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Capitolo VII - La calata dei capitalisti

1 - La borghesia piemontese, dichiarati decaduti gli ordinamenti, gli usi e ogni forma di organizzazione e gestione comunitaria nella utilizzazione del patrimonio naturale, gettate quindi le basi giuridiche per l'usurpazione della terra e per ogni altro genere di rapina, comincia a realizzare il programma di sfruttamento intensivo e totale dell'Isola, con l'invasione del capitale. Sono i primi «gloriosi» anni della unificazione nazionale.
Provenienti da ogni dove, sbarcano sull'Isola gli scherani del capitale. Ha inizio il criminale disboscamento da parte dei carbonai, delle società ferroviarie, minerarie e navali. I metallari di mezza Europa si buttano alla ricerca di tesori sotterranei e, ottenute le concessioni, pagano una miseria allo stato e pesanti bustarelle ai governanti, utilizzano negli scavi le affamate schiere del bracciantato agricolo. Re, lords e avventurieri di ogni risma si improvvisano archeologi, rapinando tesori d'arte nelle necropoli puniche e romane ancora inviolate; compagnie di filibustieri costituiscono «società per azioni» creando dal nulla il capitale, aggiudicandosi in combutta con ministri e parlamentari appalti, concessioni, forniture che dissangueranno lo stato. Altre compagnie costituiscono banche di credito, società di navigazione, di assicurazione e altri ancora si aggiudicano «i diritti esclusivi di pesca» nelle acque pubbliche. Consorterie di usurai organizzano l'esazione delle imposte e altre ancora impiantano industrie casearie per derubare il pastore di ciò che gli resta dopo la rapina cui è sottoposto dai latifondisti. Insieme sbarcano nell'Isola militari e preti, con la funzione di convincere le popolazioni, con le buone o con le cattive, a lasciarsi derubare; e intanto rubano anch'essi, chi sottraendo la terra per edificarvi fortificazioni e chi per edificarvi basiliche, seminari, collegi, tenute, alberghi.

«Possedere la terra non è ancora tutto, non è neppure la cosa più importante. Ciò che regge l'attuale sistema economico è il capitale. Senza di esso nessuna trasformazione industriale; senza trasformazione meccanica e organica dell'industria nessun monopolio; e senza profitti, non c'è possibilità di restare al potere» (Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pag. 46).

La borghesia italiana, negli anni successivi all'unità nazionale, non ha avuto altro pensiero che quello di creare e accrescere il capitale. Nata in ritardo rispetto alle sorelle europee, e da queste stesse sollecitata a mettersi in linea, sviluppa un formidabile appetito e nulla sfugge al suo apparato masticatorio e digerente.

«Non c'è richiesta commerciale, non petizione alle Camere di commercio, discussione di bilancio o finanziaria ai due rami del Parlamento in cui non sia risuonato il grido: - Dateci i capitali! - Ora, poiché il capitale non esisteva, lo si è creato. Banche, carta moneta, reddito pubblico, tutto ciò è stato tratto dal nulla… vedremo (la borghesia) attingere senza scrupoli alle casse dello Stato, giovarsi delle pubbliche calamità per accrescere le sue fortune, lanciarsi senza mezzi in grosse imprese e gonfiarsi a poco a poco come la rana della favola» (Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pag. 46).

F. S. Merlino, riparato in Francia nel 1884 per sfuggire a una condanna inflittagli da un tribunale romano per le sue idee anarchiche («associazione di malfattori» - la stessa formula usata dalla procura di Cagliari nel 1974 per imbavagliare altri anarchici), nel suo prezioso saggio «Questa è l'Italia» documenta la storia dello sviluppo del capitalismo italiano negli anni 1860-90. E' la storia stessa della classe dirigente, della consorteria al potere, che oggi perpetua i crimini di ieri. Seguire le documentate vicende denunciate dal Merlino, relative ai primi trent'anni di storia «unitaria», è come seguire fatti e vedere personaggi del nostro tempo.

«Le finanze dello Stato sono state amministrate così sapientemente… che dal 1860 ad oggi (1890), salvo una brevissima interruzione, ogni anno ha visto aumentare il deficit del bilancio, inventare nuove imposte o aumentare quelle esistenti: ogni anno ha visto il Gran Libro del debito pubblico, tempio di una nazione in perpetua guerra con se stessa, aprirsi per nuove iscrizioni di rendita consolidata; e lo Stato, sempre sull'orlo del precipizio, spogliarsi dei suoi possessi uno dopo l'altro, delle entrate, dei monopoli, delle gestioni - ferrovie, canali, tabacchi, sali, beni demaniali, ogni cosa - e gettare nell'abisso delle sue finanze non solo quanto possedeva, ma tutto ciò che ha potuto espropriare dei patrimoni dei privati e delle comunità assoggettate, vendendo la nazione anima e corpo ad una banda di pirati insaziabili» (Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pag. 47).

Da fonti borghesi, dallo stesso Crispi giovane (Dalla “Proposta di legge” presentata il 30 marzo 1878 da Crispi, allora deputato, per “una inchiesta parlamentare sulla gestione finanziaria dello Stato dal 1° gennaio 1861 al 31 dicembre 1877”), si ha la conferma che la classe al potere di quel periodo ha frodato e rubato: 1) sul valore di emissione e sul prodotto della rendita di vari prestiti; 2) sull'acquisto di obbligazioni delle ferrovie per conto dello Stato; 3) sull'alienazione dei beni demaniali e sulle vendite delle obbligazioni relative; 4) sulla abolizione delle corporazioni religiose e conversione dei beni ecclesiastici (interessante notare come gli speculatori borghesi e cattolici avessero preso sul serio la scomunica di Pio IX scagliata contro coloro che avessero acquistato beni ecclesiastici); 5) sulla amministrazione del patrimonio devoluto al Fondo per il culto; 6) sulla vendita dei beni passati allo Stato per effetto delle leggi di soppressione delle corporazioni religiose e di conversione dei beni delle altre istituzioni ecclesiastiche e sulla rendita iscritta come corrispondente ai beni sopra indicati; 7) sull'impiego di beni e rendite amministrati dagli Economati generali; 8) sulla vendita delle obbligazioni create con legge 15 agosto 1867 n. 3848; 9) sul contratto della Regìa cointeressata dei tabacchi e sulla vendita delle obbligazioni relative; 10) sui contratti di cessione di ferrovie e sui costi delle linee costruite a spese dello Stato; 11) sulla vendita delle ferrovie dello Stato e sul riscatto delle ferrovie dell'Alta Italia (da notare che le ferrovie passavano dalle mani dei privati e viceversa, in una sarabanda di speculazioni: lo Stato le cedeva sottocosto e floride; le compagnie private mungevano le ferrovie e a un certo punto dichiaravano di non «rientrarci» più con le spese e le rifilavano allo Stato, dissestate ma facendosele pagare il doppio del loro valore, e così via; inoltre c'era il gioco delle sovvenzioni statali e degli incentivi); 12) sulla amministrazione delle ferrovie dello Stato prima della loro vendita; 13) sull'acquisto di navi da guerra e in generale sulle forniture dell'esercito; 14) sulle decorazioni dell'ex regno delle due Sicilie inviate a Torino da Napoli nel 1862 e perdutesi in viaggio (qualcosa, per la precisione arrivò: 40 milioni di piastre borboniche, che per altro, furono dimenticate per trent'anni nelle casse dello Stato, cioè nelle tasche del re «galantuomo»); 15) sugli oggetti d'oro e d'argento tolti alle chiese e ai conventi delle regioni «unificate»; 16) sulla alienazione dei beni del tesoro; 17) sull'acquisto di valori e di moneta per i pagamenti all'estero da parte dello Stato; 18) sulle autorizzazioni concesse alle banche di emissione per operazioni di credito (in cui figuravano coinvolti diversi ministri).

Vediamo alcuni fatti in particolare. «Nel 1868 il deputato Cancellieri si accorse che un residuo di 20 milioni di moneta bronzea era scomparso dal bilancio. Si affrettò a interrogare il ministro Cambray-Digny (…) ma il ministro negò per due volte l'esistenza nelle casse dello Stato di quella somma non iscritta nella contabilità… Dinanzi a tali dinieghi, il deputato Cancellieri, che conosceva i suoi uomini, non si ritenne soddisfatto, ma continuò le sue indagini, obbligò il ministro a confessare che tale somma veramente avrebbe dovuto figurare nell'attivo del bilancio; e la Camera, per pudore, ringraziò il deputato che aveva recuperato alla nazione 20 milioni smarritisi… nella tasca di influenti personaggi» (Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pagg. 49 - 50).

Il Petrucelli della Gattina esprime il sospetto che fra le persone influenti vi fosse Vittorio Emanuele II, il quale si sarebbe appropriato di una parte di quella somma: costretto a rendere il mal tolto, il re «galantuomo», lo avrebbe fatto attingendo dagli utili di un carrozzone: l'affare della Regìa dei tabacchi!
Re, ministri e governanti attingevano alle casse dello Stato senza alcun pudore. Poco dopo l'episodio raccontato, viene approvato un decreto legge di indennità di 251 milioni spesi tra il 1868 e il 1869 senza che il parlamento ne sapesse nulla. Il deputato Petrucelli della Gattina racconta che il ministro (competente), data la benevolenza e la generosità della camera, ne approfittò per far passare anche 14 milioni di spese «supplementari» per il trasferimento della capitale a Roma.

«Erano le sette di sera: fu chiesto il rinvio all'indomani della discussione sulla proposta ministeriale. Il ministro vi si oppose. Fra i 14 milioni si erano insinuate (ancora) 300.000 lire per le spese di viaggio per la Spagna del re Amedeo. Un vero tumulto scoppiò alla Camera; apostrofi ingiuriose si levarono contro Amedeo, i re, i ministri, la Spagna… Approvato!» (Citato in Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pag. 50).
«Chi potrebbe enumerare tutti i furti, le malversazioni, le deviazioni commesse… a cominciare dal saccheggio delle chiese e delle casse dei governi decaduti nel 1860, fino al sacco delle biblioteche… e alla scomparsa di oggetti di inestimabile valore, conservati al Museo Kircher e in altri e perfino di alcune delle più preziose vestigia dell'antichità… dalle corazze fabbricate in America nel 1861 e accettate e pagate, con intervento interessato del Re, benché una commissione di tecnici le avesse dichiarate inutilizzabili; fino ai 2.000 muli e cammelli malati di rogna e ai viveri guasti forniti alle truppe di Africa nel 1887 e alle altre malversazioni del ministero della guerra rivelate dal generale Mattei e dai testimoni uditi al processo di Piacenza; dagli appannaggi regali concessi ai prefetti, dagli stipendi intascati «per distrazione» da ministri… fino all'immenso bottino delle pensioni civili e militari…» (Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pag. 51).

Le ruberie sulle forniture militari da parte della borghesia imprenditoriale, imparentata o ammanigliata ai governanti, proseguono fino a oggi. Acqua al posto della benzina, per rifornire le truppe corazzate durante l'ultima campagna d'Africa, e vestiario di cascame anziché di lana, per le truppe di spedizione in Russia, nell'ultima carneficina mondiale: ruberie che sono costate decine di migliaia di vite umane.
Lo stato unitario - lo stato delle miserevoli plebi agricole del Mezzogiorno e del miserevole proletariato del Nord - è uno spensierato scialacquatore. Già nel 1861 il debito pubblico ammontava a 2.707 milioni di capitale e a 356 milioni di interessi; nel 1883 il debito sale ancora a 9.045 milioni e arriva nel 1885 a 12 miliardi. Sono debiti che legano lo stato ai grossi capitalisti tedeschi, inglesi, francesi. Soltanto per pagare gli interessi a quei capitalisti stranieri, i contadini e gli operai devono sudare sangue lavorando, e sfamarsi con le erbe dei campi.

«Si sbaglierebbe di grosso chi credesse che quel debito di 12 miliardi rappresentasse altrettanti capitali versati nelle casse dello Stato. Il Rothschild, che aprì la serie delle sanguisughe pascentisi nel pantano della finanza italiana, prestò 500 milioni nel 1862 al 75 per cento, 700 nel 1863 al 71 per cento, 200 nel 1864 al 62 per cento e 425 nel 1865 al 66 per cento». Di quei milioni presi in prestito, ben pochi entrarono effettivamente nelle casse dello stato, se agli interessi si aggiungono le commissioni, gli sconti e tutto il resto. «Nel 1886 per pagare l'Austria, il governo italiano prese a prestito 93 milioni effettivi e si indebitò di 196 milioni» (Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pag. 52).

Nel 1866 viene decretato il corso forzoso dei biglietti della Banca Nazionale che arricchì gli speculatori a spese dello stato. L'Italia divenne - secondo un giudizio di Massimo D'Azeglio - «una tratta nelle mani dei giocatori di borsa».

«In virtù della legge sul corso forzoso, la Banca Nazionale, stampando carta che lo Stato da parte sua bollava, si procurava altrettanta moneta metallica che immobilizzava come riserva per coprire l'emissione già fatta e una nuova emissione del doppio dei biglietti; così essa creava il capitale dal nulla e si procurava i mezzi per concorrere a qualsiasi operazione dello Stato, dei Comuni, delle Provincie… Già nel 1862 e 1863 si assiste alla fondazione di Banche e di Società con lo scopo di speculazioni losche e per accaparrarsi lavori pubblici, di bonifica, di ferrovie, ecc. Di tutte le Banche create fra il '64 e '66 non restava, dopo qualche anno, nessuna traccia. (Dal '67 al '73) una miriade di Banche di emissione coprì il Paese di carta moneta fiduciaria d'ogni colore e taglio. Carta dappertutto, se ne fabbricava dovunque. Società di mutuo soccorso, Monti di pietà, Amministrazioni provinciali, comunali, privati che fabbricavano e ciascuno se la cavava come meglio poteva. Le monete d'argento e di lega, anche le più modeste e le più usate, fuggirono via dall'Italia…» (Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pag. 55 e seguenti).

Il dissesto raggiunse proporzioni tali che la legge 11 marzo 1870 interdisse ogni circolazione fiduciaria non autorizzata… Nel 1873 il disordine era giunto al colmo. Nel periodo in esame (1867-73) il disordine era salito da 19 a 143 (ciascuna con decine o centinaia di succursali). La Banca romana, con un capitale di 5 milioni aveva emesso biglietti per 48 milioni; il Banco di Napoli, capitale versato 33 milioni, faceva circolare 195 milioni di carta; il Banco di Sicilia, capitale 8 milioni, faceva girare 59 milioni di carta.
Nel 1873 scoppia una terribile crisi. Fallimenti, truffe che vengono a galla e processi messi in piedi per placare gli animi esasperati delle popolazioni: processi che saranno una ulteriore truffa.
Le vie della speculazione sono infinite, per i filibustieri del capitale. Dopo la speculazione sulle terre, sulla vendita dei beni demaniali, sui prestiti, sulle opere idrauliche, il capitale si lancia a speculare sulle costruzioni delle grandi città e sulle bonifiche nelle campagna. Gli imprenditori realizzavano enormi profitti senza muovere un dito: prendevano dallo Stato e cedevano ad altre società per l'esecuzione dei lavori o vendevano e rivendevano le stesse aree fabbricabili a prezzi sempre più alti. Il governo - burattino mosso dal capitale - decretava quotidianamente nuove opere, che non si realizzavano quasi mai o erano realizzate in modo truffaldino.
E' un discorso che può sembrare astratto. Posto in termini concreti il gioco è questo: la borghesia deruba lo Stato e lo Stato deruba il popolo.

«Dal pane quotidiano, fino al corpo delle prostitute, tutto è cambiato in oro… Miseria e prostituzione, vita e morte, ricchezza immobile e mobile, possedimento, diritti contenziosi, lavoro, consumo, carità. Fino al delirio e alla disperazione dei più poveri tra i poveri, tutto è stato catalizzato! Lo Stato si è fatto biscazziere, e la lotteria, infame imposta, strappa l'ultima briciola di pane dalla bocca e il pagliericcio in brandelli alle case dei più disgraziati proletari. Il gioco è un vero furto, giacché lo Stato non restituisce mai che il 58 per cento delle poste… Ma imposte e monopoli non sono che il primo passo verso la liquidazione della ricchezza e della produzione a beneficio di una minoranza privilegiata. Il secondo sta nella cessione di tutti quei diritti… a speculatori e affaristi, con l'accordare loro agio e commissioni… nello sguinzagliare sugli abitanti un'orda di esattori, imprenditori, usurai e altre mignatte, che estorcono dieci per uno e scorticano la popolazione fino all'osso. Il governo che per la riscossione delle imposte e dei redditi statali si è, col pretesto del supremo interesse della patria, corazzato di privilegi ingiusti e di leggi eccezionali… ha ceduto tutte queste formidabili armi agli aguzzini e agli scagnozzi ch'egli ha sguinzagliato nel Paese; esso permette ai suoi agenti di spingersi fino a una brutalità delittuosa, fino allo spopolamento, fino alla proletarizzazione di intere regioni» (Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pagg. 61 - 62).

In una rassegna anche sommaria come questa dei fenomeni di banditismo della consorteria al potere, merita almeno un cenno il contratto della Regìa dei tabacchi, per cui lo Stato cedette a una società privata una immensa fonte di reddito, che costituì uno dei più scandalosi carrozzoni del secolo scorso. Nella greppia si ingozzarono anche deputati e ministri. Nominata la solita commissione di inchiesta per appurare le malversazioni (ormai di pubblico dominio) di numerosi deputati, si capì ben presto che il suo compito era in realtà quello di coprire le responsabilità, di soffocare lo scandalo e di dare in pasto alla giustizia qualche pesciolino. E' noto il caso Lobia, del deputato che contro ogni logica borghese e capitalistica denunciò intransigentemente all'opinione pubblica e alla camera lo sporco intrigo, minacciando di fare nomi e cognomi. Il parlamento era ormai decaduto (un decadimento naturale e ricorrente) al livello di una combriccola di speculatori, di sbafatori e di manutengoli: da più parti insorge contro il Lobia, chiamandolo «calunniatore». Ma quando costui asserisce di possedere le prove documentate delle sue accuse, allora la combriccola decide di assassinarlo. Il giorno prima che il Lobia si presentasse come testimone davanti alla commissione di inchiesta fu pugnalato da sicari e ridotto in fin di vita. Il presunto assassino viene trovato affogato. Un presunto complice sparisce in America. Un testimone importante muore avvelenato… Le stragi di stato sono una vecchia istituzione.

2 - Con questi dati caratteriali briganteschi e con un lunghissimo curriculum di crimini commessi nel breve periodo di tempo in cui dà la scalata al potere, la borghesia imprenditoriale del Nord sbarca e si insedia nell'Isola.
E' un «insediamento» che ricorda le calamitose infestazioni parassitarie, quali quella della fillossera della vite - che distrusse i vigneti dell'Europa nello stesso periodo - e quella di questi anni della Phoracantha semipunctata - il parassita dell'eucalipto sbarcato in Sardegna al seguito degli impianti petrolchimici residuati del Medio Oriente, che minaccia di distruggere il residuo patrimonio boschivo delle pianure.
Alla metà del secolo XIX il patrimonio boschivo sardo è ancora ingente, nonostante le continue periodiche distruzioni a opera di viceré, governatori e milizie che usavano il metodo della terra bruciata per stanare i latitanti. Nel 1817 il viceré Villamarina - tanto per citarne uno - ordinò che fossero incendiati i boschi immensi del Campidano di Arborea, folti di querce, per stanare una banda di fuorilegge, col risultato di avere distrutto una fonte di sostentamento per le popolazioni senza acchiappare neppure un bandito. Fra questi «banditi», vissuto alla macchia in quelle foreste, caro al popolo per le sue gesta, era Sisinnio Dessì, di Marrubiu, un mio antenato.
Il capitalismo, a differenza dei viceré, non distrugge nulla per nulla. Distrugge i boschi, ma ne ricava miliardi. Nel giro di pochi decenni, milioni di piante d'alto fusto e migliaia di ettari a bosco vengono trasformati in carbone, in traversine ferroviarie, in avanzamenti di gallerie nelle miniere, in navigli, in potassa.

«Il conte di Cavour, allora ministro delle finanze, nel 10 gennaio 1856 stipula una convenzione con le Case bancarie Fratelli Bormida e Barbaroux di Torino, conte Beltrami e Bombrini di Genova, per la concessione di 60,000 ettari di terreni di libero demanio e ademprivili in Sardegna, con l'obbligo di coltivarli, di costruire in un decennio non meno di 10 borgate, di 50 case coloniche ciascuna, ferrovie, strade e canali, da passare in proprietà allo Stato alla scadenza della concessione, la cui durata era fissata in 99 anni. Questo progetto presentato e approvato dal Senato, fu ritirato dal ministro in seguito alla presentazione di altre proposte che dicevansi più vantaggiose, e che non furono all'ultim’ora mantenute» (F. Pais – Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna – 1896 – pagg. 260 - 261).

Di fatto, i cari Bormida, Barbaroux, Beltrami e Bombrini (nomi di rapaci imprenditori che ritroviamo ancora attivi fino ai nostri giorni) attraverso altre concessioni di favore sfrutteranno ugualmente il patrimonio isolano, senza per altro lasciare traccia di borgate, di case coloniche e neppure di un filo d'erba coltivato.
Ho accennato allo sporco affare della società italo-inglese che si ebbe come concessione «in libera proprietà» (con legge 4 gennaio 1863) i 200.000 ettari di terre ex ademprivili sottratte alle popolazioni. Ed è noto che la società fantasma non costruì un solo metro di strada ferrata, ma si tenne e disboscò gran parte dei terreni avuti in acconto.

«…Milioni di querce, di roveri e di lecci, venduti con i terreni ex ademprivili, furono abbattuti dagli speculatori sia per ricavarne legname, per farne carbone vegetale o anche per incenerirli e trarne potassa. In questa vera e propria spoliazione che non solo disperse un prezioso patrimonio ma influì negativamente sulle condizioni delle terre, sul regime delle acque e sulla stabilità del suolo, ebbe modo di farsi luce la leggendaria onestà e correttezza della classe dirigente piemontese. Anni prima della legge di abolizione dei diritti di ademprivio, il Cavour, personalmente, pur contrastato da Pasquale Tola e da Francesco Sulis, aveva concesso al conte Beltrami di abbattere 200.000 piante di alto fusto nella foresta di Monte Mannu di Austis; il conte Beltrami pagò complessivamente la cifra irrisoria di 60 mila lire, ne ricavò oltre 300 mila dalla vendita di sole alcune centinaia di piante che erano adatte alle costruzioni navali» (I. Pirastu – Il banditismo in Sardegna – 1973 – pag. 50).

Per avere un'idea più precisa dell'entità dei profitti del conte Beltrami, può servire il rapporto di simili favolose cifre con il salario medio giornaliero di un operaio sardo dello stesso periodo, che era inferiore a una lira.
La cittadina di Buggerru è sorta intorno al 1870 nell'area di un antico bosco distrutto da carbonai toscani. Il fatto dimostra come nel piano del capitalismo le orde dei carbonai toscani e piemontesi che pullularono dopo l'unità, avevano oltre al compito di trasformare in denaro il patrimonio arboreo, anche quello si spianare il terreno ai contemporanei e successivi lavori di ricerca e di sfruttamento delle società minerarie. Infatti, le montagne dell'Iglesiente in particolare furono rase e bruciate, poi squarciate e rivoltate: un processo di rapina totale, in superficie e nel sottosuolo, che ha modificato una fetta di mondo fertile e lussureggiante in un deserto allucinante, dove, in quelle montagne di discariche, non è presente più neppure la vita microbica. Una rapina che ha arricchito un pugno di speculatori e ha ridotto in insanabile miseria un popolo.
C'è da restare allibiti nel leggere una notizia di cronaca del periodo («L'Avvenire in Sardegna» n. 184 del 1874), in cui si lamenta il fatto che a Meana Sardo, paese del Nuorese, le autorità usino due pesi e due misure, in modo tanto sfacciato da condannare al pagamento di una forte ammenda due contadini di Pattada che hanno osato dissodare un fazzoletto di terra per seminarvi grano, sradicando alcuni cespugli di lentisco, nello stesso momento in cui si concedeva per poche lire a società continentali il «privilegio» di distruggere migliaia di ettari di bosco.

3 - Si è accennato alla combutta di speculatori e usurai che, organizzato il credito bancario, crea dal nulla immensi capitali. Si ebbe, già da allora, l'improntitudine di denigrare i Sardi accusandoli di «poca fiducia nel capitale», di non essere abbastanza coraggiosi e intraprendenti da buttarsi nelle imprese economiche o di affidare i risparmi alle società d'affari e agli istituti di credito. A parte il fatto che il popolo non possedeva neppure i centesimi necessari per sfamarsi, la stessa borghesia compradora (che annoverava quei pochi Sardi con capitali a disposizione) non aveva tutti i torti a diffidare della onestà della borghesia capitalista del Continente.
E' del 1887 il clamoroso fallimento (sentenza del 25 giugno) del Credito Agricolo Industriale Sardo, il più importante istituto di credito operante nell'Isola, fondato 14 anni prima.

«L'Istituto aveva svolto una intensa attività, specie nelle campagne ove i suoi buoni surrogavano la carta moneta, aveva conquistato la fiducia dei risparmiatori di ogni parte dell'Isola riuscendo a raccogliere risparmi per oltre 8 milioni di lire. Il clamoroso fallimento dell'Istituto provocò il crollo di numerose aziende e si ripercosse sulle casse di risparmio e sugli altri istituti di credito depauperando ulteriormente gli agricoltori e gli allevatori che il blocco doganale si apprestava a gettare in una crisi rovinosa. Anche di questa nuova sciagura economica la responsabilità fu individuata nella incuria del governo» (I. Pirastu – Il banditismo in Sardegna – 1973 – pag. 50).

Sono costretto ancora una volta a postillare una citazione, nel momento in cui gli storiografi borghesi e compradoris insistono nella mistificazione: rimproverare di «incuria» il governo, che è sempre organizzatore o complice e comunque partecipe delle imprese truffaldine del capitale, mi sembra un riguardo eccessivo - a meno che non si parta dall'ottimistico principio che i governi (e quelli borghesi in particolare) esistano per «curare» gli interessi del popolo.
Della «pastetta» bancaria scrive anche il Pais nella sua inchiesta.

«Fin da quando il Credito fondiario della Cassa di risparmio di Cagliari sospese i pagamenti, alcuni fra i maggiori creditori, esaminato il bilancio dell'Istituto, e rilevato come la circolazione delle cartelle era di gran lunga superiore all'ammontare dei mutui ipotecari, si facevano iniziatori di un consorzio tra i cartellisti, che si proponeva di sottrarre i titoli allo scopo di evitare che, stante il loro prezzo vilissimo, fossero comperati ed offerti dai debitori al valore nominale in compensazione del loro debito… Nel Consorzio, i cartellisti sono tutti dell'Alta Italia, neppure un sardo; il denaro effettivo si ripartisce loro col realizzo delle attività di liquidazione, fra cui i mutui ipotecari e stabili, emigra dunque dall'Isola… Le Casse di risparmio dell'Isola, quelle di Cagliari, di Sassari e di Alghero, il Credito fondiario, sono tutti in liquidazione; il Credito agricolo in fallimento. Il capitale sardo è sfiduciato soprattutto dagli impieghi diretti nell'Isola. Né sapremmo dar torto a questa ritrosia se volgiamo lo sguardo all'ecatombe bancaria che tanta sciagura ha dato alla Sardegna. Nemmeno in tale difetto di fiducia nelle istituzioni di credito, come in tante altre, può il governo stesso esimersi da responsabilità; perché avvertito e sollecitato in tempo lasciò che le casse di risparmio, gli istituti di credito fondiario e agricolo, i quali pur sono ed erano sottoposti alla vigilanza governativa, non dico creassero (perché forse altre cause vi concorrevano), certo aggravassero una situazione in cui la fine inevitabile era quella di aprire una voragine nella quale dovessero cadere, come caddero, tra colpevoli e sciagurati, uomini di alta posizione sociale, sostanze di cittadini e di pubbliche amministrazioni; che, strano a dirsi, da un giorno all'altro, videro cadere quella stessa banca a cui, fino alla vigilia e a consacrazione di fiducia governativa, ERA OBBLIGATORIO VERSARE I DEPOSITI» (F. Pais – Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna – 1896 – pag. 188 e segg).

Come poco fa il Pirastu, anche il Pais si chiede «chi avrebbe potuto supporre che non fosse vigilata», questa banca. Che il governo la vigilasse, personalmente non ne dubito. Ma «vigilata da chi»? dai carabinieri?
Siamo alle solite. Gli storiografi, nel prendere atto di fatti che sono truffe belle e buone chiaramente perpetrate dalla classe al potere, si indignano rimproverando i governi per i loro peccati di incuria. E vedendo banditi soltanto tra i pastori e soltanto nel Supramonte, concludono che «le ripercussioni dell'ecatombe bancaria e del blocco delle esportazioni sulla criminalità furono immediate e di evidenza clamorosa; i dati comparativi che si riporteranno per gli anni 1880-1887-1894 non consentono dubbio alcuno sulla natura delle cause economico-sociali del banditismo e delle sue periodiche recrudescenze» (I. Pirastu – Il banditismo in Sardegna – 1973 – pag. 50)
E' una tesi puttanesca che va ribaltata. «Dubbio alcuno» può non aversi sulla legge dinamica di causa ed effetto; molti dubbi, invece, sulla individuazione delle cause (incuria del governo = miseria) e sulla definizione dell'effetto (miseria = banditismo). «Dubbio alcuno» non si ha nel definire «banditismo» le azioni del governo reggi-coda dei «banditi» del capitale, e nel definire «lotta sociale» la resistenza popolare allo sfruttamento, alla rapina e alle truffe bancarie, ovunque e in qualunque forma questa resistenza si manifesti.

4 - Francesco Saverio Merlino - uno dei pochi testimoni del popolo - definisce la costruzione delle ferrovie in Italia «una gigantesca cuccagna». Ascoltiamolo, per comprendere meglio quel che avverrà poi in Sardegna.

«Per prima cosa, quando lo Stato era lui a costruire, non si preoccupava del prezzo né della qualità dell'esecuzione: gli venivano presentati i conti e li pagava ad occhi chiusi. Sono cosa incredibile le cifre che gli sono costate le costruzioni eseguite col "rimborso delle spese". Quando invece lo Stato volle sbarazzarsi della cosa, non si rivolse, come sarebbe da supporre, a costruttori, ma, o a banchieri o a speculatori, o molto spesso a politicanti emeriti, o a patrioti bisognosi, i quali, appena ottenuta la concessione, talvolta prima di ottenerla, si affrettavano a rimbalzarla a banchieri e speculatori, che, a loro volta, la scaricavano su altri, fino a che si andava a finire, dopo non pochi premi prelevati da questo o da quello, ai veri costruttori, spesso insolvibili, che, per rimborsarsi dei premi pagati, cavillavano con lo Stato chiedendo un'infinità di compensi per mutamenti di progetti - mutamenti che spesso erano solo pretesto per estorcere denaro, ma che talvolta erano giustificati dal lasso di tempo intercorso tra la concessione e l’inizio dei lavori. Nel frattempo, le popolazioni protestavano, la data fissata per l'inizio del funzionamento della linea ferroviaria passava senza che nemmeno si fosse cominciata a costruirla: il governo, premuto da ogni parte, accordava facilitazioni, sovvenzioni, rinunciava alle ammende per i ritardi, arrivava a fare offerte o a garantire obbligazioni, interessi, rendita. I costruttori trovavano questo molto comodo e trascinavano in lungo i lavori per strappare nuove sovvenzioni e consumavano i fondi in spese di gestione. Un bel giorno sparivano dalla scena, lasciando lo Stato alle prese con le loro cambiali e i loro creditori e nell'obbligo di terminare le costruzioni cominciate. Il povero Stato, non sapendo come cavarsela, entrava nelle combinazioni degli speculatori, ritirava le linee agli uni e con lo stesso sistema le passava ad altri; accordava nuovi premi, nuove offerte e nuove sovvenzioni, pagava, sempre. Una volta costruite le ferrovie bisognava provvedere a gestirle, e qui lo stesso tira e molla, la stessa alternativa tra lo spreco diretto della gestione statale e le malversazioni della gestione privata. Lo Stato si rivoltava, come l'ammalato nel suo letto, che cambia posizione senza trovar sollievo ai suoi dolori. Vendeva e poi ricomprava le stesse linee, poi rivendeva e riacquistava, sempre in perdita. Quando vendeva, non domandava il prezzo (altro che eccezionalmente) e garantiva capitali e interessi, spese di gestione e profitti; quando comprava, non si preoccupava del valore dell'acquisto. Contava senz'altro alla Compagnia il denaro che esse pretendeva di avere speso in materiale mobile, costruzioni, ecc. o convertiva in una annualità fissa a favore degli azionisti un rendimento per sua natura variabile, scambiando titoli di rendita pubblica con le azioni di una società in fallimento (così si fece il riscatto delle ferrovie dell'Alta Italia nel 1876 e delle ferrovie romane del 1881). Se la società aveva esaurito i capitali, lo Stato le veniva in aiuto, come accadde più volte per le ferrovie romane: se essa guadagnava troppo, lo Stato codificava il contratto perché guadagnasse di più; così avvenne per le ferrovie meridionali. Il materiale ch'esso pagava come nuovo all'acquisto, rivendeva come vecchio e fuori uso: ma si obbligava a riprenderlo, dopo un certo periodo, nelle condizioni in cui si sarebbe trovato, ripagandolo al prezzo di vendita. Concedeva alle società gerenti la costruzione di nuove linee, affidando loro i progetti e il preventivo a loro piacimento. Gli bastava pagare, cioè attingere alla tasca dei contribuenti, e arricchire gli imprenditori. Un tal gioco gli sembrava innocente, come spogliare san Paolo per vestire san Pietro.
Nel 1862, per esempio, il governo cedette le ferrovie meridionali ad una compagnia, accordandole un sussidio immediato di 20 milioni, per metà in beni demaniali, e una sovvenzione annua di 29 milioni fino al 1869 e di 20 milioni dopo quella data, oltre a numerose esenzioni da imposte. Come la Rgìà dei tabacchi, anche questa faccenda provocò un'inchiesta da cui risultò che i fondatori della società, mentre trattavano la concessione col governo, si erano, da parte loro, assicurati personalmente, di fronte ai principali azionisti, la costruzione a 210 mila lire il chilometro e avevano d'altra parte contrattato a 198 mila lire il chilometro, cosicché prima ancora che la legge fosse votata, si erano assicurati un beneficio di 14 milioni, di cui la metà per il fondatore principale, l'altra metà da dividersi fra imprenditori, giornalisti, deputati. Uno di questi ultimi, certo Susani, membro della giunta incaricata del rapporto alla Camera sulla convenzione, aveva avuto 1.100.000 lire. Egli e il Bastogi, primo ministro delle finanze italiane e principale istigatore della faccenda, furono invitati a dare le dimissioni. ll re fece conte il Bastogi (Dopo l’inchiesta sulla convenzione delle ferrovie meridionali, si propose una legge che obbligasse il deputato interessato a un affare ad astenersi dal voto e dal partecipare a commissioni. Ma, prima che questa legge fosse approvata, passarono undici anni).
Quel che accadde per le ferrovie del Nord è più singolare. Il governo, dopo averne ceduto nel 1865 l'usufrutto ad una società privata, garantendone un prodotto lordo di 28 milioni per il complesso di tutte le linee, trascurò di chiedere i conti dell'esercizio. Quando, nel 1873, il Sella, che era ministro, prese il coraggio a due mani e rifiutò di pagare la sovvenzione prima che fossero riveduti i conti, il governo fece la dolorosa scoperta di aver pagato 70 milioni in più. Non si poteva amministrare in modo più filantropico!…
Merita di essere conosciuto un episodio, quello delle ferrovie calabresi e siciliane. La prima concessione di questa linea fu data a una Società Vittorio Emanuele, proveniente dal Piemonte, come la banca cosiddetta Nazionale, che aveva uno stato maggiore di ministri e deputati. Tale società, esistente solo sulla carta giacché non fu mai costituita, né il suo capitale fu mai versato, distribuiva tuttavia ai suoi azionisti dei bei dividendi prelevandoli dalle sovvenzioni di cui il governo le fu prodigo. Il 9 luglio 1863 essa ottenne la concessione, 1.280 chilometri di ferrovia da costruire. Incassò una sovvenzione di 8 milioni e delegò il 27 agosto alla costruzione di 800 chilometri un'altra società che il 28 settembre passò la sua sottoconcessione con un premio di 28 milioni (ad altre società). I lavori dovevano essere compiuti nel 1867 e la società Vittorio Emanuele ricevette a più riprese altre sovvenzioni, ma non c'era della costruzione neppure l'ombra. Finalmente, nel giugno 1868, la società decise di abdicare in favore di una società Carli, Vitali e Picard, con un contratto approvato dalle Camere. Appena entrata in funzione, questa nuova società intentò causa allo Stato e allora cominciò il più divertente valzer di processi e transazioni che sia mai stato visto… Nel maggio 1878 il Crispi, difensore della Società, chiamato al ministero impone come condizione che si transiga con la società e lo Stato paga altri 5 milioni a complemento di 37…
Si tratta quindi di costruire - conclude il Merlino, riferendosi al famigerato carrozzone Depretis - 3.982 chilometri. Spesa preventivata nel 1878 non per 3 ma per 6 mila chilometri: 1.200 milioni; spesa preventivata nel 1888, non per 6 ma per 3 mila chilometri: 1.100 milioni, o 404.319 lire al chilometro. Ma le ferrovie costruite prima, senza economia, erano costate non 404.319 ma 282.703 lire al chilometro , in totale un mezzo miliardo pagato al re di Prussia, cioè alla banda di ladri come il Bertani e lo Spaventa chiamarono i capitalisti di questo affare: i signori Bastogi, Balduino, Bombrini, nomi non sconosciuti al lettore…» (Francesco Saverio Merlino – Questa è l’Italia – Edizione italiana del 1953 – pag. 46)

In Sardegna, la ferrovia rappresentava ben poco per le popolazioni, sia come servizio pubblico, considerata la miseria degli abitanti che non possedevano il denaro sufficiente a usarla, sia come strumento di commercio, per la mancanza più assoluta di veri e propri traffici tra le comunità, se non quelli che rientravano nei tradizionali scambi di prodotti tra il mondo pastorale e il mondo contadino (un traffico commerciale organizzato dai Barbaricini, che stagionalmente scendevano a valle coi cavalli carichi dei prodotti della loro economia - oggetti in legno, frutta secca, formaggio - che barattavano con i prodotti dell'agricoltura - grano, legumi).
Ancora venti anni fa, nelle zone interne, nella Marmilla e negli stessi Campidani, i ceti contadini preferivano spostarsi a piedi o a cavallo da un paese all'altro, per le visite ai parenti o per i piccoli commerci, evitando di usare il mezzo di trasporto pubblico per risparmiare.
La ferrovia, in Sardegna, arriva tardi, nasce rachitica e vive malaticcia e costa più che altrove al contribuente, come si addice a ogni pubblico servizio in colonia. Ma ha la sua importanza e utilità nel disegno di rapina e di sfruttamento capitalistico: serve a trasportare il frutto delle rapine, sempre più cospicuo, dalle zone interne ai punti di imbarco - un compito assolto precedentemente dai carradores, trasportatori indigeni, proprietari di carro trainato da buoi o cavallo.
Anche nell'Isola, la ferrovia costituirà un lucroso affare per le società concessionarie. Ho accennato che nel 1862 il governo entrò in trattativa con un gruppo di finanzieri italo-inglesi per la costruzione della prima strada ferrata nell'Isola. Come sovvenzione iniziale, la società ebbe 200.000 ettari dei 478.000 ex-ademprivili, in buona parte bosco. La società italo-inglese emise azioni per un totale di 1 milione di sterline, ma non riuscì a collocarne che una minima parte. Da qui il clamoroso fallimento e il rinvio della costruzione delle ferrovie. Dei terreni ricevuti in acconto, 18.000 ettari non furono mai restituiti.
Con la legge del 4 gennaio 1863 viene affidata alla Compagnia reale la concessione delle linee principali Cagliari-Golfo Aranci e dei tronchi Chilivani-Porto Torres e Decimomannu-Iglesias (perfezionata da successivi atti di concessione del 1868, 1877, 1882). Per un totale di poco più di 400 chilometri, il solo ammontare delle garanzie e delle sovvenzioni pagate dallo stato fino al 1895 ascende a 121.915.129 lire, cioè 14.000 più 7.000 trattabili a chilometro. Oltre la somma detta, lo stato offriva i soliti 200.000 ettari di terreni ex ademprivili; ma poiché questi terreni non le venivano dati subito tutti insieme - per la resistenza opposta dai comuni e dalle popolazioni - la società finì per rifiutarli e in cambio chiese un corrispettivo aumento delle garanzie di prodotto netto, cioè una copertura di eventuali deficit di gestione (F. Pais – Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna – 1896 – pagg. 424 - 425).
Il 22 marzo 1885, Umberto I firma la legge che «dà facoltà al governo di far concessioni di strade ferrate secondarie nell'Isola Sardegna». L'anno successivo, il 1° agosto, un regio decreto approva il contratto per la concessione «della costruzione e dell'esercizio delle strade ferrate secondarie» ai commendatori e ingegneri Alfredo Cottrau e Giovanni Marsaglia «contraenti nel nome proprio e quali rappresentanti della Banca di Torino, della Ditta Fratelli Marsaglia e della Ditta Fratelli Ceriana». In pochi anni, al 1895, riceveranno dallo stato una sovvenzione di 29.940.743 lire (9.950 lire al chilometro).
Le linee secondarie sono dieci ed evito di elencarle. Sta di fatto che come le precedenti linee principali hanno la funzione di creare sbocchi verso i porti di Cagliari, Golfo Aranci e Porto Torres: occorrono in particolare per il trasporto dei minerali, delle ingenti quantità di carbone vegetale che si va producendo con la distruzione dei boschi, del sughero e di quanto altro i colonizzatori rapinano nell'Isola per rivendere nei mercati europei. Una delle più grosse società minerarie che operano nell'Isola, la Monteponi, si è addirittura costruita una propria ferrovia, per il trasporto del minerale fino a Porto Vesme, luogo di imbarco. In tal modo si viene a creare un ulteriore squilibrio economico nelle popolazioni, che non traggono alcun beneficio dalle linee e perdono il lavoro del trasporto che effettuavano con i carri.

La storia delle ferrovie è, press'a poco, quella di tutti i lavori e servizi pubblici, dai canali Cavour fino agli scavi del Foro Romano, dai lavori di bonifica fino al trasporto delle truppe in Africa. Ab uno disce omnes», - commenta il Merlino.

Come nella costruzione delle strade, oggi, le società imprenditrici che ricevono in appalto i lavori tengono presenti i profitti e non anche la funzionalità e la resistenza delle opere eseguite: per rendersi conto di come siano state costruite le ferrovie in Sardegna è sufficiente percorrere certi tratti dove binari e rete stradale si intersecano decine di volte in pochi chilometri, congestionando il traffico.
In tema di ferrovie, c'è un calunnioso pregiudizio da smantellare. Si dice che i pastori incendino dolosamente i boschi per aprirsi pascoli; così, ogni incendio che scoppia d'estate per l'incuria di turisti viene attribuito ai soliti pastori. Una delle cause, la più rilevante, di incendi è proprio la ferrovia, che conserva ancora vecchie locomotive a vapore. E' un fatto visibile che dappertutto, a lato delle strade ferrate, i boschi sono scomparsi da un pezzo (e spesso scompaiono vigne e colture cerealicole), mentre nelle zone abitate dai «terribili» pastori vegetano folti boschi.

5 - Per tutto il secolo XIX le tonnare costituiscono una delle più importanti e redditizie attività economiche del capitalismo in Sardegna, che, insieme alla Sicilia, è fra le maggiori produttrici in Europa. Così come le industrie estrattive, le tonnare sono in mano a capitalisti del Continente, i quali, ottenute dallo stato le concessioni, esercitano la pesca e il commercio esclusivamente in funzione del profitto.
La storia delle tonnare sarde - che oggi non esistono più, o quasi - è un altro capitolo del disegno di sfruttamento portato avanti senza interruzioni dal colonialismo. Si distingue in due periodi. Il primo, precedente, grosso modo, al 1860, è quello dello sfruttamento artigianale del prodotto. I tonni nel loro naturale esodo, attraversano il Mediterraneo secondo una linea che costeggia la Sardegna dal Nord verso Sud. Partendo dalle coste, nei punti più idonei, venivano tese delle robuste reti lunghe fino a 800 e 1.000 metri verso il mare aperto. Su queste reti si imbattevano i tonni, che venivano quindi dirottati verso altri sbarramenti mobili, fino alla «camera della morte», una chiusa di barconi, dove avveniva la «mattanza». In questo primo periodo, le tonnare non potevano utilizzare tutto il prodotto, che doveva necessariamente vendersi fresco o malamente conservato in barili per breve tempo. Non si avevano mezzi abbastanza veloci per trasportare il prodotto nei vari mercati del Continente ed esteri.
Il secondo periodo è quello in cui le tonnare diventavano più propriamente una industria. La tecnica ha inventato mezzi di trasporto più veloci, una rete ferroviaria che consente anche ai prodotti più deteriorabili di raggiungere i mercati delle grandi città in buono stato di conservazione del prodotto elaborato in scatole sottovuoto. Ciò, ovviamente, consentiva ai produttori di piazzare il surplus in qualunque periodo dell'anno.
Da allora, le tonnare diventano un lucroso affare e vengono potenziate. Dal 1875 al 1885 sono in prodigioso sviluppo.

«Dal 1885 - annota il Pais - la pesca andò sempre declinando in modo spaventevole, tanto che nel decennio anteriore, per esempio a Portopaglia, il complesso della pesca fu di 40.461 (tonni), nel decennio susseguente si ebbe un risultato di 17.475 tonni, mentre per il passato non fu mai inferiore a 35.000 (annui)» (F. Pais – Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna – 1896 – pag. 278).

Lo stesso Pais cerca di spiegare nella sua inchiesta la causa del declino delle tonnare.

«Non fu solo la diminuzione della pesca che turbò il progressivo sviluppo di questa importante industria, ma anche la concorrenza iberica e lusitana, senza tener conto della Tunisia. Varie sono le ragioni per cui nella lotta (la Sardegna) non si trovò in posizione favorevole. Basti accennare che l'industria della confezione dei tonni in Spagna è al coperto dalla dispendiosa, pericolosa e incerta industria della pesca; per cui acquistandosi colà il pesce fresco, non vi sono i rischi che i tonnaroli italiani debbono correre; mentre poi a rendere anche più favorevole la condizione della industria iberica, concorre la maggiore produttività di quelle tonnare le quali, oltre la pesca di andata hanno anche il beneficio di quella di ritorno. E' noto come a preservare l'industria nazionale della jattura che le arrecava l'industria estera, fosse proposto ed oppugnato un aumento del dazio di introduzione del tono confezionato da 10 a 30 lire, che solo nel 1892 poté essere applicato» (F. Pais – Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna – 1896 – pag. 278).

Più precisamente, il declino e infine lo smantellamento delle tonnare sarde sono dovuti a una precisa scelta del capitalismo e del governo italiano. Con il ritrovato della conservazione del prodotto, ai fini del profitto ciò che conta è acquistare lo stesso prodotto dove costa meno. Mentre nelle coste sarde i tonni passano una sola volta, al ritorno, in quelle iberiche passano due volte, nello stesso anno. A parità di impianti, quindi, e con un piccolo ulteriore dispendio di manodopera, il prodotto iberico veniva a costare poco più della metà del prodotto sardo, e quello, a differenza di questo, era incentivato dallo stato. Gli stessi capitalisti italiani ed europei che detengono le concessioni delle tonnare sarde, investono i loro capitali nelle tonnare spagnole. Si fanno cioè la concorrenza da se stessi; ed è perfettamente inutile l'introduzione di un dazio di entrata del prodotto estero confezionato, in quanto i concessionari delle tonnare estere trasportano il prodotto appena pescato e lo confezionano in Italia.
Ma c'è di più. La diminuzione fino alla scomparsa del prodotto della pesca del tonno è dovuta agli inquinamenti prodotti dagli scarichi delle miniere in tutto il versante sud-occidentale delle coste - precisamente le coste sfiorate dai tonni nel loro esodo. I capitalisti, che in combutta rapinano l'Isola, devono operare delle scelte, quando due tipi di rapina non possono coesistere. Alla sopravvivenza delle tonnare, in base alla legge del maggiore profitto, si preferisce la sopravvivenza delle miniere. Forse si sarebbe potuto salvare capra e cavoli, evitando che le miniere inquinassero il mare; ma ciò avrebbe significato un dispendio di capitale e una contrazione del profitto, per convogliare le scorie minerali e le acque inquinate delle laverie al di fuori degli alvei naturali sfocianti a mare, con appositi impianti di depurazione. Da qui la scelta e la decisione del capitale di mandare al diavolo la pesca del tonno e di ogni altra specie ittica lungo quelle coste, distruggendo un immenso patrimonio naturale, dando un colpo mortale al settore della pesca e quindi alla economia isolana.
Oggi che è venuta di moda la questione ecologica, si lamenta che lungo le coste della Sardegna il mare è inquinato e non ci sono più pesci. Parlerò più avanti degli insediamenti petrolchimici, degli effetti degradanti che hanno provocato e provocano in ciò che è rimasto del patrimonio naturale, dei pericoli che incombono oggi sulle popolazioni. Sulle criminose responsabilità del capitalismo nella distruzione del patrimonio naturale, riporto lo stesso Pais, deputato della borghesia compradora del secolo scorso.

«…la minor pesca che si è andata verificando in Sardegna dal 1885 in poi, non è dovuta a cause naturali soltanto, ma probabilmente al fatto che si è permesso alle laverie dei minerali presso le spiagge di immettere nel mare le acque scolatizie inquinate che sono servite per il trattamento del minerale medesimo» (F. Pais – Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna – 1896 – pag. 279).

E' comprensibile la cautela del Pais nell'accusare gli imprenditori delle miniere: si accenna a «cause naturali» senza che si specifichi di che si tratta (i tonni continuano a passare, ma a distanza dalle coste), e si pone con quel «probabilmente» il dubbio che la causa sia l'inquinamento delle laverie. L'unica vera causa accertata della fuga dei tonni è proprio l'inquinamento prodotto dalle miniere. Pur con ovvie reticenze ci arriva anche il Pais.

«Dopo che in modo inspiegabile la pesca diminuì, furono fatti seri studi per indagare la ragione di tanto male. Con grave dispendio annuale si impegnò un palombaro per verificare se le cause potessero provenire dalla rottura della rete, dalle correnti avverse, ecc.; ma di nulla si venne a capo; eppure più di una volta si ebbero a constatare numerosi sciami di tonni raccolti al di là delle reti.
Con la diminuzione o quasi cessazione della pesca del tono, scomparve anche, nel golfo di Portopaglia la pesca del pesce minuto, in guisa che i pescatori abbandonavano quelle acque; e furono proprio questi pescatori (senza aver fatto «seri studi» e senza «grave dispendio di palombaro» - n.d.a.) i primi che dettero l'indizio donde proveniva il danno. Essi ebbero a verificare che gli attrezzi pescherecci erano estratti dal mare anneriti per una quantità di materie non mai viste nel passato, e con questa scorta si proseguì in indagini più serie e precise, si percorse la costa a Nord donde provengono (specialmente a Portopaglia) i tonni, e arrivati nelle vicinanze di Buggerru si constatò che una estesissima zona di mare appariva di un colore scuro, e l'acqua era torbida per effetto di forti colonne d'acqua fangosa che derivavano da terra. Si riscontrò che si buttavano a mare tonnellate di terriccio, ed in misura che la spiaggia porgeva evidenti segni che essa era già ampliata di ben 70 metri verso il mare, e che il flusso e il riflusso delle ondate burrascose traeva nei fondi del mare enormi quantità di fango, che viepiù concorrevano ad accrescere l'inquinamento. Questa zona di acqua torbida si vedeva giungere a diverse miglia da terra.
Ora, se si tiene conto che, come pur l'ammette la stessa Relazione della Commissione Reale sulla pesca del tonno (1889), il tonno costeggia terra terra da Nord a Sud, che è pauroso ed evita le acque torbide; se si tiene conto che le tonnare, attaccate a terra con una rete che si prolunga in mare a soli 800 e 1.000 metri, e che è necessario che il pesce passi dentro un tale limite per essere preso nelle reti, si deduce l'inevitabile conseguenza, che quando il tonno arriva (prima di giungere alla tonnara) al punto delle colonne di acque fangose, in modo da non scorgervi un oggetto bianco appena immerso in esse, devia per recarsi in acque pure, come l'istinto lo guida» (F. Pais – Relazione dell’inchiesta sulle condizioni economiche e della sicurezza pubblica in Sardegna – 1896 – pagg. 279 - 280).

6 - Nonostante gli attacchi effettuati dalla borghesia colonialista alle strutture economiche tradizionali dell'Isola, il patrimonio ovino ammonta ancora a un milione di capi nella metà del XIX secolo. Su questo patrimonio - impoverito dalla rapina dei latifondisti ai quali il pastore è costretto a pagare fitti pari a circa il 50 per cento del prodotto dell'allevamento - si calano come avvoltoi gli industriali caseari.
Le prime industrie casearie vengono impiantate da società continentali intorno al 1890 e costituiscono - in aggiunta alle altre intraprese speculative - una colossale e permanente istituzione di parassitismo sul pastore.
La molla che spinge i primi industriali a puntare la loro attenzione sulle pecore sarde è una crescente richiesta di prodotti caseari nel mercato internazionale, in particolare in quello americano. Il latte del Continente non basta più, bisogna mungere in Sardegna.
I primi a sbarcare coi calderoni sono commercianti romani, specialisti nella produzione del pecorino. Arrivano poi commercianti lucchesi e ponzesi. Seguono avventurieri, «parecchi dei quali senza mutande come i pastori stessi, che in breve accumularono fortune» (G. Cabitza – Sardegna, rivolta contro la colonizzazione – 1968 pag. 54).

«L'intervento della industria casearia nell'immutato assetto primitivo provocò molteplici conseguenze economico-sociali; da una produzione esclusivamente destinata al limitato mercato interno, di baratto e di autoapprovvigionamento, i pastori passarono ad una produzione per il mercato nazionale e internazionale e furono quindi spinti ad estendere la superficie a pascolo; la maggior richiesta di terra provocò da una parte una forte riduzione del territorio coltivato ed una riduzione della occupazione… e dall'altra una elevazione dei canoni di affitto dei pascoli e un grave rincaro del costo della vita … Prima delle chiudende e dell'intervento dell'industriale moderno il pastore dominava interamente il ciclo produttivo: era, infatti, insieme custode e allevatore del gregge su pascoli ai quali accedeva liberamente, e quasi gratuitamente, produceva il latte, lo trasformava, commerciava il prodotto in un mercato ristretto ma del quale, accedendovi direttamente, era in grado di valutare la dimensione e la capacità di assorbimento, il che gli consentiva di adeguare il numero dei capi alla produzione con il minimo rischio. Le Chiudende e la privatizzazione dei pascoli danno un primo colpo all'equilibrio dei suoi rapporti, privandolo del diritto di libero accesso al pascolo e determinando un, prima inesistente, rapporto di dipendenza dal proprietario terriero, il che crea nel suo bilancio una variante passiva da lui non più controllabile; l'intervento dell'industriale, poi, gli sottrae la valutazione e il controllo del mercato, del prezzo del latte e del formaggio che da un anno all'altro possono, per volontà altrui, scendere al di sotto dei livelli remunerativi dello stesso affitto del pascolo, il cui importo è stato moltiplicato dalla concorrente ricerca dei pascoli da parte degli altri pastori, determinata a sua volta dal passaggio all'economia di un mercato che non è più quello della sola Isola, ma si estende all'intera nazione e a nazioni straniere. Da un allevatore produttore e commerciante, quindi, il pastore si riduce ad essere quasi esclusivamente custode e mungitore; restano sulle sue spalle gli aspetti passivi dell'allevamento, ma quelli dai quali può trarre guadagno (la trasformazione e la vendita) sono ormai controllati prevalentemente da altri».(I. Pirastu – Il banditismo in Sardegna – 1973 – pag. 62 e segg.).

La privatizzazione delle terre e l'insediamento delle industrie casearie hanno così incatenato il pastore allo sfruttamento combinato di due parassiti, il latifondista e l'industriale. Ribadisce il Cabitza nella tesi che segue:

«La rendita fondiaria ha… inchiodato… la pastorizia al pascolo brado e transumante. Essa grava sul pastore in modo vessatorio, come una vera taglia a cui è praticamente impossibile sfuggire, come un groviglio mostruoso di prepotenze, di arbitri, di soperchierie, di abusi vergognosi e sfacciati che nessuna legge e nessuna autorità è in grado di fronteggiare. E' il proprietario terriero che concede o nega il pascolo: il pastore può solo accettare o lasciar morire di fame il gregge. Inoltre l'affitto viene sempre e solo pagato per il nudo terreno - se l'erba ci cresce, bene, se no, peggio per il pastore - e per un terreno che il proprietario non ha mai neanche minimamente pensato di migliorare - i due terzi della superficie agraria non sono mai stati migliorati - in cui non c'è traccia di alcun rifugio o ricovero né per il pastore né per il bestiame. Eppure per l'uso di questa terra il pastore paga annualmente 7-8.000 lire a capo, spendendo cioè il 50 per cento e perfino il 60 per cento dell'intero ricavato. (Questi dati e quelli che seguono sono relativi al 1967 - n.d.a.) Nelle annate in cui il pascolo è magro occorre comprare mangimi a prezzo di strozzinaggio. Insomma, un pastore proprietario di 200 pecore nell'annata scorsa (1967) ha guadagnato 120 mila lire, cioè 10 mila lire al mese, cioè 330 lire al giorno! E buon per lui se non ci ha rimesso, come tanti altri, una parte del gregge, del capitale.
Di fronte a questi fatti, di fronte a una proprietà privata nata dal furto, dal furto in senso stretto, e che sul furto permanente si conserva, appare davvero poco obiettiva l'accusa ai pastori di praticare il furto e di vivere nell'arretratezza. La verità è che il grande derubato è proprio il pastore e che la sua arretratezza non è altro che un aspetto di quella sua condizione di derubato…
Lo stesso pastore non è in grado di stabilire se sia più nefando il proprietario dei pascoli o l'industriale caseario. Sa solo dire che l'uno lo stringe da un fianco e il secondo dall'altro, mentre davanti ci stanno… i carabinieri. La pecora, mentre la si munge è meno costretta.
Anche quella casearia è un'industria di rapina coloniale: si impadronisce a vil prezzo di materie prime o di prodotti appena lavorati e li esporta realizzando guadagni favolosi. privando il pastore di una pur minima possibilità di risparmio e quindi di reinvestimenti, essa impedisce il miglioramento delle tecniche di produzione del formaggio e il superamento delle consuetudini produttive millenarie. Come c'entra poco la Bibbia quando si parla del pastore biblico!
Nei confronti dell'industriale caseario il pastore è anche più indifeso di quanto non lo sia nei confronti del proprietario terriero. la stessa Regione, dispersa nella nebbia, non ha mai preso se non qualche provvedimento insignificante nei momenti più drammatici. Il suo atteggiamento generale è l'assenza, la lontananza: assenza e lontananza che equivalgono a un'ostilità poco diversa da quella dello Stato. Per fortuna c'è qualcuno che ha proposto di colmare l'assenza con la costruzione a Nuoro del palazzo della Regione! Un altro monumento ai caduti» (G. Cabitza – Sardegna, rivolta contro la colonizzazione – 1968 pag. 54).

7 - Quali sono le condizioni dell'Isola dopo l'invasione capitalista? Stralcio da «La Nuova Sardegna», quotidiano di Sassari, del 1897.

«Oristano, 5 febbraio. Sono state inviate alcune centinaia di lire da distribuirsi tra i più bisognosi di alcuni comunelli del circondario di Oristano, che si trovano danneggiati dagli straripamenti dei fiumi, e nell'impossibilità di procacciarsi un lavoro».
«Dorgali, 3 febbraio. Il popolo soffre già la fame e tenta lenirla con erbe. In queste condizioni, nessun soccorso! E per ironia della sorte, al municipio piovono giornalmente domande di soccorso da parte dei comuni del continente, dimenticando che tra tutte le provincie italiche, la Sardegna è la più derelitta».
«Lanusei, 3 febbraio. Se a Gairo si piange, qui non si ride. Se in Gairo il messo esattoriale ha fatto 100 pignoramenti, qui non si è indietro. Se in Gairo si sono pignorate casse, carri, ecc. ecc., qui non si è fatto diversamente. Se in Gairo il messo era uno solo, qui, per accudire, erano tre… e con un ispettore per sorvegliarli… Vi sono uomini che hanno l'istinto della belva, e sazii di lacrime e di sangue, non si commuovono a tanta miseria, e lasciano i loro simili morire di fame e di freddo. La condizione economica in cui versa la regione ogliastrina (centro-orientale) rasenta la disperazione. Due individui di Lanusei sono stati trovati morti di fame e di freddo, l'altra mattina, in una stalla disabitata del sig. Giovanni Boi… e ieri mattina, nelle identiche sofferenze, morì Giovanni Antonio M. L.… Il misero rimase senza aiuti da chi avrebbe potuto e dovuto dargliene, poiché l'abbandono è il retaggio dei miseri. Ma se pure si muore di fame, né il Governo né il fisco suo esecutore si commuovono. Né i ricchi e i ben pasciuti».
«Barisardo, 13 febbraio. La più desolante miseria ci affligge. Non si tratta di necessità momentanee, di mancanza di questa o di quell'altra derrata, ma di vera fame, continua, generale. Bisogna trovare un rimedio, non per domani, non per oggi, ma quotidiano. Un rimedio bisogna trovarlo e che sia piacevole a tutti i miseri. Il popolo mormora ora sottovoce, ma la fame è molesta e può essere ispiratrice di cattivi consigli».
«Orosei, 14 febbraio. La miseria incalza in tutta la sua crudele intensità, e fra i miasmi molteplici che ammorbano l'atmosfera ci sta addosso come una cappa di piombo. Non si vedono in giro pel paese che donne seminude, con offesa non solo del pudore ma anche dell'umanità, dal viso del colore della cartapecora, alla questua di un misero tozzo di pane. Non si vedono che bimbi, in processione, vaganti di porta in porta, pallidi sofferenti. Mi narrava giorni fa con voce commossa un contadino, uno di quegli schiavi della campagna cui la buona volontà di lavorare non è secondata dal modo di poterlo fare per mancanza di lavoro, che egli con la disgraziata numerosa prole si pasceva da quindici giorni di sola erba. E questa vita è quella di moltissimi. Né questi poveri infelici, che siedono all'estremo gradino della scala sociale, lottano soli con le privazioni e con gli stenti. I cosiddetti piccoli proprietari che ancora possiedono delle liste di terra sulle quali pesa l'ira di Dio, con le annate disastrose e la sperequazione catastale, con un sistema tributario flagello, tirano innanzi sudando sangue e tergiversando coi vampiri dell'usura e con la voracità insaziabile del fisco».
«Olmedo, 16 febbraio. La miseria, stazionaria quasi sempre, ha preso ora in questi paesi tali proporzioni da impensierire seriamente gli abitanti dei luoghi circonvicini. Vidi casette luride, visi macilenti e scarni, bambini scalzi con le vesti a brandelli, fanciulle malamente o appena ricoperte. Interrogai qualcuno e seppi che lo squallore generale proviene dai falliti raccolti, dal fisco inesorabile che chiede il pagamento delle imposte e sequestra devolvendo le proprietà al demanio» (I brani sono riportati dal Niceforo in “La delinquenza in Sardegna” – 1897 – pag. 127 e segg.).

Chi può stupirsi che in quel periodo i monti e le campagne dell'Isola ospitassero numerosi latitanti e si verificassero furti e grassazioni? Ci si deve inchinare davanti allo spirito di sopportazione dimostrato dalle popolazioni colpite dal flagello del più spietato sfruttamento. Ridotte a una vita da bestie, che altro poteva restare loro se non la violenza della rivolta per strapparsi dal collo il morso dell'invasore?

«Inevitabile la ribellione che già tende a presentarsi nelle forme di scioperi, sommosse popolari, incendi di caseifici a Macomer, Bonorva e altrove. In Barbagia la risposta fondamentale viene ancora come azione di banditismo: circa 200 bande di pastori armate intorno al 1900. L'esercito è costretto a ingaggiare vere e proprie battaglie campali» (G. Cabitza – Sardegna, rivolta contro la colonizzazione – 1968 pag. 20).
«Quando la crisi agraria si abbatté sull'Isola , e le zone interne furono le prime a risentirne, vedendosi rosicchiato perfino il breve margine della sussistenza (mentre non cessava lo sfruttamento e l'accaparramento della borghesia violenta e della città) il banditismo - misto di ribellione e di ferocia, di protesta sociale dei derelitti e di organizzazione criminale in mano ai nuovi ricchi - scoppiò con una violenza mai vista prima» (M. Brigaglia – Perché banditi – 1971 – pag. 99).

In ogni periodo, il governo si è compiaciuto di avere a disposizione alti ufficiali espertissimi nella repressione, in grado di «riportare l'ordine» in colonia, senza dover spendere una lira per placare la fame delle popolazioni. Uno di questi, sbocciato verso il 1886, è il conte Spada, ufficiale dei carabinieri, il quale, dopo aver seminato morte e desolazione fra le inermi popolazioni del Nuorese, incontrandosi con un illustre viaggiatore francese, il Vuillier, si vantava di avere debellato con il suo sistema, una volta per tutte, la ribellione in Barbagia, e aggiungeva che su quei monti ora si poteva stare tranquilli come nella piazza principale di Sassari. Ridicola vittima del gioco borghese di mitizzare gli eroi della violenza, il conte Spada rimase vittima di una meritata beffa organizzata da quegli stessi latitanti che egli si vantava di avere debellato definitivamente. Recandosi in diligenza a Macomer, il conte Spada fu bloccato da un gruppo di uomini ostentatamente abbigliati col costume orgolese; venne disarmato, spogliato della divisa, deriso e lasciato seminudo a rodersi il fegato.
Un decreto ministeriale del 12 dicembre 1894 affida al deputato F. Pais il compito di svolgere una inchiesta sulla situazione economica e sulla pubblica sicurezza nell'Isola. Il Pais è nativo di Ozieri, città di latifondisti e di allevatori, la «crema» della borghesia compradora arricchitasi al seguito dell'invasore rapinando e sfruttando il contadino e il pastore.
L'inchiesta del Pais - al quale non si può non riconoscere una serietà di ricerca e di documentazione - suggerisce numerosi rimedi per porre fine alla miserevole situazione della economia e al dilagare della criminalità. Il governo sa bene quali sono le condizioni economiche - che stanno davanti agli occhi di tutti - ma non ha interesse alcuno a modificarle in quanto prodotto perfetto della macchina capitalista; ha interesse, invece, per la «pubblica sicurezza» - questione alla quale il Pais, infatti, dedicherà oltre la metà del suo lavoro. In particolare, il governo - delegato del capitalismo - si preoccupa di un fenomeno nuovo e diffuso: le grassazioni e la eliminazione fisica degli agenti fiscali, messi, dazieri, esattori, ufficiali giudiziari. Su questo fenomeno la consorteria al potere non può transigere. Non si tratta di Barbaricini che si fanno fuori l'un l'altro per rancori personali, si tratta di perdite di denaro negli uffici postali e di perdita di fidati esattori esperti nel riscuotere fino all'ultimo centesimo le taglie. E' un fenomeno che rende insicuro il capitalismo, che squilibra i programmi di sfruttamento.

«Come la fame porta al delitto, così anche il passaggio della piccola proprietà al demanio porta al sangue» - annotava il Niceforo nel 1897 - «Basta che l'usciere o il nuovo compratore si presenti dietro la bassa siepe di fichi d'India per prendere possesso della piccola ed angusta terra, perché l'affamato padrone, che non vuole sloggiare e trasportare verso l'ignoto i figli piangenti e la moglie febbricitante, lasci partire un colpo omicida dalla sua doppietta. Nessuno più si presenta e il padrone continua a rimanere insediato nella sua piccola proprietà. Se la giustizia lo molesta, quell'uomo si getterà nella macchia e lì finirà la sua vita. Esso diventa così il latitante, forma comunissima in Sardegna e che dà il maggior contributo agli scontri, alle grassazioni, alle rapine. Antonio Catte, di Sorso, una delle più simpatiche figure del partito socialista in Sardegna, ci narrava che nel paesello di Aggius, in pochi mesi, avevano ucciso parecchi agenti delle tasse: l'uomo passava per il sentieruolo stretto e nascosto, per recarsi da una capanna all'altra, e l'infallibile fucilata lo freddava. Egli cadeva dietro la siepe e il contadino non pagava la tassa» (A. Niceforo in “La delinquenza in Sardegna” – 1897 – pagg. 124 - 125).

Le grassazioni (che nei modi di svolgimento ricordano le bardane in uso nell'antichità contro i centri militari e commerciali del colonizzatore) sono frequenti alla fine del secolo scorso e rappresentano per le masse affamate il tentativo di recuperare comunque qualche briciola del denaro estorto dallo Stato o accumulato dalla borghesia compradora dedita all'usura (e ha anche certamente rappresentato per i prinzipales una formula per eliminare concorrenti e accrescere il proprio capitale, così come attualmente col sequestro di persona).
Una grassazione che fece scalpore fu quella di Trotolì, avvenuta la notte del 13 novembre 1894 nella casa di un ricco proprietario, il cavalier Depau, a opera di una banda di un centinaio di uomini (ma è più probabile che fossero poco più di una decina e che il numero sia stato aumentato per creare nell'opinione pubblica del Continente quel clima di tensione necessario a giustificare le successive azioni repressive ordinate dal governo). Il Pais ne fa una dettagliata ricostruzione, e alla sua Opera si rimanda il lettore interessato.
La repressione armata dello stato italiano si abbatte con inaudita ferocia sulle popolazioni sarde e su quelle barbaricine in particolare. Interi paesi vengono circondati, rastrellati, e migliaia e migliaia di cittadini vengono fermati e a centinaia arrestati. La Barbagia è in stato di assedio. Gli anni dal 1894 al 1899 son passati alla storia come «gli anni del terrore».
Si scatena la caccia al pastore. Appunto «Caccia grossa» intitola il suo libro-diario il tenente Giulio Bechi, sbarcato nell'Isola col 67° reggimento fanteria, mobilitato nella repressione dei moti barbaricini. «Il titolo rivela la mentalità dell'autore, la mentalità poliziesca ed inumana con cui si contrapponeva allora, e spesso si contrappone tuttora, l'ordine al disordine, la legge alla negazione della legge, mentalità sempre falsa e deleteria…» dirà Emilio Lussu in un discorso parlamentare del 1953, sul tema ricorrente della repressione contro la società barbaricina.
C'è ancora chi, fra gli intellettuali che si collocano a sinistra, fa distinzione (puramente accademica) tra moti sociali «legittimi» e «illegittimi». Il Brigaglia, commentando i fatti di quel periodo, rileva che ci furono tanti che provarono «simpatia e ammirazione» per i latitanti trucidati o imprigionati. «Nella confusione generale, nella miseria sempre più crescente, nei primi fermenti di insofferenza sociale, sull'onda di una protesta politicamente più meditata, infatti, la ribellione dei banditi veniva spesso confusa con altre, più razionali, più legittime ribellioni» (M. Brigaglia – Perché banditi – 1971 – pag. 121).
Siamo a livello di giudizio tipico dell'idealismo crepuscolare tedesco che sfocerà nel nazismo: un moralismo derivato dalla sacralità dei principi istituzionalizzati, principi elaborati in difesa dei privilegi della consorteria al potere e imposti al popolo affinché rispetti le regole del «gioco civile». Una distinzione morale che però non facevano e mai hanno fatto i colonizzatori nelle loro azioni banditesche e repressive. E' osceno schierarsi a parole col popolo e accettare di insegnar storia secondo i moduli della classe sfruttatrice del popolo. E' ora di gridarla, la verità soffocata da sempre: i banditi, i criminali non sono mai nel popolo, ma nella classe al potere. Il popolo non ha mai rubato, nel momento stesso in cui indiscutibilmente si ritrova povero. Ladro è il capitalista. E mentre il Brigaglia si preoccupa di distinguere tra «banditi» e «oppositori politici», cioè tra opposizione libertaria popolare e opposizione popolare incanalata nelle istituzioni del sistema, sindacati e partiti, la consorteria al potere accomuna banditi e oppositori politici nello stesso infamante giudizio di malfattori, nelle stesse galere e con lo stesso piombo.

«La repressione in Sardegna marcò ancora di più il suo carattere di guerra coloniale, di guerra totale, ideologica, politica, economica, sociale. Una guerra, quindi, che dà al perseguitato solo la possibilità della sconfitta più atroce, dell'annientamento fisico e morale. Fu confermato, soprattutto, che l'intervento militare nell'Isola non era una dolorosa necessità momentanea, ma un aspetto essenziale e perfettamente funzionale della generale politica di colonizzazione. La forza armata, l'esercito, furono impiegati per stroncare ogni resistenza alla penetrazione capitalistica, per imporre lo sfruttamento e la rapina di forsennati imprenditori forestieri. Verso la fine dell'ottocento, la Sardegna, già sconvolta perfino nel suo aspetto fisico dalla distruzione dei boschi operata dagli amici del governo di Roma, sente più stretta la catena dell'oppressione capitalistica. Lo sfruttamento più inumano si abbatte sui lavoratori delle miniere, ridotti a una vita d'inferno, senza giornate di riposo, con orari di lavoro fino a undici ore consecutive, senza assistenza, costretti, per lavorare sotto terra, a pagarsi la lampada, l'olio e lo stoppino, e perfino gli esplosivi. E contemporaneamente gli industriali e commercianti caseari continentali si avventavano sui pastori per impossessarsi a vil prezzo, e con metodi che è poco definire di strozzinaggio, dei loro prodotti» (G. Cabitza – Sardegna, rivolta contro la colonizzazione – 1968 pag. 54).

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