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Capitolo III - Gli strumenti della repressione

1 - Le potenze che si sono succedute nel dominio dell'Isola hanno deliberatamente spacciato per criminali gli oppositori, e quando una vera e propria opposizione politica non si configurava hanno prodotto e alimentato fenomeni di banditismo. Se in Sardegna ci sono banditi, i Sardi sono banditi; quindi, sbarcarvi un esercito che vi debelli il banditismo e porti l'ordine diventa un fatto di civiltà, e non invece - come in effetti è - una aggressione. Il fascismo, invadendo l'Etiopia, proclamava di volervi abolire la schiavitù.
E' un pregiudizio storico - coniato da quei predoni che furono i Romani - definire «barbaro» qualunque popolo da assoggettare o assoggettato. I colonizzatori spagnoli, belgi, francesi, italiani e buoni ultimi gli yankee, mascherano i loro disegni di assoggettamento assumendo il ruolo di «portatori di civiltà». Il pregiudizio razziale,in pratica concorre a giustificare l’oppressione e ad aumentare i profitti del capitale.
E’ evidente che il pregiudizio razziale viene coniato come copertura di un piano di sfruttamento di un popolo pregiudicato inferiore; ma accade che, in conseguenza dello sfruttamento, il popolo pregiudicato finisce per acquistare realmente una inferiorità rispetto al suo dominatore.
Fra i pregiudizi di comodo, si è venuto consolidando fino a oggi lo stereotipo che rappresenta la Sardegna come «terra di banditi», per dirla parafrasando Goethe: «Die Land wo die Banditen bluehen».
Non è un caso che nelle cronache della stampa e della tivù, nei discorsi politici e giudiziari la Sardegna ricorra sempre e immancabilmente per le «sue gesta criminose», con un sottile continuo riferimento ai suoi «irriducibili banditi barbaricini», e che quando, per eccezione, si riportano fatti di crescita civile si metta in rilievo, paternalisticamente, «la volontà dei Sardi di crescere e di riscattarsi dalla vergogna millenaria del banditismo». Gli stessi latitanti sono rappresentati nella oleografia ufficiale in una realtà di maniera: sono «piccoli e irsuti» come le loro pecore; calzano «ruvidi gambales» (e qui dotte disquisizioni sulla somiglianza coi calzari dei pastori spagnoli); vestono «fustagno verde-oliva» oppure l'autarchico orbace; sono perennemente «arroccati sulle guglie granitiche del Supramonte», avvolti nel «sacco nero» (altro dotto riferimento al barracano dei beduini), col moschetto a spalla; e sono circondati da un «silenzio rotto solo dalle grida di morte e dalle nenie funebri delle prefiche».
Esopo, in una sua favola, spiega come il lupo capitalista senta il bisogno di trovare una giustificazione morale alla sua violenza. Il Baudi di Vesme scrive dei Sardi che amano «meglio un tozzo di pane senza far nulla, che vivere mediante il lavoro nell'agiatezza»; che il loro «maggiore e più essenziale difetto è una certa bassezza di carattere e mancanza di sentimenti generosi»; che «rara è la fedeltà nei servi di campagna» e che «anche nelle classi più colte ed educate vediamo frequenti esempi di malafede, né sono rare le malversazioni degli impiegati» (Carlo Baudi di Vesme - Considerazioni politiche ed economiche sulla Sardegna - Torino 1848 - pagg. 154-155).
Il Baudi di Vesme, al quale di recente l'amministrazione del comune di Cagliari riconoscente ha intitolato una strada popolare, è il rampollo di una nobile schiatta di colonizzatori di Cuneo, cortigiani dei Savoia. Citatissimo dagli storiografi compradoris per la sua competenza in materia di organizzazione dello sfruttamento, ha arraffato in Sardegna vaste proprietà fondiarie, fu uno dei maggiori azionisti delle miniere della Monteponi, di cui figura anche direttore.
Un altro cortigiano dei Sabaudi è Giuseppe de Maistre, giureconsulto di fama borghese, che definisce i Sardi «molentes, razza refrattaria più di qualunque altra a tutti i sentimenti, a tutti i gusti e a tutti i talenti che onorano l'umanità… Vili senza obbedienza e ribelli senza coraggio…» Vedremo più avanti come il De Maistre sia stimato dai procuratori generali della repubblica in Sardegna per le sue doti di inquisitore.
In tempi ancora più recenti, all'inizio del 1900, una commissione di parlamentari si assume il compito di documentare le condizioni di vita e di lavoro dei minatori sardi e scrive che «l'operaio sardo non è neppure di molto rendimento in quanto riguarda la massa del lavoro prestato… su questo tutti gli osservatori (sic!) sono concordi : così l'ing. Ferraris, il quale ritiene che il rendimento del lavoro sardo sia di circa il 60% di quello continentale… ma meglio di queste testimonianze… vengono a provare lo scarso rendimento del lavoro sardo le differenze di salario riscontratesi nelle stesse miniere fra continentali e sardi»; e più avanti si dipinge il lavoratore sardo secondo la tipologia riservata dal colonialismo ai «selvaggi»: «il minatore sardo ha i difetti e le qualità del fanciullo», e nel loro insieme sono «una massa ancora relativamente primitiva con le ingenue qualità, le fiducie, gli entusiasmi che l'evoluzione sociale tende a distruggere, ma altresì senza il discernimento, la capacità di resistenza e di sforzo continuo e regolare che la civiltà crea e sviluppa» (Relazione della commissione parlamentare di inchiesta sulla condizione degli operai delle miniere della Sardegna - 1911 - Vol. I. p. 17-19).
E' chiaro che in quest'ultimo caso i pregiudizi servono per giustificare i bassi salari dati agli operai sardi e le discriminazioni tra questi e gli operai del Continente.
Non vale la pena trascrivere altri esempi di pregiudizio sui Sardi. Asineria, assenteismo, inettitudine, vigliaccheria, ecc. sono attributi in uso nei confronti del nero, dell'arabo, del messicano, e così di ogni popolo, gruppo etnico, classe tenuti in soggezione.

2 - Il pregiudizio è una antica malattia sociale che concorre alla legalizzazione dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo. Anziché scomparire alla luce del progresso scientifico - come era stato annunciato dagli entusiasti vati dell'Illuminismo - si perpetua e si diffonde in forme più sottili nell'attuale società. La scienza a servizio del capitalismo anziché diradare le nebbie dell'oscurantismo le ha infittite, dando al pregiudizio un carattere di attendibilità scientifica, e quindi rafforzandolo. E' il sistema, sono le strutture oppressive e repressive di questo sistema che bisogna distruggere affinché l'uomo ridiventi uomo.
La nostra è una società fondata sul falso. I commenti politici distorcono l'immagine reale della parte avversa; vengono date attribuzioni dispregiative, in chiave manichea, a gruppi politici, a categorie sociali o a minoranze etniche, perpetuando la discriminazione in «buoni» e in «cattivi».
Un esempio ormai vecchio viene da certe campagne di stampa mosse da nazioni di lingua tedesca contro i nostri emigrati, definiti tout court «zingari, straccioni, accoltellatori» - e ciò è un aspetto di un più vasto fenomeno razzista, lo stesso che fa dire allo speaker del telegiornale «bandito» a chi delinque in Barbagia e «malvivente» a chi delinque a Milano.
Ugualmente attuale, e tragico, il pregiudizio nei confronti del libertario e dell'anarchico - un pregiudizio coltivato e diffuso dalla consorteria al potere per dare copertura e alibi alla eliminazione anche fisica degli oppositori politici non fagocitabili.

«Gli anarchici - scrisse Russell - come i socialisti, credono nella dottrina della guerra di classe, e se usano le bombe, le usano allo stesso modo come i governanti fanno uso delle bombe per i fini della guerra: senonchè, per ogni bomba che viene preparata da un anarchico ce ne sono molti milioni che sono fabbricate dai governanti, e per ogni uomo ucciso dalla violenza anarchica, ce ne sono molti milioni uccisi dalla violenza degli Stati. Possiamo dunque cancellare dalla nostra mente tutta questa questione della violenza che fa tanta impressione alla immaginazione popolare, non essendo essa essenziale, né peculiare di coloro che adottano l'atteggiamento anarchico» (Bertrand Russel - Socialismo Anarchismo Sindacalismo - Longanesi 1970).

Ho riportato questo giudizio di un grande filosofo borghese su una ideologia che egli non professa, perché è la sua testimonianza di come la vera conoscenza sia alla base per superare il pregiudizio e giungere al rispetto dell'uomo e delle idee.
Fra tutti i pregiudizi che avvelenano i rapporti umani, il razzismo è certamente il più grave per gli interessi turpi che lo generano e lo alimentano. Gli pseudo-concetti che sostengono il pregiudizio razziale sono: a) l'ipotesi scientifica che esistano razze diverse; b) una gerarchia di valori fra queste razze e quindi la superiorità di una razza rispetto a un'altra; c) il mito della esistenza di razze pure «elette» e il decadimento e la «inferiorità» degli ibridi rispetto alle razze d'origine.
Per giustificare il pregiudizio razziale, quando non si trovi appiglio in differenze somatiche evidenti tra il discriminatore e il discriminato, ci si arrampica sugli specchi con ipotetiche percentuali di sangue «inferiore». Mi riferisco alle varie leggi razziste negli Stati Uniti. Nel Missouri è legalmente nero chi abbia almeno un ottavo di sangue nero nelle vene. In Georgia lo è chiunque abbia una traccia accertabile di sangue nero. «Ne consegue che molti cosiddetti negri non si differenziano assolutamente dai bianchi né per il colore della pelle, né per i tratti del viso, né per il colore o la forma dei capelli» (Tullio Trentori - Il pregiudizio sociale - UN. Studium 1962 - p. 75).
Le scienze antropologica, biologica e psicologica dimostrano l'assoluta infondatezza dei pregiudizi di vario ordine con cui si è cercato e si cerca di dimostrare l'esistenza di una razza superiore e di razze inferiori. Si dice, da parte razzista, per esempio, che il nero è primitivo, che è inferiore perché fisicamente somiglia agli antropoidi: ha la pelle scura, il naso camuso, le estremità superiori lunghe e le estremità inferiori corte, i capelli lanosi e le labbra carnose. In verità, si obietta, gli antropoidi hanno sì in comune coi neri il colore della pelle e il naso camuso, ma riguardo alla bocca e ai capelli li hanno in comune coi bianchi: labbra sottili e peli lisci.
Per quel che mi riguarda, queste diatribe pseudo-scientifiche su chi assomiglia più alle scimmie mi fanno lo stesso effetto di quelle sul sesso degli angeli. Ma c'è chi le prende seriamente. Il Kroeber (A.L.Kroeber - Antropology Arcourt - N. Y. 1948), che è una autorità in materia, sostiene che all'esame dei dati somatici il nero non è più affine alle scimmie di quanto non lo sia il bianco.
Altro cavallo da battaglia razzista è la forma del cranio e la quantità della massa cerebrale (sono costretto a parlarne per introdurre i vaneggiamenti del Lombroso e in particolare del Niceforo che ha dedicato gran parte della sua vita ai «crani sardi» con un interesse paragonabile a quello del conte Ugolino). Non sarebbe serio se stessi a perdere tempo per dimostrare che forma del cranio e massa cerebrale non hanno nulla a che vedere con l'intelligenza individuale e sociale. Per dirla con lo Stuart Mill, l'elefante dovrebbe essere più intelligente dell'uomo. D'altro canto, ho sentito dire dalle mie parti che a «cranio piccolo» corrisponde «pene grande» - il che, messo sul piano della boutade, potrebbe alla fin fine pareggiare i conti.

Scrive il Myradal: «Nei primi tempi in cui il negro fu costretto a lavorare in America non fu considerato schiavo, ma fu considerato come i servi bianchi assunti a contratto e non fu mai giudicato un essere inferiore. Quando poi fu ridotto in schiavitù, si sentì il bisogno di una giustificazione che non fosse l'utile economico. E allora si cominciò a dire che il negro era un pagano, un reietto fra i popoli della terra, un discendente di Cam maledetto da Dio e condannato alla schiavitù, il costume dello sfruttamento del negro rimase: furono inventate allora altre giustificazioni. A sostegno della disparità salariale tra bianchi e negri si affermò che il lavoro di questi ultimi rendeva molto meno e che compensi più alti avrebbero spinto il negro all'ubriachezza. I negri non venivano accolti come operai nelle industrie, perché, si diceva, mancano di attitudini meccaniche, se lavorano presso una macchina si addormentano. Fu loro precluso l'accesso a ogni lavoro di carattere direttivo, adducendo che i negri non hanno attitudine ad una prolungata attività mentale» (Gunnar Myrdal - An American dilemma - N. Y. 1944).

Le stessissime idiozie - come si è visto - vengono dette dai colonizzatori italiani per giustificare lo sfruttamento cui sono sottoposti i Sardi.
Le conseguenze del pregiudizio razziale furono e sono la discriminazione e lo sfruttamento dei popoli mantenuti in una situazione di sprovvedutezza materiale e culturale. Tale situazione di coatta inferiorità rispetto al dominatore produce una effettiva inferiorità, che serve a sua volta ad alimentare e rafforzare il pregiudizio. Pregiudizio del dominatore e basso livello di vita del dominato finiscono per determinarsi l'un l'altro, creando un circolo vizioso che in altro modo non può rompersi se non con la rivolta dei popoli contro lo sfruttamento dell'uomo sull'uomo.

3 - La scalata al potere della borghesia piemontese, la realizzazione del suo disegno di egemonia nazionale e quindi il suo porsi in concorrenza con le altre potenze europee sono fatti che hanno prodotto alla fine del secolo scorso - e non soltanto in Sardegna - una spaventosa ondata di miseria nelle masse popolari. Una delle conseguenze è stata la diffusione della criminalità, come tentativo di sottrarsi alla fame e alla degradazione.
E' del 1897 il saggio del Lombroso «Sull'incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo», che si richiama ai valori del positivismo e ha goduto di una immeritata fama.
Quali sono le cause dell'incremento del crimine in questa terra martoriata dalla più spietata oppressione? Il Lombroso risponde mettendo queste cause in fila:
1) L’internazionalismo. Il socialismo è concepibile soltanto tra gli operai, ma è un fatto mostruoso se contamina i ceti contadini. Può anche andare bene in America o in Russia - egli dice - ma non in Italia. Il Lombroso che ama misurare il cranio al prossimo per valutarne il grado di follia, quando si tratta di internazionalisti non si scomoda neppure a tirare fuori il metro, e risponde al perché l'internazionalismo è causa del dilagare del crimine affermando semplicemente che i criminali lo usano come paravento nobile: «I delinquenti comuni prendono… a prestito la bandiera dell'internazionalista, poiché ben conoscendo il ribrezzo, ormai generale, per il delitto comune, essi così giungono a scusarlo dinanzi a loro stessi ed agli altri, appagando, ugualmente, le loro passioni.
2) La camorra. Non è un caso che l'autore parli di camorra e non di mafia. La mafia è una organizzazione a delinquere creata dalla consorteria al potere e a questa strettamente legata. Ci sono settori di attività disdicevoli (come quella della eliminazione fisica degli avversari) e allora si sopperisce con le «società di comodo». La mafia è, appunto, una «società di comodo» per quella società a delinquere che è la classe al potere. Il Lombroso parla di camorra perché questa è una società di disgraziati i quali per sopravvivere imitano la mafia di vertice. La camorra, tipica del Napoletano, è in pratica una società di mutuo soccorso fra poveracci in continuo conflitto con la legge.
3) Le associazioni. «Una triste prova ce l'offrono tutt'ora le Romagne. Lugo… è il Mandamento che gode il non invidiabile primato sopra tutti gli altri Mandamenti della provincia pel numero dei reati (816) e degli ammoniti (911). Gravi pensieri volge in mente chi non facendosi velo di alcuna passione dell'intelletto, tolga a considerare la pubblica sicurezza trovarsi in condizioni peggiori a Lugo dove più che altrove abbondano le associazioni legate fra loro in vincolo di federazione, e aventi lo scopo, come leggesi nel loro programma, di tutelare il progresso del benessere materiale e morale dei cittadini…». Ma c'è di più: «…A Ferrara, nel 1874-75 non poche associazioni operaie con apparenza di idee di mutuo soccorso, di coalizioni contro il consumatore (forse intendeva dire «a favore del» - n.d.r.), erano vere associazioni criminali…» Non basta ancora: le associazioni - tutte, escluse quelle per azioni dei capitalisti - sono fonte di criminalità: «Perfino le associazioni infantili delle grandi città furono trovate essere una delle cause precipue dei delitti così isolati che associati». E' quindi lo spirito associativo in sé che bisogna reprimere, perché «gli è che gli istinti primitivi del male, che esistono appena in embrione in ciascuno di noi quando siamo isolati, si ingigantiscono a contatto con gli altri».
4) Le armi. Un'altra circostanza influente sulle due specie di reati (associati e isolati) è la facilità di portare e maneggiare armi. Si potrebbe qui essere d'accordo con il Lombroso, se non si facessero distinzioni: il cittadino no, il poliziotto sì; il lavoratore no, il padrone sì; i popoli no, gli eserciti sì. D'altro canto, se si è davvero contro le armi, si potrebbe semplicemente eliminarne l'uso non fabbricandone più.
5) L'ozio. E' «una delle maggiori cause del brigantaggio e della camorra… era l'abitudine diffusa fra i popolani di Napoli di far crescere i loro figli fino dal terzo anno in mezzo alle vie, accattonando e giurando per tutti i santi di essere orfani e di morire di fame: il mendicante si trasformava presto in borsaiolo…» Quei bambini avrebbero dovuto frequentare i colleges come i figli della aristocrazia borghese laboriosa.
6) Gli ibridismi sociali. Non ho capito bene il perché, ma secondo il Nostro il miscuglio di gente diversa produce criminalità.
7) La miseria. Qui il Lombroso se la sbriga in due parole, anzi se la sbriga citando due parole di altri: «Stimolo, dettava Lavini, a molti reati contro la proprietà, chi lo nega? è la miseria; ma non esageriamo; e soprattutto guardiamoci dal fare di questa dolorosa verità un'arma per la difesa dei ladri…» Il «chi lo nega?» dubitativo infine un «lo nego» categorico: «Ed Havet parlando dei molti reati accresciuti nel 1867: Ciò che poi credo in diritto di sconfessare si è che dipenda dall'aumento della miseria. Pochi sono i casi di esseri indigenti. La vera miseria soffre tacendo».
8) L'alcool e, finalmente!, la mitezza delle pene. Le pene non sono mai abbastanza dure, sostiene il Lombroso suggerendo più pene di morte, meno assoluzioni e nessuna libertà provvisoria. E che dire delle carceri? «La galera è una causa diretta di delitti per se stessa, perché diventa un comodo albergo, stante all'esagerata mitezza riesce la mira di alcuni che delinquono per ottenerla». In altre parole, il cittadino si mette a delinquere per poter godere la vita della galera! Bisogna indurire le carceri, renderle effettivamente luoghi di pena, rispolverare l'uso della tortura in forme più efficaci. «Abbandonano le nostre carceri d'aria, di calore, di luce: vi regna una pulitezza quasi elegante: nessun risparmio nel vestito e nei giacigli: si pecca di superfluo nelle cibarie: si debilita, insomma, il controstimolo della pena riguardo a chi la soffre, e riguardo ai terzi, inclinati - per avventura - a seguire le orme colpevoli di lui».
Per inciso: i criminologi di mestiere mancano di fantasia. Il p.g. della cassazione, nel sermone 1977 in Campidoglio, ha sostenuto le stesse idiozie del Lombroso, che le carceri sono: «come alberghi dai quali si fugge quando si vuole», proponendo le solite soluzioni forcaiole.
9) Altra causa di delinquenza sono le giurie, per il fatto che ne esistono di due tipi: quelle del Sud e quelle del Nord. Le prime, composte da ignoranti, danno troppe assoluzioni e vanno male. Le seconde, composte da persone colte, danno più condanne e vanno bene. Il Lombroso ricorre al dato statistico: «Cagliari… dà le assoluzioni del 50 per cento… mentre l'Italia dà il 23 per cento».
10) Dopo avere avvertito che il coatto è un provvedimento con il difetto di essere «provvisorio» e «troppo limitato», il Lombroso passa a parlare dei giornali, anche questi fomite di delinquenza. «La pubblicità delle Assise accresciuta a mille doppi da quella della stampa, rende il delinquente spettacolo a se medesimo e agli altri poco dissimili da lui, e quel che è peggio, anche alle persone volgari, non ancora intinte del crimine, ma che non senza invidia vedono aperta un'altra via a quella meta cui ambiscono spesso tanto i piccoli che i grandi uomini, il far parlare di sé». Il concetto è chiaramente classista e razzista: il giornale, diffondendo la cronaca di un delitto stimola al delitto «le persone volgari» ma non quelle «civili». In ambedue le categorie umane, i crani delinquenti e i crani angelici, esiste la stessa ambizione a «far parlare di sé», ma i «cattivi» nel delitto e i «buoni» nelle opere pie (Tutti i brani tra virgolette del paragrafo sono tratti dal saggio «Sull'incremento del delitto in Italia e sui mezzi per arrestarlo», di Carlo Lombroso - Bocca 1879).

4 - «Attraversata la Sardegna con incarichi della Società Geografica Italiana e della Società Romana d'Antropologia, Alfredo Niceforo ha già pubblicato, sull'Isola, i suoi studi antropologici: Le varietà pigmee e microcefaliche della Sardegna - secondo il metodo tassonomico del Sergi - ed ora pubblica questi rilievi antropologici e sociologici sull'Isola troppo dimenticata, che - purtroppo - mostrano, quasi sotto l'evidenza di una lente d'ingrandimento, le sopravvivenze, i sintomi, i contraccolpi e i detriti di una patologia sociale passata allo stato cronico».

Così per ricordare ai governanti «l'Isola troppo dimenticata», Enrico Ferri presenta il saggio del Niceforo «La delinquenza in Sardegna», pubblicato a Palermo nel 1897. A sua volta, il giovane autore dedica la sua opera «al maestro affettuoso Enrico Ferri».
Il Niceforo è un seguace convinto delle teorie del Lombroso, crede nella eziologia genetica della criminalità (e della follia). Per dimostrare «scientificamente» l'assunto genetico bisogna scoprire nel delinquente, o presunto tale, particolari fisici «anomali», per esempio singolari forme craniche. E così, il giovane criminologo sbarca in Sardegna col compito di misurare e studiare la conformazione cranica degli abitanti. Con l'aiuto del dato statistico opportunamente manipolato, egli «scopre» che il Nuorese è la «zona delinquente» per antonomasia e che i suoi abitanti possiedono un cranio particolare, parallelepipedoides. Scopre anche, però, che le popolazioni dell'Isola vivono sotto lo sfruttamento in condizioni subumane, e questo aspetto «secondario» finisce per attirare la sua attenzione e commuoverlo fino al punto da minacciare di mettere in crisi la sua teoria della criminalità congenita.
Il Niceforo apre il suo saggio delineando la fisionomia criminale della Sardegna. Sempre sulla scorta dei dati che si è portato appresso, rileva che nell'Isola si commettono le peggiori nefandezze: usurpazioni, danneggiamenti, incendi, inondazioni (sic!), furti, aggravati e qualificati, rapine, estorsioni, ricatti, violenze, resistenze, oltraggi alle autorità, eccetera. Questi reati vedono la Sardegna sempre al primo posto nella graduatoria nazionale fra regioni.
Passando alla distribuzione dei reati nelle varie zone, egli rileva in ciascuna zona la «specializzazione» in uno o più crimini. La Gallura ha come forma tipica di delinquenza l'omicidio per vendetta. A prova della sua asserzione, l'Autore riporta una storiella che deve essergli stata propalata da qualche buontempone: «Ad Agius (Aggius - n.d.r.), paesello annidato sul monte, c'è ancora una povera vecchia, superstite di una guerra mortale che due famiglie s'erano dichiarata e che rimane - unica sopravvissuta - ad attestare il sanguinoso epilogo della strage reciproca delle due famiglie». Che fossero di origine gallurese i nobili Capuleti e i nobili Montecchi? Sta di fatto che in Gallura, come assicura il Niceforo, «quando si chiede una fanciulla in isposa, chi non mantiene la parola è condannato a morte».
Ad Alghero «la forma criminosa speciale è il furto». A un certo punto, il Nostro deve essersi ricordato che Alghero è una colonia di Catalani. Allora scrive che le bande armate che operano nella zona provengono da altre regioni dell'Isola, «quindi non si possono considerare come prodotti del paese stesso». Però, catalane o no, le donne dell'Algherese sono tutte puttane. «La corruzione femminile è grande e profonda, è piaga indimenticabile. Le donne del popolo sono di costumi facilissimi e si abbandonano con la massima facilità a questo o a quello, passando indifferentemente dalle braccia dell'uno alle braccia dell'altro». E questo è ancora nulla. Il peggio è che «si rifiutano di amoreggiare, anche platonicamente, con uomini di classe più alta; per l'uomo popolano, per il marinaio, per l'operaio fanno tutto ciò che è lecito e che non è lecito; per l'uomo della borghesia nulla». C'è da supporre che il Niceforo l'abbia chiesta alle algheresi e che non gliel'abbiano data.
A Bosa si diffama. La gente non fa altro. Pochissimi gli omicidi, rari i furti, «ma l'ingiuria e la diffamazione sono in quel territorio allo stato cronico».
Giunto in territorio di Nuoro, il giovane criminologo si ferma compiaciuto per l'abbondanza di materiale criminologico. I reati tipici del Nuorese sono la grassazione, il furto, il danneggiamento per vendetta, ma vi è anche dovizia di omicidi, rapine, estorsioni e ricatti. L'epicentro del Nuorese - che egli chiamerà «zona delinquente» - è, manco a dirlo, Orgosolo. «Nel delinquente nativo di Orgosolo… abbiamo trovato le stigmate ataviche impresse nell'organismo in modo sorprendente, e più che in ogni altro delinquente sardo: Orgosolo è il paese che dà vita alla fine fleure dei delinquenti nuoresi, è il punto criminale di una zona criminale».
Non potevano mancare tra questi paesi «tarati» anche quelli che producono pazzi. Per esempio Lodé, i cui abitanti avrebbero dichiarato guerra a un paese vicino (?) invadendolo in armi per rubargli il campanile e trasportarlo nel proprio paese. Documentando le sue tesi balzane con storielle del genere, l'Autore scrive che «anche la leggenda e la poesia popolare… ci presentano il Nuorese come terra di una più intensa attività criminosa».
«Gairo, Mandas, Lanusei, Arzana sono tutti paesi più o meno famosi per essere patria di ladri, di grassatori, di assassini». Nel territorio nuorese, ogni pietra, ogni zolla di terra, ogni cespuglio dei suoi monti testimoniano un delitto: qui fu ucciso un carabiniere, lì un esattore e appena più in là fu rapito un possidente. «Alla vetta del colle rimangono in piedi quattro mura screpolate, sorreggenti a malapena un tetto che si sfascia lentamente. E' una chiesa in rovina e tutt'intorno, tra i pioppi che biancheggiano pel declivio, una fila di rottami lascia indovinare che lì vi fu un paesello. E' il defunto paesello di Manorri, ove, nel secolo passato, per ira di parte, tutti gli abitanti, eccetto uno, si sgozzarono l'un l'altro in una notte».
A malincuore il Niceforo lascia il Nuorese (dimenticando di parlare delle altre zone dell'Isola e di descriverne i «reati tipici»), e con un salto di cento chilometri in linea d'aria passa a Villacidro, sorvolando la Marmilla, la Trexenta, i Campidani di Cagliari e di Oristano. Salta con piacere a Villacidro perché questo paese è «un frammento della zona delinquente». Effettuate le misurazioni craniche, il Niceforo conclude che «potremo paragonare la isolata criminalità di Villacidro ad una specie di fenomeno di migrazione… quella piccola zona… presenta tutti i caratteri della grande zona lontana, tanto da poterla paragonare a frammento che dopo essersi staccato dal territorio Nuorese, ne è gettato lontano».
A questo punto, il Niceforo comincia a tirare le somme parallele dei dati statistici e delle misurazioni craniche ed enuncia i principi razzisti:

«Questo predominio del delitto in alcuni paesi è certo dipendente, in gran parte, dalle razze, come anzi per alcuni paesi ci è rivelato dalla storia… Così la Sardegna… presenta una colorazione morale speciale in alcuni suoi territori; colorazione morale che si esplica nella forma criminosa della grassazione e del furto: questa zona è quella che chiamiamo Zona delinquente e che ci accingiamo a studiare».
«Questo rapido colpo d'occhio gettato di provincia in provincia sulla delinquenza specifica dei vari territori ci prova due fatti:
1) Ogni territorio della Sardegna ha una forma sua particolare di criminalità; forma che si differenzia dalle altre e che dà una speciale caratteristica al territorio in cui essa si manifesta.
2) Esiste in Sardegna una specie di plaga moralmente ammalata che ha per carattere suo speciale la rapina, il furto, il danneggiamento. Da questa zona, che chiameremo Zona delinquente e che comprende il territorio di Nuoro, quello dell'alta Ogliastra e quello di Villacidro, partono numerosi bacteri patogeni a portare nelle altre regioni sarde il sangue e la strage».

Dati per scontati i due fenomeni, il Niceforo si chiede «perché ogni territorio sardo ha una forma speciale di delinquenza» e, quesito che egli stesso ritiene ben più importante, «perché esiste nella Sardegna quella zona che abbiamo chiamato Zona delinquente».
Alla prima domanda, l'Autore per essere coerente con gli assunti genetico-razzisti risponde che «alla grande differenza antropologica» corrisponde «la grande differenziazione da paese a paese delle forme di criminalità». La Sardegna diventa così un mosaico di razze diverse: qui in Gallura, tipi perfettamente Celti; nel Logudoro, tipi latini, spagnoli e liguri; a Bosa, oltre i catalani, elementi greci e bizantini; a Terranova (oggi Olbia) i greci e i focesi; a Dorgali, i saraceni; a Cagliari, spagnoli e moreschi; nel Campidano, il tipo netto dello spagnolo; nell'Iglesiente, i mauritani; a Oristano, gli egizi; mentre, per finire, a Gonnesa e a Portoscuso si trovano tipi di una razza eletta che mandano in sollucchero il giovane criminologo, specialmente le femmine: «Hanno il cranio spiccatamente dolicocefalo» e sono una vera leccornia sessuale: «snelle, flessuose come giunchi, a cui il petto florido pulsa e cerca erompere fuor dalla camicia bianchissima; hanno un viso pallido e bello, occhi meravigliosi sotto meravigliose ciglia…».
L'esame generico dei caratteri fisici degli abitanti, per stabilirne le diverse origini razziali, non è conclusivo: la prova del nove è quella dei crani: «Dal momento che la razza… può perdere molti dei suoi caratteri ma giammai la forma del cranio e che essa… si trasmette da padre in figlio in inalterabile eredità, è appunto dallo studio dei crani sardi che può risultare ancora meglio la grande e continua sovrapposizione delle razze in Sardegna», e quindi la rilevazione dei tipi criminali.
Neanche a farlo apposta i crani dei Sardi - in particolare quelli dei Barbaricini - sono del tipo appartenente ai popoli più selvaggi e primitivi (cioè più criminali): il cuboides parvus, tipo comune nell'antico Egitto; l'ellissoides, l'ovoides e il pentagonoides, il trapeziodes, lo stecephalus e lo sphenoides comuni fra i Negriti e i Boscimani; e infine un cranio tipico «proprio e speciale» della Sardegna: il parallelepidoides variabilis sardiniensis (sic!) - probabilmente la causa del banditismo. Strano che la polizia non abbia pensato di schedare i cittadini sulla base della loro forma cranica!
Alla seconda domanda (perché «esiste la Zona delinquente») il Niceforo risponde diffusamente nel resto del suo libro, facendo un esame dei fattori individuali e dei fattori d'ambiente.
Ho riportato, sia pure sommariamente, le argomentazioni della tesi del Niceforo perché nonostante la loro infondatezza sono più diffuse di quanto non possa pensare il lettore fornito di spirito critico o di senso dell'umorismo. Buona parte dei moderni «banditologi», che si vergognerebbero a citare il Niceforo, non se ne allontanano di molto. Ignazio Pirastu, banditologo di sinistra, nel suo «Il banditismo in Sardegna», del 1973, a pag. 146 scrive: «Le caratteristiche dei reati più frequenti, dall'abigeato al sequestro di persona, il ruolo preminente dei latitanti e le forme in cui il banditismo si manifesta, non hanno consentito dubbi sulla necessità di orientare la ricerca delle cause, delle radici del banditismo sardo, nella struttura e nell'area geografica in cui è preminente la pastorizia. La criminalità caratteristica della Sardegna, propria del mondo pastorale, trova nelle Barbagie il suo epicentro». In effetti, il Pirastu accetta la tesi razzista del Niceforo, fa propria la definizione di «Zona delinquente» data alle Barbagie; e alla forma del cranio sostituisce la dimensione economica del pastore.
Io credo che la criminalità, come qualunque azione che l'uomo compie, si possa correlare a tutto: alla razza, all'ambiente geografico, all'attività economica, al livello socio-culturale, alla fede religiosa e perfino alle emorroidi che possiede. Ma se si parla di «cause» della criminalità, queste credo che siano da ricercare esclusivamente nel tipo di società in cui l'uomo è non liberamente inserito ma violentemente costretto: sia nel ruolo di sfruttatore che in quello di sfruttato, l'uomo vive, in termini diversi e opposti, la stessa violenza. La criminalità è il prodotto, l'unico possibile, di una società fondata sulla violenza, sulla sopraffazione, sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo. La violenza e il crimine sono dappertutto e in tutti: ma chi sta al potere può decidere quali specie di violenza e di criminalità vanno represse alla base e quali legalizzate al vertice. Se per crimine intendiamo il rifiuto delle leggi che vengono imposte al popolo - e per crimine, in quanto definito nella sua sostanza da chi detiene il potere, non si può che intendere «atto di rivolta, rifiuto» - allora si può dire che tanti sono i crimini quanti sono gli uomini che reagiscono e non si sottomettono alla violenza e allo sfruttamento. Le forme di rifiuto dello sfruttamento, della ingiustizia, della oppressione, della repressione sono relative alla cultura propria di ciascun uomo. Le grassazioni agli uffici postali e alle case dei possidenti, definite «reati tipici del Barbaricino» non sono un reato sostanzialmente diverso dalla rapina a mano armata di banche e di gioiellerie nelle grandi città del Nord. Ci fossero state banche anziché uffici postali, in barbagia, indipendentemente dai crani e dipendentemente da un sistema ingiusto, si sarebbero rapinate le banche.
D'altro canto, le teorie genetiche sulla criminalità come spiegano il fatto che il milione e duecentomila furti commessi in Italia nel 1972 sono tutti addebitati ai ceti poveri? E' mai possibile che la casta al potere sia geneticamente «sana» e che la stragrande maggioranza delle masse popolari si geneticamente «tarata»?
Sostenere sulla scia del Niceforo che la Sardegna o qualunque altra regione economicamente «sottosviluppata» (cioè sfruttata) e culturalmente «sprovveduta» (cioè soffocata nella sua crescita) è «tarata»; dire che la Barbagia è una «Zona delinquente», privilegiarla di reati tipici (come si parlerebbe di «vini tipici»); fornire contemporaneamente al sistema, alla causa cioè di ogni crimine, la giustificazione di esistere e perpetuare la violenza; tutto questo non offende soltanto la dignità umana ma anche il più elementare buonsenso.
Infatti: che significato umano possono mai avere questi brani?

«La zona della Sardegna che abbiamo fissato di chiamare “Delinquente” … si è atrofizzata nel cammino della civiltà ed è rimasta con le idee morali delle primitive società… Vi sono nazioni che si arrestano e si atrofizzano ad un dato momento dell'evoluzione morale, e quando dieci secoli dopo, intorno a loro, le nazioni sorelle fremeranno di palpiti e di ideali nuovi, esse, povere moribonde, avranno ancora le idee e le aspirazioni del passato».

Ma chi le ha «atrofizzate»? Un virus cui quelle nazioni non erano immuni? O di quel virus erano portatrici «le nazioni sorelle palpitanti di ideali nuovi»? La civiltà - secondo un modello imposto violentemente dalle nazioni più forti - è giudicata a priori «buona» rispetto non dico ai modelli del passato ma anche a quelli ipotizzati dalle ideologie libertarie. Così, «primitivo» (come «libertario») diventa sinonimo di «criminale». All'opposto, «civilizzato», cioè integrato nella civiltà (di sfruttamento) del sistema, diventa sinonimo di «onesto». Per dimostrare che i Sardi sono criminali, il Niceforo fa dei salti mortali per trovare attributi di «primitività» e parallelismi negli usi e nei costumi coi popoli «primitivi» (primitivi fin che si vuole, ma difficilmente definibili criminali, a meno che non si ritenga che in virtù dello spirito santo quei popoli siano tenuti a conoscere e a rispettare i codici del diritto civile e penale della repubblica italiana o di quella spagnola).
I Sardi - dice il Niceforo - «si ungono i capelli (come troviamo nei popoli prischi)… sono uomini selvatici e crudi che vivono di rapina…» Anche il canto e il ballo sono «in essi forme del selvaggio e del primitivo… Le danze non sono che la riproduzione di quelle… di cui parla il Luebbok nei suoi studi sui popoli primitivi». Il pastore - prosegue citando il Mategazza - «abbronzato dal sole, indurito alla fame, alla sete, è un vero arabo che spesso fa da beduino, non ha della proprietà altrui idee molto precise…». A proposito di idee sulla proprietà, riferita all'uso comune della terra, si vedrà in altra parte di questo libro quale idea «molto precisa» ne avessero i colonizzatori piemontesi.

«La razza che popolò quei paesi (della Barbagia) - riprende il Niceforo - era una razza assolutamente priva di quella plasticità che fa mutare ed evolvere la coscienza sociale… In quella Zona così storicamente isolata, e che è appunto il centro dell'Isola, si radunò, fin dai primi tempi, una popolazione che aveva del selvaggio nelle vene, che non fu mai d'accordo né con i Cartaginesi, né coi Romani, né coi Bizantini, né cogli Spagnoli, né coi Piemontesi, né con gli Italiani di oggigiorno…».

Insomma, si fa addebito di primitività (e di criminalità) ai Sardi, ridotti in schiavitù nei tempi antichi, in servi della gleba nel medioevo, in affamato sottoproletariato nei tempi moderni, perché non si sono mai «trovati d'accordo» con chi li riduceva in quelle situazioni.

C'è un passo, nel Niceforo, che è veramente sintomatico di follia criminale: «Nella Zona delinquente le generazioni si sono succedute; al posto dei padri sorsero i figli, ma quei figli non furono migliori dei padri. Lo stesso arresto di sviluppo nel senso morale agghiaccia le anime dei novelli venuti, poiché i sentimenti dei padri - per legge psicologica - si trasmettono ai figli; esiste una eredità morale come esiste una eredità fisica… la psiche del pastore di cui ci occupiamo, è il prodotto delle psiche che l'hanno preceduto; le psiche dei figli che nasceranno saranno i prodotti delle psiche attuali. Tristi prodotti davvero!… Nelle loro cellule nervose c'è qualcosa di organizzato che li spinge fatalmente al sangue, e questo qualche cosa è l'eredità morale» (Tutti i brani riportati tra virgolette nel paragrafo sono tratti dal saggio di A. Niceforo «La criminalità in Sardegna» - Sandron 1897).

5 - In questi ultimi anni non c'è rimasto un cane di bandito sulle pietre della Barbagia - dove per altro vive gente sfruttata e taglieggiata dal sistema. Eppure, i procuratori generali, nelle loro annuali concioni, dedicano all'inesistente fenomeno uno spazio spropositato, che evidentemente è necessario per avviare il discorso sul potenziamento delle forze di polizia: quelle presenti non sono mai sufficienti. A sentire queste annuali apoteosi della repressione sistematica, si ha la prova che banditi e criminali occorrono al sistema, tanto che se non ci fossero crollerebbe tutto quanto, comprese le inaugurazioni dell'anno giudiziario.
A dare corpo al «fantasma» concorrono i lacché dei servizi di informazione. Fra i tanti titoli che appaiono quotidianamente sulla stampa padronale, ne ricordo uno su tre colonne, esemplare per comprendere la «strategia della tensione antibarbaricina»: «Brillante operazione di polizia - Pericoloso ricercato arrestato - Denunciato per porto d'armi abusivo». Leggendo il testo dell'articolo, si apprende che il «pericoloso ricercato» per una condanna per pascolo abusivo è stato arrestato, mentre saliva sulla nave di linea Olbia-Civitavecchia, perché trovato in possesso di una leppa, il coltello a serramanico strumento di lavoro di ogni pastore o contadino. Che non è certamente un'arma idonea a effettuare rapine e sequestri di persona.
Grazie al codice Rocco e alla complicità del parlamento, la polizia ha tanti pretesti per mandare in galera un cittadino da poter fare anche a meno di trovargli o di mettergli in tasca un coltello a serramanico. Ci sono, fra gli altri, gli articoli del codice penale che definiscono i delitti contro la pubblica amministrazione: «la violenza e minaccia a pubblico ufficiale», art. 366, che comporta la reclusione fino a 5 anni; «la resistenza a pubblico ufficiale», art. 337, reclusione fino a 5 anni «l'oltraggio a pubblico ufficiale», art. 341, reclusione fino a 2 anni; il tutto con l'aggiunta di «aggravanti» che consentono a qualunque poliziotto di eliminare, senza prove, un cittadino «sgradito».
E' accaduto di recente a un compagno fermato dai carabinieri per una dubbia infrazione al codice stradale, di essere stato minacciato di una aggiunta di oltraggio, se non avesse firmato il verbale di contravvenzione accettando come buona la versione dei fatti imposta dal più forte.
Sfuggire alle trappole disseminate nei codici e ai «poteri discrezionali» di cui sono investiti i funzionari di polizia non è facile neppure per i Barbaricini, che pure sono abbastanza scaltriti per avere sperimentato sulla pelle ogni genere di strapotere. Durante la rivolta antimilitarista di Orgosolo (giugno 1969) provocata dalla decisione del ministero della difesa di trasformare i pascoli di Pratobello in una base di esercitazioni belliche, su circa 4.000 manifestanti - praticamente tutta la popolazione - la polizia non riuscì a trovare una sola leppa, neppure un temperino, in tasca ad alcuno. Si fece allora scattare il meccanismo dell'art. 140, I e III comma, del codice penale militare in tempo di pace: «introduzione in zona militare» (ma gli Orgolesi avevano occupato i loro pascoli perché non diventasse «zona militare»!) e come di prammatica lo si condì con un pizzico di resistenza e di oltraggio.
E' già una grande prova di maturità civile, il fatto che il pastore spesso eviti la risposta violenta. Il latitante difende la propria libertà se attaccato, ma non attacca mai la polizia anche quando è in una posizione di forza. Egli dimostra di essere un uomo profondamente pacifico nelle sue risposte alla oppressione, allo sfruttamento e alle provocazioni: rapinato dal latifondista e dall'industriale caseario; fiscaleggiato e dissanguato da tasse e balzelli; violentato dalla polizia; mandato con razzistica disinvoltura al confino o in galera.
Il latitante Pasquale Tadeddu, in una testimonianza, sfoga la sua amarezza con un sarcastico gioco di parole: «La cosiddetta polizia non sta facendo altro che sporcizia». Dove con «polizia» indicava una parte per il tutto.
Una delle attuali definizioni che il sistema dà del banditismo isolano è quello di «grave e allarmante sintomo di una società ammalata di arretratezza». I giornalisti alla moda parlano di «società del malessere». Sono definizioni falsamente democratiche, per almeno due buone ragioni. La prima è che il banditismo - come è dimostrato dalle stesse cifre - non è né grave né allarmante, sia come quantità che come qualità. La seconda è che se la causa - accertata una volta per tutte - è l'arretratezza, dovrebbe essere sufficiente eliminare questa causa per far cessare l'effetto.
Prendendo per buona la tesi dell'arretratezza come causa di delinquenza, quali sono stati fino a oggi i rimedi con cui il sistema ha curato il «malessere»? Tutte le medicine finora usate avevano unicamente lo scopo di provocare, mantenere e aggravare la malattia. Nessun medico che voglia veramente il ristabilirsi dell'infermo si intestardisce a eliminare i sintomi senza invece darsi da fare per eliminare la causa.
Il popolo sardo - si dice - è malato cronico. E' malato di dominio coloniale; malato di carenza di libertà e di giustizia. E si pretende di sfamarlo con i refettori clericali, con le beneficienze «una tantum» delle prefetture e con i telegrammi di cordoglio dei presidenti. Si pretende di placare le sue ansie di progresso con i sonniferi delle promesse e degli appelli ai valori patri. Si risponde con i baschi blu, con i lanciafiamme, con le taglie, con il confino, con le stragi e con la galera al suo bisogno di libertà.

6 - L'uso delle taglie è ancora oggi uno dei mezzi correttivi privilegiati dal ministero dell'interno. Dal 1962 al 1965 (dati che ho sottomano) su 7 taglie pagate in Italia, 4 sono andate pagate in Sardegna: 3 milioni per Giuliano Pes (pagati il 21 aprile 1962); 2 milioni per Nicolò Porcu (20 maggio 1962); 1 milione per Battista Saba (13 novembre 1963); 1 milione per Vittorino Mulas (28 gennaio 1965). Dal 1965 a oggi (1974), la Sardegna è ancora al primo posto nella graduatoria delle taglie.
Non è dato sapere - ufficialmente - a chi vadano a finire queste vincite da terno al lotto. Per evitare rappresaglie, il nome del delatore viene mantenuto segreto - a meno che la polizia non abbia interesse a fomentare conflitti che metterebbero allo scoperto gli elementi turbolenti. Il mandato di pagamento della taglia viene intestato all'organo di polizia che ha portato a termine l'operazione. C'è chi sostiene che lo stesso organo si trattenga una percentuale.
La segretezza dovrebbe essere la condizione essenziale per ottenere dal cittadino la «collaborazione» con la giustizia, senza incorrere in rappresaglie. Resta il fatto che il sistema, quando è a corto di banditi da perseguire e da utilizzare, ha la possibilità di «soffiare» il nome di veri o presunti delatori, scatenando così quelle sanguinose catene di vendette note col nome di «disamistades».
In ogni caso la segretezza non è mai certa. Nelle nostre comunità, i movimenti di ognuno, perfino certi comportamenti intimi, sono costantemente osservati e commentati. Prima o poi il delatore - o chi poteva avere interesse alla delazione - viene scoperto e spesso per lui pagano anche familiari e parenti.
Alimentato dalla istituzione delle taglie, il mito del bandito-eroe si rafforza nel popolo, che si inventerebbe un delatore anche quando non ci fosse. «Anche il Cristo è stato tradito da un Giuda» - si dice. Nella fede popolare, un «eroe» non può soccombere senza un traditore. D'altro canto, questo mito è diffuso anche a livelli nazionali, e le varie storie patrie sono piene di tradimenti per giustificare guerre ignominiosamente perdute.
Abbastanza frequente è il caso di «taglie concordate» tra il fuorilegge e la polizia. In questo caso, l'entità della somma pagata è di gran lunga superiore a quella della taglia ufficiale che il ministero competente fa affiggere ai quattro cantoni, alla maniera del vecchio West. Il latitante con taglia è praticamente un condannato a morte: rischia di essere ucciso in un conflitto con la polizia o di finire in una imboscata di un cacciatore di taglie. Tanto vale che cerchi un accordo con la polizia e mercanteggi il proprio «arresto», ricavandone il più che può nell'interesse della sua famiglia e ancor più degli avvocati che dovranno difenderlo nei vari processi. Anche la polizia, dal canto suo, ha tutto l'interesse a condurre a buon fine l'accordo (di cui l'opinione pubblica non sa nulla), perché ogni cattura di «pericoloso» latitante è una operazione «brillante» che comporta promozioni, aumento di prestigio e di stipendio.
Fra i numerosi casi di «taglia concordata» è noto quello di Luigi Serra di Orune, accusato di sequestro di persona e di una clamorosa rapina nei tornanti di Cuglieri, dove vennero bloccate una quarantina di auto e ripuliti tutti i viaggiatori. Il Serra, latitante valutato «pezzo grosso» con taglia di 5 milioni, una sera di fine giugno del 1967 si fa acchiappare vestito con «l'abito buono» e con la valigia in mano. Lo prendono in consegna carabinieri e poliziotti, che hanno raggiunto un accordo per spartirsi equamente gli onori e i premi della «cattura».
Il 1967 è un anno nero per le forze della repressione, che devono subire la presenza di un certo numero di latitanti senza riuscire ad acchiapparne uno. L'operazione che porta alla falsa cattura del Serra, preventivamente definito «pericoloso», servirà a equilibrare la situazione, a ridare prestigio all'istituzione. Non è dato sapere quanti milioni, oltre i cinque della taglia, siano stati pagati dall'erario per ristabilire tale prestigio.
Non sempre l'operazione «taglia concordata» si conclude pacificamente. Se il latitante non prende le debite precauzioni (e qualcuna di riserva) può accadere che nel momento in cui arriva al luogo dell'appuntamento per costituirsi venga accolto da una raffica di mitra. Si inscenerà allora il solito conflitto a fuoco, dove - si dirà - il fuorilegge ha avuto la peggio.
E' assodato che anche Graziano Mesina ebbe da parte della polizia, tramite l'avvocato Bagedda, diverse e cospicue offerte di denaro per costituirsi. La stampa parla con dovizia di particolari di un primo tentativo del genere messo in opera nell'estate del '67 da alti funzionari di PS. La prima offerta al «divo» Mesina fu di 10 milioni. Mesina ne chiese 100. Si sa anche che a Roma si era disposti a pagare i 100 milioni. Alcuni commentatori dell'operazione hanno giustificato la disponibilità del potere repressivo all'accomodamento con il calcolo dei costi del latitante orgolese per l'erario. E' stato scritto che «dare la caccia a Graziano Mesina significava spendere 1 miliardo all'anno in battute, rastrellamenti, posti di blocco e varie altre operazioni di polizia». Di conseguenza, togliendosi dai piedi Mesina con 100 milioni, lo Stato ne avrebbe risparmiati 900 in un solo anno.
Non condivido questa opinione: quel miliardo in operazioni di polizia lo Stato lo avrebbe speso ugualmente anche senza la presenza di Mesina. Infatti, quello stesso spiegamento di forze è presente in Barbagia anche dopo la «cattura» del latitante orgolese. Va ribadito che la presenza di un forte e agguerrito apparato repressivo in Sardegna è indipendente dalla esistenza o meno di fenomeni di criminalità e ha invece la funzione di esercito di occupazione coloniale e di corpo speciale antiguerriglia.
Al sistema, l'operazione dei 100 milioni conveniva per il prestigio che ne avrebbe tratto catturando un latitante mitizzato, diventato popolare per la sua fama di imprendibile. Oltre i 100 milioni, per convincerlo a costituirsi, alti funzionari di polizia promisero a Mesina alcuni privilegi, tra cui la detenzione in una colonia agricola, dove avrebbe potuto vivere lavorando all'aperto. (E' nota la paura ossessiva della clausura, caratteriale nei nostri pastori usi a vivere fin da piccoli sotto il cielo aperto).
Dopo la criminale montatura del traliccio di Segrate è trapelato che nella operazione per la costituzione di Mesina si inserì un alto funzionario del SIFAR, al quale premeva far passare il latitante orgolese per un «guerrigliero» alla Che Guevara, legato a un fantomatico movimento separatista sardo finanziato dall'editore Gian Giacomo Feltrinelli. I giornali padronali - e non soltanto quelli apertamente fascisti - hanno montato spudoratamente l'intrigo. Ed è facile comprendere dove volessero arrivare, partendo dalla «strage di stato» del 12 dicembre. Mesina, in questa circostanza, ha dimostrato di essere un uomo mille volte più pulito dei suoi altolocati subornatori: egli ha ripetutamente smentito, anche davanti al magistrato di avere mai avuto rapporti col fantomatico movimento separatista, di avere mai ricevuto proposte di guidare una guerriglia politica, di avere mai avuto a che fare con l'editore Feltrinelli. Destinato a più ergastoli, non aveva nulla da perdere e tutto da guadagnare convalidando la montatura, dopo la sua costituzione - ma la dignità di un «bandito» del Supramonte è una cosa seria.
Ho detto costituzione e non cattura in contrasto con la versione ufficiale. E' del tutto inverosimile che Mesina (niente affatto «bruciato» nel suo ambiente, anzi sulla cresta dell'onda e pertanto immune da soffiate) se ne andasse a spasso in auto finendo dritto dritto davanti a un normale posto di blocco della polstrada (che qualunque automobilista senza patente può agevolmente evitare) e portasse in tasca oggetti appartenenti a un possidente sequestrato, per fornire alla polizia le prove della sua colpevolezza. Per non dire del suo abbigliamento: azzimato e rasato, pronto per i flashes della conferenza stampa e per gli operatori della tivù già radunati in questura.

«Il primo elogio va alle forze di polizia che lo hanno catturato, il secondo a Mesina che si è fatto catturare - ironizza una rivista - E perché no? Il bandito orgolese si è comportato da cittadino esemplare. Ha trovato un posto di blocco e si è fermato. Gli hanno chiesto i documenti e non li ha esibiti perché non li aveva. Ha tentato, è vero, di dare false generalità, ma appena riconosciuto si è arreso alla realtà: "Sì, sono Mesina". Che altro si può pretendere da un giovane che fino a ieri era considerato il più sanguinario dei banditi del Supramonte?
La macchina sulla quale viaggiava era munita come una piazzaforte. Due pistole con la pallottola in canna e tante bombe a mano quante ne bastano per uccidere un battaglione di vietcong. Evidentemente il bandito aveva scartato l'eventualità di potersene servire. Ebbene, non se ne è servito. Perché? Perché forse, in fondo, è un bravo ragazzo. Delinquente finché si vuole, ma bravo ragazzo. Viene il dubbio che non sia stato lui a impegnare per tanti mesi i baschi blu sulle impervie montagne del Supramonte. Sembra quasi impossibile che gli agenti morti sopra Orgosolo sia stato lui a farli cadere.
Aveva anche il coltello a serramanico e non se ne è servito. Né si dica che un coltello a serramanico non serve di fronte a sette mitra. Serve, eccome! L'assassino dell'agente Tamponi era armato di coltello: è bastato quello a mettere a tacere sei bocche di fuoco. Dunque, considerati i precedenti, Mesina si è comportato in maniera sbalorditiva. Legato mani e piedi, come un salame, ha finito col destare la pietà e il rispetto del questore in persona. "Caro giovane", gli ha detto il questore, "poteva accadere di peggio".
Ma c'è un'altra ragione per cui Mesina, dopo che gli agenti lo hanno catturato, merita un elogio. Ha aspettato l'arrivo in Sardegna del capo della polizia Vicari. Chissà quante volte deve aver percorso a piedi quel tratto di Funtana Bona, a due passi dal suo rifugio. Chissà quante decine di chilometri deve aver fatto di corsa per togliersi dal collo l'alito dei cani e dei baschi blu. Eppure, fatalità, è andato a cacciarsi in macchina quasi all'entrata di Orgosolo, a casa sua; dove si diceva andasse e venisse indisturbato, proprio nei giorni in cui qualcuno non escludeva che potesse essere il mandante se, non l'esecutore diretto dei quattro sequestri di persona operati nel mese di marzo. Un bravo ragazzo e per giunta disinteressato… poteva consegnarsi alla polizia quando voleva, intascandosi tranquillamente la taglia. Poteva perfino trattare la sua cattura…
Che sia intervenuta una conversione? Un fatto è certo: egli ha fatto tutto il possibile perché le casse dello Stato - abbastanza esauste per il costo di un esercito di baschi blu mobilitato in funzione della sua latitanza - non avesse a soffrire altre emorragie. Pare che il capo dell'anonima sequestri… abbia disposto per il futuro il controllo antidoping per gli affiliati. Prima di uscire dalla tana, i banditi devono dar prova di non aver preso tranquillanti…» (In «Sassari Sera» del 30 marzo 1968).

Sulla stessa rivista (aprile 1968) ho così commentato la cattura di Mesina:

«…Una folla immensa si è raccolta al passaggio del bandito-eroe: donne ululanti, giovani acclamanti, fanciulle in deliquio. Gli sclerotici della morale borghese - che a uscir di casa per entrare in contatto della folla maleodorante si prendono il cimurro - hanno attaccato la tiritera del divismo deteriore. Presi da divismo tutti, però. C'erano tutti i poliziotti della questura, anche gli uscieri coi reumi. Facevano a spinte per entrare nel quadro televisivo che aveva al centro il divo acchiappato. Un divo frastornato, un vero ecce homo.
Mai la Sardegna aveva avuto tanto tempo e tanto spazio nelle cronache televisive. Neppure durante le tragiche siccità che avevano falciato greggi e inaridito raccolti, affamando intere popolazioni. Neppure quando si scoprì che a Gonnoscodina la popolazione infantile era in alta percentuale affetta da tubercolosi per denutrizione e quando a Cabras era scoppiata una terribile epidemia di colera. Dalla faccia e dal tono dello speaker si poteva temere che fosse scoppiata la guerra atomica. O che il papa si fosse sentito male.
…Un fatto del tutto normale che si è voluto far passare per straordinario. Perché la mitizzazione di certi avvenimenti fa comodo al sistema. Ne è addirittura la sostanza vivificatrice. E non soltanto in periodo elettorale. Se la cattura di un qualunque fuorilegge apparisse normale routine di polizia, la «bontà» del sistema apparirebbe irrimediabilmente compromessa dagli scandali a catena del ladrocinio legalizzato. Una operazione compiuta da comuni mortali in divisa che atterrano, restando indenni, un eroe è una impresa mitica…
Graziano Mesina ha fatto così l'apoteosi del sistema: ribellandosi ne è stato bandito; attaccandolo lo ha rinforzato; assumendo il ruolo dell'eroe popolare ha contribuito a distorcere e a vanificare la rivolta, il riscatto della sua gente… facendosi catturare ne ha dimostrato l'efficienza.
E' stato scritto che Mesina si sarebbe riscattato assumendo il ruolo del Che-sardignolo. Non ci sono Che che tengano contro il moderno Leviathan. Il mitico mostro impallidisce davanti alle infernali arti della società dei consumi, che ha infiniti occhi televisivi puntati sulle umane coscienze. Neppure il sommo Jahvé possedeva tali poteri. I tempi moderni sono tempi duri per i Che. Non muove foglia che il sistema non voglia. Quando gli eretici escono dalle conversazioni da salotto e predicano in piazza finiscono con la testa in un piatto o in croce o al rogo. Graziano Mesina è finito in galera. La sua fine era decisa dal momento in cui superò i limiti del gioco.
Quando gli sceriffi tengono concilio coi padroni dei saloons e delle farms e appuntano stelle di vice e distribuiscono Winchester ai cow-boys volontari, allora le cose si mettono male per i desperados. Non c'è omertà, né tana, né velocità nell'estrarre la Colt che li salvi. Si fanno prendere come “pisci alluau”, come fessi.
Ci sono limiti che non devono essere superati. Il sistema prevede nel proprio interno qualunque eccezione: purché confermi la regola. Per esempio, in certe nostre comunità agricole è consentito il furto di determinati prodotti: favette, fichi e più in particolare frutta spontanea, erbe commestibili, legna da ardere e sassi da muretto. Invece, per il furto di un carciofo o di un pesce pescato in acque padronali si rischia una fucilata o qualche anno di galera. L'eccezione - cioè l'attività delinquenziale nel basso - è tollerata fintanto che non rompe l'armonia dell'ordine costituito - cioè la regola delinquente del sistema.
Se Grazianeddu si fosse limitato a recitare la parte del Che-sardignolo, a vendicare ingiustizie rubando pecore e a difendere la legge dell'onore barbaricino trucidando orgolesi, con tutta probabilità egli calcherebbe ancora le pietre del Supramonte coi suoi gambales di cuoio duro. Ha commesso un errore - oppure si è deciso di attribuirglielo: il che, nella morale del sistema, è la stessa cosa: sono stati sequestrati e rapinati padroni di saloons e di farms di antica tradizione. Gente che, con i Johnson, sono cardine del sistema. Un errore imperdonabile toccare i cardini del sistema. Ce lo insegna la storia.…
La fine di Mesina era scontata. Dal momento in cui il suo modo di essere eretico minacciava l'ortodossia. Ognuno di noi è ciò che è fintanto che il sistema glielo consente. Il sistema è la perfetta organizzazione della perfetta strumentalizzazione di ciascuno di noi. A tutti i livelli…
Mesina rientrava nel fenomeno ammaestrato che risolve nella dialettica della protesta borghese la rivolta delle coscienze proletarie, giovando all'incremento dei consumi di massa… Eroe-bandito, ammirato dai giovani e vagheggiato Che di rivoluzionari in pantofole, rappresenta l'ansia di libertà e la violenza della rivolta di cui le masse popolari sono concretamente incapaci - o meglio, ne diventano incapaci proiettandosi in un eroe. Il mito dell'eroe (che per altri aspetti ma con identico meccanismo è culto della personalità, è divismo) è perfettamente teorizzato e strumentalizzato ai fini del sistema. Il fenomeno Mesina va inquadrato in questo contesto. E così pure le voci che si sono levate scandalizzate a deplorare gli applausi isterici dei giovani e le lacrime passionali delle fanciulle per il Che barbaricino costretto in catene. Erano voci già incise da tempo nel nastro della storia guidata. La storia non la fa Mesina, né i magnifici sette che hanno avuto il compito fortuito di catturarlo. Non la fanno gli applausi dei ragazzi, né la passione delle fanciulle. E neppure gli intellettuali contestatori e quanti con loro eiaculavano la rivoluzione isolana fantasticando sulla eccitante immagine di Grazianeddu in gambales. La storia la fanno i padroni dei saloons e dei farms che hanno i dollari per tenere in piedi i pilastri del sistema. Anche il popolo, è vero, può fare la storia. Il popolo e non altri in suo nome. Potrà farla quando sarà padrone dei saloons e dei farms. Quando ogni uomo sarà egli stesso un eroe in proprio e non avrà bisogno di proiettarsi e identificarsi in un bandito per sgravarsi i testicoli».

Le rocambolesche avventure di Mesina non finiscono qui. Quotidiani e rotocalchi avranno ancora occasione di rispolverare e ripiazzare sul mercato il bandito più venduto d'Italia.
Il 20 agosto del '75 Grazianeddu scappa dal carcere di Lecce. Fuggono con lui alcuni politici. Tra questi, Martino Zichitella e Giuseppe Sofia, definiti dalla polizia leader dei nuclei armati proletari. Tra le altre consumistiche illazioni della stampa, se ne deduce che il bandito orgolese si è dato alla politica, che finalmente ha deciso di assumere il ruolo del guerrigliero schierandosi con i nap e con le br. Mesina non si degna di smentire - la cosa non gli fa né caldo né freddo, se ne sono dette tante di balle, sul suo conto. Ma quando Zichitella muore e muore un agente nel noto attentato, e comincia a venire fuori la voce che è stato proprio lui a far fuori Zichitella ferito durante l'operazione, affinché non parli, allora Mesina si risente e telefona ai giornali dicendo che gli dispiace ma che lui non c'entra un accidente e che non gli calza affatto il ruolo di rivoluzionario.
D'altro canto, nel febbraio del '75 Mesina tenta una evasione dal carcere di Volterra con altra ben diversa compagnia, i fascisti Mario Tuti e Roberto Masetti. Se ne può dedurre forse che Grazianeddu è diventato fascista?
Il 16 marzo del '77 nuova bomba. Mesina viene acchiappato a Caldonazzo, in provincia di Trento.
Sono state scritte un mucchio di sciocchezze sulla Primula Rossa del Supramonte, molte inventate di sana pianta per rendere più appetibile il personaggio. Mi sembra perciò doveroso riportare l'intervista di «Sassari Sera» all'avvocato Giannino Guiso, difensore di Mesina e di estrazione culturale barbaricina.
D. «…subito dopo l'evasione dell'ex re del Supramonte dal carcere di Lecce avevamo esaminato tutte le ipotesi di fantapolitica che erano state fatte sulla trasformazione ideologica-culturale i Grazianeddu. L'avvocato Guiso era stato molto preciso: Mesina è maturato notevolmente, è cresciuto culturalmente e politicamente, ma non si è trasformato, come molti lo indicavano, né in nappista, né in brigatista…»
Guiso: «Ho sempre parlato di Mesina come un detenuto che all'interno della istituzione carceraria aveva subito una profonda trasformazione politica che deve identificarsi in una presa di coscienza del suo stato di detenuto, della sua stessa condizione sociale, degli errori che Mesina aveva commesso nel passato più per colpa dell'ambiente in cui era vissuto che per sua volontà. Quindi, uscito fuori da quel condizionamento ambientale, si era completamente trasformato. L'istituzione carceraria poi, con tutta la sua violenza, aveva fatto capire a Mesina in che tipo di società viveva e l'aveva portato spesso a contestarla, tant'è che in numerose lettere che aveva indirizzato a me e ad altri parlava proprio di questa società che usava due pesi e due misure nei confronti dei cittadini, a seconda della loro condizione sociale. Ricordo in particolare che in una lettera, in cui mi parlava delle sue precarie condizioni di salute (allora era sofferente per un'ernia) si richiamava al caso del commissario Scirè che viveva tranquillamente nell'infermeria del carcere, mentre lui, sofferente, era costretto in una cella di isolamento… Per quanto riguarda poi la polemica sulla formazione politica devo precisare che io non ho mai detto che Mesina appartiene ad un gruppo o ad un movimento politico, ho parlato solamente di maturazione politica che confermo, perché ho potuto constatarla personalmente… Mi si potrà obiettare: …Mesina è implicato in altri fatti delittuosi: queste sono situazioni che qualsiasi latitante, che deve vivere alla macchia, deve affrontare perché soprattutto nella penisola stare alla macchia significa fare una vita pericolosa e dover pagare tangenti a tutte quelle persone che offrono la loro assistenza solo dietro larghi compensi. L'ambiente è completamente diverso da quello che Mesina ha conosciuto: non c'è come in Barbagia il pastore che uccide il maialetto e dà da mangiare al latitante, ma vi sono solo persone che l'ospitalità se la fanno pagare a caro prezzo…».
D. «Al momento della cattura, ad un giornalista che gli chiedeva perché non avesse studiato, Mesina ha risposto: - Me l'hanno impedito. In carcere mi hanno sempre detto che tutto quello che avrei imparato mi avrebbe fatto diventare più cattivo - Cosa pensa di questa frase?».
Guiso: «…Mesina in carcere aveva tentato di studiare: io stesso gli avevo fornito numerosi libri e insieme avevamo iniziato a fare un certo lavoro sistematico perché lui cominciasse ad entrare in un certo ordine di idee diverse e all'interno del carcere utilizzasse il tempo per farsi una cultura. Ricordo che nel periodo che è stato a Cagliari ha letto circa un'ottantina di libri che io gli portavo e sul contenuto dei quali si discuteva insieme. Ricordo che in quel periodo era molto in voga "Il signor Presidente" di Asturias, e Mesina aveva colto benissimo il senso di questo romanzo; la figura di questo presidente che mai compariva ma era sempre onnipresente, era l'emblema di un potere che opprimeva e sopprimeva tutto: e questo libro lo aveva interessato moltissimo.
Poi è iniziata la peregrinazione di Mesina: fu massacrato di botte nel carcere di Porto Azzurro (esiste a questo proposito una denuncia), rimase poi sofferente di un'ernia per la quale fu curato a distanza di anni dopo che io mi rivolsi al ministro di grazia e giustizia perché lo sottoponessero ad un intervento che a tutti i medici delle carceri appariva invece superfluo. Mesina invece stava male e all'istituzione carceraria, naturalmente, questo stava bene e necessitava quindi di un minor controllo. Mesina comunque ha sempre cercato di studiare, è stato l'ambiente che non glielo ha mai consentito, perché si riteneva, ingiustamente, che la cultura lo aiutasse a diventare più cattivo.
In effetti, se noi guardiamo a quella che è la società moderna, direi che forse quel giudizio dell'ambiente era esatto: infatti, sono proprio gli uomini colti i più cattivi, sono gli uomini del potere, quelli che hanno studiato, che posseggono quel tipo di cultura egemonica, sono proprio loro che hanno perfezionato la cattiveria per poter consentire a pochi di dominare sugli altri. Però Mesina ha pronunciato quella frase dandogli un significato diverso: io che lo conosco bene ritengo di aver colto il vero senso della frase. Mesina con rimpianto dice di non aver studiato e attribuisce agli altri le responsabilità perché lui probabilmente avrebbe fatto diversamente: il titolo di studio gli sarebbe servito soprattutto per crearsi un avvenire. Mesina non ha mai fatto volentieri il bandito: è un bandito forzato, provocato, esaltato, costretto dall'ambiente, non è un individuo che ha particolari tendenze delinquenziali…».
Un eminente psicologo - uno di quelli che crede nelle teorie dell'inconscio e ci vive sopra - sostiene che nulla avviene per caso e che ogni uomo, sotto sotto, tende a essere ciò che realmente è. A me sembra la scoperta dell'uovo di Colombo: tuttavia, il concetto illumina alcuni tratti dell'affare Mesina.
Nella dicotomia «guardie-ladri» - l'antichissimo gioco inventato dal sistema e sempre in voga - ciascuna delle parti deve assolvere al proprio ruolo secondo certe regole che armonizzano l'insieme. Per esempio: il ladro ruba e scappa; la guardia vigila e lo insegue; il ladro si fa acchiappare e si lascia ammanettare ammettendo di aver perso; la guardia lo acchiappa, lo ammanetta, ribadendo che la giustizia alla fine trionfa sempre. E ambedue sorridono compiacendosi a vicenda di avere recitato correttamente ciascuno il proprio ruolo.
Le vicende della vita di Mesina sembrano fatte apposta per confermare e dare lustro a questo gioco di società. Un gioco che non sempre si svolge correttamente da una parte e dall'altra - anche perché dalla parte dei ladri c'è in questi ultimi tempi un tentativo di rifiutare i regolamenti fissati dal sistema.
Mesina no, è una controparte seria su cui il sistema può contare. Della politica, in particolare di quella sovversiva, non gliene sbatte nulla. E' un ladro-gentiluomo. Ogni volta che scappa, il sistema fa la sua apoteosi di Primula Acolore del Supramonte, scatenando popolari passioni, quali neppure i massimi divi dello sport e del cinema sono riusciti a suscitare. Ogni volta che le guardie lo acchiappano, il sistema fa l'apoteosi delle forze dell'ordine, della giustizia di queste mirabili istituzioni addette alla caccia dei ladri che sempre trionfano.
Nell'un caso o nell'altro, evasione o riacchiappamento, radio tivù, quotidiani, rotocalchi, bollettini parrocchiali entrano in orgasmo, si riempiono di titoloni, immagini, ricostruzioni storiche, interviste - come il cielo dei nostri paesi di colorati scoppi di granate e petardi per la festa del patrono.
Ma torniamo all'eminente psicologo, il quale, al di là delle formule comportamentali determinate dal gioco «guardie-ladri», ritiene di poter scoprire l'essenziale dell'uomo attraverso i non casuali dettagli.
Mesina si è sistemato nel Trentino. Ci si trovava tanto bene che, lo ha ammesso, ha perfino dimenticato di essere ricercato. E non era lì con l'intenzione di combattere contro le bande separatiste altoatesine - cosa che a suo tempo aveva proposto al ministro degli interni per dare una mano alla patria minacciata nella sua integrità territoriale. Era lì, dicono gli esperti, per esercitare onestamente il suo mestiere di sequestratore di possidenti e rapinatore di capitali. Si era modificato nell'aspetto e nel portamento. Non un rozzo camuffamento per non dare nell'occhio vigile delle guardie, ma per bisogno profondo di adeguarsi alla nuova realtà socio-economica in cui era praticamente emigrato.
Ecco il punto. Lo psicologo direbbe che Mesina, come tutti i sottosviluppati isolani e meridionali, prende come modello il civilizzato uomo del nord sviluppato. Nel suo profondo io sociologico, egli tende a uscire dal ristretto guscio di una umanità repressa come quella sarda per diventare l'uomo magnifico della civiltà industriale e tecnologica. Infatti, dimessi i gambales e il fustagno ha indossato la tenuta civile del pellicciotto e dei jeans attillati, scarpe tacco alto e zazzera alla page - non avendone di propri da farsi crescere, i capelli se li è messi posticci. Mutato anche l'armamentario. Da quel che si è potuto vedere dalle nitide particolareggiate immagini diffuse via cavo e via satellite, le vecchie armi sardignole e i residuati bellici tipo la «murri pinti» (la mitraglia affettuosamente chiamata «muso dipinto») sono state sostituite da modernissime ben nichelate rivoltelle automatiche e «machine-pistole» all'ultimo grido - che perfino le guardie gli hanno invidiato, tanto erano belle lustre funzionali.
E le guardie? Erano come affascinate davanti al celebre divo della controparte. Lo avrebbero baciato in fronte, se avessero potuto farlo. Non sapendo come esprimergli il loro affetto e la loro riconoscenza per essersi fatto acchiappare, lo hanno calorosamente ringraziato per non aver sparato, per non avere turbato così un giorno di festa e di giubilo con spargimento di sangue.
E Mesina, affabile, risponde: Ci mancherebbe altro, sparare! Ma che scherziamo?! Mica sono un sanguinario. E per non essere meno cortese ha replicato: Sono io che devo ringraziare voi per non avere sparato.
Sono stati tutti bravi davvero. Lo ha riconosciuto anche la mamma di Grazianeddu, zia Caterina, che ha pure lei ringraziato le guardie di non avere sparato, di essersi comportate correttamente.
Morale della favola. Il gioco funziona e rende bene al sistema. Mesina scapperà di nuovo, perché questo è il suo ruolo, ed egli lo rispetta da galantuomo-ladro quale è. Le guardie lo riacchiapperanno, perché questo è il loro ruolo, e a rispettarlo ci guadagnano anche promozioni. Ambedue le controparti glorificano così il sistema. E c'è chi pensa che il gioco è tanto produttivo che se Mesina non ce la dovesse fare a scappare con le proprie forze, ci sarà chi gli presterà amorevolmente una mano.

7 - L'uso della taglia - sostengono alcuni giuristi - è una istituzione particolarmente utile in una società come la nostra, dove il cittadino ha poca o nessuna fiducia nello Stato. In questa società - definita culturalmente sottosviluppata - la taglia «intesa più come premio per una decisiva collaborazione con la legge che come prezzo di un tradimento, rappresenta un efficace correttivo alla scarsa disposizione dei cittadini a intervenire in questioni la cui competenza viene attribuita esclusivamente alla polizia» (In «Sardegna Oggi» del 15 luglio 1965).
Un metodo educativo alquanto discutibile, questo di formare la coscienza civile del cittadino con incentivi in denaro. Ed è ovvio che il cittadino da «educare» con lo stimolo dei biglietti di banca sia un povero diavolo, colui che ha fame.
Alquanto discutibile è anche la valutazione che viene fatta sulla efficacia della taglia. Se è vero che alcuni latitanti non sarebbero mai stati catturati senza la delazione, è anche vero che la delazione - nella morale popolare - non è una «collaborazione con la giustizia» ma una infamia, e ha sempre costruito, anello su anello, sanguinose catene di rappresaglie. In Sardegna - e credo dovunque - l'istituto delle taglie non ha affatto contribuito a diminuire i fenomeni di criminalità. Può avere determinato l'eliminazione di un fuorilegge, ma nel contempo ha contribuito a crearne di nuovi.
In pratica, la taglia è uno strumento cinico che rompe dall'esterno l'equilibrio di una comunità che ha proprie leggi, arcaiche ma sempre valide, leggi non scritte ma sentite e rispettate, che impongono di risolvere ogni controversia nell'ambito della stessa comunità. Collaborare con una legge esterna, sovrastrutturale, configura una minaccia per l'equilibrio comunitario: colui che collabora con una legge esterna è un traditore (per usare un termine caro al sistema, che lo tira fuori facendo storia patria, per indicare colui che passa al nemico). Il «traditore» è di necessità un elemento disgregante, da eliminare con infamia. Una eliminazione che riveste una particolare importanza morale e sociale. Si potrebbe ricavarne un libro dell'orrore, a mettere insieme gli episodi sanguinosi, efferati che hanno visto la «chiusura dei conti» con un delatore.
L'incitamento alla delazione con premi in denaro e con altri incentivi (per esempio, il perdono giudiziario) era già adottato dai Romani nel tentativo di eliminare i capi pastori che guidavano la guerriglia con le bardane contro i centri commerciali dei colonizzatori (Bardane: scorrerie: veloci puntate che bande armate barbaricine compivano in pianura, in particolare contro i centri commerciali dei colonizzatori). I Romani, per fiaccare la resistenza degli indigeni, integravano le taglie con gli incendi, e utilizzavano torme di cani addestrati nella caccia all'uomo.

Sostiene Nino Puleio che «nella luttuosa storia del banditismo, l'istituzione delle taglie ha quasi sempre coinciso con la cattura di qualche bandito… Ciò dimostra che una somma cospicua riesce qualche volta a smantellare il grande muro dell'omertà dietro il quale si riparano i più pericolosi latitanti…» (In «Sardegna Oggi» del 15 luglio 1965).
L'omertà - vista dal mondo massificato di Puleio - può anche essere una vigliaccheria: ammesso che nelle comunità del Nord-Italia le istituzioni giuridiche dello Stato siano sentite come valide e giuste. Ma è tutt'altra cosa nelle nostre comunità dove la legge è imposta dall'esterno ed è estranea agli interessi reali delle popolazioni. Una legge che oltre tutto non è in grado (non per difetto di numero o di armamenti, ma proprio perché «esterna») di proteggere coloro che per eccezione l'accettassero.
Il termine di omertà innanzi tutto è improprio, in riferimento alla Barbagia. E' un termine che si addice a cosche mafiose, a vertici corporativi, a consorterie politiche, a élites al potere. Non calza affatto a quel comportamento di solidarietà che le popolazioni dell'interno assumono nei confronti del pastore latitante. Una solidarietà che ha motivazioni profonde e radici storiche nella comune opposizione e resistenza alle dominazioni straniere e radici attuali nel giudizio negativo che il sardo ha del sistema, come giustizia, polizia, apparato fiscale, burocrazia. Il pastore latitante è una componente di rilievo nella storia di liberazione della comunità barbaricina, e vale più che mai l'assioma: il nemico del nostro nemico è un amico. Infine, non va sottovalutato il fatto che in certi casi il «farsi i fatti propri» coincide con il poterseli continuare a fare.
Per il pastore, per il contadino o per l'artigiano, in ogni aspetto e momento della vita comunitaria, più che la legge rappresentata dal carabiniere è presente e vincolante la legge della comunità, “su connottu”, le norme tramandate dai padri e riconosciute dai figli (Su connottu: l'insieme di antiche norme comunitarie abolite con le riforme sabaude. i moti di su connottu («del conosciuto», letteralmente) vengono chiamate le rivolte popolari per il ritorno agli antichi usi).
In un depliant in circolazione dal 1972 la polizia si reclamizza alla maniera dei dentifrici facendosi passare per un prodotto terapeutico delle nevrosi da insicurezza. Attorno a un telefono sovrimpresso dal 113 vi è la scritta disposta a coroncina: «Non siete mai soli - la polizia è con voi». Non so bene a quali categorie sociali sia rivolto questo depliant. Certamente non ai pastori sardi, perché è semplicemente ridicolo pensare di poter creare un rapporto qualunque su tali basi. Anche se il pastore sa leggere, dove diavolo lo trova sui monti un telefono per fare il 113 e «non sentirsi solo»? Il depliant fa leva sul bisogno umano di sicurezza: la polizia-mamma. Ma se la insicurezza è un sintomo della frattura tra l'individuo e la realtà che gli sta attorno, cioè tra l'individuo e i propri simili, non vedo proprio quale stimolo a creare rapporti interpersonali soddisfacenti, quale vuoto di solitudine possa colmare nel pastore barbaricino, isolato fra le sue pietre dal resto del mondo, la caserma dei carabinieri o il commissario di P.S. E' soltanto all'interno della propria realtà comunitaria, è nei rapporti con la sua gente che il pastore «non è mai solo» e trova sicurezza.
Le taglie possono aver rotto questa elementare legge che regola la dinamica dei rapporti comunitari. La venalità o uno stato di grave bisogno possono avere indotto qualcuno alla delazione - contro ogni morale e contro lo stesso istinto di sopravvivenza. Ma forse - come è stato notato - più spesso possono essere stati forti motivi di rancore verso quel latitante o lo stesso comportamento di quel latitante collocatosi al di fuori della legge comunitaria, ad avere spinto qualcuno o la stessa comunità alla delazione. In tali casi è strumentalizzata una istituzione esterna per compiere una vendetta personale o di clan o di comunità.
Non credo che l'omertà del cittadino - il quale dal canto suo ha tutto il diritto di tacere per conservare intatta la pelle - si rompa con l'istituto delle taglie più o meno cospicue. Se fosse vero basterebbe una fondazione tipo Rockfeller o Nobel per eliminare ogni genere di banditismo. E qui il discorso potrebbe continuare a tingersi di colori umoristici e grotteschi, se la taglia come istituzione che premia la delazione non muovesse dal cinismo di chi col pretesto di bruciare la gramigna dà fuoco al campo di grano.

8 - I corredi elettronici, l'abilità e la sagacia degli «007» che risolvono in un amen ogni più complesso rompicapo criminale, sono una panzana. Esistono soltanto in certi films e in certa letteratura, dove si fa l'apologia del poliziotto che non sbaglia mai e della giustizia che trionfa sempre.
In Italia, senza con questo commettere l'errore di sottovalutare la reale forza e capacità dell'apparato repressivo, gli strumenti di cui si avvalgono i «superman 007» sono tutt'altro che scientifici e nobili.
L'istituto delle taglie è marginale nel complesso sistema repressivo che organizza, incentiva e regola la delazione, che è in pratica la base su cui poggia ogni operazione per la cattura dei criminali.

«Dalle spese di bilancio del 1971 per l'arma dei carabinieri e la pubblica sicurezza, ministero della difesa, voce 4034: Spese riservate e confidenziali del Comando generale e degli Enti dell'Arma dei Carabinieri: 400 milioni; ministero dell'interno, voce 1311: Premi a funzionari e ad altro personale civile per segnalati servizi di polizia: 420 milioni; voce 1461: Spese per la lotta alla delinquenza organizzata ed altre inerenti a speciali servizi di sicurezza e spese confidenziali per la prevenzione e repressione dei reati: 660 milioni. Traduzione: oltre 1.400 milioni tra taglie (i premi al personale civile) e stipendi ai confidenti (spese confidenziali).
Ancora dagli stessi bilanci: ministero dell'interno, voce 1458: Spese per il funzionamento della scuola superiore di polizia; per i gabinetti e per il servizio delle ricerche - Acquisto di impianti scientifici e di oggetti di arredamento - ecc.: 580 milioni; ministero della difesa, voce 4069: Spese per le esigenze scientifiche della polizia giudiziaria: 200 milioni.
Come dire: meno di 800 milioni per tutte le necessità, dalla formazione del personale al suo impiego, la attività poliziesca scientificamente dedicata alla lotta alla criminalità, cioè la polizia scientifica e giudiziaria. In altre parole , le cifre ufficiali illustrano senza possibilità di fraintendimenti e di contestazioni che la lotta alla criminalità operata dalla polizia italiana si basa prima di tutto sulle soffiate dei confidenti e sulle spiate dei cacciatori di taglie, e a grande distanza (quasi la metà) arrivano gli strumenti seri (quelli che vengono poi utilizzati come arma di propaganda su colorate pagine pubblicitarie), quelli che permettono di impostare il lavoro di indagine vera e propria» (A. D'Orsi - Il potere repressivo: la polizia - Feltrinelli 1972 pagg. 188-189).

Sostiene giustamente il D'Orsi che «il terreno fertile che produce il confidente è il mondo degli ex detenuti, dei pregiudicati, dei sospetti» (A. D'Orsi - Il potere repressivo: la polizia - Feltrinelli 1972 pag.-189).

«I confidenti sono dei ruffiani e dei venduti - testimonia un detenuto - i quali cominciano a indagare per scoprire quale possa essere l'autore dei reati. In cambio ottengono del denaro oppure evitano di essere arrestati per un reato da loro commesso. Oppure ci sono costretti dal ricatto: O tu ci dai delle informazioni su quel tale oppure ti denunciamo per quel reato che hai già commesso. Se collabori con noi tutto va bene, altrimenti ti dichiariamo pericoloso e ti diamo la libertà vigilata e il domicilio coatto».

Un altro detenuto illustra la figura del provocatore: «Mi avevano dato la vigilanza e non avevano intenzione di togliermela, mi dissero: Ormai tu sei incastrato, noi chiudiamo un occhio, puoi fare tutto quello che vuoi, tu però organizza qualche bel colpetto… Mi prelevavano anche per strada dicendo che dovevano parlarmi, in questura mi ripetevano che dovevo fare come dicevano loro, altrimenti con una scusa qualsiasi mi avrebbero sbattuto in galera. A noi basta che ci organizzi qualche piccolo colpetto o qualche piccolo furto, tu conosci tutti, se non saranno gli altri a proportelo, proponilo tu e così ci dai la possibilità di fare una brillante operazione… Così guadagniamo qualche cosa anche noi… Qualche soldo te lo diamo e nello stesso tempo chiudiamo un occhio…» (Ricci e Salierno - Il carcere in Italia - Einaudi - pagg. 303-304).

«Questo tipo di lavoro assolutamente fondamentale per l'opera della polizia non viene svolto esclusivamente da spie e delatori reclutati nel mondo della mala; talora sono gli stessi poliziotti a svolgerlo (ciò avviene nei casi giudicati più grossi, dove occorre una persona davvero fidata, perché il confidente può sempre fare il doppio gioco); inoltre esiste, sulla base di una decreto legislativo del 1927 (D.L. 9 gennaio 1927 n. 33), una sorta di figura intermedia tra il confidente volgare reclutato tra i pregiudicati per dare una informazione e organizzare un colpetto e il poliziotto 007 che si infiltra nei luoghi e nei raggruppamenti (delinquenti comuni e soprattutto politici…): si tratta di agenti segreti che vengono assunti nel corpo della PS in deroga alle norme di reclutamento, e hanno diritto allo stesso trattamento economico delle normali guardie di PS, senza averne però i diritti (indennità, premi, pensione, assistenza), al punto che possono essere licenziati senza giustificazione in qualunque momento, cioè non appena risultino inutili e siano compromessi: e non deve trattarsi di una decina di individui, dal momento che il citato decreto stabilisce che tali informatori non possano superare come limite massimo il 6% degli organici della PS (su 80 mila il 6% corrisponde a 4.800 agenti informatori)» (A. D'Orsi - Il potere repressivo: la polizia - Feltrinelli 1972).

Alla voce «Delatori», l'Enciclopedia di Polizia scrive: «Fra gli agenti impiegati nel servizio occulto della polizia… vi hanno… di quelli che per scoprire il delitto usano di ricercarne il germe nel fondo del cuore umano, di coltivarlo essi stessi e di farlo sbocciare. Agenti provocatori questi si appalesano, i quali, avvicinandosi agli individui di cui vogliono scoprire gli interni pensamenti, si mostrano partigiani delle loro idee, e dopo averli impegnati ad esternarle con parole e fatti, li denunziano all'Autorità Giudiziaria, colpevoli di un delitto che senza di loro non sarebbe esistito…».

Un costume che fa dire chiaro e tondo a un questore - un addetto ai lavori - : «La massima fattrice della delinquenza è la stessa polizia» (Giorgio - Ricordi di questura - Milano 1882).

9 – Altro mezzo correttivo largamente usato in Sardegna è il confino. Secondo il giudizio degli esperti di banditismo, il confino servirebbe a bonificare un'area criminogena, mettendone in quarantena i sospetti, coloro che si ritiene siano contagiati dal virus delinquente.
E' abbastanza improbabile che un ottimo psicologo - figuriamoci un questurino - possa prevedere quali azioni potrà commettere un uomo, in qualunque ambiente si trovi e qualunque inclinazione gli si voglia attribuire. E' profondamente ingiusto e immorale condannare un uomo alla privazione dei diritti civili e della stessa libertà personale per un reato che non ha ancora commesso ma che si suppone potrà commettere.
Il confino rientra nelle misure di polizia previste dalla legge di PS del 1931 e insieme alla ammonizione (domicilio coatto e sorveglianza speciale) è chiaramente anticostituzionale, contraddicendo inequivocabilmente i diritti riconosciuti al cittadino nell'art. 13. Queste misure «speciali» di polizia vengono applicate «normalmente» e «ininterrottamente» in Sardegna contro le popolazioni barbaricine.
L'istituto che aziona il meccanismo del confino è tipico degli apparati amministrativi di punizione inventati durante il ventennio fascista. Chi promuove il procedimento della punizione è un funzionario di polizia, carabinieri o questura. Chi esamina la proposta è una speciale commissione provinciale. In virtù della famigerata legge di PS del '31 la commissione era composta dal prefetto, facente funzioni di presidente, dal procuratore del re, dal questore, dal comandante dell'arma dei carabinieri, da un ufficiale superiore della milizia fascista e dal segretario del fascio. Dopo la caduta del fascismo, le istituzioni fasciste sono rimaste tali e quali. Nella detta commissione, venuti a mancare gli ultimi due componenti, sono stati sostituiti da un magistrato e da un cittadino notabile (come dire: l'ex ufficiale superiore della milizia e l'ex segretario del fascio).
Altra modificazione «democratica» del vecchio tribunale speciale fascista è l'ammissione di un avvocato in difesa del cittadino proposto al confino. Una difesa puramente formale: il difensore non ha alcuna possibilità di effettuare il proprio mandato in quanto non può prendere visione degli atti compilati dall'autorità di polizia che ha proposto la grave sanzione e non può quindi confutare le tesi accusatorie, né può dimostrare l'eventuale inattendibilità delle fonti.
Un dato giuridicamente mostruoso è la presenza (oltre quella già poco democratica del prefetto) del questore e del comandante dei carabinieri all'interno della commissione giudicante: sono le stesse autorità che propongono l'applicazione del confino e risultano contemporaneamente accusatori e giudici.
Questa commissione fa il paio con quella istituita e operante (sempre in base a una legge fascista, la n. 1469 RD 13.9.1940 - XVIII E. F.) presso i provveditorati agli studi, per giudicare gli insegnanti colpevoli di «fatti che compromettano la loro reputazione e la loro moralità o di aver compiuto propaganda di principi contrari all'ordine morale (sic!) e alle istituzioni dello stato». Si tratta del famigerato consiglio di disciplina costituito dal provveditore, da un ispettore, da un direttore, da un insegnante e da un magistrato - tutti scelti e nominati dallo stesso provveditore. L'insegnante accusato non può essere difeso da un avvocato. Chi giudica è lo stesso accusatore. Il provveditore, nelle diverse fasi del procedimento, passa dal ruolo di ufficiale di polizia giudiziaria, conducendo le indagini e raccogliendo gli addebiti, a quello di giudice istruttore, e infine, in sede di consiglio di disciplina, assume paradossalmente due ruoli contemporanei: di pubblico ministero e di presidente della corte.
Su quali basi e con quali accuse la polizia propone al confino un qualunque cittadino delle Barbagie? La base giuridica è la seguente: se un cittadino costituisce un pericolo per l'ordine costituito, può essere, per motivi precauzionali, condannato al confino da due a cinque anni. Nel caso di un cittadino sardo - in quanto isolano e appartenente a un gruppo etnico e culturale autonomo - il confino è in effetti un esilio in terra straniera (come lo è per i presunti mafiosi siciliani «deportati» in Sardegna).
Abbiamo visto (con il Niceforo e con il Pirastu) che per il sistema, e quindi per la polizia, i pastori barbaricini sono potenziali banditi o potenziali favoreggiatori di banditi in quanto abitanti in una «zona delinquente»: pertanto costituiscono, singolarmente e in blocco, un «pericolo di sovversione dell'ordine costituito». E' evidente che non potendo mandare al confino tutta una popolazione - non soltanto per quel minimo di etica formale che il sistema deve rispettare ma per l'utilizzazione in termini di sfruttamento e di profitto capitalistico che di quelle masse si può fare - si scelgono i membri politicamente più attivi, più intelligenti, meno integrabili (attivismo, intelligenza e spirito critico sono considerati dal sistema qualità pericolose se posseduti dal popolo), e li si elimina dal loro mondo.
Fra le comunità maggiormente pregiudicate e che hanno maggiore numero di confinati figurano Orgosolo, Orune, Bitti, Mamoiada, Fonni, Gavoi, Sedilo.
Non è facile addurre prove di una «intenzione» a commettere crimini o di una «costituzione naturale» o «ambientale» a delinquere. A meno che non si prendano per buone - come fa appunto senza neppure conoscerle l'apparato repressivo, ministri compresi - le teorie razziste che pongono la genetica alla base della eziologia della criminalità. Il pastore che viene proposto al confino «non ha commesso alcun reato»: se lo avesse commesso verrebbe perseguito per via ordinaria. Bisogna allora dimostrare che egli «ha in mente» di compiere un reato e che si trova nella «situazione ideale» per compierlo. Se lasciato libero egli compirà «certamente» azioni criminose (vedi le «cellule nervose» del Niceforo che lo «spinge fatalmente al sangue»), è «necessario» metterlo in condizioni di non nuocere, privandolo della libertà.
Non ci vogliono molte argomentazioni per dimostrare che il confino come misura preventiva di polizia è una mostruosità giuridica, un assurdo in logica e una turpitudine in etica, che copre di infamia uno stato che lo istituisce e lo pratica.
Gli atti relativi alle migliaia di confini comminati dal 1931 a oggi sono top secret. E' possibile però conoscere qualcuna delle motivazioni addotte dalla polizia. Econe una che si trae dalla memoria scritta presentata dall'avv. L. Concas al tribunale di Cagliari, in difesa di Giovanni Maria Chessa, di Sedilo, proposto dal questore di Nuoro Salvatore Guarino per il soggiorno obbligato in Comune del Continente:

«Assai male informato risulta il questore sulle amicizie frequentate dal mio cliente. Si è detto che il Chessa spenderebbe ingenti somme nei locali pubblici di Sedilo. Con tutto il rispetto della Autorità inquirente il rilievo appare decisamente ridicolo. In quale paese sardo - dove ci pare non esistano case da gioco e night clubs - è possibile spendere ingenti somme di denaro?» (In Luisa Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna - Libreria Feltrinelli 1970).

Con argomentazioni codine, l'organo di stampa della Curia di Cagliari entra nel merito:
«Il sistema del confino, com'è evidente, presenta il pericolo che qualche innocente ci venga mandato per errore, e in qualche raro caso, magari, per malanimo della forza pubblica. Ma questi casi sono rari e si può sempre rimediare in seguito… d'altronde, anche le sentenze di condanna e di assoluzione, con tanti testi falsi o impauriti, sono, forse, tutte esenti da errori?» (Su «Orientamenti» organo di stampa della Curia di Cagliari 1966).

I clericali ammettono che il confino può colpire anche gli innocenti; ammettono anche che qualche cittadino ci viene mandato per malanimo della polizia; sostengono, non si capisce in base a quali dati, che gli errori sono pochi; infine rovesciano l'elementare principio giuridico (sancito dalla stessa borghesia cui tengono il sacco) in dubbio pro reo, affermando che è preferibile condannare qualche innocente pur di non lasciare in libertà un solo colpevole. Ma in questo caso: colpevoli di che? Stiamo parlando di cittadini accusati di «essere in procinto di… commettere reati». Eppure i curiali di Cagliari sono soliti ripetere che le vie del Signore sono infinite e imperscrutabili. Quindi non dovrebbe essere dato a occhio umano, neppure sbirresco, prevedere il futuro.
Contro il confino di polizia si sono levate numerose voci di dissenso, anche da parte di chi accettando la favola del banditismo barbaricino chiede per combatterlo misure più democratiche.

n«Nel Nuorese e nell'alto Oristanese il confino sta falciando ogni giorno in modo indiscriminato le sue vittime fra colpevoli e innocenti. (Anche qui c'è da chiedere, e stavolta a dei comunisti, come si possa parlare di colpevoli se il confino, in quanto strumento preventivo, giudica unicamente sulle ipotesi e sulle intenzioni - n.d.r.). Fra colpevoli e innocenti, i latitanti si moltiplicano per non soggiacere alle gravi conseguenze del soggiorno forzato, lontano dal paese e dai pochi averi che certamente on ritroveranno al ritorno. I catturati partono. Fra i rimasti la tensione aumenta. Bisogna fermare la catena prima che sia troppo tardi…» (In «Rinascita Sarda» del 1 ottobre 1966).

Il calcolo cinico del sistema sembrerebbe quello di utilizzare strumenti repressivi che consentendogli di imbrigliare e stroncare qualunque opposizione producano nel contempo perturbazioni sociali (in questo caso, la moltiplicazione dei latitanti) da cui trarre ulteriori giustificazioni per nuovi giri di vite repressiva. E' una catena - come scrivono i comunisti - che bisogna fermare. D'accordo. Ma per fermarla non basta riformare il sistema, che è per sua natura violento, oppressivo e liberticida e tale resta dopo ogni riforma: bisogna distruggerlo.

«Il regime di stato d'assedio instaurato nelle zone interne dell'Isola viene vivamente contrastato dalle popolazioni. In decine di centri del Nuorese si sono svolte e si svolgono grandi assemblee popolari. Nel circolo di cultura Icnusa di Orune oltre duecento cittadini sono intervenuti ad un dibattito. Tutti indistintamente hanno condannato la repressione poliziesca e i provvedimenti di confino… In altri numerosi comuni della Barbagia, in risposta alle misure eccezionali della polizia, che opprimono in modo indiscriminato i cittadini, sono previste assemblee popolari e la convocazione in via straordinaria dei consigli comunali» (In Luisa Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna - Libreria Feltrinelli 1970).

Il documento che segue dà un'idea della situazione in cui vive e patisce la gente sarda, con quale genia di amministratori-canaglie abbia quotidianamente a che fare, e attraverso quali vie giunga al confino - sempre che per legittima difesa non sia costretta a cercarsi un'arma e darsi alla latitanza.

«E' un processo penale cui ho assistito in una piccola pretura sarda. Gonario F. ha 36 anni, moglie e 5 figli; analfabeta, pensionato perché invalido (9.500 mensili, ne paga 6.000 di affitto casa). Le informazioni del comune, allegate al fascicolo, lo dicono povero: non ha altri mezzi di sussistenza. Riceve saltuariamente dall'Ente Comunale di Assistenza dalle 1.500 alle 3.000 lire. Il 30 aprile scorso viene a sapere che la prefettura ha trasmesso all'ECA del suo paese un assegno di L. 3.000; ne ha urgente bisogno; va in Comune, lo rimandano dicendogli che l'assegno è al Banco di Sardegna. Ma lì non lo può riscuotere perché il presidente dell'ECA lo deve firmare. Il presidente dell'ECA interpellato gli dice: "Non ti spetta niente". Gonario si reca in prefettura (spendendo nel viaggio); in prefettura gli rispondono: "Torna in paese, digli che sono matti, ti devono pagare subito". Rincuorato, gonfio del responso tutorio, ed ancora più dalla tutoria severità con cui è stato espresso un certo apprezzamento sugli organi locali, Gonario si ripresenta al segretario comunale (che è anche segretario dell'ECA) e "con fare arrogante a voce alta" (così dirà il rapporto dei carabinieri) pretende le 3.000 lire. Il segretario lo liquida come al solito, ma Gonario questa volta si sente forte, perché in prefettura gli hanno detto che "deve" avere quelle 3.000 lire, e allontanandosi minaccia: "Si non mi pagades subitu s'assegnu, pius a tardu enzo a inoghe e bos sego sa conca!" (Se non mi pagate l'assegno quando torno vi taglio la testa!) La testa di chi? L'opinione pubblica (il solito coro sempre presente in queste tragedie) non ha esitazione a interpretare: è la testa del segretario comunale. Telefonate ai carabinieri, art. 336 codice penale, attenuanti generiche, 22 giorni di reclusioni senza sospensioni condizionale (è recidivo), più le spese processuali. "Entro 3 giorni puoi appellare", gli dice il pretore che non poteva non condannarlo. "Ma che appellu, tantu è su matessu" (Macché appello, tanto è lo stesso), brontola Gonario F. allontanandosi dall'aula gremita. L'assegno, poi, gli era stato pagato (con due mesi di ritardo, due mesi perché il presidente dell'ECA facesse cento metri per recarsi alla banca) e Gonario F. non pensava più all'episodio. La condanna gli pesa, la dovrà scontare, la società è severa, un'altra volta prima di minacciare e di urlare, ci penserà bene… Ci penserà bene o romperà quella testa di segretario comunale senza neanche preavviso? Ecco il punto. Gonario F. - dicono i rituali allegati al fascicolo processuale - è povero ed è di condotta morale pessima (forse è vero, forse il segretario comunale che l'ha scritto per dispetto, i rituali li prepara lui…). Gonario F. secondo il vecchio sistema sarebbe un esemplare candidato al cosiddetto confino di polizia. E una volta ritornato dal confino, la voglia di rompere le teste si sarebbe talmente radicata in lui da diventare una vocazione missionaria» (G. M. Bassu in «Sardegna Oggi» del 15 novembre 1962).

10 - Il fermo di polizia - altro strumento repressivo di cui si è sempre abusato - viene rispolverato e riproposto in termini più reazionari col disegno di legge del gennaio 1973. Il governo definisce il «fermo» un «freno al dilagare della criminalità». E con un forbito linguaggio il relatore dice che «il fermo di polizia ha una funzione squisitamente preventiva tendente alla tutela della pubblica sicurezza».
Il governo bara come sempre, e nella relazione che presenta la legge tenta di nascondere la verità dietro cortine fumogene. Si afferma che «quello di polizia» non va confuso col «fermo di polizia giudiziaria», cioè quello più propriamente definibile come «fermo di polizia processuale», regolato dagli artt. 238 e 238 bis del codice di procedura penale, che parlano di «fermo di indiziati di reato»… E fin qui ci arriviamo tutti. più avanti la relazione ci spiega che, via!, il «fermo di polizia» non è poi una cosa nuova in Italia: sempre attuato «di fatto» nell'Italia pre-fascista (è vero: anche senza fondamento giuridico, come nell'Italia post-fascista, attuato di fatto sui Sardi), trovò la sua fonte legittimatrice (finalmente!) in precise disposizioni legislative emanate col R.D.L. 20 gennaio 1944 n. 45. Se non bastasse, i fautori del fermo trovano una legittimazione nell'art. 13 della Costituzione. Dal che si deduce che questa è ormai diventata un attrezzo buono per turare tutti i buchi.
In effetti c'era una legge fascista sul «fermo» (il governo si vergogna a citarla perché è più «democratica» di quella oggi proposta) che avvertiva: «Chi, fuori del proprio comune, desta sospetti con la sua condotta… è condotto dinanzi l'Autorità locale di Pubblica Sicurezza. Questa disposizione si applica anche alle persone pericolose per l'ordine e la sicurezza pubblica o per la pubblica moralità» (Testo Unico delle Leggi di Pubblica Sicurezza - R.D. 18.6.1931 n. 773 art. 157).
Andreotti dunque ripropone in termini più fascisti la stessa legge: «Gli ufficiali o gli agenti di pubblica sicurezza possono fermare, ove ricorrano eccezionali ragioni di necessità e urgenza: le persone la cui condotta, in relazione ad obiettive circostanze di luogo e di tempo, faccia fondatamente ritenere che stiano per commettere uno o più reati punibili con pena detentiva, ovvero costituisca grave e concreta minaccia alla sicurezza pubblica».
Il parto andreottiano è un mostruoso ibrido del connubio tra fascismo becero e clericalismo gesuita. Il richiamo del governo all'articolo 13 della Costituzione è quanto mai discutibile, se hanno un minimo di credito, per lo stesso governo, le sentenze della corte costituzionale: «Il sospetto, anche se fondato, non è sufficiente perché muove da elementi di giudizio incerti e perché potrebbe dar luogo ad arbitri. Il primo comma dell'art. 157 è incostituzionale» (Sentenza della C.c. n. 2 del 23.6.1956).
E' perfino troppo facile fare dell'ironia sui poliziotti che vedendo un gruppo di cittadini che manifestano «per quel che gli pare», intervengono preoccupati a fermarli, perché gli stessi cittadini sono «in procinto si commettere qualcosa». Qualunque cittadino che stia sulle palle al sistema potrebbe essere «fermato» sotto l'imputazione di «essere in procinto di…».
In un convegno sul tema, tenutosi a Cagliari nel febbraio del '73, l'ex presidente della corte costituzionale Branca ha definito il fermo di polizia «uno strumento repressivo che neppure il fascismo aveva osato introdurre». Allora, infatti, contro alcune categorie di persone era ammesso solo il foglio di via obbligatorio per il rimpatrio al paese di origine; ora invece si prevede che possano essere incarcerate per 48 ore e per 96 ore, a discrezione della polizia. Si tratta di una istituzione sconosciuta nei paesi europei. Perfino in Grecia, dove la costituzione è stata approvata nel 1969 con i colonnelli al potere, il fermo è escluso (almeno legalmente).

11 - In ogni società, il grado di libertà di cui gode il cittadino è inversamente proporzionale al grado di potere posseduto dal poliziotto. Uno dei privilegi sui quali si regge il potere della polizia è l'intangibilità. La persona del poliziotto, come quella del sacerdote nelle teocrazie, è sacra in quanto custode di «sacre istituzioni».
In colonia, nelle aree di servizio del capitalismo, dove, con mano più pesante, e senza l'impaccio di formali rispetti per i cosiddetti diritti civili, il sistema dispiega apertamente la violenza dello sfruttamento e della repressione, non soltanto la polizia ma tutti i «sacerdoti» delle varie istituzioni dello stato assurgono a «entità sacre». E qualunque atto irriverente, non dico ostile, da parte del popolo nei confronti degli «intangibili» è un sacrilegio che viene spietatamente represso.
Non passa giorno in cui non appaiano sulla stampa isolana (che non può registrare tutto) almeno due o tre casi di poliziotti oltraggiati da cittadini irriverenti, arrestati seduta stante. Si tratta sempre di pastori, contadini, lavoratori in genere, studenti di sinistra, tutta gente pregiudicata, da tenere sotto controllo. E - guarda caso! - quando viene fermata per essere «paternamente redarguita» o per «controllarne le generalità», tutta questa gente risponde sempre in modo oltraggioso - tanto più se risulta schedata.
L'art. 341 (oltraggio a p.u., reclusione fino a due anni) è fra i poteri discrezionali della polizia quello più abusato per colpire e intimidire il cittadino. Non è un caso che un poveraccio fermato per accertamenti, uno studente di sinistra che distribuisca ciclostilati, un lavoratore che partecipi a una manifestazione di protesta vengano normalmente denunciati per oltraggio.
L'oltraggio viene anche usato di solito come rincalzo ad altre accuse di reato manifestamente infondate. Si possono citare numerosi fatti che provano come spesso, dietro l'accusa di un reato non commesso - che poi cadrà in istruttoria o in dibattimento - venga aggiunta un'accusa di oltraggio - che non cadrà né in istruttoria né in dibattimento. Grazie a questa malizia poliziesca, di cui si fa complice il magistrato, la vittima designata verrà condannata in un modo o nell'altro.
Esempi gravissimi e clamorosi di questo sporco gioco si hanno nelle lotte antifeudali dei pescatori di Cabras, accusati centinaia di volte di oltraggio, quando non si trovavano altri cavilli per incriminarli e fiaccarne la resistenza.

«La repressione ha ricorso a rivoltanti trucchi per colpire quegli uomini che hanno osato sfidare i potenti padroni del feudo lagunare. Alla base del loro arresto c'è un'accusa di furto aggravato e continuato per aver pescato in acque di proprietà privata. Caduta la base giuridica di tale accusa (perché facile non è neppure a baroni con l'investitura dei Carta mascherare la vera natura demaniale delle loro acque), caduta la speciosa accusa di furto di pesce, definito dalla sentenza della Corte suprema res nullius, restava l'accusa ben più modesta di pesca di frodo e, appiccicata sopra, un'accusa di resistenza aggravata e continuata alle forze dell'ordine. Resistenza che fu opposta, secondo la stessa accusa, nel momento dell'ingiusto sequestro della pesca e dell'ingiusto arresto relativo all'infondato reato di furto. Nella sentenza emessa dal tribunale di Oristano, la resistenza si è modificata in oltraggio pluriaggravato e continuato, e per tale risibile accusa gli undici pescatori sono stati condannati da un anno e quattro mesi a due anni e sette mesi di galera» (U. Dessy - La rivolta dei pescatori di Cabras - Marsilio 1973).

A rigore «pubblico ufficiale» dovrebbe essere qualunque funzionario statale «nell'esercizio delle sue funzioni». ma nessun povero travet si sognerebbe di denunciare «un oltraggio a p.u.», quando, nell'esercizio delle sue funzioni di sfruttato, viene svillaneggiato dal capufficio. All'interno della gerarchia, il meccanismo dell'oltraggio scatta soltanto a favore di chi sta più in alto. Nella gerarchia del sistema, il cittadino viene dopo l'ultimo dei poliziotti. Comunque, il poliziotto è sempre nell'esercizio delle sue funzioni: di giorno e di notte, in piedi e a letto, in divisa o nudo: è sacro e inoltraggiabile.
«L'Unione Sarda» del 14.2.'73 registra un oltraggio eccezionale. Si tratta di una donna processata per un oltraggio a p.u. nella persona di una maestra di scuola. Il fatto è accaduto a Oschiri.
Così il cronista: «Non tutti sanno che il maestro elementare, nelle sue funzioni di insegnante, è un pubblico ufficiale. Non lo sapeva neanche la casalinga oschirese di 37 anni, Anna Spanu Perinu, che, irritata per la sospensione del figlio da scuola, schiaffeggiò all'interno del caseggiato scolastico di Oschiri la maestra del figlio…»..

Appare evidente da questo fatterello che esiste una gerarchia anche tra i vari pubblici ufficiali. Un maestro, per considerarsi oltraggiato, deve come minimo buscarsi gli schiaffoni, e che siano presi «dentro» il caseggiato scolastico e «davanti» alla scolaresca. Se prende gli schiaffi «fuori» del caseggiato e non «davanti» ai suoi scolari, sono fattacci suoi. Un poliziotto, per considerarsi oltraggiato ha bisogno di molto meno: in un recente processo a carico di compagni, taluno perfino ha tirato fuori il sorriso inequivocabilmente oltraggioso.

12 - Pastori e oppositori politici, nelle periodiche svolte a destra con relativi inasprimenti repressivi, vengono opportunamente accomunati nel giudizio che li definisce banditi e nemici dell'ordine.
Abbiamo visto, dopo la strage di stato, il tentativo della polizia, in concerto con la stampa padronale, di inventare un legame tra Graziano Mesina e un fantomatico movimento separatista: in concreto, un gruppo di intellettuali sardisti.
Un fatto è certo. Le campagne contro il banditismo preludono sempre alle campagne contro gli oppositori politici in tutta l'Isola. Alla montatura del «banditismo ruggente» degli anni 1967-69 segue la repressione dei moti studenteschi e dei gruppi extraparlamentari nel 1969-70, che in Italia, parallelamente, esplode con la strage di stato e culmina con l'assassinio di Feltrinelli a Segrate.
A metà giugno del '69 una smaccata provocazione del ministero della difesa muove nei «banditi» di Orgosolo la prima risposta popolare antimilitarista che mai la Sardegna sia stata capace di dare da quando è stata invasa dalla NATO.
Dopo Orgosolo si apre la caccia alle streghe. Viene sequestrato il libretto di Cabitza «Sardegna, rivolta contro la colonizzazione», edito da Feltrinelli, che non contiene una sola riga incriminabile, neppure una parola oscena, escluso il titolo dove figura «rivolta». Più tardi, con una campagna diffamatoria montata dal settimanale fascista «Lo specchio», verrà messo sotto accusa anche un altro opuscolo edito da Feltrinelli, «Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna», di Mancosu. Il tentativo è quello di dimostrare l'esistenza di un piano feltrinelliano per fomentare la guerriglia nell'Isola. In questo contesto va inquadrata anche la recente montatura Pilia e delle bande armate individuate dal procuratore Villasanta.
I fatti risalgono al luglio del '74. Dopo il processo di prima istanza - naufragato nel giugno del '75 con l'assoluzione degli imputati che hanno ingiustamente patito un anno di galera - per interposto appello del p.m. il 12 aprile '77 ritorna alla ribalta il granguignolesco polpettone Pilia - ovvero la montatura delle bande armate anarco-separatiste-barbaricine finanziate dal KGB. Non è difficile da prevedere che, dati il cast di pessimi attori, la regia squalificata, la grossolanità scenica e la mancanza di senso delle proporzioni, in questa edizione lo «spettacolo» si concluderà miseramente, sprofondando in un mare di ridicolo.
E' un gioco vecchio, che si ripete da sempre nella storia della nostra terra oppressa e sfruttata, quello di inventare e agitare banditi per poterli associare agli oppositori politici e prendere come si suole dire due piccioni con una fava: ridurre al silenzio l'opposizione e sviare l'attenzione popolare dalle ribalderie della classe al potere. Un gioco, però, che mostra il logoro della corda, che non attacca più - ammesso che abbia mai attaccato - e ciò che stupisce è che i concertatori manchino di quel filo di intelligenza sufficiente a capirlo.
Già, fatti personaggi rapporti intenti non stanno né in cielo né in terra. Pier Luigi Pilia, scialba figura di un impiegato studente borghese, costituzionalmente fascista con atteggiamenti progressisti per essere alla page, appartenente al Manifesto e tendente al PCI, gira per Cagliari in Mini-Morris con una pistola malandata, due candelotti di dinamite deteriorata e un piano eversivo particolareggiato pieno zeppo di nomi e di numeri telefonici.
Non si capisce bene se Pilia giri con quella roba per farsela trovare dalla polizia o che la stessa polizia o altri interessati a creare la montatura ce l'abbiano messa (pare che le portiere dell'auto risultino forzate). Il fatto è che la polizia riceve una telefonata (ovviamente anonima), si muove sul sicuro, ferma l'auto del Pilia e saltano fuori da sotto i sedili pistola dinamite piano eversivo.
Il piano eversivo è un capolavoro di imbecillità. La «banda» o meglio «l'armata» - poiché in elenco figurano ben 35 nomi di guerrilleros - vuole fare piombare Cagliari e la Sardegna nel terrore e nel caos (naturalmente anarchico), non senza avere prima sequestrato segretari di partito, capitani di industria, vescovi, e avere fatto saltare per aria basi NATO, centrali elettriche, petrolchimiche, palazzi regionali, prefetture.
Nonostante la personale stima nella potenzialità rivoluzionaria del popolo e la ugualmente personale speranza che prima o poi il sistema venga smantellato a furor di popolo per lasciar sorgere una società nuova libertaria a misura umana, a conoscere e valutare quelli che la polizia e la magistratura indicavano come i protagonisti (in intenzione) di tanto sconquasso c'era da scompisciarsi dalle risate. Figuriamoci: una armata Brancaleone con Pilia in testa, quattro studentelli e due operai!
Ma andiamo con ordine nella ricostruzione della montatura. Il primo guerrillero, che raggiunge in carcere il Pilia è certo Paolo Pili, studente della buona borghesia cittadina, gran bevitore di whisky.
Intanto il Pilia, debitamente gargarizzato dagli uffici politici, attacca a cantare l'aria del «Feltrinelli Trovatore (di latitanti)», ovvero l'ormai famosa operetta in do di peto «la guerra de guerrilleros de la sierra orgolesa». L'ouverture a scena aperta presenta un fantomatico «movimento separatista» con coro di latitanti barbaricini in gambales tra macchioni di corbezzolo cisto lentisco. Il finale duplice, secondo i gusti: o sventolio di bandiere «quattro mori» sul Gennargentu liberato dalla tirannide yankee-piemontese-andreottiana; oppure sventolio di bande chiodate degli eroici baschi blu che hanno domato l'insurrezione del Pilia, salvando l'integrità territoriale della nazione.
Sembra incredibile, eppure Giuseppe Villasanta, il procuratore della repubblica di Cagliari, ci ha creduto. Lo ha scritto «L'Espresso»:… «E' dal 1972 che sta indagando sui gruppi definiti separatisti, sui collegamenti che questi avrebbero avuto con Feltrinelli e suoi contatti tra l'editore ucciso a Segrate e i banditi sardi, Mesina in particolare. Per Villasanta, tutto ciò che Pilia continua a dire costituisce una conferma dei suoi sospetti…».
I dubbi che assillavano polizia e magistratura venivano rafforzati da una serie - certamente non casuale - di fatti che coinvolgevano nel disegno di «sovversione totale» dell'ordine costituito in Sardegna alcuni epigoni della classe operaia - Golosio, Todde, Saba e Asuni - pescati tutti e quattro intorno a una pistola di sospetta provenienza. Vivono fuori della città: ergo, trovati i collegamenti tra guerrilleros urbani e guerrilleros di campagna - giusta la denominazione di «Città-Campagna», famigerato centro di raccordo gestito dalla intellighentia teorica, tra cui figurano le animacce di Salvemini e Bakunin.
Si è mai sentito dire di bande armate dedite alla inseminazione del terrore e del caos, dove non ci fossero gli anarchici? In verità, mai. L'unico rompiballe, anarchico a portata di manette è il solito Pier Leone Porcu - troppo giovane, per essere accusato: ai tempi di Feltrinelli frequentava la scuola dell'obbligo. Peccato: ci sarebbe stato bene un bakuniniano. Comunque, visto che ci sta bene, lo si tiene a tutt'oggi in galera con altri cavilli - e di questo c'è da vergognarsi veramente molto, tutti quanti, magistrati politici poliziotti sindacalisti cittadini, che un ragazzo venga privato della libertà per punirlo del suo amore per una umanità libera.
Si trovano, invece, anarchici di più vecchia data: Ettore Martinez e Chicco Careddu, due giovani di «proletari autonomi», un gruppo politico nato e vissuto sempre alla luce del sole.
Tutt'intorno alla delirante immagine di una banda armata costituita da ragazzi che non hanno mai visto un Tompson e che si prendono le sberle della mamma se non mangiano la minestra, ruotano non pochi personaggi equivoci, che giocano a fare gli agenti segreti. Le vittime sono sempre gli stessi giovani, che sono stati tanto ingenui da credere di vivere in un paese libero e democratico, da credere in una costituzione repubblicana che chiede al cittadino una presenza attiva nella vita politica, una scelta ideologica nel dibattito culturale.

«Dove diavolo sono - oltre che nella mente farneticante o plagiata di un disgraziato - le «bande armate» rosse, anarchiche o separatiste in Sardegna? Dove mai sono esplose, le bombe rosse, in Sardegna? Chi diavolo può essere tanto imbecille, a sinistra, da cospirare per sovvertire le istituzioni di uno stato che bene o male sono democratiche? Non c'è già - a parte i fascisti - chi pensa a sputtanarla, la nostra democrazia? E non v'ha dubbio che nessuno lo sa fare meglio della classe al potere…
Ciò che nella squallida montatura va sottolineato e denunciato con estrema fermezza e chiarezza è il fatto che mentre nella penisola la teoria degli «oppositori estremismi» viene ufficialmente liquidata a livello dei vertici di potere, riconoscendo la matrice fascista nella costituzione delle bande criminali che hanno commesso le bestiali stragi che hanno insanguinato l'Italia, in Sardegna si continua imperterriti sulla linea della caccia alle streghe del '69, che ha dato alla storia il martirio di Pinelli e ha squalificato con le istituzioni dello stato una intera classe dirigente… Non è ancora bastata alla classe dirigente isolana e nazionale la dura lezione che il popolo sardo le ha dato col Referendum del 12 maggio e le elezioni regionali del 16 giugno?
Il sistema, ancora una volta, alle esigenze di rinascita popolare risponde in Sardegna intensificando le tecniche e l'uso degli strumenti repressivi, mostrando una chiara volontà colonialistica di perpetuare una condizione di subordinazione economica, culturale e politica» (In «Aut» n. 28 del 29 settembre 1974).

Nella fase più forsennata della caccia alle streghe rosse, nel '69, un commissario di polizia di Cagliari denuncia per «vilipendio alla religione di stato» uno scrittore morto e sepolto da quasi un secolo. Neppure un mare di ridicolo può fermare un funzionario di polizia nell'esercizio delle sue funzioni repressive! Lo scrittore incriminato postumo è Georg Büchner per la sua opera «Woyzeck», un noto dramma più volte rappresentato anche in Italia, ma che in Sardegna doveva essere denunciato alla procura della repubblica, perché - spiega il commissario - «ivi si è inteso criticare l'attuale società (sic!) la quale sarebbe stata creata dai nobili e dai potenti per sfruttare il proletariato», perciò poteva anche scapparci una denuncia per vilipendio delle istituzioni (a delinquere) del sistema di classe. E ancora - dice il commissario - «il significato polemico e contestatario» e il fatto che «in una scena ricorre una frase in cui potrebbe essere ravvisato il reato di vilipendio alla religione di stato».

13 - E un dato di fatto che il sistema dispiega e usa in Sardegna, su ogni fronte di opposizione popolare, un apparato repressivo eccezionale. Che è esagerato anche a voler prendere per buona la montatura di un grosso fenomeno di banditismo.
Le eccezionali forze di polizia riservate alla Sardegna evidentemente nascondono il disegno del capitalismo di portare a compimento il totale asservimento dell'Isola, destinata ad area di servizi, petrolchimici e militari oggi e di chissà quali altri interessi domani. Questo disegno non può realizzarsi se non con lo smantellamento delle strutture economiche indigene, l'emigrazione in massa delle popolazioni dell'interno, la sistemazione dei residui abitanti in parchi-riserva.
I fili di questo disegno razzista, ormai chiari, si muovono partendo da una sistematica applicazione delle misure speciali di polizia e dalla caccia indiscriminata al pastore barbaricino, eliminando gli elementi di punta della rivolta popolare, accelerando i tempi della soluzione finale del popolo sardo.

C'è qualcuno che ha fretta e scrive: «…Bisognerebbe mobilitare un paio di divisioni, circondare la zona infetta, e poi stringere a poco a poco il cerchio, ispezionando casolare per casolare, e il terreno a palmo a palmo. Le zone impervie devono essere vietate ai civili… Si deve sparare a vista contro chiunque vi sia sorpreso (nei boschi, nei luoghi impervi…). Vi deve essere immesso un certo numero di pattuglie mobili, dotate di radio e di armi da combattimento… Nel caso di scontro a fuoco si lancino paracadutisti alle spalle dei malfattori… E aggiungo qualcosa di molto grave. Dico: una volta che la zona sia evacuata dai civili, si possono usare anche le armi che in guerra sono vietate dal diritto internazionale. tra Stato e assassini non c'è diritto internazionale. Non si riesce a scovare i banditi? Ebbene, si scovino con i gas… Una buona ventata di gas e i banditi verranno fuori!».

Chi scrive è un notabile corifeo della borghesia, Augusto Guerriero noto Ricciardetto, mantenuto di un lussuoso rotocalco. Ha detto esattamente quel che pensava - che e comunque non ha suggerito nulla di nuovo. Simili metodi di sterminio sono stati usati in Africa, nel Vietnam e dovunque lo esigessero i profitti del capitalismo.

«Bisogna ritornare all'impiego dell'esercito - suggerisce un certo Todde, colonnello in SPE, nel quotidiano «La Nuova Sardegna» - L'addestramento tattico anziché svolgersi in Alto Adige si svolgerebbe nelle Barbagie. Unità da impiegare: quattro brigate di fanteria da dislocare una a Macomer, una a Nuoro e una tra Bitti e Buddusò… (Nella foga strategica, il colonnello ha dimentica la bazzecola di una brigata - n.d.r.). Ogni brigata dovrebbe disporre di autoblinde, otto-dieci. Bastano complessivamente da quindici a ventimila soldati… Quando le azioni offensive non dessero i risultati sperati, si potrebbe ricorrere a una specie di assedio per snidare con la fame i briganti dai loro covi inaccessibili…».

I piani militari del colonnello Todde, in fondo sono modesti, in confronto a quelli già messi in atto. La polizia, forte in Italia di 227.184 scherani effettivi (A. D'Orsi - Il potere repressivo: la polizia - Feltrinelli 1972 – pag. 115), ha dispiegato nell'Isola, in certi periodi, molto più dei quindici-ventimila soldati e ben più specializzati nell'arte della repressione popolare. Dove voglia arrivare il colonnello Todde si comprende meglio nella chiusura del suo discorso:
«…La Grecia ha sistemato le sue faccende senza lo spargimento di una goccia di sangue (dice lui! - n.d.r.). Noi vediamo nel colpo di Stato niente altro che un colpo di scopa contro il marciume politico che in nome della democrazia appesta i popoli».

Ecco, questo è parlare chiaro. Così si capisce come due o tre rapine e qualche sequestro di persona giustifichino l'intervento di quattro brigate in assetto di guerra. In Sardegna si tengono dunque, in continuo allenamento e in perfetta efficienza, le milizie per l'abbordaggio alle già gracili istituzioni democratiche, che cadranno del tutto quando la consorteria al potere avrà deciso di dare «il colpo di scopa» fascista.
Il disegno reazionario è vecchio, sempre attuale, talvolta esplicito. Ma perché muovere dalla Sardegna e non, per esempio, dalla Lombardia o dal Lazio (dove due o tre rapine e qualche sequestro di persona avvengono ugualmente)? La risposta storica e logica è che in colonia le sperimentazioni repressive di ogni genere sono più facili, ormai tradizionali: gli abitanti di una colonia sono «pregiudicati» ed è un fatto storicamente «normale» sterminare i «resistenti» per poter civilizzare i sopravvissuti. In altre parole, la colonia è l'habitat ideale per la manutenzione e la sperimentazione delle strutture (tecniche e strumenti) atte alla oppressione, allo sfruttamento e alla repressione.
Le vicende della Spagna nel '35 sono illuminanti a questo proposito. Franco parte dal Marocco, con la soldataglia che lì in colonia manteneva in esercizio, per abbattere il governo popolare e instaurare il fascismo.

Che la Sardegna sia una colonia lo si sostiene da più parti: «Dai banditi, dai pastori, dai contadini il pregiudizio colonialistico si estende a tutti i sardi. E' un fenomeno talmente diffuso e noto che a ricordarlo sembra perfino banale - tanto più che lo ha ripreso Paolo VI nella sua recente visita nel capoluogo dell'Isola. Il papa vuole incoraggiare con la sua visita il movimento di rivalsa dei sardi - scrivono i giornali intervistando il cardinale Baggio, che aggiunge: - L'Isola e la sua popolazione è stata nel passato merce di scambio. E' stupefacente come i papi, espressione del più sfacciato privilegio economico e dell'autoritarismo più becero, siano capaci di predicare la giustizia sociale e di incoraggiare i movimenti di rivalsa popolari. In verità, questi sono i discorsi che la Chiesa di Roma riserva ai popoli coloniali, ed è sintomatico che Paolo VI li faccia in Sardegna e non in Lombardia» (In Luisa Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna - Libreria Feltrinelli 1970).

La visita di Paolo VI nella colonia Sardegna avviene nello stesso anno che vede la squadra di calcio del Cagliari conquistare lo scudetto di serie A. E' un anno preoccupante per il sistema. Spira un'arietta libertaria che ricorda certi sommovimenti comunardi dei tempi andati. In Sardegna il sistema ha tirato troppo la corda: la pazienza delle popolazioni sembra essere giunta a limiti di rottura, e la stessa classe dirigente regionale (i compradoris) scossa dal vento che comincia a soffiare è costretta ad assumere atteggiamenti contestatari nei confronti del governo centrale che «da sempre disattende le giuste aspirazioni di progresso dell'Isola».

14 - Il '68 e il '69 sono anni di tensione popolari, di fermenti rinnovatori che vengono fatti passare per «gli anni ruggenti» del banditismo isolano. Ci sono nell'Isola forze di polizia in numero tale da costituire un vero e proprio esercito di occupazione, sufficiente a stroncare qualunque rivolta popolare. Il sistema non vuole arrivare agli eccessi del passato, alle battaglie campali di fine '800. Almeno fin dove è possibile vuole salvare la faccia, eliminando «civilmente» gli oppositori con le leggi fasciste, le provocazioni, le false accuse, le taglie, il confino, gli arresti arbitrari. Dove non bastano i metodi di sterminio «civile» si usano quelli barbari dell'assassinio. Si uccide con metodo, a stillicidio, uno o due per volta, simulando la legittima difesa, prefabbricando l'incidente, inventando il conflitto a fuoco.
La Sardegna non dimentica i suoi morti. Alcuni deputati, nel tentativo di richiamare il governo al rispetto delle regole del gioco democratico, si levano in parlamento e gettano questi morti in faccia al ministro degli interni.
«Un così tragico bilancio di omicidi compiuti dalle forze dell'ordine in breve tempo non può spiegarsi se non con direttive precise che orientano le forze di polizia a comportarsi come truppe di occupazione coloniale e a ritenersi autorizzate, se non incoraggiate, a dar luogo impunemente a esecuzioni sommarie e a sparare contro i cittadini» (Interrogazione comunista alla Camera dei deputati dell'autunno '68).

La rivista «Sassari Sera» porta avanti una coraggiosa campagna di stampa denunciando i crimini della polizia. «I pastori fanno da tirassegno ai nervosi baschi blu» - si intitola un servizio in cui vengono mosse precise accuse, in particolare agli ambiziosi «giovani leoni» della Criminalpol (In «Sassari Sera»: vedi le annate del 1968 e 1969).
Tra i «giustiziati» del 1968 sono:
- Giovanni Maria Corona, di 22 anni, pastore, ucciso mentre camminava sul ciglio della strada. La polizia farà poi trovare sul luogo dell'incidente una pistola.
- Antonio Casula, pastore, latitante, fulminato alla periferia di Paulilatino. Della sua eliminazione vengono accusati il dott. Guarino e Corrias, alti funzionari di polizia.
- Antonio Cocilio e Giovanni Atzei, minorenni, incensurati, caduti sotto il piombo poliziesco mentre - secondo la versione ufficiale - tentavano una estorsione per conto di terzi mai identificati.
- Vittorio Giua, pastore, 23 anni, assassinato mentre partecipava alla manifestazione di protesta per i pascoli di Lodé.
- Pasquale Pau, il «latitante buono», pastore in attesa di giudizio, crivellato a colpi di mitra mentre accudiva le bestie nell'ovile insieme al fratello.

«Requiem per un bandito» - si intitola un volantino che circola in quell'anno - : «Pasquale Pau è morto. Ora custodisce pingue greggi nei verdi pascoli della prateria celeste che il dio dei pastori riserva ai buoni… - Così canta la nenia delle prefiche attorno al suo letto funebre.
Pasquale Pau, il latitante, è morto. Accudiva al pasto dei maiali, nel campicello preso in affitto di recente. Una morte straordinaria, per un bandito. Non la morte violenta dell'assassino che sfida la legge dell'umana fratellanza, ma la morte assurda, senza un perché.
E' vero: molti sono i banditi in questa terra senza pace e senza giustizia. Anche Pasquale Pau era un bandito. Un bandito-uomo-pastore. E non è morto da bandito. E' morto da uomo. Accudiva al suo gregge, si abbeverava all'unica fonte di vita che esile sgorga da questa terra avara.
Pasquale Pau è morto. A quarantasette anni sognava ancora il sogno dei giovani. Un sogno assurdo, sulle pietre di questa Isola: avere una donna e figli, gregge e pascolo, un tetto e un giaciglio. E' caduto con il suo sogno assurdo - né, forse, sulla terra che avida ha bevuto il suo sangue altro potrà germogliare che spini velenosi.
«Mio figlio dovrà sapere il nome di chi ha ucciso il padre!» - ha gridato l'ira della sua donna. Le donne gravide, in questa terra, ingoiano una scheggia di granito, per dare al nascituro un cuore che regga il dramma della vita. Angela Marras, la compagna di Pasquale Pau ha ingoiato tutto il piombo della sua morte per dare un cuore all'orfano che dovrà nascere…
E' vero: ci sono molti banditi, in Sardegna. La nostra è una società piena di banditi. Anzi, è una società di banditi. Banditi malvagi e sanguinari, banditi onesti e pacifici. Banditi che derubano miliardari e banditi che hanno in tasca duemila lire. Pasquale Pau era un bandito con duemila lire in tasca.
Chi lo ha ucciso non potrà che avere l'esile conforto di avere ubbidito. Il dovere disumano di chi esegue la sentenza di condanna a morte di un innocente - il cui sangue ricade su tutti i grandi della terra.
Pasquale Pau è morto. Di lui nessuno, a voce alta, potrà mai dire altro che parole buone. Sentiva i piccoli grandi problemi della sua gente, la disperazione del povero che ha smarrito un agnello. Conosceva dentro di sé la sua gente, i drammi antichi della sua gente, si era fatto generoso dispensatore di minuta giustizia: rendeva il maltolto, riparava il torto, pacificava gli animi - che il dramma delle pietre sterili e deserte e della solitudine rende aspri e taglienti come schegge di selce. Meritava il canto di un poeta, Pasquale Pau, il bandito d'onore. Non può averlo, un poeta che canti la sua vita e pianga la sua morte, in una società che altro non sa esprimere se non l'offerta dell'imbonitore nel mercato.
Pasquale Pau è morto. Lavorando, amando, sperando. L'uomo che è nato sulle pietre, nudo e solo, non può credere nella giustizia venuta da un mondo verde di pascoli. Eppure, egli ha voluto credere in quella giustizia: credeva che un giorno lo avrebbero dichiarato uomo senza colpa. Pensava al suo vicino processo d'appello, quando è caduto - intanto espiava la colpa d'essere nato pastore…
La nenia delle prefiche canta attorno al suo letto funebre: - Ora custodisce pingue greggi nei verdi pascoli della prateria celeste, che il dio dei pastori riserva ai buoni» (Il testo del volantino è di Ugo Dessy - ripreso da L. Mancosu e da D'Orsi nelle loro opere citate).

Fu vittima di una gratuita sanguinaria violenza o venne assassinato dalla polizia per nascondere ignobili retroscena?
«Il latitante di Siniscola è stato colpito a morte dietro la soffiata di qualcuno al quale bruciava la sua presenza. E questo qualcuno potrebbe essere legato al sequestro dell'industriale emiliano Ferdinando Tondi. Pasquale Pau si era dato ormai alla pastorizia, girava sui monti di Lula e Torpé con la sua mandria di maiali e gregge di capre. Che cosa aveva scoperto sul fantomatico sequestro di Tondi?… Perché i carabinieri hanno ucciso senza pensarci due volte, perché non si sono accontentati di catturare il latitante senza infierire a colpi di mitra? E qui potrebbe nascondersi la seconda verità: forse inquirenti e rapitori avevano lo stesso motivo in comune per togliere dalla circolazione il Pau… La gente dice che forse si vogliono proteggere i rapitori. Intanto qualcuno dei parenti del sequestrato si rivolge a Pasquale Pau. Pau è un latitante sui generis, alla macchia per un omicidio d'onore legato alla ormai tradizionale vendetta barbaricina… in attesa di processo. Cosa ha scoperto Pasquale Pau nelle sue ricerche private? A che cosa è arrivato? Nessuno lo saprà mai, o meglio qualcuno lo ha saputo e ha provocato la morte del latitante. Qualcuno che la polizia tiene a proteggere. La dimostrazione? Arriva da sola e logica. Che Pasquale Pau vivesse da tempo sulle montagne di Torpé era ormai un luogo comune. Chi lo ha fatto uccidere non lo ha fatto per soldi: Pasquale Pau era l'unico latitante alla macchia sul quale non pendeva una taglia… La sua morte non è quindi il frutto di appostamenti o di brillanti azioni di pattuglie, ma di una tresca segreta e difficile da spiegarsi. I rapitori di Tondi erano forse stati avvisati e riconosciuti dal Pau. Per questo hanno deciso di chiudere, e per Pau è stata la fine, la fronte bucata all'ombra di un cespuglio di lentisco» (In «Sassari Sera» del 15 ottobre 1968).

Dal 1965 al '70 i «baschi blu» non hanno risparmiato proiettili. I latitanti - molti dei quali alla macchia per evitare una lunga detenzione preventiva anche se incolpati di reati futili - vengono descritti dalla polizia come pericolosi sanguinari criminali e massacrati come bestie. Sono state pubblicate fotografie che disonorano l'umanità: alti funzionari accorsi sul luogo dell'esecuzione sommaria, fotografati in pose trionfalistiche accanto al cadavere orrendamente martoriato.
Le brillanti operazioni sono montature per dare lustro alle forze della repressione. Antonio Michele Floris, latitante con cinque milioni di taglia (al 1965) viene ucciso con un proiettile che entratogli in un occhio gli ha perforato il cervello. I carabinieri comunicano con strepito di tamburi l'operazione che ha portato al conflitto e alla fine del latitante. Il settimanale «Sardegna Oggi» raccoglie e pubblica notizie che smentiscono la versione ufficiale e chiede chi realmente abbia ucciso il Floris.
Nello stesso settimanale (19 aprile 1965) risponde il colonnello dei carabinieri Ragni Andrea, il protagonista:
«…è stato pubblicato con grande rilievo tipografico un servizio sul conflitto tra Carabinieri e fuorilegge, ponendo in dubbio che il latitante Floris Antonio Michele sia stato ucciso dall'appuntato Cossa e dando per certo che i Carabinieri erano preparati allo scontro da due giorni in seguito a soffiata di ignoto delatore che, subito dopo il fatto, ha riscosso la taglia di cinque milioni e - fatti in tutta fretta i bagagli - è ripartito in continente. Tale versione dei fatti è completamente destituita di fondamento. Le cose sono andate esattamente come riferito dall'Arma, e cioè il Floris Antonio Michele è stato ucciso in conflitto scaturito da normale servizio… Nessuna delazione ha avuto luogo, nessuna taglia o premio è stato pagato. La invito pertanto, quale rappresentante dell'arma in Sardegna di voler provvedere a far pubblicare sul suo giornale la presente smentita nei limiti della Legge e nella forma stabilita dall'art. 8 della Legge sulla stampa n. 47 dell'8 febbraio 1948».

Al colonnello Ragni Andrea - il quale citando i cittadini antepone dispregiativamente il cognome al nome e scrivendo dimostra una puntigliosa conoscenza degli articoli delle leggi e una grossolana ignoranza della lingua italiana - replica il giornalista:
«Tengo a precisare… che le informazioni di cui mi sono servito sono state da me raccolte in parte a Santulussurgiu e in parte negli stessi ambienti delle forze dell'ordine. Per quanto riguarda la taglia sono in grado di confermare che un agricoltore di un paese del Montiferru, di cui per ovvie ragioni devo tacere il nome, ritiene di averne diritto, mentre i carabinieri si dicono di avviso contrario».
Una conferma della verità delle denunce fatte da alcuni coraggiosi pubblicisti si ha nel fatto che non sono stati mai querelati dai funzionari sbugiardati.

Il Bechi - ufficiale del corpo di spedizione inviato in Sardegna nel 1899 - non a caso intitola «CACCIA GROSSA» il suo libro sulla campagna antibarbaricina. La caccia è ancora aperta dopo settant'anni.
Nelle forsennate battute, i cacciatori - come suole accadere - finiscono per spararsi tra loro. Quando accadono tali «infortuni» - indecorosi per una istituzione che «non sbaglia mai» i fatti vengono camuffati e le vittime addossate al «nemico».

La sera del 2 novembre 1967, «un malvivente armato è costretto a fermarsi a un posto di blocco. Ha di fronte sei agenti. Deve decidere, in un baleno, se arrendersi o scappare. Decide di scappare. Può farlo senza l'uso delle armi? La risposta ce la fornisce il cadavere dell'agente: Giovanni Maria Tamponi giace con la gola squarciata. L'assassino ha usato il coltello. Era anche armato di mitra? (Sul corpo dell'agente ucciso è stata sparata anche una raffica di mitra - n.d.a.). E' logico pensare che un malvivente avvezzo alle armi da fuoco trovi più naturale aprirsi la strada con una raffica micidiale di mitra. Non ha di fronte a sé soltanto un uomo che può sopraffare con l'abilità del coltello, ma un gruppo di agenti armati e pronti a far fuoco. Tuttavia - secondo la versione ufficiale - egli usa il coltello al posto del mitra. E' verosimile? Si potrebbe rispondere affermativamente a queste condizioni. Che sulla strafa ci sia solo il Tamponi con il mitra non imbracciato; che la pattuglia in quel momento non possa rendersi conto (forse assente) di quanto sta accadendo; che il fuorilegge sia armato soltanto di coltello. Ma sul cadavere di Tamponi si rilevano le ferite prodotte da una scarica di mitra. Chi ha sparato? Ecco la risposta secondo la versione ufficiale: il malvivente, dopo averlo sgozzato!…» (In «Sassari Sera» 15 novembre 1967).
La versione più attendibile è che gli agenti, nella confusione, abbiano colpito il loro compagno. La coltellata resterà un mistero.
Il 17 giugno dello stesso anno, nel conflitto a fuoco tra baschi blu e Mesina con Atienza muoiono due tutori dell'ordine. Ghirotti ha ricostruito l'episodio:

«Nel primo pomeriggio, quel giorno, cinque carabinieri della casermetta di Giannas partono in perlustrazione sui monti di Orgosolo. Vedono avanzare tre o quattro armati. Si buttano a pancia all'ingiù: è la tecnica dell'appiattimento. Fra tante che se ne sono studiate è ancora questa la migliore: si tratta di star lì, immobili, a fiato sospeso, il dito sul grilletto, vicino alla sorgente, all'abbeveratoio, al guado. E aspettare che il bandito arrivi al varco assetato.
Ma stavolta il bandito ha fiutato odore di uomini affaticati. Il vento è amico del brigante, gli porta nelle nari quest'ansito, questi odori di cuoio sudato e di brillantina che sono messaggi dell'arma o della polizia in arrivo.
La sorpresa è fallita. I carabinieri sparano, i fuorilegge rispondono al fuoco e incomincia l'azione di sganciamento… I carabinieri corrono in auto a Orgosolo e di qui telefonano. Scatta il dispositivo del grande allarme. Da Nuoro e dalle caserme dei baschi neri e blu partono le pattuglie della lotta al brigante, polizia e carabinieri. I banditi sono scomparsi. Sul terreno è rimasta qualche gocciolina di sangue. Il primo colpo a Miguel Atienza l'hanno inferto i cinque carabinieri della casermetta di Giannas. Ora bisogna ristabilire il contatto con i banditi inafferrabili del Supramonte. Cade la sera. Graziano Mesina e il suo compagno, ferito, si sono ritirati nei boschi; sperano che la folla dei rastrellatori si scioglierà al calar della notte. Una pattuglia, comandata dal brigadiere Martinelli, si è attardata nella foresta. Dentro il folto d'un macchione le è parso di ascoltare voci umane. Il brigadiere intima la resa. «Chi si muove lì dentro? Arrendetevi, siamo della polizia!» Dall'alto, in mezzo ai cespugli, si sente una voce beffarda: «Anche noi siamo della polizia!» «Fatevi riconoscere!» Si sente uno strepito di frasche. «A voi!» grida la voce, e dall'alto cadono ai piedi del brigadiere due pistole calibro 9, un'arma in dotazione della polizia. «Gettate anche le altre armi!» ordina il brigadiere. Dall'alto si risponde lanciando due baschi blu. Si accende il combattimento: sparano gli agenti, sparano i briganti. E' una notte di tragedia. Gli agenti non sanno se sono accerchianti o accerchiati. Nella furia del combattimento tre uomini sono scomparsi…» (G. Ghirotti - Mitra e Sardegna - Longanesi 1968 pagg. 145-148).
Soltanto la mattina del giorno dopo, fatto l'appello, si scopriranno i mancanti: Pietro Ciavola e Antonio Grassia, morti, e Giuseppe Virgona, che vaga nella zona in preda a choc.

«Ad Orgosolo si dice che i due agenti del conflitto a fuoco di Tumba-tumba, dov'è rimasto ferito a morte anche Miguel, sono morti perché nella confusione si sono sparati tra di loro» (G. Ghirotti - Mitra e Sardegna - Longanesi 1968 pagg. 148-149).

E' una voce che circola non solo a Orgosolo, che si fa sempre più insistente. In una lettera a firma A.M. pubblicata in una rivista si legge:
«Chi ha raccolto i due baschi blu? Le voci che circolano insistenti e che richiedono una verifica dicono che siano stati vittime di un tragico errore e cioè che siano caduti sotto il fuoco dei loro stessi compagni. I sospetti… sono gravissimi… e suffragati da queste obiezioni:
1) Perché i cadaveri dei due poveretti non sono stati ritrovati subito? Perché si è aspettato a dar notizia della loro morte al giorno dopo il conflitto? La ricerca degli assenti non poteva essere fatta subito, considerato che la polizia dispone di mezzi necessari per illuminare la notte a giorno?
2) Ammesso che veramente uno dei due banditi è stato colpito in modo tanto grave da pensare, due giorni dopo, che egli sia diventato cadavere, alla ricerca del quale si inviano centinaia di militi; perché non sono riusciti a catturarlo vivo? E poi, chi avrebbe detto che uno dei banditi è stato colpito in modo così grave? Lo avrebbero detto i due baschi blu uccisi? Perché non si fa parlare il carabiniere sardo che avrebbe trascorso la notte insieme ai due cadaveri dei compagni?
3) Perché (e ciò è molto importante ai fini della scoperta della verità!) non si è fatta l'autopsia ai due morti? Da quali armi sono partite le pallottole che hanno freddato i due poveretti?…» (In «Sassari Sera» del 15 luglio 1967).

Sarà infine lo stesso Mesina, in sede di dibattimento, a illustrare ai magistrati, non senza ironia, lo svolgimento dei fatti, confermando le voci: i baschi blu si erano lasciati prendere dal panico ed erano rimasti a spararsi l'un l'altro per ore, mentre lui, portandosi dietro Atienza ferito, era già lontano. E sarà lo stesso Mesina a far sapere alla polizia il luogo dove ha deposto il cadavere di Atienza, affinché riceva umana sepoltura.

15 - A questo punto, da parte padronale si incomincia a chiedere che il mitra - insufficiente e male usato dalla polizia - venga concesso magari in via eccezionale, ai cittadini perbene, che non ne possono più di essere taglieggiati dei loro sudati milioni.
«Il 18 marzo del 1968, in seguito al sequestro di Nino Petretto e Giovanni Campus, si verifica un fatto nuovo nella storia della repressione in Sardegna. A Ozieri, feudo di pingui allevatori e possidenti detti prinzipales, si organizzano alcune centinaia di volontari per dare la caccia ai banditi - visto che i baschi blu non riescono a cavare un ragno dal buco.
Poco prima della decisione, Vicari, il capo della polizia, accorso nell'Isola per seguire la vicenda, ha presieduto nella sala del Municipio ozierese una riunione di prinzipales che chiedevano a gran voce l’istituzione di una Milizia di Volontari per la sicurezza della Campagna.
Che i prinzipales abbiano le loro guardie del corpo per evitare di essere rapiti e taglieggiati è cosa nota. Karim Aga Khan (il prinzipale della Costa Smeralda), ai 40 uomini e alle decine di camionette della polizia che vigilano intorno a Capo Cervo, aggiunge un suo esercito personale forte di circa 200 guardie giurate. Sui giornali sardi cominciano a leggersi inserzioni pubblicitarie come questa, apparsa nel settembre del '67: "Per paese interno Sardegna assumerei ex sottufficiale dei carabinieri per compiti guardia privata. Dettagliare referenze e specificare pretese indirizzando Casella postale 79…".
Il caso Ozieri, ovvero la guerriglia per incarico dei prinzipales, ha messo in luce alcuni aspetti della natura e della vocazione della classe al potere:
- i prinzipales, quando vedono i loro privilegi economici non abbastanza difesi dalle istituzioni dello stato, organizzano in proprio e al di fuori della legge gli strumenti repressivi;
- i ben pensanti di tutta Italia plaudono alla creazione di una milizia di volontari per la sicurezza delle campagne, di bande armate per lo sterminio del bandito, lodando la ritrovata fiducia del sardo nella giustizia.
Per i pastori e per i contadini che si sono arruolati nelle bande antibande è una occasione per guadagnarsi un salario, avere un'arma e procurarsi una patente di combattente della giustizia» (In Luisa Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna - Libreria Feltrinelli 1970).

Fra i prinzipales che muovono le acque c'è Nino Terrosu, ricco possidente ozierese, che all'alba del 7 marzo dello stesso anno è sfuggito fortunosamente al sequestro, mentre si recava alla propria fattoria in auto.

«Un'ora più tardi - nell'ovile dove sta mungendo accanto al fratello e a un servo pastore - viene rapito dagli stessi banditi Giovanni Campus, ricco possidente dell'Ozierese. Il Terrosu, rientrato in paese, fa appello alla popolazione perché collabori con la polizia nella scoperta dei malfattori. In consiglio comunale (Terrosu è capo gruppo della DC) pronuncia una dura requisitoria contro i pastori nuoresi, e quelli orgolesi in specie, che da tempo conducono le loro greggi alle opime pasture dell'Ozierese. In quell'assemblea si attacca duramente anche la magistratura, accusata di troppa indulgenza verso i pastori malnati…» (G. Ghirotti - Mitra e Sardegna - Longanesi 1968 pag. 291).

Nino Terrosu è anche il compare del famoso latitante di Bitti, Ciriaco Calvasi, e a questi si rivolge come mediatore tra i familiari del possidente sequestrato Campus e i rapitori.

«La gestione diretta della democrazia è un conto, ma la concessione al cittadino della patente di uccidere è altro diversissimo conto. Anche se si tratta di uccidere banditi, rapitori di galantuomini e taglieggiatori dei medesimi. La regola del gioco va rispettata fino in fondo: per dare la caccia ai fuorilegge esiste una apposita istituzione, la polizia. Che ha legale licenza, e ce n'è abbastanza. Cinquemila specialisti, detti baschi blu, oltre quelli in pianta stabile, contro qualche decina di latitanti.
Si è scoperto che l'apparato legale è insufficiente ad arginare l'ondata di criminalità. Se è così bisogna allora trovare soluzioni diverse da quelle finora adottate… Già noi auspichiamo un mondo senza poliziotti - per non essere fraintesi: con uomini onesti, tanto da rendere inutile il mestiere del poliziotto, del giudice, del carceriere. Figuriamoci, se ogni cittadino potesse, di punto in bianco, vestirsi da poliziotto. Il minimo che possa accadere è che tutti gli uomini, appena in grado di sparare, si dividano in banditi e in poliziotti…
Si è mascherata la criminosa trovata dietro il pretesto della collaborazione del cittadino alla giustizia. Una collaborazione evidentemente male intesa, poiché in uno stato democratico e civile la collaborazione tra il cittadino e le istituzioni nasce da un profondo rispetto di queste da parte di quello, e si attua al di fuori di ogni violenza…» (In «Sassari Sera» del 15 aprile 1968).

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