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Capitolo V - I primati della colonizzazione

1 - Il capitalismo - secondo una discriminante mai disusata - divideva ieri il mondo in paesi «civili» e «barbari». In virtù del possesso di moderni strumenti di guerra e di sterminio (definiti «alto livello di civiltà») si arrogava il diritto di invadere e sfruttare gli altri popoli, i quali, essendo privi di quegli strumenti, venivano definiti «incivili».
La Sardegna è un paese di antichissima civiltà. Tuttavia, per giustificarne la colonizzazione veniva descritta come «barbarica». A fornire la «documentazione» di tale «barbarie» provvedevano missionari, etnologi, craniologi, antropologi e sociologi - dei quali si ebbe una vasta fioritura nel secolo scorso in coincidenza con la grande avventura coloniale del capitalismo.
Il neo capitalismo preferisce la divisione del mondo in paesi «sviluppati» e «sottosviluppati». E non è un caso che i primi siano a economia industriale e i secondi agricola e che questi vengano utilizzati come «aree di servizio» del capitalismo. E' chiaro che le differenze di sviluppo tra i diversi paesi dipendono fondamentalmente dalla oppressione e dallo sfruttamento cui sono sottoposti. Mai come sotto il giogo del capitalismo, nelle aree oppresse l'umanità ha toccato il fondo della degradazione.
Rifiuto come mistificatorio il termine di «paese sottosviluppato»: è esatto chiamarlo «paese sfruttato». Senza sfruttamento non esiste sottosviluppo. E' una mistificazione usata e abusata per giustificare i mali della oppressione che immiseriscono e tormentano la Sardegna. Quando si parla dell'Isola sotto il dominio della borghesia sabauda e del capitalismo italiano e straniero e si ricercano le cause della miseria e della degradazione del popolo, si va a cercarle esattamente dove non ci sono, e cioè in un ipotetico «cattivo funzionamento» del sistema e non nella natura e sostanza del sistema stesso. Un sistema fondato sullo sfruttamento dell'uomo sull'uomo in effetti funziona benissimo nel momento in cui produce da un lato profitti e dall'altro miseria. Pertanto, dire che il sistema non funziona bene e che bisogna farlo funzionare meglio significa in via logica voler aumentare la sua capacità di produrre profitti e miseria.
Il Pais - parlamentare riformista del secolo scorso - scrive nella sua inchiesta:
«…la spiegazione dei mali presenti deve ricercarsi, per molta parte, nel triste passato, in cui ripetono l'origine, in cui trovano il loro germe. E non inutile parrà, anche per giustificare l'asserzione che non v'ha periodo in questa dolorosa storia che non sia segnato dalla delusione dei popoli sardi, qualunque sia stato il governo al quale erano soggetti…».

Il Pais mette l'accento non sullo sfruttamento ma sulla delusione per spiegare i mali che affliggono l'Isola. Da tutti i dominatori ci si aspettava un benessere che non è venuto: i Sardi non hanno tutti i torti a essere diffidenti. L'ultimo dominatore della serie, il governo italiano, cui il Pais è legato, dovrebbe - egli dice - finalmente comportarsi meglio e non «deludere» ancora una volta le aspettative isolane. Eppure, il quadro che l'illustre saggista traccia dei duemila anni di colonizzazione è tale da non lasciare speranza alcuna di un progresso portato da fuori, che non germogli dalla lotta del popolo stesso.

«I Cartaginesi, dopo averla devastata la espongono alla cupidigia di Roma. Il dominio romano, prima, e poi la conquista delle repubbliche di Genova e Pisa, come dovunque, anche in Sardegna lasciano aperto uno spiraglio di luce al progresso sociale; ma economicamente l'Isola è sfruttata dai dominatori; e della fertilità del suo suolo, e della prosperità della progrediente agricoltura, altro vantaggio non ha che di nutrire il popolo di Roma, e arricchire le prebende delle Chiese di Genova e di Pisa. Il breve e non ben conosciuto governo dei Giudici non poté, per le discordie civili, attingere al suo scopo, né opporre una compagine resistente alle mercantili repubbliche da cui furono sopraffatti. Aragonesi e Tedeschi la dilaniarono e la dissanguarono; il governo savoiardo… l'assopì fra piccole contese burocratiche… cosicché i Sardi, schiavi sotto Cartagine e Roma, servi di Bisanzio, dilaniati dai Vandali, schiacciati dai Saraceni, spogliati dai Comuni italiani, intristiti dal feudo straniero, sudditi poi di un reame povero, delusi nel passato dai momentanei e infruttuosi sussulti della ribellione e poscia delusi dalle reiterate lusinghe di miglioramento, di riparazione ai mali di cui la nuova Italia fu larga e munificente, bene a ragione possono dubitare che dopo tanta ala di tempo, sia per sorgere anche per la Sardegna il giorno sospirato…» (F. Pais - Relazione dell'inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna -Roma 1896).

Dopo oltre cento anni di sospiri il giorno dell'annunciato riscatto è ancora di là da venire.
Alla fine del secolo scorso l'Isola attraversa uno dei periodi più tristi della sua storia. Le condizioni di vita delle popolazioni sono paragonabili soltanto a quelle delle bestie selvatiche - senza godere della libertà di queste. I criminologi tirano le somme dei dati statistici e si allarmano perché la Sardegna ha il primato negli omicidi e nei furti; scoprono le «zone delinquenti» e teorizzano la repressione scientifica, l'estensione della pena di morte ai reati minori e galere più dure. nel contempo, dalla stessa borghesia salgono voci commosse per implorare dal potere interventi umanitari che allevino le sofferenze delle popolazioni.
Il governo risponde costituendo una commissione d'inchiesta per appurare le cause. Nascondere la verità, distorcere i fatti sono una necessità per il potere, che rappresenta la difesa e la conservazione dei privilegi. Le cause sono lì, chiare, evidenti, in quello stesso parlamento, come tutte le istituzioni del sistema edificato per produrre privilegi e ricchezza sulla miseria e sulla fame del popolo. Si finge di volere risanare e risollevare ciò che si è volutamente ammalato e incancrenito; si arriva alla farsa di chiedere fiducia e riconoscenza ai popoli sfruttati, quando un parlamento si degna di costituire una commissione di inchiesta che si sa già non potrà modificare la sostanza di un sistema di cui è espressione. Se poi questi popoli non mostreranno di avere fiducia nell'oppressore, si dirà che proprio in questo loro «sentimento negativo» sta la causa della loro arretratezza.
Nel giornale radicale «Il secolo», nel 1906 Locatelli riconosce che non è facile per i Sardi avere fiducia nel governo, dopo essere stati assoggettati a certi trattamenti:

«Quanto a leggi, per quel che riguarda il lato odioso di esse, il lato fiscale, non v'è dubbio, ci sono tutte. I carabinieri ci sono anche qui, quando sono pochi se ne mandano subito molti altri, tanto che se lo Stato provvedesse con la stessa larga abbondanza a tutte le altre necessità della Sardegna, in breve essa diverrebbe un paradiso terrestre. Ma i diritti no! in Sardegna le tariffe ferroviarie sono magari più elevate che in Italia, eppure qui si viaggia con una lentezza ed una incomodità intollerabili; i cittadini pagano le stesse imposte che a Roma, Milano o Torino, eppure quando un funzionario ha dimostrato di essere bestia o disonesto lo regalano ai Sardi, affinché porti nell'esercizio delle sue funzioni, oltre la constatata deficienza o colpevolezza, anche il rancore della punizione. E con ciò tutta una somma di errori e di colpe che danno alla legge una fisionomia odiosa e triste e alimentano nelle moltitudini un odio profondo, per quanto vago e indeterminato, contro questo invisibile ente del governo, malefico, sordo e ladro, pronto a prendere sempre, tenace nel rifiutare sempre. Che meraviglia, dunque, che queste popolazioni quando trovano una formula per significare il loro malcontento, la investano e l'accendano di tutto il dolore intollerabile accumulato per secoli?».

Nella miserevole situazione in cui si trova dopo millenni di colonizzazione, il Sardo deve anche subire le frustate perché non sa fare la rivoluzione proletaria. E' Gramsci che scrive:

«Si rivolta violentemente contro i Signori in determinate occasioni… La lotta di classe si confonde col brigantaggio, col ricatto, con l'incendio dei boschi, con lo sgarrettamento del bestiame, col ratto dei bambini e delle donne (sic), con l'assalto al municipio… La preoccupazione maggiore della sua vita era quella di difendersi corporalmente dalle insidie della natura elementare, dai soprusi e dalla barbarie crudele dei proprietari e dei funzionari pubblici… Elemento anarchico… infrenato solo dalla paura del carabiniere e del diavolo. Non comprendeva l'organizzazione, non comprendeva lo Stato, non comprendeva la disciplina,… era impaziente e violento, selvaggiamente, nella lotta di classe incapace di porsi un fine generale d'azione e di perseguirlo con la perseveranza e la lotta sistematica» (A. Gramsci - L'ordine nuovo - Operai e contadini - 1919).

Gramsci, invischiato nella ideologia marxista e nel mito del proletariato, disprezza nei Sardi l'anarchismo, l'uso comunitario che fanno dei beni naturali, il loro odio per il municipio, per i funzionari, per i gabellieri che dello Stato sono una concreta rappresentazione. Da intellettuale, Gramsci parla dei Sardi in termini astratti: come rimproverare ai Sardi di quel periodo di essere incapaci di teorizzare la lotta di classe e di organizzare la rivoluzione proletaria? In quale altro modo - in quella dimensione storica - avrebbe potuto il Sardo togliersi o tentare di togliersi dal collo il piede dell'oppressore, se non con la «rivolta violenta»? E poi, chi ha mai detto se non gli stessi colonizzatori che il Sardo abbia rapito bambini e donne e incendiato boschi? Ciò è falso. Colui che appartiene alla borghesia può permettersi, fatta una scelta ideologica rivoluzionaria, risposte non selvagge. E' facile, per chi ha studiato nelle scuole riservate alla classe dominante porsi «un fine generale» d'azione e seguire con perseveranza «una lotta sistematica» contro il nemico ideologico.
Ecco quali erano le condizioni di vita nell'Isola nel periodo che va dagli ultimi decenni dell'800 ai primi del '900.

Il Pais: «La miseria è dunque generale; il proletario vende lo scarso prodotto del breve terreno (mal lavorato, non concimato, per mancanza di capitale) a prezzo vile; impotente a pagare le imposte, e gli interessi dei mutui ipotecari, si volge, disperato di credito onesto per difetto di istituti, all'usura che gli infligge l'ultimo strazio con uno sconto che arriva fino al 20%; all'usura pure si rivolge il povero contadino per sfamarsi e per pagare le imposte nel crudo inverno, con le prestanze in natura in cui l'usura è anche più crudele e sorpassa il 50% (vedremo, più avanti, che queste percentuali sono molto più alte - n.d.a.)… Non può recar sorpresa che, se in tali condizioni versi la classe media dei contadini, l'operaio (se pur trovi da occuparsi…) a stento possa sperare un salario di 75 centesimi al giorno, e se molti e troppi non trovino affatto lavoro; cosicché in alcuni luoghi e a certe epoche vi è chi vive di fichi d'India e di erbe selvatiche, cui dà apparenza, non sostanza di nutrimento umano il sale, che provvidamente il fisco, unico cespite lascia ancora franco d'imposta! E non può recar sorpresa che l'emigrazione, già sconosciuta in Sardegna, ora prenda sviluppo che è allarmante… Il contingente maggiore è di braccianti che partono alla ventura, senza affidamento alcuno di occupazione nei paesi in cui vanno, ove solo la disperazione li spinge! Questa è forse la più terribile prova della miseria in Sardegna; perché è indizio che comincia a mancare in modo assoluto il mezzo di vivere comunque, anche con istento! Perché il Sardo, e specialmente il contadino non abbandonerebbe l'Isola sol se potesse con un cibo qualsiasi e con il più faticoso lavoro, sfamarsi! Se quasi dappertutto l'emigrazione è sintomo allarmante… in Sardegna manifesta uno stato di anemia che confina con la morte» (F. Pais - Relazione dell'inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna -Roma 1896).
Il Niceforo: «Le condizioni economiche della Sardegna sono adunque in miserissimo stato. In molti luoghi delle pianure campidanesi il contadino non mangia che pane, non beve che acqua; quando la fame lo stimola, è un vecchio ed ammuffito pezzo di pagnotta che lo satolla e l'acqua - terribile veicolo d'infezione malarica - accompagna il pasto. Un direttore di bagno penitenziario ci diceva che il pane ammuffito - avanzo dei carcerati - era divorato voracemente dai bambini che venivano a trovarlo per chiederglielo in carità: noi abbiamo visto quel pane: orribile, verdastro, incrostato da una patina molle di muffa, duro come macigno» (A. Niceforo - La delinquenza in Sardegna - Palermo 1897).
Il Colajanni: «Quando mi si mandò il campione del pane di Campo Felice che tanta impressione destò in Italia, avvertii che in non tutti i comuni della Sicilia si mangiava tale pane; ora ho visto un altro campione di pane che si mangia a Baunei (circondario di Lanusei) che è veramente orribile e fa conoscere quanto maggiore sia la miseria della Sardegna. E' fatto di farina di ghiande ed il mio amico on. prof. Celli vi ha trovato il 65 per cento di sostanze inorganiche (N. Colajanni - In Sicilia - Roma 1894).

In questa desolazione calano come avvoltoi gli usurai, che prosperano accumulando ricchezze sulla fame del popolo.
«L'Usura, in Sardegna più che altrove, arriva a limiti inverosimili. L'interesse più mite è del 25% per soli tre o quattro mesi. Nel contado, ove i mutui si fanno in derrate e specialmente in grano, si fanno in gennaio o in febbraio con l'obbligo di restituire il grano mutuato in agosto, tempo del raccolto, con l'interesse di 21 litri per ettolitro. Ma questi sono gli onesti. I più capitalizzano gli interessi del 25% dall'atto stesso del mutuo, ne calcolano l'importo in denaro al prezzo che potrà avere il grano all'epoca della restituzione, con l'obbligo di restituire la somma, in grano, al raccolto, una lira meno all'ettolitro del prezzo corrente. Ciò viene a dare un interesse dell'80% per pochi mesi… Abbiamo conosciuto, in un paese del Campidano, un prete che imprestava grano agli affamati, costringendoli a pagare, in seguito, somme tali ch'egli ci guadagnava il 200 per cento» (A. Niceforo - La delinquenza in Sardegna - Palermo 1897).

Un popolo che ancora in periodo preistorico, tra il neolitico e l'età del bronzo sa esprimere quella meraviglia architettonica che sono i nuraghi, in era industriale, sotto il dominio capitalista, è ridotto a scavarsi tane per ripararsi dalle intemperie, a edificarsi baracche di fango e di frasche. Quando nel 1906 la commissione parlamentare di inchiesta sulle condizioni di vita dei minatori sente le lamentele dei lavoratori costretti a vivere ammassati come bestie sulla terra battuta dei cameroni, gli onorevoli se ne scandalizzano: Come? - dicono - vi lamentate dei cameroni, quando nei vostri paesi si vive in luride tane.
Gli «stazzi» in Gallura, i «cuili» in Nurra, i «bacili» nel Serrabus, i «medaus» nel Sulcis, i «furriadroxius» nell'Iglesiente, i «pinnacus» e le «barraccas» nei Campidani sono primordiali abitazioni in uso fino a tempi recentissimi, di cui si hanno ancora numerose tracce. Non sono - come gli etnologi della colonizzazione asseriscono - espressione di una civiltà arretrata e autarchica: sono più esattamente espressione della degradazione prodotta dalla rapina e dallo sfruttamento.
In questa situazione non hanno alcun senso le statistiche relative ai servizi igienici sanitari. Ne cito alcune, recenti, nel tentativo di tradurre in termini aritmetici una realtà tanto miserevole da sembrare incredibile. Nella Sardegna del 1925 - mentre il capitalismo uscito dalla prima carneficina mondiale riassesta il suo impero imponendo il fascismo totalitario in Italia, in Germania e più avanti in Spagna; mentre la tecnologia industriale si getta a capofitto nella ricerca «scientifica» per approntare nuove e più efficienti macchine di distruzione e di morte: mentre Mussolini prepara l'epopea imperialista realizzando inutili faraonici colossi di travertino e di granito - nella colonia Sardegna, su 364 comuni, 260 sono sprovvisti di acquedotto e gli abitanti si abbeverano come bestie nei pozzi e nei fiumi; 357 (cioè tutti i comuni escluse le città) non hanno fognature e 199 non hanno neppure un cimitero. «Fino agli inizi di questo secolo, in quasi tutti i comuni i morti si seppellivano senza cassa, in fosse comuni» (Aa. Vv. - La società in Sardegna nei secoli - Torino 1967).
In questo stato di miseria e di abbandono nascono i velenosi primati che hanno reso tristemente famosa l'Isola: la malaria, la tbc, la silicosi, il rachitismo, il tracoma, il colera, la lebbra, l'echinococcosi. Alcuni di questi primati resistono. Si registrano ancora casi di lebbra in diversi paesi dell'Oristanese: non è dato sapere quanti siano i ricoverati nel lebbrosario presso l'ospedale di «Is Mirrionis» a Cagliari e quanti siano gli infetti nascosti nelle case.
Diffusa è ancora la tbc (certi criminologi hanno tentato di legarla alla criminalità e alla follia come fattore genetico ed eludere così le cause vere del male, dovuto alle condizioni di vita sub-umane, alla denutrizione). La silicosi vede gravemente menomati oltre 40 mila lavoratori delle industrie estrattive. L'echinococcosi è attualmente tanto diffusa da costituire un primato mondiale dell'Isola.
Sono cronache dei nostri giorni/

«Cagliari, 1.5.1973 (Agenzia Italia) - Una delegazione di lavoratori colpiti dalla silicosi… è stata ricevuta il 13 aprile dall'assessore regionale al lavoro… al quale ha illustrato i temi in discussione nel corso del congresso regionale dei lavoratori silicotici… Si tratta di circa 40 mila lavoratori menomati nel fisico dalle condizioni di lavoro, che non possono lasciare insensibile chi è preposto al governo della cosa pubblica».
«Cagliari, 1.5.1973 (Agenzia Italia) - La Sardegna detiene un primato mondiale che nessuno le invidia: l'echinococcosi (o idatidosi), una malattia che colpisce uomini e animali…».
Per debellare quest'ultimo terribile flagello che funesta l'Isola, la Regione - continua la nota dell'AGI - ha deciso di «sensibilizzare i bambini e i ragazzi, che specie nelle campagne sono a contatto con i cani più degli adulti: essi riceveranno a scuola un libretto a fumetti essenziale e divertente, e se lo porteranno a casa, riceveranno un giochino tipo gioco dell'oca con le varie tappe rappresentate dai vari incentivi al morbo; con lo stesso giochino giocheranno, a scuola, assieme all'insegnante, che ne approfitterà per chiarire e sottolineare i punti essenziali che si riferiscono alla echinococcosi (o idatidosi) ed ai suoi pericoli».
E' presumibile che libretto e giochino costituiranno un grosso affare speculativo. «Per la grafica - conclude l'AGI - particolarmente interessanti sono apparse le bozze presentate da Jacovitti, un nome ben conosciuto da grandi e piccini per le sue battute spiritose e per le sue figure piene di significato. Jacovitti dimostra coi suoi schizzi di essere entrato nel vivo dell'argomento e di averlo fatto suo, nel complesso e nei particolari, quasi ne volesse fare una propria campagna personale».
Se Jacovitti si è impegnato a farne una personale campagna profilattica, i Sardi possono stare tranquilli.

2 - «Tre gravi malattie minavano in modo particolare la salute della popolazione. In primo luogo la malaria, di cui in molte zone era affetto il 100% della popolazione infantile». Si curava con palliativi: infusi di erbe e di radici, molto usata la genziana. Una regressione del morbo si ebbe dopo la legge del 23.12.1900 che diffondeva l'uso obbligatorio del chinino (monopolizzato, questo farmaco diventa una nuova fonte di lucro sulla pelle dei Sardi n.d.r.). «Venivano in secondo luogo il tracoma, causa spesso di cecità, per il quale (anche) la Sardegna ebbe il triste primato in Italia, e, infine, la tubercolosi, scarsamente diffusa nel secolo XIX ma in rapido e forte aumento all'inizio del XX secolo» (Aa. Vv. - La società in Sardegna nei secoli - Torino 1967). Nel quadriennio 1927-30 (cito sempre dalla stessa fonte) la tbc mieteva annualmente ancora 18 vittime ogni 1000 abitanti; e la malaria, già in declino, mieteva ancora 15 vittime ogni 100 abitanti. Nello stesso periodo un'indagine approssimativa calcolava in 90.000 i tracomatosi: circa 1 ogni 10 abitanti (considerato il censimento del 1931 che dava una popolazione complessiva di 973.125).
Altro flagello, tutt'ora diffuso e di cui l'Isola detiene l'indiscusso primato, è la silicosi, cui si è accennato, che fino a qualche anno fa non veniva riconosciuta come malattia professionale - ancora oggi, i lavoratori che ne sono colpiti vengono liquidati con qualche migliaio di lire, quando pure il diritto viene riconosciuto.

Scrive sulla questione «Sardegna Oggi» nel 1963: «…La silicosi, è risaputo, è una malattia professionale che, per lo più, colpisce i minatori. La Sardegna è la regione d'Italia più colpita da questa terribile malattia. Infatti le più alte cifre di mortalità per silicosi si registrano nell'Isola, che dispone del più imponente complesso minerario del Paese. Ma nelle miniere della Carbonsarda non esiste silicosi: così ha deciso la sua Direzione generale. Chiunque denunci questa malattia è o visionario o pazzo o mistificatore. Se poi ad asserirlo sono dei medici, costoro sono degli incompetenti… Alla Carbonsarda non c'è silicosi: questo è tutto ed è quanto basta perché la Società non paghi i premi all'Istituto Nazionale d'Infortuni e non accetti i controlli sanitari dell'ENPI, forse perché quei pochi o molti milioni che servono a garantire i minatori con l'azione anti-infortunistica han ben preso altre vie» (In «Sardegna Oggi» n. 36 del novembre 1963).

Contro il parere della Società, il prof. Floris, dell'Università di Cagliari, accertava ben 126 minatori colpiti da Silicosi nella sola miniera della Carbonsarda.

Nel 1965, «Rinascita Sarda» torna sull'argomento: «Nel quinquennio 1959-63 ben 8.953 lavoratori sardi hanno denunciato d'essere stati colpiti dalla silicosi, ma soltanto 1845 sono stati indennizzati per questo motivo… 10.00 denunce di silicosi su 60.000 provengono dalla Sardegna. Mentre in Italia l'incidenza della silicosi sul complesso delle malattie professionali è del 45%, in Sardegna è invece del 96,3%. In Sardegna, solo il 20% dei silicotici viene indennizzato. L'età media di vita dei silicotici è di 53 anni e bastano quindici anni per condurre alla morte il lavoratore. Fino ad oggi, la legislazione vigente consente di indennizzare il lavoratore che è affetto da silicosi solo nel caso che questa malattia sia associata alla tubercolosi polmonare. In tutti gli altri casi non c'è indennizzo. Si arriva all'assurdo che molti lavoratori si augurano la complicazione polmonare pur di poter usufruire dell'indennizzo…» (In «Rinascita Sarda» del 28 febbraio 1965).

Non occorre risalire al medioevo per ritrovare epidemie di colera: la miseria, l'abbandono, la mancanza di ogni più elementare servizio igienico e sanitario alimentano nelle nostre comunità focolai di terribili morbi. Negli anni sessanta, nell'Oristanese vengono segnalati numerosi casi di lebbra. Nel 1962 un consigliere socialista rivolge una interrogazione urgente all'assessore all'igiene e sanità della Regione:

«per sapere se risulta o meno che nei centri di Santa Giusta, Terralba, San Nicolò d'Arcidano, Cabras, Oristano, Borore vi siano delle persone colpite dalla lebbra… Si chiede che un dermatologo effettui visite domiciliari periodiche onde prevenire il contagio del male… Si reclama la esecuzione delle reti fognarie per i suindicati comuni che ne sono privi, misure ispettive per la scuola, i pubblici locali, la costante ripulitura delle gore morte, delle fosse settiche, per eliminare i germi di putrefazione…» (In «Rinascita Sarda» del marzo 1966).

Qualche anno dopo esplode lo «scandalo di Gonnoscodina»: un'intera classe della scuola elementare risulta affetta da tubercolosi. Gonnoscodina è un paese di circa 1000 abitanti in provincia di Cagliari.
«C'erano 20 bambini tbc in quella classe - scrive una rivista comunista - perché mangiavano solo cardi e frequentavano una scuola che era molto simile a una stalla. Una scuola indegna di un paese civile… Ne risultò uno scandalo nazionale: i giornali mandarono i loro inviati in quel paesino dell'Oristanese situato a 60 chilometri dal capoluogo della Regione. Scrissero gli inviati: Forse i bambini sono stati contagiati dalla insegnante. Durante la refezione, maestri e allievi bevono tutti da una stessa brocca, non essendovi bicchieri. E non solo bicchieri mancano a Gonnoscodina, ma anche le sedie, i banchi, i gabinetti. Per sedersi i bambini usano blocchetti di cemento; i muri sono tanto pregni d'umido che gocciolano d'acqua. La refezione scolastica è lesinata con penosa discriminazione, escludendo come privilegiati i ragazzi che un tozzo di pane con qualche cardo lo trovano a casa…».

Cronache della Sardegna d'Oggi, la Sardegna del boom turistico della Costa Smeralda, dei modernissimi insediamenti militari per la guerra nucleare, delle industrie petrolchimiche che forniscono energia a mezza Europa.
Ancora nell'Oristanese, stavolta a Cabras, nel 1967, scoppia una epidemia di colera infantile. Nel giro di pochi giorni, circa 100 vittime con 10 morti. Ho seguito ora per ora a Cabras il susseguirsi di quei drammatici eventi, il lugubre via vai delle ambulanze a sirene spiegate, la disperazione delle madri, la rivolta della povera gente lasciata a marcire in veri e propri ghetti da una classe dirigente e da un padronato indegni di far parte del genere umano.

«5 maggio 1967 - Una situazione allarmante. Cabras è circondata da una cintura di mondezzai. I pericoli all'igiene aumentano per l'uso di ospitare le greggi in paese, per la mancanza di fognature».
«23 giugno - Mentre le autorità sanitarie sdrammatizzano la situazione a Cabras si vive nel terrore di una epidemia… Immensi depositi di rifiuti circondano l'abitato, mentre all'interno le fogne scorrono in superficie…».
«24 giugno - Si allunga l'elenco delle vittime. Un altro bambino è deceduto. E' il figlio di un giovane pescatore. Il prefetto ha visitato il paese. Numerose famiglie vogliono lasciare l'abitato. Le cineprese della tivù fotografano gli immondezzai».
«25 giugno - La popolazione è in preda al terrore. Sono 9 i bambini uccisi dal misterioso morbo. Altri 2 lattanti, uno di 5 mesi e l'altro di 6 ricoverati a Cagliari in preda all'avvelenamento. Numerose famiglie cercano scampo in altri paesi. La tragica situazione igienico-sanitaria e le gravi responsabilità degli amministratori locali e regionali».

Alla visita del prefetto segue quella del presidente della Regione che promette sussidi alle famiglie colpite dal colera e promette opere di risanamento. E' severamente proibito parlare di «colera» o al massimo di gastroenterite acuta - un termine medico che significa appunto «colera».

In un comunicato del 25 giugno del Ministero della Sanità si apprende che «in relazione al misterioso morbo che colpisce i bambini di Cabras… La malattia si manifesta con sintomatologia che interessa prevalentemente l'apparato gastroenterico… si sono verificati in totale 28 casi con 25 ricoverati in ospedale… si sono lamentati 9 decessi…».
«27 giugno. La popolazione vive ormai nella disperazione più nera. Altri 4 bambini colpiti dal misterioso morbo. Tra essi anche un 12enne… Il rione Brigata è come un ghetto. Ancora sospetti sull'acqua? Cosa succede nel cimitero?».
Nel testo del servizio si legge: «L'attuale stato d'animo della popolazione è caratterizzato più che dalla paura dal risentimento nei confronti della classe dirigente. Mentre nelle famiglie colpite dal terribile morbo, si piangono i morti e si trepida per la sorte dei piccoli che ancora lottano per sopravvivere, i maggiorenti si accingono ad evitare la peste trasferendo i loro familiari ad altro paese… La tragedia che ha scosso questa comunità ha assunto il suo giusto rilievo attraverso la documentata e prudente denuncia che i servizi di informazione hanno fatto alla pubblica opinione sulla incredibile situazione di arretratezza in cui versa questa cittadina di 8.000 abitanti per la criminosa incuria degli amministratori… Nessuno più vi è ormai che neghi che la causa dell'epidemia in atto e di ogni altra possibile pestilenza sia da attribuirsi alla assoluta mancanza di servizi igienici ed al primitivo livello di vita in cui è costretta buona parte della popolazione. Abbiamo visitato ancora una volta il rione della Brigata, la parte più colpita dal flagello… La Brigata significa case malsane, miseria e analfabetismo, promiscuità innominabili, situazione igienica spaventosa: a ridosso stanno i letamai più vasti, dove finiscono anche ventrami e residui di macellazione. Il fermento della popolazione della Brigata rasenta il parossismo…».
«28 giugno - Si accentua il terrore nella popolazione. Altri due bambini ricoverati nella clinica pediatrica…».
«29 giugno - Mentre continuano i ricoveri dei bambini, situazione estremamente tesa a Cabras: anche un adulto colpito dal morbo misterioso… Si bruciano gli immondezzai alla periferia del paese, ma milioni di topi, snidati dai loro rifugi, hanno invaso le vie, destando profonda apprensione…».
Nel testo, si legge: «…Si vive il clima angoscioso di una pestilenza medievale: cominciano i roghi in cui si inceneriscono i rifiuti… legioni di topi stanati si sono riversati nel paese e nelle case. L'allarme è generale, il pericolo è gravissimo: la popolazione è impotente a combattere con i propri mezzi contro milioni di topi di ogni specie provenienti dai depositi di rifiuto, dalle chiaviche, dai canali, dagli stagni dove per anni hanno prosperato pascendosi degli immondi avanzi delle macellazioni e delle carogne innumerevoli di pesci che i magazzini della cooperativa Pontis gettano nei canali… Esplodono ora, dopo anni di paziente sopportazione, i malumori popolari. La terrificante situazione di arretratezza viene ora minutamente denunciata da tutti, e le accuse agli amministratori che hanno governato il paese si fanno sempre più precise e circostanziate…».
«30 giugno - Il morbo continua a mietere vittime: un bimbo di 2 anni ricoverato all'ospedale in gravi condizioni. Chi può fugge dal paese, i poveri rimangono tutti» (La cronaca della epidemia di Cabras del 1967 è tratta dal quotidiano «La Nuova Sardegna» del maggio-giugno 1967).

In luglio il colera regredisce. La situazione si «rinormalizza», cioè le cose tornano come prima.
Ho già accennato all'attuale primato mondiale che l'Isola detiene con l'echinococcosi. La stampa, in questi giorni, sta presentando la malattia a tinte fosche, come un «flagello paragonabile solo alla malaria». La campagna di stampa di denuncia della diffusione della malattia (mentre non si fa nulla per circoscriverla e combatterla) appare alquanto sospetta, se si tiene presente la natura canagliesca della consorteria al potere e l'uso che della Sardegna vuol fare il capitalismo.
Sulla stampa è apparso lo studio di un certo prof. G. Dedola con alcune sue dichiarazioni, che, interpretate con doverosa diffidenza, potrebbero significare che il sistema sta accelerando i tempi della soluzione finale del pastore sardo.
Come è noto, i portatori dell'echinococcosi sono i cani, i suini, i bovini e gli ovini che trasmettono all'uomo i parassiti. Il prof. Dedola dice: «La ragione dell'enorme sviluppo che la malattia presenta nell'Isola è data sostanzialmente dal cospicuo patrimonio bovino, suino ed ovino».
Ciò è vero soltanto in parte, perché se è cospicuo il patrimonio ovino (2.580.000 capi su 7.948.000 capi in tutta Italia), al contrario è di scarsa rilevanza rispetto ad altre regioni il patrimonio suino e bovino. Restano quindi sotto accusa soltanto le «pregiudicate» pecore che alimentano col pastore la «criminalità» barbaricina. (Ma va rilevato che l'Isola ha sfiorato i 5 milioni di pecore senza che l'echinococcosi fosse come oggi un flagello sociale).
E' vero che il prof. Dedola ammette che è tutta una questione di profilassi e che se la Regione, anziché sollazzarsi coi fumetti di Jacovitti, si preoccupasse di «prendere in esame seriamente il problema» e di «valutarlo in tutta la sua dimensione e importanza», si potrebbe debellare la malattia.
Pensare che la Regione faccia questo è come chiamare i paralitici a partecipare a una maratona olimpica e pretendere che arrivino primi. Assume quindi un sinistro significato (se non è soltanto una dotta citazione) l'accenno finale del prof. Dedola all'Islanda, dove «alla fine del secolo scorso un cittadino su quattro era affetto da echinococcosi. Il governo decise allora di abbattere tutti i cani: la malattia scomparve» (Su «La Nuova Sardegna» del 3 febbraio 1974).
Ne consegue che in Sardegna bisognerebbe abbattere tutti gli ovini. Il compito è facilitato; tra basi militari e poligoni di tiro, insediamenti petrolchimici e porcopoli, le pecore scompariranno (coi pastori).

3 - Elencare e descrivere tutti i primati che sono venuti alla Sardegna dalla colonizzazione è un lavoro improbo. Mi occuperò soltanto di alcuni aspetti, specifici alla condizione di colonia dell'Isola che, in quanto colonia all'interno di una nazione di cui fa parte integrante sotto l'aspetto geografico e politico, costituisce già di per sé un originale primato. A questo proposito, il sistema rifiuta i termini di «colonia» e di «colonizzazione» in riferimento alla Sardegna, «regione italiana». Preferisce parlarne in termini meridionalistici, in termini cioè di «sorella povera», di area «sottosviluppata» per cause storiche nebulose, comunque indipendenti dalla «buona volontà» egalitaria e unitaria dei governi che si sono succeduti, prodigandosi invano, dal1860 a oggi.
Come dire che la condizione di miseria e di arretratezza della Sardegna sarebbe dovuta a mali naturali, a dati negativi dell'ambiente e del fattore umano, per cui, al momento dell'unità nazionale, l'Isola - a differenza di altre regioni «più sviluppate» - partiva da quota zero.
D'altro canto, nonostante il pudore che sconsiglia l'uso del termine crudo di «colonia», negli stessi discorsi ufficiali e in numerosi atti del potere politico la Sardegna è qualificata come tale.
Tipicamente colonialisti sono gli studi di criminologia sull'Isola, dei quali esiste una vasta fioritura. Fra i cespi di recente pollonatura (1967) ce n'è uno che si intitola «Otto studi sulla criminalità in Sardegna», edito a cura del «Centro di profilassi della criminalità», con sede a Cagliari.
Gli studi consistono nella indagine sulla criminalità e nella elaborazione dei dati relativi al quinquennio 1960-64 e sono classificati e studiati sotto i seguenti titoli: «Isolamento e criminalità»; «Isolamento e istruzione»; «Abigeato e criminalità»; «Criminalità e pastorizia»; «Isolamento e malattie mentali»; «Criminalità e malattie mentali».
Come studioso anticonformista di fenomeni di criminalità, ho rilevato in questi studi la mancanza di alcuni titoli che, a parer mio, sarebbero stati molto più interessanti di quelli proposti e sviluppati dagli studiosi del «Centro di profilassi». Per esempio: - «Politica e criminalità»; «Centri regionali di sottogoverno e criminalità»; «Cattedre universitarie e malattie mentali» (con particolare riguardo ai fenomeni autistici nella schizofrenia cattedratica); «Schizofrenia e militarismo»; «Polizia, analfabetismo e regressione mentale»; «Amministrazione pubblica e peculato»; «Clero e reati sessuali»; e così via. Sono studi, questi, che non verranno mai fatti da un «Centro» finanziato dallo stato, dalla regione e da chi sa chi altri, “per mettere in evidenza la criminalità della povera gente e mantenere nascosta e protetta la criminalità della gente privilegiata e al potere”.

Gli studi di cui parlo sono un capolavoro di idiozia, almeno sotto la specie della profilassi. Vi si legge:

«La distribuzione dell'abigeato (altro primato dell'Isola! - n.d.a.) per regioni agrarie dava al 31 dicembre 1965 la più alta percentuale di capi rubati in provincia di Sassari e sulle colline litoranee dell'Alto Temo con una media annuale di 415,31 capi rubati (si noti la finezza dello 0,31 pari a circa un terzo di pecora sottratto, che fa sorgere il grave problema della sopravvivenza dei rimanenti due terzi di pecora rimasti al padrone - n.d.a.). In provincia di Nuoro la più alta percentuale di furti è stata registrata sulle colline di Nuoro, con 168,56 capi rubati; in provincia di Cagliari sulle colline di Fordongianus, con 205,51 capi rubati…».

Con tutto il rispetto dovuto agli esperti di «profilassi della criminalità» - i quali, a giudicare dai risultati possono qualificarsi fra le categorie di venditori di fumo incentivati - mi chiedo dove mai pensavano di trovare «le punte massime» del furto di pecore se non dove ci sono più pecore?! Non certo nelle pianure milanesi, fra le industrie.

«Il più alto indice di gravità dei reati - continuano gli studiosi profilattici - è stato riscontrato, in provincia di Sassari, sulle colline litoranee della Gallura occidentale con 20,03; in provincia di Nuoro, sul Gennargentu orientale con 39,87 seguito dalla montagna della barbagia di Seulo con 39,73; in provincia di Cagliari, infine, sulle colline del lago Omodeo e del Monteferru, con 24,38».

C' è un ritorno puntuale della collina come «area criminogena»; tanto da giustificare il dubbio che si tratti di colline tarate geneticamente.
La scoperta più entusiasmante è quella che segue:

«Per quanto riguarda il rapporto pastoralità-criminalità, il più alto quoziente di criminalità è stato riscontrato sulle colline dell'Alto Tirso, prevalentemente pastorale, con 51,2, mentre il più basso, 6,5, nell'arcipelago della Maddalena, a carattere semipastorale…».

Gli autori dello studio pastoralità-criminalità concludono dicendo che l'area pastorale, in fondo in fondo, esprime una criminalità che non è in grado più elevato rispetto alle aree non pastorali dell'Isola, ma è piuttosto orientata verso i reati gravi. La criminalità grave - essi dicono - si distribuisce preferenzialmente entro l'area pastorale, nelle regioni più isolate; e tra i reati gravi, l'omicidio delimita i caratteri di particolare evidenza d'una geografia della pastoralità isolata mentre l'abigeato si configura come un reato patognomonico delle zone pastorali…
Come la criminalità, anche le malattie mentali sono triste retaggio del mondo pastorale, in particolare quello «d'alta montagna»:

«…l'area delle malattie mentali istituzionalizzate negli ospedali psichiatrici di Cagliari e Sassari dal 1901 al 1964 delimita con sufficiente chiarezza una zona di forte concentrazione morbosa nel massiccio montuoso centro-meridionale. Tale area corrisponde in massima parte a regioni isolate, pur non coincidendo perfettamente con l'area di isolamento…».
In breve, nelle indagini sulle malattie mentali e il loro rapporto con la criminalità, gli autori avrebbero accettato che la geografia della criminalità tende a corrispondere, in Sardegna, con la geografia della patologia mentale; essi affermano che criminalità globale, malattie mentali e isolamento (leggi pastoralità) convergono in un'area comune; che la criminalità globale decresce con il decrescere dell'incidenza delle malattie mentali e che la criminalità globale si correla principalmente con le sindromi distimiche e le sue sindromi schizofreniche (Per un esame degli studi di cui si è parlato, vedi «Sassari Sera» del 1° novembre 1967).
Negli studi più recenti sulle malattie (o disturbi) mentali si sostiene, senza eccezioni, che i ceti maggiormente colpiti sono quelli benestanti, più in particolare gli abitanti delle grandi città industriali. In Sardegna le cose andrebbero diversamente: i pastori, in quanto criminali, sono anche pazzi.
Se andiamo avanti con gli attributi riservati ai «cattivi pastori» viene fuori che essi sono anche «sfacciatamente emigranti».
L'emigrazione come fenomeno patologico è una scoperta di data recente, in Sardegna. Come è noto, l'emigrazione di massa nell'Isola ha inizio con il dominio della borghesia piemontese. Gli studiosi del fenomeno ricercano le cause nella nebbia degli «inconsci» da cui fanno capolino teorie dello «spirito d'avventura», della ricerca di «spazi vitali» e altre amenità del genere. Comunque - secondo questi studiosi - l'emigrazione non è una «malattia pericolosa», anzi può avere risvolti benefici - come la scarlattina o il morbillo.

«I sardi maschi cominciano solo ora ad emigrare nella penisola e all'estero… essendo stati sempre assai attaccati alla loro terra ed influendo su questa loro atavica tendenza forse anche la malaria distruggitrice di globuli rossi, ma anche di energie necessarie per la ricerca dello spazio vitale… Le femmine sarde, invece, fino a poco tempo fa evadevano dal piccolo orizzonte del loro paese, impiegandosi però non come operaie, ma come domestiche, cosicché prevalevano i maschi nella popolazione…» (Aa. Vv. – La società in Sardegna nei secoli – Torino 1967).

La tesi dello «spazio vitale» è infondata e provocatoria, parlando di una regione scarsamente popolata, con una densità di un quinto rispetto alla Sicilia, regione a sua volta non densamente popolata. Al contrario, proprio per la scarsità della popolazione, il fascismo effettuò il trapianto nell'Isola di diverse colonie continentali. Tutte le invasioni che si sono succedute per secoli muovevano dalla ricerca di «uno spazio vitale» non occupato dai Sardi o costringendo gli stessi a contrarsi, per fare posto ai militari, preti, finanzieri e gentaglia di ogni risma che possedeva sovrabbondanza di globuli rossi e molto spirito d'avventura.
Le donne sarde, al contrario dei loro uomini, nonostante la malaria, - sostiene questa tesi crepuscolare - sono ricche di globuli rossi ed evadono - moderne madames bovary - dalla noia della monotonia del provincialismo andandosene in Continente, «non a fare le operaie», ma le «serve» presso famiglie borghesi.
Le conclusioni del citato studioso di emigrazione sono che «il fenomeno attuale dell'emigrazione dei Sardi, se continuasse la richiesta di lavoratori ben retribuiti, se da un lato può preoccupare gli organismi politici per i loro particolari intendimenti (sic!), deve essere in realtà potenziato e favorito, rappresentando un'esplosione di nuove energie che tendono a sottrarre l'individuo uscito dall'analfabetismo all'ambiente familiare inerte, ancora patriarcale e ad una società con una economia agricola povera e pastorale arcaica, sotto la sferza di annate siccitose…» (Aa. Vv. – La società in Sardegna nei secoli – Torino 1967).

Non si tratta, come parrebbe, dei vaneggiamenti di un mentecatto, ma di opinioni diffuse in un testo che raccoglie «il meglio» della storiografia ufficiale, usato in vari corsi universitari, che dà un quadro chiarissimo del qualunquismo e del conformismo in cui si trova infognata la cultura ufficiale. Risalendo col giochetto delle cause ed effetti, si arriva alle «annate siccitose», causa prima della emigrazione. Che però sono un fenomeno atmosferico positivo perché consentono l'esplosione di energie nuove, ricche di avventurosi globuli rossi, che finalmente trovano il numero e la forza per sottrarsi a un «ambiente familiare inerte», di tipo «patriarcale » (e quindi sessuofobico e repressivo), a economia agricola e pastorale - figuriamoci, che fame! - per assurgere ad alti livelli culturali, economici e civili, andando nelle società industriali (che per il nostro, in contrapposizione, devono essere, matriarcali e sessuolibertarie) a occupare «posti ben retribuiti».
Che cosa aspetta, questo signore, ad emigrare per farsi crescere il quoziente intellettuale?
Il fatto è che in poco più di 20 anni la Sardegna ha visto emigrare oltre 500.000 figli. E le cause di questo esodo coatto vanno ricercate nella natura e nella dinamica di sviluppo del capitalismo. Dopo la seconda carneficina mondiale e i relativi sconvolgimenti che vedono ancor più immiserite le masse lavoratrici, il sistema capitalista si ristruttura in termini tecnologicamente più avanzati. Si riproduce quindi in forme più acute lo squilibrio tra aree industriali e aree agricole. Il capitalismo ha bisogno cioè per il suo sviluppo di paesi sottosviluppati, di aree depresse. La Sardegna è una di queste aree. Il capitalismo ne mette in crisi l'economia tradizionale agro-pastorale, vi alimenta la disoccupazione e vi incrementa le nascite, quindi vi attinge a basso costo la manodopera di cui ha bisogno per lo sviluppo delle industrie. I milioni di schiavi deportati e immessi nella produzione industriale europea (Germania, Svizzera, Francia, Belgio, Olanda e Nord-Italia) provengono tutti da paesi «sottosviluppati» come la Sardegna: sono Spagnoli, Turchi, Greci, Africani, Arabi, Italiani del Meridione. Tutta gente che di punto in bianco - secondo la storiografia ufficiale - si è ritrovata in corpo una grande quantità di globuli rossi insieme all'irrefrenabile prurito di cercarsi uno spazio vitale.

4 - Fra i primati della colonizzazione che caratterizzano e pregiudicano l'Isola è da registrare quella delle inchieste sulla situazione economico-sociale (sottintesa «arretrata e precaria») e sulla criminalità (sottintesa «grave diffusa»).
Alle numerose inchieste parlamentari, presentate come panacee, istituzionalizzate con apposite leggi, si aggiungono e si intrecciano in un unico disegno mistificatorio una miriade di altre inchieste, indagini e studi, più o meno ufficiali, finanziati però tutti e strumentalizzati ai fini del potere economico, politico e repressivo.
Dietro la maschera del «conoscere per provvedere» o dell'interesse scientifico o sociale o semplicemente umanitario, parlamentari, e antropologi, sociologi ed esploratori, missionari e letterati che vengono a visitare e a sottoporre a inchiesta i popoli «arretrati», in effetti non fanno che adempiere alle funzioni di «battistrada» del colonialismo.
Il fatto che nell'ultima commissione di inchiesta parlamentare della serie sulla criminalità in Sardegna (1969-72) un comunista occupasse il posto di vice presidente, non modifica nella sostanza il tipo di utilizzazione che la classe al potere fa dei risultati di queste indagini. Il comunista vice presidente, per tanto, potrà anche utilizzare i risultati della inchiesta (oltre che in speculazioni editoriali, finché i «banditi sardi» saranno un prodotto consumistico) per chiedere al governo le cosiddette «riforme democratiche»; in concreto egli si è prestato, in buona o in malafede, al gioco del sistema, che è quello di acquisire dati sulla realtà, non per liberare il popolo dallo sfruttamento, ma per sfruttarlo meglio.
Un antesignano illustre di questi studiosi prezzolati, venuti di moda nel secolo scorso insieme alla passione per la misurazione dei crani sottosviluppati, è il gesuita Francesco Gemelli, il quale nel 1776 partorisce una ponderosa inchiesta sulla situazione dell'agricoltura nell'Isola, tracciandone le linee di sviluppo. L'opera, che è un polpettone di nessuna attualità e per ciò lussuosamente ristampato a spese della Regione, si intitola pretenziosamente «Rifiorimento della Sardegna proposto nel miglioramento di sua agricoltura».
L'interesse che muove il gesuita Gemelli, cortigiano dei Sabaudi, non è il benessere dei Sardi ma il profitto del Monarca, il quale, utilizzando in modo più razionale le risorse del feudo isolano guadagnerà di più e pagherà meglio i servizi dei lacché.
Il gesuita Gemelli, rivolgendosi al «leggitor cortese» si premura di avvertirlo che non sta ciurlando per il manico: «Quest'opera è stata scritta interamente in Sardegna, e a pro della Sardegna primariamente indirizzata». Poi, nella stessa introduzione, parlando dei difetti e delle loro cause è velocissimo nel ritrovarle: tutta colpa dell'uso comune che i Sardi fanno della loro terra. «Combattuta la comunanza della terra - egli sostiene - rea sorgente di infiniti disordini», l'agricoltura rifiorirà. Vedremo come rifiorirà, con quali violenze e con quanto sangue, quando con gli editti delle Chiudende verrà creata la proprietà «perfetta» borghese, rapinando la terra ai contadini e ai pastori.
Una riprova della natura coloniale di queste inchieste sulla miseria, si ha nel fatto che dopo secoli e dopo tante inchieste le vecchie piaghe sono ancora aperte. Tanto che si ritiene necessaria sempre una ulteriore commissione che riesamini le piaghe con maggiore attenzione. E' evidente che le «piaghe aperte» sono indispensabili a quel mostruoso parassita ematofago che è il capitalismo.
La prima proposta di una inchiesta parlamentare sulla Sardegna è del 1852 e viene fatta da Lorenzo Valerio. La seconda, del 1862, è fatta da Aurelio Saffi. La terza, del 1867, da Giorgio Asproni. Le proposte vengono respinte dal governo perché formulate con intendimenti denigratori nei confronti del potere centrale, accusato di amministrare male la regione «sorella d'oltremare».
Nel 1868 viene finalmente accolta la proposta del deputato Luigi Serra e viene varata la commissione d'inchiesta sulla situazione dell'Isola, di cui fanno parte alcuni «ras» della borghesia parlamentare e finanziaria: Depretis, Ferracciù, Mategazza, Sella. La commissione non combinò nulla e non presentò mai una relazione: in compenso è rimasta famosa per la strage di porcetti e agnelli fatta durante la sua permanenza nell'Isola.
Dal canto suo, Quintino Sella, che aveva interessi minerari, redasse un documento sulle industrie estrattive, fornendo alle Società sfruttatrici italiane e straniere quei suggerimenti utili per ridurre i lavoratori delle miniere a quei livelli bestiali riscontrabili alla fine del 1800, e che esploderanno in rivolte e scioperi nei primi anni del 1900 (e saranno oggetto di nuove inchieste).
All'inchiesta Sella segue nel 1877 l'inchiesta Salaris sulle condizioni dell'agricoltura. Il Salaris, avvocato che appartiene alla borghesia compradora, scopre finalmente con l'inchiesta il quadro di miseria che ha sempre avuto davanti agli occhi. I braccianti agricoli - scriverà - «per la maggior parte dell'anno (ricevono) un salario di 75 centesimi o di una lira al giorno». E riconosce che «con una famiglia da vestire, una famiglia da nutrire, è poca cosa davvero!»; quindi si commuove: «Ed è orribile il pensiero, che neppure questo poco è certo, e che vi sono dei giorni nei quali anche questo poco manca affatto… ed è costretto a vagare di campo in campo in traccia di cardi selvatici o di altre erbe per sfamare la sua famiglia». Una situazione che è rimasta tale e quale fino a oggi in molti paesi dell'interno, come a Gonnoscodina dove - come si è visto - una intera classe di bambini era affetta da tubercolosi per denutrizione.
Contemporaneamente al Salaris faceva un'inchiesta sulle condizioni dell'Isola il francese Gaston Vuillier. Nella sua opera «Le isole dimenticate» (parzialmente pubblicata a Cagliari nel 1930) si legge:
«…i contadini si nutrono, Dio sa come, d'un pane di ghiande, d'orzo e d'argilla, d'un po' di formaggio… e qualche volta di fave bollite. Non ci si stupisca dunque più delle grassazioni nei mesi di miseria, nei giorni duri dell'inverno, allorché l'uomo della Barbagia e del Nuorese muore di fame e di freddo nel suo tugurio».
Con decreto ministeriale del 12.12.1894 il Crispi, allora presidente del consiglio e ministro dell'interno, affida all'on. Pais una inchiesta «sulle condizioni economiche e della pubblica sicurezza» nell'Isola. E' in pratica una inchiesta sul banditismo, che preluderà alla spedizione militare di fine secolo e alla campagna antibarbaricina che uno dei protagonisti, l'ufficiale Bechi, definirà «caccia grossa».
Si cominciano a sistematizzare i primati delinquenziali, dopo quelli della miseria. F.S. Nitti - indipendentemente dalla inchiesta parlamentare affidata al Pais - ha già tracciato un quadro della delinquenza negli «Scritti» (più tardi raccolti e pubblicati da Laterza).
«Dai dati fornitici da F.S. Nitti sappiamo che nel biennio 1897-98 la Sardegna, oltre ad avere il primato dei furti, era al secondo posto per gli omicidi (26,22 ogni centomila abitanti), venendo subito dopo la Sicilia (27,60) ed a grandissima distanza dall'ultima… la Limbardia (2,92)» (Aa. Vv. – La società in Sardegna nei secoli – Torino 1967).

L'inchiesta Pais metteva «in evidenza l'impressionante ripresa degli omicidi, dopo un periodo di relativa attenuazione 225 nel 1880 - 148 nel 1887 - 211 nel 1894), ne individuava le cause nello spopolamento (sic!), nella sfiducia nella giustizia (come dire: il nemico me lo uccido io perché non me lo uccide la giustizia! - n.d.a.), nell'incuria delle autorità, nella incapacità dei funzionari mandati spesso nell'Isola per punizione o quando erano ancora privi di esperienza, nei soprusi esercitati dalle consorterie… nella simpatia popolare verso i banditi e, soprattutto, nella profonda depressione economica…» (Aa. Vv. – La società in Sardegna nei secoli – Torino 1967).

Si può riconoscere all'Autore almeno le attenuanti per avere scritto che i Sardi diventano assassini per protestare contro le malefatte dei colonizzatori!
I primi anni del nostro secolo si aprono con l'inchiesta Parpaglia, varata dal parlamento con legge n. 393 del 19.7.1906 e conclusa nel 1911. La commissione era composta oltre che dal senatore liberale Parpaglia, dal Conte Biscaretti di Ruffia, dal dott. Crespi, dal duca Caraffa d'Andria e altri che non vale la pena nominare. Stavolta l'oggetto della inquisizione sono le miniere (parlerò diffusamente di questa inchiesta e della situazione dei lavoratori delle industrie estrattive in un altro capitolo).
Altra commissione parlamentare d'inchiesta viene varata nello stesso anno per «far luce» sui tumulti popolari scoppiati a Cagliari nel maggio.
Il «Paese», giornale radicale, nel numero del 7 luglio 1906 rivolge pesanti accuse al governo:

«Di fronte ai fatti svoltisi a Cagliari e in altre parti dell'Isola, le classi dirigenti avrebbero dovuto imporsi l'esame sereno delle condizioni economiche e psicologiche del nostro popolo, e, accertata la profonda miseria fisica e morale di esso, esperire i provvedimenti atti a diminuirla prima e cancellarla poi. Invece l'ignoranza e la poltroneria della nostra borghesia, più che il malanno, non hanno voluto né saputo vedere più in là dei soliti mezzi di repressione poliziesca».

Anziché rispondere ai tumulti popolari con «i provvedimenti» richiesti dai riformisti radicali, il governo risponde con l'inchiesta parlamentare. Il «Paese» reagisce ancora:

«E' con dolore e non senza stupore, che abbiamo letto le dichiarazioni del governo. Ancora delle inchieste, ancora una commissione, ancora una relazione! Viaggi e accoglienza a personaggi molto in vista; discorsi, brindisi, banchetti e… indennità di viaggi. Non ce n'è abbastanza delle inchieste sulla Sardegna? Ce ne è stata una che abbia portato un effetto utile? Il ministero Giolitti potrà diventare il matusalemme dei gabinetti, l'inchiesta non sarà ancora finita. Non temete: vi saranno coloro che ambiranno a farla: l'inchiesta si farà: un tipografo farà un buon affare quando ne stamperà la relazione. Potevamo aspettarci di meglio dalla presenza di un sardo al governo. (Il sardo al governo cui accenna il giornale radicale è Cocco Ortu, ministro di grazia e giustizia).

Per altro verso, le inchieste hanno alimentato le scienze statistiche, e queste a loro volta hanno incrementato la «congressualità» Una storia della «congressualità» è ancora tutta da scrivere, e al contrario di ciò che potrebbero fare supporre i temi che vi vengono trattati (per lo più tragici e funesti: analfabetismo, inquinamento, criminalità, emigrazione, conflitto fra generazioni e alienazioni di ogni genere) ne verrebbe fuori una storia tutta da ridere. Basti leggere gli «Atti del Congresso Internazionale di Studi sul problema delle aree arretrate», tenutosi a Milano nel 1954, in particolare la relazione sulla Sardegna di G. Brotzu. Da questo congresso con la C. maiuscola, partiranno le decine di migliaia di convegni, seminari, tavole rotonde, stages, dibattiti, eccetera sulla situazione e sui problemi dell'Isola, di cui un cospicuo numero va attribuito all'OCSE (OECE). L'équipe di operatori dell'OCSE (OECE) portava avanti, come battistrada del colonialismo, vere e proprie inchieste di mercato finanziate coi soldi dello stato, della regione e dei padroni yankee, dietro la maschera culturale e umanitaria.

5 - Alla fine del 1968 la stampa dà notizia di una proposta di legge presentata alla Camera da un gruppo di deputati democristiani, per la istituzione di una commissione parlamentare di inchiesta «sulla situazione economica e sociale della Sardegna e soprattutto delle zone a prevalente economia agro-pastorale e sui fenomeni di criminalità ad essa in qualche modo connessi».
Circa un anno dopo, il 27 ottobre 1969, viene istituita la «commissione parlamentare di inchiesta sui fenomeni di criminalità in Sardegna», articolata in quattro gruppi di lavoro o sottocommissioni.
Il primo gruppo - che si occupa di «prevenzione e repressione» - sbarca ufficialmente in Sardegna il 20 marzo 1970, dopo la lunga fase degli «esami preliminari» - probabilmente l'esame dei dati ISTAT e OCSE (già OECE) e la lettura di una antologia di saggi sociocriminologi dal Niceforo al Carta Raspi.
L'inchiesta sugli apparati «preventivi» dev'essere stata velocissima: soltanto il tempo sufficiente a prendere atto che non esiste nulla neppure a livello dopolavoristico, che abbia funzione di prevenire la criminalità - perché tutto, dalle istituzioni politiche a quelle amministrative, dalle scolastiche alle ricreative, dalle economiche alle assistenziali, tutto è uno stimolo e un incentivo alla criminalità, quando alla base di tutto c'è la sopraffazione e lo sfruttamento.
Sugli apparati «repressivi» la sottocommissione specifica avrebbe avuto di che sciacquarsi la bocca se il suo compito fosse stato quello di rilevare «i fenomeni di criminalità connessi alla colonizzazione» e non di batter la solita solfa del pastore barbaricino.

Sull'avvenimento è stato scritto: «…si colgono nell'opinione pubblica almeno tre diversi atteggiamenti: il primo, caratteristico della stampa cosiddetta indipendente, che plaude sempre alle iniziative governative, dandone per scontato il successo; il secondo, proprio di chi apprezzando le buone intenzioni non ignora i limiti del sistema, si preoccupa di indirizzare gli inquirenti mettendo il dito sulle piaghe più purulente e per questo nascoste; il terzo atteggiamento è quello della gente sarda, la quale o non sa neppure chi siano e che cosa vogliano i signori della Commissione parlamentare o, se lo sa, non gliene importa nulla, perché ha perso da tempo ogni fiducia negli organi che amministrano lo Stato, compresi i partiti politici» (L. Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna - Libreria Feltrinelli Milano 1970).
«Le commissioni d'inchiesta sulla criminalità - scrive Mancosu - se si crede che possano contribuire ad estirparla non possono fermarsi a esaminare il banditismo barbaricino (che obiettivamente è un fenomeno di scarsa rilevanza in rapporto ai danni sociali che può produrre, ed è sufficientemente noto in ogni suo aspetto), ma dovrebbero esaminare gli altri ambienti, altre forme criminogene, meno note e certamente più pericolose per lo sviluppo democratico e civile della nazione. In parole povere: il parlamento avrebbe fatto meglio a nominare una commissione per appurare fino a che punto siano legittimi, non diciamo democratici, i metodi che il potere usa in Sardegna» (L. Mancosu - Stato di polizia, giustizia e repressione in Sardegna - Libreria Feltrinelli Milano 1970).

Un saluto particolare agli onorevoli commissari appena sbarcati rivolge la rivista Sassari Sera il 15 aprile, premurandosi di indicare quella che ritiene sia la piaga più infetta da curare e, abbastanza scettica sulle capacità chirurgiche dell'on. Medici e colleghi, fa qualcosa di più: prende loro la mano e infila tutte e cinque le dita nella piaga: è la stessa polizia la principale causa dei fenomeni di criminalità registrati negli anni caldi 1967-69. La rivista citata apre con un «Vade-mecum per l'inchiesta sul banditismo in Sardegna»che intitola senza mezzi termini «La polizia è stata la maggiore responsabile dei crimini commessi dal nuovo corso del banditismo». L'accusa, gravissima, viene ripetuta ed espressa in termini chiari e con fatti circostanziati in un altro servizio sotto il titolo «La polizia organizza sequestri e arma i delinquenti» (In «Sassari Sera» del 15 dicembre 1968).
Nello stesso numero la rivista sassarese pubblica una «Lettera aperta al senatore Medici» fornendogli una trama di episodi e personaggi spesso inediti del triennio caldo della delinquenza in Sardegna. I personaggi sono i «giovani leoni» della Criminalpol e gli episodi sono le loro incredibili furfanterie.
Pare che il senatore Medici non abbia letto la «Lettera aperta», perché la rivista «Sassari Sera» viene tout court messa fuori gioco dal sistema con il marchio di «scandalistica»: il vecchio trucco del padronato paesano di chiamare pazzi quei pochi che hanno il coraggio di gridare «al ladro». Se il senatore l'avesse letta, se ne troverebbe traccia nella relazione conclusiva redatta alla fine dei ponderosi studi. Non se ne scorge traccia neppure nella relazione Pirastu, del primo gruppo, contenente l'esame della genesi e delle caratteristiche della criminalità in Sardegna, che è - come scrive lo stesso Pirastu - «il risultato delle indagini, interrogatori e udienze conoscitive promosse dal primo gruppo e dalla commissione nel suo complesso nel corso di due anni, delle ricerche dirette, di quelle compiute dai collaboratori e dall'organo tecnico investigativo (chi è? la polizia? - n.d.a.) e dei saggi degli studiosi che si sono occupati dei temi specifici…».
Che l'inchiesta fosse ammaestrata, che non avrebbe potuto contenere opinioni in contrasto con quelle ufficiali (di maggioranza e di minoranza: quelle di maggioranza, governative e proprie della DC avallate da quelle del PCI in un'unica relazione; e quelle di minoranza, espresse dai fascisti e dai liberali, nella relazione Pazzaglia) era cosa ovvia e scontata: le voci non canalizzate e non canalizzabili, le voci della opposizione popolare, le voci dei pastori e dei contadini sardi non sono state neppure sentite.
Se la commissione presiedute dal senatore Medici, coi suoi quattro gruppi di trenta o quaranta onorevoli, si fosse dedicata, come le precedenti commissioni, alla ricerca di cibi genuini, è probabile che nonostante gli inquinamenti delle petrolchimiche sarebbe pervenuta a qualche risultato concreto: in particolare il ristabilimento psico-fisico degli onorevoli commissari esauriti dal surmenage. Avrebbe (ma c'è chi non usa il condizionale) rimediato del buon pecorino, dell'ottimo prosciutto di cinghiale, salsicce caserecce, deliziose bottarghe di muggine e qualcuno di quegli ormai rari autentici papassinos confezionati a Orune secondo la tradizionale ricetta de sos mortos, il tutto innaffiato di generosa vernaccia, garantito toccasana per impotenze di ogni genere.
Si potrebbe concludere che è nella logica del sistema che la commissione non avrebbe puntato il bisturi (molto improbabile anche l'esistenza di un bisturi, in quelle mani!) per incidere e asportare il bubbone della ingiustizia, per il semplice fatto che l'ingiustizia è «il sacro male» su cui campa e prospera la consorteria al potere, di cui fa parte, ed è compartecipe negli utili, la stessa commissione.
Sarebbe però una conclusione incompleta. per quel che riguarda gli scopi che si prefiggeva la classe al potere, la commissione ha adempiuto ai suoi doveri: infatti, oltre gli stipendi e le indennità, ha avuto il riconoscimento di benemerenza del governo centrale, di quello regionale, della chiesa e dei petrolchimici attraverso i loro quotidiani. E quel che più conta, ha gettato le basi socio-economiche «scientifiche» per varare la legge dei mille miliardi: una nuova grossa speculazione sopra un'altra «rinascita» della Sardegna, che vedrà una nuova pioggia di miliardi (estorti al contribuente) cadere sugli imprenditori che saranno chiamati a creare le industrie di base: quelle che dovrebbero salvare agricoltura e pastorizia, dopo la pioggia caduta sui petrolchimici, anche essi chiamati a salvare l'economia dell'Isola. E tutti i lacché, borghesia compradora e classe politica di ogni collocazione, come è sempre accaduto, riceveranno la loro personale «pioggerella».
Il gioco è abile, ma come tutte le prestidigitazioni del sistema nasconde il trucco. La relazione della commissione parlamentare Medici-Pirastu muove da un mucchio di assunti che sembrerebbero addirittura rivoluzionari (per dare un tono di verità c'è un comunista che dice «è vero!» ed un fascista che obietta «è falso»); come quando si ammette che il rapporto tra i Sardi e il governo italiano è sostanzialmente coloniale. Testualmente:

«Storicamente (il banditismo) nasce dal conflitto tra una società pastorale, che vive secondo le regole tradizionali, ed uno stato di conquistatori che vuole imporre le sue leggi. L'ostilità del mondo contadino ed in particolare quello della società pastorale alle leggi dello Stato unitario sono facilmente comprensibili. Queste leggi, orientate a favorire lo sviluppo della borghesia imprenditoriale artefice del processo di unificazione nazionale, affermavano la proprietà privata della terra e per ciò entravano in conflitto con una società che per la sua arretratezza non avvertiva ancora l'esigenza di superare le forme tradizionali di godimento e di coltura dei terreni. Così la società pastorale doveva subire comandi, ordinanze, disposizioni che non comprendeva, perché nate fuori del suo mondo» (Relazione della commissione d'inchiesta Medici in «La Nuova Sardegna» del 31 ottobre 1972).

Si incomincia con l'affermare che «il banditismo» è un fenomeno che esprime lo scontro tra un popolo invaso e i suoi invasori (e allora, perché chiamarlo «banditismo» e non «lotta popolare di liberazione»?); quindi si passa al confronto tra le due civiltà: quella della borghesia (fautrice dell'unità nazionale, che è «progredita» perché vuole la proprietà delle terre e perché tale proprietà sia «perfetta» le rapina al popolo che le usa «comunitariamente») e quella pastorale che non capiva - gli onorevoli dicono «non avvertiva ancora» - l'esigenza di superare «le forme tradizionali di godimento e di coltura dei terreni», perché arretrati come erano «soffrivano» l'uso comunitario del patrimonio naturale. Da qui, il banditismo: tutta colpa della incomprensione dei Sardi che non ammettevano di essere arretrati cultori di una organizzazione economica e sociale comunistica pre-marxista e non si lasciavano convincere alle tesi borghesi-marxiste (culminate nella fusione concordataria Medici-Pirastu) della necessità di creare la «proprietà perfetta» della terra che avrebbe fatto rifiorire l'agricoltura.
Il salto a piè pari dalla analisi marxista sui rapporti coloniali tra la borghesia italiana e la comunità pastorale, alle conclusioni clerico-fasciste sul dovere per i Sardi di riconoscere la propria arretratezza e di accettare come buona la politica di rapina del colonizzatore, è un salto funambolesco sotto il profilo della logica. Sotto il profilo dell'etica è osceno.
Non si è nemmeno cercato di dire che lo Stato italiano attuale non è più quello del passato che il potere non è più nelle mani della classe sfruttatrice che lo aveva in passato. Non lo dice perché sarebbe stata una menzogna troppo palese: un lupo che cresce non può diventare niente altro che un grosso lupo.
E' certo che la commissione, nello studio dei rapporti tra cultura e criminalità, ha consultato il marxista G. Pinna, il quale, giusto in tempo, aveva preparato un saggio di 500 pagine.

«Questo libro - scrive l'autore puerpero - esce quando inizia la sua attività la Commissione parlamentare d'inchiesta sul banditismo in Sardegna, e vuole essere un modesto contributo allo studio delle cause e delle concause (sic!) del fenomeno e alla proposizione (sic!) dei rimedi di fondo e contingenti (sic!) per la soluzione del complesso e angoscioso problema (l'insonnia di chi ha conti in banca - n.d.a.), e intanto, per la progressiva riduzione della sua portata e gravità».

Una «modesta» ambizione, quella del Pinna, che si propone di dare «un contributo» alla soluzione dell'angoscioso problema del banditismo. Tra i suggerimenti, il risolutore lo si trova a pag. 94 e seguenti.

    «Poiché non si può pretendere che i problemi della prevenzione generale siano risolti in un anno o in un lustro, è necessario intanto - e specialmente per rendere più agevole e intensa l'attività delle squadriglie - moltiplicare le stazioni di campagna e i posti fissi; Anche oggi vengono utilizzati i cascinali, le cantoniere, i locali già adibiti a caseifici; ma sono ben poco nelle solitudini desertiche che separano paese da paese, e rispondono scarsamente alla funzione cui sono per necessità destinati. Bisogna costruire parecchie di codeste stazioni, scegliendo le località più adatte e opportune in rapporto ai punti di passaggio obbligato da una zona all'altra (ben più numerosi di quelli indicati dal Lei Spano nel suo ottimo libro La questione sarda), ai punti nevralgici per la vigilanza, e in rapporto altresì alle possibilità di collegamento reciproco; ma bisogna costruirle in modo che offrano un minimo di comodità ai carabinieri che dovranno farvi un soggiorno più o meno lungo e comunque non lieto, e siano fornite - come dovrebbero esserlo tutte le caserme e tutti i posti fissi - di apparecchi radio riceventi e trasmittenti» (G. Pinna - La criminalità in Sardegna - Cagliari 1970).

L'immagine delle campagne fiorite di confortevoli caserme piene di variopinti gendarmi - se non «lieti» almeno «comodi» - è per il Pinna qualcosa di più di una romantica efficienza repressiva: ogni caserma diventerebbe un «centro di promozione sociale», si «sviluppo edilizio» e di «incremento demografico». Si desume dal brano che segue.

«Chissà che domani attorno alla stazione dei carabinieri non sorga il nucleo di un abitato, il villaggio che rompa la solitudine e la tristezza della landa, il villaggio con la strada che lo unisce al vasto mondo, con la scuola che insegna l'alfabeto e la gioia di una nuova vita!» (G. Pinna - La criminalità in Sardegna - Cagliari 1970).

Sulla base di simili analisi e suggerimenti, gli onorevoli commissari del parlamento hanno affrontato la questione sarda. Lo dicono essi stessi, senza che nessuno abbia chiesto loro «pezze giustificative» (su quelle relative alle indennità percepite, silenzio!): «Pare necessario infine, segnalare a coloro che intendano approfondire i problemi affrontati nella relazione i saggi e le ricerche storiche risultate (sic!) particolarmente utili all'indagine», mettendo tra gli autori privilegiati il nostro teorizzatore della semina intensiva delle nostre campagne a stazioni di carabinieri (I. Pirastu - Il banditismo in sardegna - E. Riuniti Roma 1973).
Fra tanti primati tristi, finalmente uno giulivo: meriterebbe un Oscar, consegnato di persona dal senatore Medici.

6 - Piccioccheddu de crobi (testualmente «ragazzo da corbula», facchino) nella parlata del Campidano indica un ragazzo poco di buono, un teppista, mentre in origine indicava i fanciulli che sbrigavano il lavoro di facchinaggio nel porto, nella stazione e nei mercati di città, con la corbula (crobi) sulla testa, ed erano tenuti in dispregio dai ceti borghesi.
Picciocca de mena (tesualmente «ragazza di miniera») nella parlata delle zone agricole adiacenti a quelle minerarie indicava e indica una ragazza di facili costumi. Le ragazzine che ancora nei primi decenni di questo secolo lavoravano come schiave nelle industrie estrattive erano guardate come pecore nere nello stesso mondo contadino da cui provenivano.
In questo stesso mondo, però, non era e non è giustificato immorale il lavoro minorile, se determinato da necessità economica: «Non descit a su poburu andai a iscola, ddi descit a traballai» (non si addice al povero andare a scuola, gli si addice il lavoro). Mandare a servire bambine di 8-10 anni, mandarle a spigolare grano, a diradare bietole, a pascolare pecore e maiali, caricarle di gravosi fardelli erano e sono considerate attività normali.
Il lavoro minorile è una vecchia piaga sociale, diffusa in Sardegna più che nelle altre regioni data la sua situazione di colonia. Sulle dimensioni del fenomeno e sulla sua incidenza nella frequenza e nel profitto scolastici introdurrò più avanti i dati statistici.
Il lavoro minorile - tipico della miseria - cerca giustificazioni pseudo-morali e pseudo-pedagogiche in una mitica «santità» del lavoro propalata nei secoli dai padroni a esclusivo uso e consumo del popolo. E così la povera gente è portata a idealizzare il proprio miserevole stato di bestia da soma. Si dice che il lavoro «fa bene allo sviluppo del fanciullo e ne tempra il carattere», che «nobilita»; e se non basta si tira fuori la maledizione biblica «La terra sarà maledetta per cagion tua; tu mangerai del frutto di essa con affanno, tutti i giorni della tua vita. Ed ella ti produrrà spine e triboli… Tu mangerai il pane col sudore del tuo volto, finché tu ritorni in terra» (Genesi - cap. III - 17.18.19.). Si ammonisce infine che «l'ozio è il padre di ogni vizio»; ma non si specifica che c'è lavoro e lavoro: quello cui viene assoggettato l'uomo, e il fanciullo in particolare, è sfruttamento, non libera estrinsecazione di sé.
I venditori di fumo del sistema, per dimostrare una volontà democratica del potere politico, cianciano di progresso raggiunto anche nelle più arretrate comunità sarde: la motorizzazione, le trasformazioni fondiarie, l'impianto di colture nuove, gli insediamenti petrolchimici, la diffusione di beni di consumi, quali motorette, radioline e stoviglie di plastica. Tutto questo «progresso» non ha eliminato la piaga del lavoro minorile. Al contrario, a causa dell'ondata di forzata emigrazione che ha spopolato i paesi a economia agro-pastorale e a causa dell'aumentato squilibrio tra i bassi redditi del lavoro e le alte puttanesche offerte del mercato dei consumi, la presenza del bracciantato minorile è aumentata.

«Egregio signor maestro, riguardo allo scolaro Francesco per le assenze che ha attribuito è stato il padre che lo ha mandato a zappare bietole. Non fa sempre, ma qualche volta, perché non possiamo tirare avanti la vita con questo tempo, siamo 11 bocche da mangiare, il mio lavoro non è sufficiente, così qualche volta lo mando a fare qualche giornata facendo tempo buono. Mi scusi tanto, lo saluto distintamente…».
«…mio marito per la presente non lavora con nessuno, che soffre il reumatismo e quando lavora, lavora con i proprietari dell'agricoltura, oggi con l'uno e domani con l'altro, e io sono una famiglia povera con 5 figli e due noi che fanno 7 di famiglia…».

Lettere di giustificazione come queste, compilate faticosamente su un ritaglio di carta, compaiono di frequente sopra il tavolo del maestro nei nostri paesi. Rappresentano l'aspetto più autentico del ventilato «rapporto scuola-famiglia», e rivelano ogni giorno il dramma sofferto da migliaia e migliaia di bambini assoggettati prematuramente al lavoro. In queste lettere, in parole semplici ed esaurienti, è documentato lo stato di bisogno che è alle radici del lavoro minorile e delle assenze frequenti di numerosi fanciulli dalla «scuola di tutti».
Ho un incancellabile ricordo del mio primo anno di insegnamento a Siris, un villaggio di contadini e di pastori alle falde del monte Arci. A sette, otto anni quei miei scolari si arrampicavano sui monti per fare legna, ogni mattina, prima di venire a scuola. Ridiscendevano d'inverno con fasci più grandi di loro, coi piedi scalzi arrossati dalla brina, lacerati dai rovi e dai sassi. Gettavano il pesante fardello nel cortile, correvano a prendere la fetta di pane e la borsa pronti sul tavolo di cucina, correvano per non fare tardi a scuola. L'avevo sgridato uno di loro, una volta, perché aveva fatto tardi. Se ne stava muto davanti a me, a testa china, con gli occhi pieni di lacrime, senza sapersi difendere, prendendosi quei rimproveri. Fino a che un compagno non si era levato in piedi a difenderlo, indignato, perché non era colpa sua se aveva fatto tardi, se era dovuto andare a far legna al monte… Ho capito da allora che bisogna chiedergli scusa, a questi bambini, quando arrivano in ritardo, quando non vengono a scuola (U. Dessy - Il testimone - Fossataro Cagliari 1966).
In quale misura e in quali modi il minore in età scolare è soggetto ad attività lavorative? Rimando il lettore alle testimonianze scritte raccolte da scolari di diversi centri dell'Isola e pubblicate in diverse inchieste (Inchieste dell'autore sul lavoro minorile in «Sardegna Oggi» nn. 67-68-69 del 1965; «La Nuova Sardegna» del 5-6-7 dicembre 1969; «Umanità Nuova» nn. 43 - 44 del 1969 e nn. 1-2-3 dem 1970; «Mondo Giovane» nn. 11-12 del 1970).
In quale misura il lavoro minorile incide sulla frequenza e sul profitto scolastici?
Premetto che il «menefreghismo» e la «irresponsabilità» attribuiti ai genitori da certe autorità scolastiche e poliziesche non hanno alcun fondamento, se non quello di eludere la sostanza del problema nascondendo le criminose responsabilità che gravano sulla classe dirigente. Sono sempre e soltanto i poveri che «evadono» dall'obbligo della frequenza scolastica.
Questi i dati sulla evasione dall'obbligo in Sardegna: Anno scolastico 1956-57, 1° e 2° ciclo, dai 6 agli 11 anni: in provincia di Nuoro, obbligati 35.478, frequentanti 31.627, inadempienti 3.851; in provincia di Sassari, obbligati 38.752, frequentanti 34.652, inadempienti 4.100; in provincia di Cagliari, obbligati 96.401, frequentanti 89.519, inadempienti 6.522.
E' da notare che in quel periodo sono da considerarsi inadempienti (per la mancanza del 3° ciclo della scuola dell'obbligo) quasi tutti i fanciulli dagli 11 ai 14 anni che avevano superato il secondo ciclo, cioè la quinta elementare: circa 50.00 da aggiungere ai 14.473 inadempienti dai 6 agli 11 anni.
I dati più recenti, relativi all'anno scolastico 1968-69, interessano tutti i bambini in età scolare dai 6 ai 14 anni, elementari più medie, e danno un quadro più chiaro della situazione.
In provincia di Cagliari, obbligati 92.495 - soltanto 39.511 frequentano regolarmente e concludono il corso di studi. In provincia di Sassari, obbligati 42.276 - soltanto 17.00 frequentano e concludono gli studi. In provincia di Nuoro, obbligati 31.856 - soltanto 13.815 frequentano e concludono gli studi.
Se ne ricava che su un totale di 166.627 bambini obbligati, soltanto 70.386 utilizzano la scuola di stato e ne traggono profitto (Dati pubblicati in «La Nuova Sardegna» e in «Mondo Giovane» già citati nella nota precedente).

Nei paesi agricoli, in particolare nel Campidano di Oristano, fra i lavori riservati al fanciullo è singolare quello detto «andai a isciuiai», cioè andare a fare lo spaventapasseri.
I bambini-spaventapasseri sono una triste realtà dei paesi sardi, sono un residuo barbarico che soltanto in una terra sfruttata e umiliata come la nostra poteva conservarsi. Eppure, tra tutti i loro «mestieri» , lo «spaventapasseri» è quello che i bambini preferiscono, perché vi si sentono più liberi, più responsabili (Inchiesta dell'autore in «Sardegna Oggi» dell'11.3.1965 riportata in «L'Unità» del 6 novembre 1966).
Quando il grano o il riso sono giunti a maturazione vengono assaliti dai passeri e da altri volatili. Il padronato, allora recluta bambini per difendere il raccolto. Le tecniche usate, assai rudimentali, variano da paese a paese. Gli attrezzi consistono normalmente in un grosso barattolo vuoto che il piccolo tiene appeso al collo con uno spago e che percuote incessantemente con un bastone o un sasso, spostandosi contemporaneamente intorno al campo. Altri più evoluti, usano bombole di gas vuote sistemate ai quattro angoli del campo, che percuotono in rapida successione con un sasso o con una verga di ferro.
Altri ancora usano un rudimentale fucile così fatto; un tubo di ferro del diametro di circa un pollice con una culatta non molto ampia alla base, bucherellata, dove si pone un pizzico di miscela esplosiva - zolfo e clorato di potassa - e una robusta bacchetta di ferro che si infila nella canna tenuta verticale e che si fa cadere sulla miscela per provocarne l'esplosione. Questo attrezzo, rumoroso e caro ai fanciulli, è causa di non pochi infortuni. I bambini descrivono vivacemente questa attività.

«Io vado a isciuiai il grano di ziu Antoni Peppi e prendo 500 lire. Vado di mattina presto perché gli uccelli sono pronti e si alzano presto. Bisogna battere nel botto (barattolo) e gridare forte, così scappano. Quando toccano le campane di mezzogiorno è ora di scappare dal lavoro perché gli uccelli sono saziati e a quell'ora si riposano dal caldo e io vado a casa. Io ritorno quando ritornano gli uccelli che hanno sciamigato (digerito). Quando comincia a fare buio gli uccelli si fanno stanchi e se ne vanno a dormire e allora torno anche io a casa, ceno e me ne vado a letto. Una volta mi sono bruciato la mano perché mi è preso fuoco al clorato, allora il fucile non lo uso più per isciuiai perché mio padre ha detto al padrone che non vuole».

Questa testimonianza è di R.Z. un bambino di 11 anni. Frequenta la scuola molto saltuariamente e si esprime correttamente soltanto in sardo. La testimonianza riportata è costata una mattina di duro lavoro scolastico per tradurre in italiano. E' da rilevare il rapporto affettivo che si viene a creare - pur nella differenza dei ruoli - tra il bambino e i passero che egli «deve» isciuiai: c'è come un rispetto, nel bambino, delle necessità e delle funzioni fisiologiche dell'antagonista, che si identificano con le proprie.
Il bambino sardo «spaventapasseri» ha commosso Gianni Rodari che gli ha dedicato una amara favola (G. Rodari - Favole al telefono - Einaudi 1962).

7 - In quanto isola, situata in mezzo al Mediterraneo e quindi lontana dal Continente,; in quanto regione scarsamente popolata e priva di rilevanti insediamenti produttivi; in quanto gruppo etnico culturalmente autonomo e quindi «resistente» alla colonizzazione e alla integrazione; la Sardegna si presta - oggi come ieri - a essere utilizzata dalla classe al potere come area di servizi di bassa forza. In tale utilizzazione, la Sardegna, nei confronti delle altre regioni, detiene certamente un non invidiabile primato.
La nostra Isola è stata ed è in pratica un serbatoio da cui i dominatori attingono manodopera a basso costo, ascari per le guerre, ascari per la polizia, serve per le famiglie borghesi; da cui si rapina tutto ciò che può essere rapinato del patrimonio naturale. Un serbatoio in cui vengono «versati» funzionari corrotti e beceri, oppositori politici e delinquenti comuni, comunità di colonizzatori, truppe speciali per la sperimentazione sul vivo dell'antiguerriglia, basi militari con armi nucleari, industrie sporche, porcopoli.

La storia della Chiesa di Roma in Sardegna si intreccia e si confonde con la storia stessa della colonizzazione. In particolare nella rapina della terra, il clero, organizzato in numerosi ordini e pie istituzioni (vere e proprie società per azioni) si è distinto per la sua voracità; e così nell'usura, la piaga che per secoli ha dissanguato contadini e pastori.
Fino ai primi di questo secolo, il credito o non esisteva o era riservato a una categoria privilegiata di speculatori. I contadini erano fra tutti i lavoratori quelli che soffrivano di più della situazione. Essi ricorrevano ai ricchi del paese, in particolare al clero, che dava prestiti con lo scopo dichiarato di «favorire l'aumento delle colture e quindi delle decime». Dal canto loro, le «opere pie» e gli «ordini» che praticavano l'usura preferivano i contratti con ipoteca. In questo modo, sfruttando il bisogno della povera gente, vescovi e parroci, gesuiti, domenicani, cappuccini, scolopi e salesiani si sono impadroniti della terra; e trafficando e commerciando hanno allargato a dismisura il loro dominio temporale (Per notizie sull'usura pratica dal clero in Sardegna si vedano: A. Niceforo - Opera citata; F. Pais - Opera citata; Aa. Vv. Profilo storico economico della Sardegna - Torino 1967; «Sardegna Oggi» n. 39 del 1964).
Ben poco invece la Chiesa ha potuto rapinare nell'Isola con i Tribunali dell'Inquisizione, importata dalla Spagna nel XVI secolo. Il Santo Tribunale venne presto spostato da Cagliari a Sassari e sistemato in un apposito castello di cui oggi non rimane traccia.

«Gli inquisitori inviati direttamente dal Supremo Consiglio dell'inquisizione di Spagna provvidero a nominare numerosi collaboratori (manutengoli, spie, ruffiani, sbirri e sicari - n.d.a.) detti familiari, estendendo ad essi i privilegi e i diritti previsti per i funzionari maggiori» (Aa. Vv. - La societa nei secoli - Torino 1965).

Tra questi privilegi, il più importante fu quello del «privilegio del foro», in pratica l'immunità penale per qualunque ribalderia commessa.
La gramigna inquisitoriale non si è potuta diffondere nelle Barbagie per la cultura comunista e per la tradizionale insofferenza di quelle popolazioni verso gli invasori. E' probabile invece che in una certa misura abbia attecchito nel Sassarese e nei Campidani, dove infatti esiste ancora vivo nella poetica popolare il ricordo di quell'oscuro esecrando periodo.
Allargherei di molto questo lavoro se anche per sommi capi dovessi fare una rassegna delle rapine del clero e dei rapporti criminosi intercorrenti tra clero, potere politico e amministrativo e associazioni a delinquere. Non è un caso che dopo ogni sequestro di persona, ritroviamo sempre qualche prete come emissario nei contatti tra banditi e familiari del sequestrato. I preti d'altro canto, si ritrovano ovunque ci sia da mungere: hanno sfruttato e sfruttano perfino la superstizione del latitante, che spera di salvarsi, con amuleti e benedizioni, dalle palle (non metaforiche) del carabiniere.

E' stato scritto in riferimento al famoso latitante Giovanni Lutzu: «Preti… lo benedicono e gli foderano le vesti e il petto di scongiuri, di amuleti e di reliquie, che valgono ad allontanare le palle dei carabinieri. E' celebre il parroco di Lodine… Da questo prete giovanissimo accorrevano i più terribili latitanti, sia per consulti e per esorcismi, sia per essere forniti di amuleti pagati a caro prezzo… con le decime del bottino» (G. Bechi - Caccia grossa – 1900).

8 - «Non è ignoto ad alcuno che la Sardegna è considerata come luogo di punizione per gli impiegati che altrove mostraronsi o meno diligenti o meno atti al disimpegno delle loro funzioni; o almeno è considerata come tappa sia per gli impiegati di prima nomina, sia per quelli che da un breve soggiorno nell'Isola diffamata traggono titolo di merito per accelerare la carriera» (F. Pais – Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna – Roma 1896).

L'autore citato si riferisce al periodo della dominazione italiana, ma già dai tempi remoti la Sardegna è sede di punizione per funzionari incapaci o di prima nomina ed è terra di esilio e di pena per i sovversivi e gli indesiderati. Dopo papa Ponziano e Ippolito antipapa (anno 235) numerosi altri preti indesiderati vengono deportati tra il 455 e il 533 durante la dominazione dei Vandali.
Il periodo della dominazione aragonese inaugura l'utilizzazione dell'Isola come sede punitiva per militari e funzionari statali. I feudatari aragonesi - come si rileva dalle cronache - costretti ad abbandonare gli agi di Corte per ridursi in colonia ad amministrare poveracci e a sedare rivolte di straccioni, sfogavano il loro malumore opprimendo e fiscaleggiando oltre ogni limite.
Fino a tempi recenti, molte attività di tipo agricolo o artigianale venivano svolte da galeotti e da prigionieri di guerra e politici. Nell'archivio di Stato di Cagliari si conservano documenti relativi a due progetti di deportazione di militari ai margini della prima guerra di indipendenza: uno di un gruppo di 158 giovani Lombardi, supposti disertori dell'esercito austriaco; l'altro di ben 5.000 prigionieri austriaci, catturati durante la prima e la seconda fase della guerra (Aa. Vv. - La Sardegna nel risorgimento - Sassari 1960).
Un deportato d'eccezione è Giuseppe Garibaldi, relegato nell'isola di Caprera diuturnamente sorvegliata da mezzi della marina militare. Egli è uno dei pochi, tra i molti esiliati, che ha amato profondamente questa terra. Meno lieto l'esilio-prigione nella vicina isola di La Maddalena per il cav. Benito Mussolini caduto in disgrazia presso i generali.
Poco noto è che in seguito alla esecuzione del re Umberto alla fine del 1900 il tenente dei carabinieri che aveva «l'obbligo speciale» di vigilanza sulla persona del sovrano, venne punito col trasferimento a Oristano. E ancora meno nota è la vicenda del provveditore agli studi Bellini, un funzionario spedito in colonia per i motivi d'uso. Sulle mene di questo individuo - una via di mezzo tra il sansepolcrista truculento e il prete untuoso - è stato scritto.

«E' diventata letteraria la figura del funzionario di Stato mandato in Sardegna per punizione, per incapacità professionale o per capacità repressive. Dai proconsoli romani esperti nella caccia al barbaro, ai vice governatori spagnoli fiscali e forcaioli, dai funzionari regi sabaudi ingordi, miopi e puttanieri, ai gerarchi fascisti prepotenti e vessatori. Un atteggiamento colonialista del potere centrale che nei confronti dei Sardi non accenna a mutare» (In «Sassari Sera» del 15 novembre 1968).

L'ultima massiccia deportazione - che mi è possibile citare perché fortunatamente rimasta allo stato di progetto - si sarebbe dovuta effettuare subito dopo il colpo di stato del luglio 1964. Parlano diffusamente del progetto «L'Astrolabio», «L'Unità» e «ABC» del periodo. «ABC» è riuscita anche a fotografare i lager allestiti per i deportandi a Castiadas, che avrebbe ospitato dai 3 ai 4 mila uomini, e a L'Asinara, che ne avrebbe dovuto ricevere altrettanti.
Una nota giuliva fra tante deportazioni. Nel luglio del 1965, in piena stagione balneare, alcuni turisti del bel mondo che soggiornano nella Costa Smeralda avrebbero visto tra la spiaggia di Lixia di Vacca e Capriccioli, in un punto isolato e attorniato di fedelissimi, Umberto di Savoia, ex re d'Italia e ancora principe di Sarre. Moltissimi curiosi, soprattutto stranieri sono accorsi nel punto in cui era stata segnalata la regale presenza. Ma Umberto, tempestivamente avvertito dai fedelissimi, si è precipitosamente imbarcato sul suo yacht battente bandiera inglese, prendendo il largo. Qualcuno si è chiesto come mai Umberto non sia stato esiliato in Sardegna, visto che ha un debole per la Costa Smeralda. «Rinascita Sarda», invece, in fatto di monarchi ha il dente avvelenato.

«L'ex re di maggio, nonostante la Costituzione glielo vieti, è stato in Sardegna… Non si comprende per quali ragioni le autorità militari e di polizia, così attente quando si tratti di intervenire per stroncare scioperi e manifestazioni popolari per il lavoro e la pace siano rimaste totalmente passive, non degnandosi neppure di segnalare l'avvenimento».

Anche la ricostituzione del partito fascista è vietata dalla costituzione: «Rinascita Sarda» farebbe meglio a mordere da quella parte, lasciando in pace i vecchi rincoglioniti monarchi.

9 - Febbraio 1918. Siamo in piena carneficina mondiale. Pressati dagli Alleati, gli Imperi Centrali non demordono. I popoli di ogni dove, plagiati dallo sfruttamento capitalista, abbruttiti dalla fame, drogati dalle promesse, dalle fanfare, dagli allucinogeni e dal «cognac che dà la carica» si stanno doverosamente massacrando. Intanto, la consorteria al potere comincia a tirare le somme e a fare progetti, prima ancora di avere fatto seppellire i cadaveri smembrati sparsi per centinaia di chilometri, di avere fatto erigere i monumenti agli eroi e di avere fatto ripulire il terreno dai micidiali residui degli armamenti gettati a profusione sul teatro dello scontro. (Su questi residuati si calerà la fame delle popolazioni e migliaia di creature vi lasceranno la vita).
«Il Secolo Illustrato» - che si qualifica in testata «Rivista quindicinale della forza, dell'audacia e dell'energia umana» - si compiace della prova fornita dai sardi nel ruolo di «intrepidi ascari», e scrive:
«Moltiplichiamo i sardi: primo materiale di guerra. La Sardegna ha messo in prima fila, tra i più forti per nervi, per muscoli e per volontà i suoi Sardi stupefacenti. Questa è l'ora propizia per ricordare agli italiani che non deve più il Tirreno essere un deserto per la Sardegna» (In «Il secolo illustrato» anno VI° - n. 3 del 1° febbraio 1919).
Ma quando si tratterà di dare ai Sardi lo stesso salario dei Continentali, si dirà che gli Isolani sono deboli, abulici, ignoranti e incapaci di fornire la prestazione d'opera di un Continentale.
E' una regola di tutti i dominatori, anche in epoche antiche, reclutare e addestrare alla guerra i giovani appartenenti ai paesi sottomessi per costituire «milizie ascare», da utilizzare in tempo di pace come addetti a servizi di bassa forza e per mantenere l'ordine nel territorio metropolitano, e da utilizzare in tempo di guerra come carne da macello.
Roma fu maestra anche in questo, ma per quel che riguarda i Sardi non volle o non riuscì a farne degli ascari. Credo che le cause siano da ricercarsi nella struttura caratteriale propria dell'isolano, completamente staccato dal resto del mondo, per il quale il trapianto è un trauma insostenibile; inoltre nell'odio insanabile accumulato in secoli di assedio e di solitudine.
Non fu facile neppure ai Sabaudi reclutare milizie in Sardegna per le loro guerre di espansione. La storiografia ufficiale falsa i fatti, quando parla di «entusiastica partecipazione» dei Sardi alle guerre di indipendenza.
Come è noto, l'anno 1847 segna la fine del regno di Sardegna. Il 29 novembre una rappresentanza dei tre bracci del parlamento sardo si reca a Torino da Carlo Alberto per chiedergli umilmente la formale fusione dell'Isola alle altre Provincie sabaude di terraferma. Nell'annuale discorso della Corona, il re dirà che «la Sardegna, gettato il funesto retaggio di antichi privilegi, volle essere unita con più stretti vincoli alla terraferma, e fu accolta dalle altre provincie come diletta sorella».
La storiografia sostiene che la fusione fu un «moto plebiscitario», e che dopo questo avvenimento «si notò nell'Isola un nuovo impegno politico da parte dei governanti».
Si tratta di grossolani falsi. Il re del Piemonte era anche re di Sardegna, quindi la fusione che «gettava il funesto retaggio di antichi privilegi» assume di per sé un significato equivoco.
La delegazione che si reca dal re piemontese a perorare la fusione e l'estensione delle riforme già previste per le provincie di terraferma, non rappresenta la volontà popolare e non rappresenta neppure i tre bracci di quel rudere di parlamento istituito dagli aragonesi: viene tout court designata dal consiglio municipale di Cagliari in combutta col viceré sabaudo. La delegazione «rappresentativa della volontà popolare fusionista» è composta: per il braccio ecclesiastico, l'arcivescovo di Cagliari e altri due prelati; per il braccio militare, il marchese di Laconi, il marchese Arcais e il barone di Teulada; per il braccio reale, un nobile, il conte Ciarella, e alcuni borghesi compradoris, gli avvocati Cossu Baylle, Mameli, Roberti e Marini. I componenti di altre delegazioni di rincalzo, raffazzonate in altre città non sapevano neppure per che cosa erano stati convogliati a Torino. I delegati di Oristano, infatti, si erano portati dietro, con un dovizioso presente di vernaccia e di muggini, una «supplica» per ottenere dal sovrano la bonifica della valle del Tirso funestata dalla malaria (Aa. Vv. - La Sardegna nel risorgimento - Sassari 1960).
La fusione è tanto plebiscitaria che scoppiano tumulti. A Cagliari, sede dell'operazione, il popolo, fiutato il mercimonio, scriverà sui muri «Morte ai gesuiti e ai piemontesi». La fusione non getterà «il funesto retaggio di antichi privilegi» ma li perpetuerà e ne aggiungerà di nuovi.
D'altro canto, la fusione non porta ai Sardi neppure il beneficio della estensione al loro territorio di quelle riforme liberali concesse alla borghesia piemontese. La «negligenza» di Carlo Alberto si ritorse a suo danno, nel momento in cui si ingolfava nella avventurosa guerra del 1848 contro l'Austria. I Sardi venivano a trovarsi in una situazione privilegiata rispetto ai sudditi degli stati di terraferma, poiché non erano ancora soggetti all'obbligo del servizio militare. Il regio editto del 16 dicembre 1837 che istituiva il servizio di leva per il Piemonte non fu esteso, dopo la fusione, alla Sardegna - come avvenne per altre leggi ritenute privilegio dei Continentali.
Con un decreto di emergenza, il 7 maggio 1848, Carlo Alberto tenta di imporre la coscrizione obbligatoria per il reclutamento di effettivi in Sardegna, pari alla metà di quelli forniti dagli altri stati di terraferma. Il provvedimento non può essere applicato - pare - per la situazione di grave tensione esistente nell'Isola. Dunque, ai Sardi pesava soltanto un ipotetico onore morale-patriottico di contribuire alla «santa causa» con la partecipazione di volontari.
La notizia dell'imminente conflitto giunge a Cagliari il 23 marzo, con due giorni di anticipo sulla data di inizio delle ostilità. Gli studenti inscenano una manifestazione patriottica, tirandosi dietro la solita coda di sfaccendati sempre disposti a manifestare, ma che quando si tratta di partire a fare la guerra, rinsavisce e scompare dalla circolazione. Qualche adesione si ha nella classe militare e negli studenti universitari. I primi pensano alla possibilità di accelerare la carriera e magari di stabilirsi in Continente; i secondi, rampolli della borghesia compradora, per essere alla page danno alla crosta spagnolesca una verniciata di piemontesismo.
Il colonnello comandante il reggimento cacciatori brigata guardie è tra i primi a chiedere di partire. Così gli ufficiali dei cacciatori franchi. E, «per dovere d'ufficio», anche il viceré dell'Isola, De Lunay, offre il petto al re. Al ministro della guerra Franzini, l'emorroico cortigiano scrive in un impeto eroico: «…l'E.V. abbia la bontà di essere l'interprete presso l'adorato nostro Sovrano dei miei sentimenti, e d'interporsi perché voglia permettermi di raggiungerlo sul Campo dell'Onore… Dopo tanti anni di servizio io sarei oltre-modo felice di chiudere la mia carriera sul campo di battaglia».
Il De Lunay ovviamente non partì. Visse e prosperò a lungo: la sua «generosa offerta» era puramente formale, a uso edificante dei «buoni villici».
La campagna per il reclutamento dei volontari assume aspetti tragicomici. Il viceré, che è rimasto, manda a Torino accorati dispacci: «…in questa Capitale almeno, il numero dei volontari che si presentarono per l'arruolamento è molto ristretto…» (24 aprile); «…nulla lasciavasi per me d'intentato per destare nei giovani, in Sardegna, il desiderio di accorrere in Lombardia presso l'Armata di S.M. che combatte per la Santa Causa, ma il numero dei volontari fu scarso» (30 aprile).
In quel mese di aprile, nei giorni 19 e 24, partono rispettivamente 5 e 14 volontari da Cagliari. Il 20, da Oristano, ne partono 3. Totale 22.
Vista l'indifferenza dei Sardi verso la guerra, l'intendente generale di Santa Rosa prepara un progetto per «L'arruolamento dei banditi reclusi e contumaci, di cui l'Isola ha sovrabbondanza». Il progetto viene accolto dalla Grande Cancelleria di S.M. che nomina una commissione composta da intendenti provinciali con l'incarico di formulare un progetto di legge sulla questione. Il progetto di legge fu partorito con gestazione accelerata e constava di sette articoli. Dopo vari rifacimenti, mentre sembrava che sarebbe passato in parlamento, venne lentamente insabbiato. Alla Grande Cancelleria, qualcuno si era reso conto che «far militare sotto la stessa onorata bandiera onesti cittadini e galeotti, poteva riuscirne scapito al lustro e al decoro della milizia». Emerse anche un'altra preoccupazione che la Grande Cancelleria prospettò al sovrano, e cioè che l'operazione «arruolamento banditi sardi» sarebbe stata «anche all'estero pretesto di censura».
Accantonato il progetto di trasformare i banditi in «salvatori della patria» e venuta a cadere l'idea di adescare la gioventù sarda sventolando la bandiera dell'unità, dopo avere steso e affisso inutilmente un proclama esaltante «la gloria di chi verserà il proprio sangue», l'infaticabile viceré De Lunay, incalzato dal ministro della guerra, invia circolari urgenti e riservate ai governatori, agli intendenti provinciali, ai vescovi, ai sindaci. Coi funzionari statali usa il ricatto: «…si terrà conto nella carriera di ciascuno dell'attività positiva e negativa svolta in quest'opera». I vescovi vengono toccati nel tasto dei privilegi feudali, decime comprese, che essi continuano a godere nell'Isola anche dopo le riforme liberali.
Per setacciare ogni possibile volontario, viene creata una capillare organizzazione che, se tutta quanta si fosse riversata «sul campo dell'onore», avrebbe potuto capovolgere l'esito del conflitto. In ogni più sperduto villaggio si insedia un comitato di reclutamento, costituito da possidenti e preti. I sindaci affiggono manifesti che nessuno sa leggere. le paghe militari d'uso vengono raddoppiate, e, in più, si offrono cospicui premi di ingaggio. Si abbassa l'età minima prevista dalla legge fino ai 17 anni, chiudendo gli occhi sui certificati anagrafici. I Sardi risultano di «piccola taglia», e allora si abbassa la statura di ordinanza fino a m 1,57 arrotondabili. «Purtroppo - scrivono amareggiati gli storiografi del sistema - i risultati deludono le aspettative» (Aa. Vv. - La Sardegna nel risorgimento - Sassari 1960).
Le risposte degli addetti al reclutamento alle pressanti richieste del viceré sono di rammarico: nessuno vuole arruolarsi, né per amor patrio, né per denaro. L'intendente di Gallura dice in parole povere che la gente si squaglia al solo sentir parlare di guerra. Il comandante di piazza di Iglesias fa rilevare che neppure uno dei numerosi vagabondi che circolano in città si è presentato, e suggerisce di vuotare le galere per rimpolpare le file dei combattenti. Il governatore Cugia Manca di Alghero propone il reclutamento forzato di tutti i disoccupati e i turbolenti che infestano la comunità. L’intendente di Isili, avv. Gessa, ripete la proposta di vuotare le carceri che rigurgitano e di spedire i detenuti «a riscattarsi sul Campo dell'Onore». Il comandante della piazza di Nuoro, l'intendente di Iglesias, il comandante di Sant'Antioco e il governatore di Sassari lamentano lo stesso assenteismo.
A tutto il mese di settembre si presentano: 1 ad Alghero, 1 a Mandas, 1 a Iglesias e 1 a Sant'Antioco. fa eccezione Bosa, dove si riesce a rastrellarne ben 20. In questa cittadina dimostra uno zelo eccezionale un certo G.L. Chelo, il quale anticipa paghe e spese di viaggio. A questo proposito, l'infaticabile viceré suggerisce di andarci cauti nel concedere acconti: alcuni, dopo averli intascati, si sono resi irreperibili. Le cronache registrano diversi casi di volontari che miravano a raggiungere gratuitamente il Continente per sbrigarvi affari loro: tra questi suscitò scalpore il caso di Pietro Colla di Sinnai.
I buoni risultati di Bosa, più che al dinamismo del Chelo vanno attribuiti ai frati cappuccini che in quella cittadina avevano la sede centrale. I cappuccini - allora la più ricca e potente organizzazione clericale dell'Isola - furono i più accesi interventisti.
Nei documenti conservati nell'Archivio di Stato di Cagliari si trovano notizie illuminanti sui modi e sulle tecniche della classe al potere per mobilitare le masse popolari e portarle al macello. In questa operazione il clero ha una funzione primaria.
Nel periodo storico in esame, le autorità civili, politiche e militari sollecitano i vescovi, i padri guardiani dei vari ordini, i direttori degli istituti, i parroci (sono assenti i gesuiti, cacciati nello stesso anno dalla loro roccaforte di Sassari a causa dei loro intrighi).
I vescovi rispondono acconsentendo diplomaticamente. La situazione politica e bellica è fluida, essi mostrano un prudente entusiasmo, fiutano gli umori di Pio IX e si mantengono pretescamente sul vago.
Ecco la risposta del vescovo di Ozieri alla circolare 16 agosto 1848 – II.a divisione - del viceré di Cagliari:

Ozieri, 19 agosto 1848
Eccellenza, contemporaneamente alla Circolare di V.E. ne riceva altra della Grande Cancelleria diretta all'oggetto d'insinuare ai popoli i presenti bisogni dello Stato, e manifestandomi di più la convenienza di fare solenne triduo di preghiere in tutte le Chiese di questa Diocesi: immediatamente perciò ne ho comunicato i commendevoli sentimenti, e le savie insinuazioni contenute in ambe veneratissime Circolari, e spedendo ad ogni Parroco un esemplare di quella di V.E. a tutta questa Diocesi Bisarchese con apposita mia lettera circolare, esprimendovi tutte quelle migliori massime, ed opportune dottrine, che alla mia pochezza lo è stato il più possibile, onde persuadere e Clero e Popolo dei gravissimi presenti bisogni dello Stato, e del più preciso dovere che in ogni senso e per ogni principio abbiamo per sollevarlo e difenderlo; insinuando particolarmente la più cordiale stima e sincera gratitudine verso il più savio, il più adorabile dei Monarchi l'Eroe nostro Carlo Alberto, ed i prodi di lui Principi. Ordinavo indi in tutte le Parrocchie di questa Diocesi il triduo delle pubbliche preghiere con la maggiore possibile solennità, con processioni generali e con sermoni adatti alla circostanza, al quale si è data principio in questa sede nel 27 agosto.
Nell'adempiere il dovere di ragguagliare l'E.V. le riferite cose godo poterLe rinnovare il tributo del mio profondo ossequio, mentre ho l'onore di costituirmi di V.E.
Ubbidientissimo, Divotissimo, Obbligatissimo Servitore
Gavino Pischedda

Più «sentita» la reazione del padre guardiano dei cappuccini:

Bosa, 26 agosto 1848
Illustrissimo Signor Intendente Padrone Colendissimo, i miei correligiosi si offersero, ed ottennero dal Ministero di recarsi nelle province dello Stato per risvegliare l'entusiasmo dei popoli, ed eccitarli a prestare il loro soccorso per la guerra della nostra indipendenza per cui furono spedite lettere e circolari agli Intendenti dal Ministero dell'Interno onde agevolarne l'esecuzione. Siccome però mi è ignoto se anche la nostra Sardegna sia contemplata nelle dette disposizioni, perciò mi rivolgo a V.S. Illustrissima pregandoLa, volersi degnare, darmi quelli schiarimenti che crederà sul proposito, intendendo fin da questo momento di consacrarmi a un'opera tanto santa.
In attenzione dei Suoi veneratissimi comandi, ho l'onore di rassegnarmi di V.S. Illustrissima
Divotissimo ed Obbligatissimo Servitore
Fra Francesco Maria da Bosca

Il viceré in persona si affretta a rispondere:

Al P. Guardiano de' Cappuccini di Bosa
Cagliari, 5 settembre 1848
Dall'Intendente della Provincia mi si dà comunicazione della lettera che V.S. nel 26 percorso agosto gli indirizzava. Faccio plauso ai religiosi e patriottici suoi sentimenti: Ella non solo può liberamente, pregare venia dall'ordinario, imitare i suoi correligiosi del Continente nell'incitare i popoli colla potenza della religione a correre in soccorso della Patria pericolante: ma deve ancor rimaner persuasa del gradimento del Governo, il quale se avrà in tutto il Clero cooperatori che Le somigliano, può confidarsi di veder sostenuta la causa italiana con quel coraggio che l'onore della monarchia sa richiedere, e la religione sa infondere. Ella provveda non solo per la Provincia, ma scriva, inviti i suoi correligiosi ad imitarne l'esempio, sicura d'aver bene meritato dell'ottimo nostro Sovrano e della Patria…

Nello stesso plico, che passa per via gerarchica attraverso l'intendente provinciale di Cuglieri, il viceré scrive a quest'ultimo:

Le invio una lettera di ringraziamento e di conforto a codesto Padre Guardiano dei Cappuccini che si dispone ad invitare con la predicazione i popoli alla guerra. Unisca V.S. Illustrissima alle mie le Sue parole, ed inviti pure gli altri Ordini, specialmente mendicanti che riescono nel popolo più accetti, ad imitarne l'esempio.

10 - Sarà l'estrema e totale degradazione prodotta dal capitalismo industriale nelle aree agricole e coloniali che convincerà le masse affamate a scendere a qualunque compromesso. Si è già accennato alle miserevoli condizioni di vita nell'Isola alla fine del secolo scorso e nei primi decenni del 1900: per la prima volta nella loro storia, i Sardi conoscono il fenomeno della emigrazione di massa.
Col ritorno di Giolitti al potere, la borghesia italiana si avventura nella guerra coloniale in Libia. L'espansione è bene vista ed è sostenuta dalla stessa borghesia compradora isolana, perché spera di togliersi dai piedi i più turbolenti della massa di affamati (industria e commercio abbisognano di poca e specializzata manodopera e l'agricoltura è in stato di coma), creando nuovi canali di emigrazione controllabili e sfruttabili in proprio ed evitando insieme il ritorno dei numerosi emigrati nelle vicine coste africane. Per tutta la durata della guerra libica - cui partecipano numerosi Sardi e Meridionali per sfuggire alla fame delle campagne - le prime pagine dei giornali sono dedicate interamente a esaltare episodi bellici, il valore e l'eroismo dei soldati sardi. Le medaglie al valore che di quando in quando giungono alle famiglie, e spesso «alla memoria», costituiscono l'unica immediata ricompensa del sacrificio.
Nel 1915 i Sardi vengono ancora chiamati a raccolta per la prima carneficina mondiale. Oltre che sul bisogno materiale, si fa leva sulla carica aggressiva degli sfruttati. Si promettono paghe alte, sussidi e buoni alimentari per i familiari. Si promette, a guerra finita, lavoro stabile agli operai, le terre ai contadini e i pascoli ai pastori. Promettere non costa nulla. Nella povera gente nasce così l'illusione che questa guerra sia un male necessario da patire, in cambio di un domani migliore.
Dopo la disfatta di Caporetto e la resistenza sul Piave, le sorti della guerra pendono ormai nettamente a favore degli Alleati. E' imminente l'ultimo decisivo atto della spaventosa carneficina, la battaglia di Vittorio Veneto, che non ha una importanza strategica ma serve semplicemente a dare «prestigio» alla nazione dopo Caporetto. Gli esperti dell'ufficio propaganda del ministero della guerra compilano e diffondono alle truppe questo volantino:

«Fante, soldato mirabile che riassumi tutte le virtù, la resistenza e la fede della nostra gente portandola alla più sublime espressione dell'eroismo e del sacrificio, tu hai salvato ancora una volta l'Italia dalla invasione del Barbaro. Non il fiume, né il monte, non la trincea, né il reticolato: fu il tuo petto il più forte baluardo sul quale si infransero l'impeto e la rabbia nemica. Tre anni di rinunzie, di paziente attesa, di abnegazione, tre anni di gloria per te bravo fante! Tu hai saputo premere nel tuo cuore gli affetti e uno solo vinse gli altri; quello della Patria! Il tuo sacrificio culmina ora nella riconoscenza dell'Italia che non dimentica la tua opera ma la benedice e si prepara a premiarla. Forza per i nuovi cimenti! I tuoi fratelli vincono sui campi di Francia l'impeto tedesco come tu hai vinto mirabilmente quello austriaco. Il fante italiano non conosce che la paura degli altri! E' ora di vittoria, questa, e tu ne avrai premio, provvidenza e aiuto quando tornerai alla famiglia e alla feconda vita delle industrie e dei campi, con la coscienza che l'Italia fatta dai tuoi padri, sei stato tu a salvarla e a portarla a nuova forza e dignità nel mondo!».

Ho trovato questo volantino, con le sottolineature che ho riportato, nella bottega di un artigiano di Oristano, Francesco Curreli, reduce della prima carneficina mondiale. Egli se l'è legata al dito: ha incorniciato queste belle promesse e le ha appese al muro, sicché in ogni momento della sua giornata di lavoro abbia davanti agli occhi la prova tangibile della truffa.

«Durante la guerra di Spagna, il governo fascista per portare qualche centinaia di Sardi a combattere contro i «rossi» dovette ricorrere a un sotterfugio, poiché col sistema del reclutamento dei volontari ben pochi - nonostante le allettanti offerte - si erano presentati. Si diedero bandi, offrendo lavoro ben retribuito in Africa. Durante il viaggio, dirottata la nave, gli «emigranti» si trovarono con un fucile in mano da usare contro «ignoti». La volontà di combattere non fu certo eroica, stando alle stesse testimonianze dei truffati. E non lo fu neppure più avanti, checché ne dicano gli storici patriottardi, nel secondo conflitto mondiale. L'amara esperienza del '19 determinò la rottura di ogni possibilità di rapporti onesti e leali tra la Sardegna e il Governo Centrale» (In «Sardegna Oggi» n. 35 del novembre 1963).

L'avvento dell'era tecnologica ha profondamente modificato le strutture del capitalismo, i processi di sviluppo e i rapporti, mantenendo ferma, anzi rafforzando la sua natura oppressiva e sfruttatrice. Dei complessi aspetti di questa modificazione, al mio discorso interessa esaminarne sommariamente due: la produzione di armamenti nucleari e il superamento e aggiornamento dei vecchi schemi di colonizzazione.
Le armi nucleari, in mano alle principali potenze, superando le tradizionali forme di conflitto, rendono inutili anche gli eserciti intesi come grandi masse da gettare sui campi di battaglia. Gli eserciti nazionali hanno acquistato sempre più la funzione di «polizia interna» (e d'altro canto, le classi al potere hanno sempre usato gli eserciti, in tempo di pace, per schiacciare rivolte popolari, scioperi e manifestazioni di un certo rilievo). Non è un caso che i vertici del militarismo si orientino sempre più verso la creazione e il potenziamento di un esercito di mestiere che, a differenza di un esercito di coscritti, ogni giorno più inquinato politicamente, è uno strumento «di cui non ci si può fidare», nel momento in cui dovesse occorrere «il pugno di ferro» per salvare la patria capitalista dal pericolo sovversivo. Una analisi del genere veniva fatta dal partito radicale e da gruppi antimilitaristi.
Un altro aspetto della modificazione delle strutture del capitalismo, correlato anche questo aspetto alle innovazioni tecnologiche, è la liquidazione e l'aggiornamento delle vecchie forme di sfruttamento coloniale. I Sardi, oggi, non vengono più utilizzati come ascari da guerra, ma prevalentemente come massa di lavoro bracciantile da vendere sul mercato industriale dei Paesi europei del Nord Italia. Su una popolazione di circa 1.500.000 unità (dato stazionario in questi ultimi venti anni, nonostante l'incremento demografico) sono emigrati dall'ultimo dopo-guerra non meno di 500.000 lavoratori.
Per la loro stessa storia di colonizzati, i Sardi, e in particolare i Barbaricini, sono «pregiudicati» dal sistema, e in quanto tali si salvano da un più numeroso reclutamento in quella «industria del Meridione» che è la polizia. La Sardegna è al 5° posto nella graduatoria delle regioni «sottosviluppate» che forniscono ascari alla polizia, con 1.048 reclutati (pari al 5,21% degli effettivi) in un anno; contro i 4.996 reclutati dalla Campania (24,80%) che occupa il primo posto in graduatoria (i dati sono del 1972).

«Disoccupazione e miseria… le molle che spingono i giovani a entrare nella polizia: fino a quando e l'una e l'altra non mancheranno, i corpi armati dello stato non avranno problemi di sopravvivenza» (A. D'Orsi - La polizia - Feltrinelli 1972).

Considerato il poco conto in cui la polizia è tenuta dagli stessi poliziotti - uno dei quali ha scritto a un giornale che lui e i suoi commilitoni non sono altro che «degli schiavi, dei mercenari, dei venduti e degli affamati» (A. D'Orsi - La polizia - Feltrinelli 1972) - è un segno di dignità civile che la stragrande maggioranza dei giovani isolani, sotto la sferza della disoccupazione e della miseria, tra le due forche caudine del sistema - l'assunzione nel ruolo di ascaro della repressione e il drammatico trapianto in terra straniera - scelgano la seconda.

11 - Togliersi dai piedi le proprie turbe affamate mandandole in colonia a lavorare nelle imprese di sfruttamento e dare a queste turbe un ruolo caporalesco, privilegiato rispetto alle masse indigene assoggettate e impiegate nelle stesse opere di sfruttamento: questo lo scopo ben preciso di tutti i colonialismi. Il bracciantato metropolitano contrapposto al bracciantato indigeno ha la funzione di elemento disgregatore della cultura indigena, pur essendo quello come questo aggiogato allo stesso carro capitalista.
La Sardegna - escluse le Barbagie - ha conosciuto fin dall'antichità numerosi trapianti di coloni provenienti da ogni dove. Notissime le colonie fenice, cartaginesi e romane che sorsero e prosperarono in particolare lungo le coste. Durante la dominazione dei Vandali, il re Genserico, nell'anno 455, invia nella regione del Sulcis, l'attuale bacino carbonifero, numerosi Mauritani che si opponevano al suo dominio nell'Africa Minore. I discendenti dei coloni Mauritani, che i Sardi chiamano Maurreddinos, a causa dell'isolamento e di una rigida endogamia si differenziano ancora oggi dalle altre popolazioni per gli usi e i costumi.
Durante i quattrocento anni, circa, di dominazione aragonese e spagnola ci fu un grande traffico di Iberici. Molte colonie servirono a ripopolare vaste zone dell'Isola funestate da carestie, pestilenze e guerre. In particolare furono genti aragonesi a sostituire quelle sarde, lungo le coste. Il più delle volte si trattava di trapianti coatti di oppositori politici esiliati in massa. «E' questo il caso della popolazione di Alghero, che parteggiando con i Genovesi contro il re di Aragona Pietro il Cerimonioso, venne deportata in massa e sostituita con popolazione proveniente dalle Baleari, dall'Aragona e dalla Catalonia» (Aa. Vv. - La società in Sardegna nei secoli - Torino 1965). Bosa trae origine da una colonia di profughi ebrei.
Nel XVIII secolo, i Liguri provenienti da Tabarca si insediano nell'isola di San Pietro e fondano Carloforte; Piemontesi si insediano a Sant'Antioco, a Calasetta e a La Maddalena. Ancora a La Maddalena trovano scampo numerosi profughi corsi, che rifiutano la coscrizione obbligatoria e fondano nell'isola una colonia di pescatori (U. Dessy - Un'isola per i militari - Marsilio 1972).
Nel Campidano di Cagliari si ha un tentativo fallito di insediare colonie di emigrati greci. Nel XIX secolo, pescatori campani provenienti da Torre del Greco e da Ponza si insediano lungo le coste occidentali e orientali dell'Isola fondendosi con le comunità indigene rivierasche. Alcune migliaia di braccianti veneti verranno trapiantati durante il fascismo dal Polesine al Campidano di Arborea. A Carbonia sorgerà dal nulla una città di circa 50.000 abitanti nel bacino carbonifero, con sottoproletari rastrellati in ogni parte del Continente, in prevalenza della Sicilia. A Fertilia, altra bonifica mussoliniana presso Alghero, troveranno posto profughi giuliani. E ultimo della serie, i pieds noires cacciati dall'Africa (ex colonie) verranno accolti nelle bonifiche dell'ETFAS abbandonate dai Sardi.

12 - La graduale liberazione dei popoli nord-africani dal colonialismo ha coinciso con l'insediamento e l'allargamento delle basi e delle servitù militari della NATO in Sardegna, in un crescendo che non accenna a diminuire. Una fase di rilievo nella escalation della militarizzazione è Decimomannu, divenuta la più importante base aerea americana nel Mediterraneo, dopo lo smantellamento della base di Wheelus Field in Libia, da cui gli yankee furono cacciati nel 1970. Ultima fase è la recente installazione (1972) di una base nucleare a La Maddalena, di mantenimento e manutenzione per sommergibili a propulsione e ad armamento nucleari.
Una delle caratteristiche delle potenze imperialiste è la promozione di «stati satelliti», la ricerca o la creazione di regimi politici «sicuri», che garantiscano basi militari «sicure». I regimi che danno agli yankee maggiore sicurezza sono quelli fascisti e quelli clericali. Tutti gli stati del Sud- Europa sono di fatto asserviti alla potenza USA (Spagna, Portogallo, Grecia, Turchia), secondo un asse che passa per la Sardegna, considerata una appendice semidesertica dell'Italia, paese satellite con regime «sicuro».
La Sardegna, superato l'ostacolo della malaria con la nota operazione Rockfeller, è diventata così preminentemente «un'area di servizi militari». Se è vero che gran parte delle forze armate di terra italiane sono dislocate nel Friuli, è anche vero che nessuna regione come la nostra ha visto interdire praticamente a ogni attività civile zone tanto vaste e ha visto sorgere tanti impianti per armamenti non convenzionali. Contro i 50.000 ettari sottratti al Friuli dai militari, stanno i 145.000 ettari nella sola zona del Salto di Quirra, interdetti a ogni attività civile durante le lunghe esercitazioni missilistiche dei poligoni di Capo San Lorenzo e di Perdasdefogu. Tale situazione pesa ovviamente sulla già precaria economia dell'Isola e sullo sviluppo civile delle popolazioni.
Per una maggiore conoscenza delle servitù militari presenti nell'Isola e dei condizionamenti socio-economici e politici relativi alla militarizzazione, rimando il lettore a un mio saggio del 1972 (U. Dessy - Un'isola per i militari - Marsilio 1972). Mi soffermerò brevemente sull'ultimo insediamento militare yankee (successivo e quindi non documentato nel saggio citato) a La Maddalena, quello che ha destato maggiore scalpore e risonanza per gli immediati e terrificanti pericoli di inquinamento radioattivo che comporta.
L'operazione, decisa nell'estate del '72 direttamente dal Pentagono all'insaputa del parlamento nazionale e regionale, è iniziata con il trasferimento della Howard W. Gilmore dalla base di Key West, in Florida, alla base di La Maddalena, in Sardegna.
La Howard W. Gilmore, che disloca 9.734 tonnellate e 18.000 a pieno carico, ha un equipaggio di 882 marinai e tecnici di cui 35 ufficiali. Non si tratta di una nave qualunque: è una officina galleggiante con attracco fisso, studiata come appoggio per sommergibili di attacco. Da alcuni anni è stata adattata per assolvere i servizi logistici, di manutenzione e di riparazione di sommergibili a propulsione e ad armamento nucleari. E' dotata di una complessa attrezzatura per riparazioni ed è equipaggiata con parti di ricambio elettroniche e nucleari. Possiede, infine, un non meno complesso sistema di comunicazioni radio via satellite.
Non esistono in tutto il bacino del Mediterraneo altre basi del genere. Nessuno dei paesi satelliti degli USA - neppure la Spagna di Franco e la Grecia dei colonnelli - ha voluto una nave terrificante come la Gilmore. Soltanto il governo italiano, presieduto dal clericale Andreotti, il fedelissimo fra i lacché dell'imperialismo, che ritroviamo protagonista di anno in anno nella vendita della Sardegna e dei Sardi al militarismo yankee.
La decisione dei generali del dipartimento americano della difesa di spostare la base nucleare della Florida in Sardegna viene motivata dalla necessità di fare fronte al rafforzamento della flotta sovietica nel Mediterraneo: «I sommergibili americani d'attacco a propulsione e ad armamento nucleari dislocati nel Mediterraneo dovevano fino a ieri affrontare lunghi viaggi fino alla base scozzese di Holy Loch o fino alle basi statunitensi nell'Atlantico ogni volta che necessitavano riparazioni o rifornimenti» (Dal comunicato del dipartimento USA della difesa, sulla stampa).
Queste sono le motivazioni di comodo dei «signori della guerra». La motivazione vera - che è tragica - bisogna ricercarla nelle norme di sicurezza stabilite a suo tempo dalla stessa commissione per l'energia atomica, norme tendenti a evitare il pericolo di contaminazioni radioattive nei pressi di regioni densamente popolate.
Con il progressivo aumento delle basi con apparecchiature e con armamenti nucleari, risulta sempre più difficile trovare «zone desertiche» o «scarsamente popolate», dove installare basi sporche, che producono inquinamenti di carattere radioattivo. Si è quindi pensato alla Sardegna, che, nella testa dei generali del Pentagono, è evidentemente «zona desertica», e si è colto - o si è prodotto - il momento politico favorevole con la presenza di Andreotti a capo del governo.
E' una decisione colonialista che non esito a definire criminale. E' un atto di banditismo davanti al quale impallidisce qualunque fatto criminoso che si voglia addebitare ai banditi barbaricini. Oltre le prepotenze e le rapine, il popolo sardo deve subire la beffa, quando i militari dichiarano che l'isola La Maddalena per il suo relativo isolamento e la sua distanza da grossi centri abitati sembrerebbe che soddisfi le norme di sicurezza stabilite dalla commissione per l'energia atomica.
L'isola di La Maddalena è densamente popolata, come tutta la costa nord-orientale, dove tra gli altri importanti concentramenti turistici c'è la Costa Smeralda. E le assicurazioni di fonte militare sulla «sicurezza» della base, mal si conciliano col fatto che l'altra consimile base europea, dislocata nell'Atlantico, in Scozia, in una zona più scarsamente popolata della Sardegna nord-orientale, è oggetto di annose controversie e polemiche su accertati inquinamenti radioattivi.

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