliano. Quelle prepotenze e quei falsi sono ora all'esame dei giudici. In base a due sentenze (sequestro Capelli e sequestro Catte) la magistratura ha già censurato il comportamento della polizia. Ora seguono le denunce. C'è da aggiungere che nel corso dei due processi sono emersi alcuni sintomi preoccupanti: oltre ai falsi commessi dal vice questore Mangano nel rapportare all'autorità giudiziaria, si è dovuta fare anche qualche operazione aritmetica in merito alla utilizzazione, alla cessione e alla gestione dei fondi segreti. Ebbene, i conti non sono tornati; e questo è veramente grave. Che un ufficiale di polizia giudiziaria, per eccesso di zelo, si abbandoni a violenze sugli arrestati, nella speranza di poter strappare quel brandello di confessione che aiuti a far luce su un grave delitto; che un commissario, un agente, un carabiniere, per quel tanto di vanità che è presente nelle azioni umane, rappresenti un'azione di servizio sotto una luce diversa da quella reale, nella speranza di riscuotere il compiacimento del superiore e della stampa, sono cose comprensibili. Ma se un ufficiale di polizia giudiziaria non sa giustificare il modo con cui ha amministrato il denaro (il pubblico denaro, il nostro denaro) allora si tratta di colpa infamante e imperdonabile. Per il vice questore Mangano si tratta appunto di questo: al processo di Oristano, per il conflitto alla stazione di Abbasanta, è risultato che i familiari dell'imputato Cristoforo Pira hanno ricevuto dal dott. Mangano solo un milione per la costituzione del loro congiunto. Nei conti invece del vice questore Mangano i milioni versati risultano due. E l'altro milione? Dottor Mangano, dov'è finito l'altro milione?» (In «Sassari Sera» del 1 dicembre1969).

7 - Da questi fatti si potrebbe ricavarne - come il D'Orsi (Angelo D'Orsi - Il potere repressivo: la polizia - Feltrinelli 1972 pagg. 224 - 225) - un dato consolante. E cioè che, in particolare nei «fatti di Sassari», ci si è trovati «dinanzi a più di un magistrato che non si presta al gioco della convivenza con la polizia».

Secondo il giudizio del D'Orsi, il comportamento legalitario di alcuni magistrati si spiegherebbe col fatto che «la magistratura, in Sardegna, svolge un ruolo tutto particolare, che potrebbe definirsi di forza anticolonialista, quasi espressione di una borghesia nazionale, che scopra, benché timidamente, la propria vocazione antimperialista. Ciò vale nella misura in cui la forza di polizia gioca il ruolo opposto, cioè a dire, di forza di occupazione straniera: non è casuale in ciò il fatto che l'elemento indigeno sia nettamente prevalente nel corpo della magistratura. Perciò in Sardegna, con assai maggiore facilità che altrove, si assiste a scarcerazioni di indiziati sbrigativamente messi dentro dalla polizia, ad assoluzioni di imputati sulla base di prove che alla polizia parevano inoppugnabili, a veri atti di censura mossi nei confronti dei metodi e degli atteggiamenti della polizia da parte dei giudici isolani».

La tesi del D'Orsi è invitante. Purtroppo sono tanto frequenti da potersi definire normali gli episodi di connivenza tra potere giudiziario e polizia, per poter sostenere che il «legalitarimo» dimostrato in quel periodo da alcuni magistrati isolani sia dovuto alla loro assunzione di un ruolo anticolonialista. Tale ruolo è in contraddizione con il ruolo ormai istituzionalizzato di lacchè dell'imperialismo che sempre la borghesia indigena (appunto definita compradora) ha assunto nell'isola. La percentuale maggiore di assoluzioni rilevata nei processi celebrati in Sardegna, in confronto alle altre regioni italiane, (rilevata anche dal Lombroso alla fine del secolo scorso), non dimostra che qui i giudici siano di manica larga o che si pongano in posizione critica di fronte ai verbali di accusa della polizia. Dimostra invece che in Sardegna, più che altrove, la polizia redige verbali falsi e accumula accuse fantasiose. In verità, lo scopo - che è quello di reprimere con la galera gli oppositori politici o comunque chiunque rifiuti l'integrazione e tra questi i pastori barbaricini - viene perfettamente raggiunto: trascorrono anche 4-5 anni, in Sardegna, prima che l'imputato arrivi al processo; e non ha importanza che venga assolto o no: la condanna l'ha già scontata.
Se la tesi del D'Orsi fosse fondata, i magistrati interverrebbero subito, nella fase istruttoria o anche prima, nel momento stesso della firma del mandato di cattura, quando dai verbali della polizia è possibile rilevare che si tratta di una montatura. E qui si fa il caso di numerosi compagni e pastori accusati e tenuti in galera per un reato di cui possono dimostrare l'innocenza con cento testimoni, per il semplice fatto che si trovano ben lontani dal luogo dove il reato sarebbe stato commesso. In questo caso - molto frequente - il procuratore della repubblica o il giudice istruttore, che sono magistrati, potrebbero controllare l'alibi al primo interrogatorio. Perché, quindi, si aspetta che a riconoscere l'innocenza di un imputato sia un tribunale di assise o di appello, dopo anni di carcere preventivo? E' evidente che il meccanismo della giustizia si muove secondo le regole di un criminoso disegno della classe al potere per tenere assoggettate le masse popolari.
Possono anche registrarsi eccezioni che non modificano, ma confermano la regola. Quando il dominatore ha teso troppo la corda, si è avuto il caso, in Sardegna, di borghesi che hanno assunto un ruolo di contestazione, strumentalizzando i malumori popolari e usando nei confronti del potere centrale il ricatto della rivolta popolare per ottenere maggiori o meno aleatori privilegi dal conquistatore. Non ritengo fondata, per la Sardegna, una presa di posizione nazionalista della borghesia compradora per liberarsi con una guerra di liberazione dal colonizzatore, per sfruttare poi in proprio il proprio popolo.
Nel periodo in esame, ritengo invece fondata l'opinione secondo la quale le malefatte della polizia sono potute emergere grazie alle rivalità che si sono andate accumulando nel suo interno, tra i vecchi quadri presenti nell'Isola e i nuovi consistenti nei «giovani leoni» della Criminalpol, venuti da fuori e protetti dai vertici. Delle rivalità esistenti tra i vari corpi addetti alla repressione esistono numerosi episodi. Dal canto suo, la magistratura - e non solo in Sardegna - davanti ad accuse precise, e di pubblico dominio, contro la polizia, deve applicare la legge, per conservare un minimo di credibilità. Come l'abbia poi applicata, la legge, nei confronti della polizia, l'abbiamo visto: i poliziotti imputati di crimini per i quali era d'obbligo il mandato di cattura non sono stati arrestati; sono usciti dal processo illesi e senza una pur minima sanzione disciplinare.

«L'intangibilità della polizia è diventata un canone del diritto costituzionale. Protetta nella persona dei suoi capi da un privilegio speciale da ogni azione giudiziaria, difesa costantemente alla Camera da ministri zelanti non della libertà e inviolabilità dell'individuo ma del prestigio dell'autorità, essa gode di assoluta impunità per tutti gli abusi e i delitti che commette col pretesto di salvaguardare la vita e la libertà dei cittadini» (F.S. Merlino - Questa è l'Italia - Coop.L.P.1953).

La foia di carriera, che scatena il cannibalismo tra i vari apparati repressivi e all'interno di ciascuno di essi, si traduce in una più pesante violenza nei confronti del cittadino.

«La burocrazia statale, ha un singolare culto per la duplicità - osserva L. Mancosu - . In Ogni settore della pubblica amministrazione ci sono almeno due uffici che con veste diversa fanno la stessa cosa». Una duplicità che è una «garanzia» di funzionalità - non nel senso di minore dispendio di energia e di risparmio per l'erario e quindi di maggiore utilità per il cittadino, ma di «stimolazione della competitività e di reciproco controllo». Si scatenano così feroci lotte per emergere, salire di grado e di stipendio. «Ciò è riscontrabile particolarmente tra polizia e carabinieri - tra i quali, evidentemente, manca il conclamato spirito del servir tacendo. In Sardegna, sulla pelle dei latitanti si sono calati come avvoltoi i funzionari più gretti, scoprendo le loro meschine ambizioni. Il primo alto funzionario che arriva sul luogo dove è stato steso il pastore-fuorilegge si fa fare la foto-ricordo accanto al cadavere martoriato, come i ricchi gentlement d'altri tempi, con il piede sulle costole sforacchiate del leone» (L. Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in S. - Feltrinelli 1970).

Il Pais, notabile rappresentante della borghesia compradora, nella relazione di una inchiesta parlamentare del 1896, scrive:

«…E' purtroppo noto che tra l'Arma dei carabinieri e gli agenti di pubblica sicurezza esiste, se non un aperto dissidio, un dualismo ed un antagonismo che non può che nuocere all'andamento del servizio… Ove il desiderio di sopravvanzarsi gli uni con gli altri per non lasciare partecipare al merito della scoperta e della cattura dei colpevoli, spinga gli agenti a tacersi l'un l'altro le informazioni e gli indizi, si giungerà inevitabilmente a ingenerare confusione… Carabinieri e funzionari di PS battono ciascuno la propria via senza curarsi di ciò che gli altri facciano o scoprano; il più delle volte questa disgregazione di forza e di azione produce l'effetto che si eludono a vicenda, cosicché il malandrinaggio è quasi più assicurato dal dualismo dei Corpi che ha lo scopo di combatterlo, che non se nessuno lo combattesse» (F. Pais - Relazione di inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in S. - Tip. Camera dei deputati 1896 p. 61).

Qualche volta, lo spirito di emulazione dei Corpi dà luogo a episodi grotteschi.

«E' un normale posto di blocco. E' notte inoltrata. La Polstrada intima l'alt. Dalla macchina si affaccia un signore. "Sono un tenente dei carabinieri". "Bene, signore, ci favorisca i documenti". L'uomo al volante, in compagnia di altri due passeggeri, estrae qualcosa dalla tasca. "Questa è la custodia del documento: mi favorisca il documento. Se lei è un tenente dei carabinieri - prego, come si chiama? - non dovrebbe trovare difficoltà. Noi siamo qui per fare il nostro dovere".
Tra il tenente Cassano della tenenza di Dolianova e il capo pattuglia nasce una fitta discussione. Il signor tenente sostiene che quello è territorio di sua competenza, pertanto la polizia ha sbagliato giurisdizione. Il capo pattuglia non può fare altro. "Bene, se non mi favorisce i documenti non passa".
La macchina è in attesa. Il tenente scende, si allontana e cerca un telefono. Il capo pattuglia è nervoso e vorrebbe metterla sul piano della comprensione. Passa forse mezz'ora. Arriva una camionetta. Il tenente Cassano si fa avanti. Dalla camionetta escono i carabinieri armati che circondano la pattuglia della Polstrada. Un casus belli? Fortunatamente no. La questione, gravissima, viene rinviata a un colloquio tra il prefetto e il questore Li Donni. Forse il colloquio non è ancora avvenuto. Non sappiamo quali provvedimenti saranno adottati nei confronti di chi ha ecceduto. Noi rinunciamo al commento. I banditi alla macchia, i delinquenti abituali mandati al soggiorno obbligato, i denigratori delle polizie varie, almeno per questa volta, sono pregati di non sorridere» (L. Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in S. - Feltrinelli 1970).

Altro episodio edificante sulla competitività fra i Corpi. A Cagliari, il mercato dei latitanti è scarso di prodotto. Farsi un bandito è un evento straordinario, un merito che ogni emorroico alto ufficiale si sogna. Sul finire del 1969, durante le indagini per il sequestro dell'ing. Boschetti, trapela un fatto che nel suo brutale cinismo si colora di farsa. Questura e carabinieri riescono contemporaneamente, a opera di confidenti, a individuare due emissari dei rapitori e a conoscere il luogo dove verrà versato un acconto del riscatto.

«Il dott. Midiri (capo della Criminalpol) prepara il piano. Li Donni (il questore) è d'accordo. Bucci (comandante del gruppo dei carabinieri) pure. Dunque il dott. Pazzi, assieme ad un ingegnere amico del Boschetti… si incontra coi fuorilegge. Consegnano un acconto sul riscatto. Cinquecentomila lire. Concordano un secondo appuntamento. Altro versamento. Cinque milioni. Terzo abboccamento. Venti milioni. Ma la trappola è scattata… Ci sono due elicotteri carichi di carabinieri che attendono di levarsi in volo. Il dott. Pazzi consegna i venti milioni ai fuorilegge. Sono in due. Prendono il malloppo e s'allontanano… Partono gli elicotteri. Nella campagna sono già in agguato cinque agenti della Criminapol. La pattuglia avvista i due fuorilegge. Arriva contemporaneamente un elicottero con il colonnello Bucci. Ed anche, a terra, del tutto inattesa, una pattuglia della squadra antiabigeato della questura di Nuoro. I due fuorilegge, non ancora identificati, vengono fermati. - Come vi chiamate? - chiede il colonnello Bucci. - Antonio Doa. - Paolo Stocchino. - Sono loro - esclama il Bucci rivolto ai suoi uomini. Gli agenti della questura di Nuoro comprendono di avere tra le mani un grosso bottino. Agguantano i due. - Venite con noi a Nuoro - dicono. Bucci s'infuria. Caspita, ci mancherebbe altro che gli soffiassero proprio ora, sotto il naso, i due fuorilegge. - Loro vengono con me, non con voi! - Ma gli agenti non mollano la presa. Bucci è addirittura spintonato. Circolerà qualche ora più tardi, tra i giornalisti, la voce che abbia rimediato qualche calcio negli stinchi! Arriva intanto l'altro elicottero. Sbarca Li Donni (il questore). Assiste al match polizia-carabinieri. Interviene. Si fermano tutti. Abbraccia Bucci. - Colonnello, qua la mano! Le chiedo scusa. Mettiamoci una pietra sopra. - Sempre qualche ora più tardi ci sarà un'altra versione. A chiedere l'abbraccio e le scuse per la baruffa sarebbe stato Bucci. Questore e colonnello dei carabinieri, comunque, dimenticano. Pensano agli onori della brillante operazione. Gli onori saranno altissimi e anche meritati… Doa e Stocchino hanno nella bisaccia i venti milioni… Li portano… uno in questura, uno al comando dei carabinieri. Tanto per spartirsi il bottino!» (M. Guerrini - L'anonima sequestri - Leader 1969).

 

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