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Capitolo XII - Il colore delle degradazione

1 - Alle tradizionali categorie criminali se ne aggiunge una nuova, tipica della civiltà industriale, quella degli inquinatori: la consorteria dei capitalisti imprenditori, espressione del più sfacciato privilegio, legati nello stesso disegno criminoso di dominio e di grandezza alle élites tecnologiche, politiche e militari.
Il problema della conservazione e della difesa di ciò che è rimasto della natura è diventato il leit-motiv dell'ultimo scorcio del XX secolo, e probabilmente continuerà a esserlo anche nel XXI, sempre che l'umanità abbia a trovare in futuro aria sufficiente a ossigenarsi il cervello.
Il problema è di per sé chiaro e semplice: eppure appare irrisolvibile. Gli uomini - o chi per essi - sono andati costruendosi un tipo di organizzazione economico-sociale che si sviluppa a scapito della natura o fuori dalla natura. Il progresso umano sembrerebbe cioè andare di pari passo con la distruzione del patrimonio naturale e quindi dello stesso uomo che ne è componente.
Ci troviamo davanti a un formidabile rompicapo: se vogliamo mangiare e goderci le comodità del progresso tecnologico, siamo costretti a optare per le industrie, con annessi e connessi, sorbendoci l'inquinamento, l'alienazione e tutti i condizionamenti nevrotizzanti della civiltà delle macchine; se vogliamo conservare il patrimonio naturale, rapporti umani autentici, individualità e, insomma, il gusto della vita genuina, dobbiamo restare sottosviluppati e crepare di fame.
Sul piano delle ideologie, questo rompicapo sta creando una confusione del diavolo: non si capisce più chi siano i conservatori e chi i progressisti. Si vedono capitalisti inquinatori e intellettuali di fede rivoluzionaria battersi insieme in difesa della natura minacciata, finanziare e promuovere centri di studio ecologici e inchieste; e si vedono altri capitalisti a braccetto con i leader dei popoli ex coloniali programmare industrializzazioni petrolchimiche accelerate alla Dobb, per migliorare il tenore di vita in quelle aree sottosviluppate, seppure ciò comporterà anche lì la distruzione del patrimonio naturale - su cui poi altri capitalisti-Cassandre spargeranno fiumi di lacrime.
I marxisti - revisionisti e massimalisti - dimostrano uno speciale culto per la macchina - entità noumenica creatrice del proletariato - e risolvono il problema ecologico, se mai se lo pongono, in chiave miracolistica: quando gli strumenti di produzione (per esempio: gli impianti petrolchimici) saranno nella mani del proletariato non si verificheranno più inquinamenti. Più scientificamente, qualcuno di loro spiega che la tecnologia in mano al proletariato, non condizionata dal profitto del capitalista, troverebbe sicuramente gli accorgimenti idonei a evitare gli inquinamenti. Al di là delle ideologie, a me pare che i pericoli per l'ambiente siano connessi a qualunque processo di industrializzazione che utilizzi sostanze energetiche con residui inquinanti, che si producono indipendentemente dalla classe che detiene il potere. Mi pare abbastanza logico che nessuna classe - in quanto costituita da «mortali» - abbia interesse a degradare la natura fino alla totale estinzione della vita. Il fatto che la responsabilità del grave stato di degradazione attuale dell'ambiente sia da addebitarsi totalmente al capitalismo, non significa che il problema si risolverebbe automaticamente quando il proletariato arrivasse al potere. E' fuori da ogni dubbio che se il popolo usasse comunitariamente il patrimonio naturale e gli strumenti di produzione l'ambiente sarebbe meno degradato; ma, in questa ipotesi, non è detto che le linee di sviluppo scelte dal popolo sarebbero le stesse di quelle dell'attuale civiltà - correlate al principio dello sfruttamento dell'uomo sull'uomo - e non è neppure detto che il popolo, eliminato lo stato capitalista, sceglierebbe lo stato comunista e non invece la costituzione di libere comunità.
La posizione paleo-marxista di cieco fideismo nelle capacità miracolistiche della tecnologia moderna finisce per collimare con la posizione fantascientifica e truffaldina dei tecnici della SARAS di Moratti, quando, per acquietare le preoccupazioni sugli inquinamenti delle raffinerie, annunciavano «di avere adottato sistemi tecnici» non soltanto per il recupero delle scorie inquinanti, ma addirittura «per la rilavorazione» delle stesse «riutilizzate come combustibile nel processo produttivo».
C'è chi si chiede se l'umanità - o chi per lei - davanti alla minaccia della totale distruzione non si decida a modificare le attuali strutture e gli attuali schemi di crescita del sistema, per aprirsi finalmente una strada nuova, dove il progresso umano coincida con la conservazione della natura, e l'equilibrio dell'uomo coincida con l'equilibrio naturale. In un tale nuovo sistema potrebbe realizzarsi certamente una società di uomini liberi.
Purtroppo è ancora utopia una società che non sacrifichi su alcun altare le esigenze naturali dell'uomo - perché l'umanità nella sua quasi totalità o è castrata o è incatenata. A decidere del presente e del futuro di tutto sono i pochi, i privilegiati. L'uomo delle aree industriali è ridotto a un automa, vive quasi completamente condizionato dagli impulsi che gli manda la centrale del sistema produttivo. L'uomo delle aree sottosviluppate è ridotto ad un animale famelico, vive nel continuo assillo del cibo, manca degli strumenti più rudimentali per comprendere il proprio mondo e farlo crescere e insieme crescere egli stesso. Nei due opposti poli, l'uomo si trova certamente nelle migliori delle condizioni per recepire e portare avanti un discorso politico rivoluzionario sulla ecologia. Non potrebbe farlo neppure se stesse per crollargli addosso il mondo intero. Anche sul tema della ecologia, vale il principio secondo il quale senza le masse popolari non si costruisce un vero e duraturo progresso. In termini più chiari: nessun problema umano può essere realmente risolto fintanto che tutti gli uomini non partecipino effettivamente al potere - ammesso che abbiano bisogno di costituire un «potere» per vivere insieme.
I circoli ecologici vanno sorgendo come funghi anche in Sardegna in difesa della natura minacciata dall'uomo-cattivo. In linea di principio mi pare giusto difendere anche un solo albero minacciato dalla scure del boscaiolo o anche un solo passero minacciato dal fucile del cacciatore. Ma non basta denunciare i danni che provocano gli scarichi inquinanti di una fabbrica o il dissennato uso di antiparassitari che modificano l'equilibrio biologico. Io penso in primo luogo a quell'animale chiamato uomo: bruciato dal napalm, chiuso a marcire nelle galere, gettato a morire di fame tra pietre sterili o isterilito sotto colate di cemento e di plastica: dappertutto umiliato, sfruttato, assassinato. Si dice che gli uomini hanno usato l'addomesticamento e lo sterminio per dominare il regno della natura; ma è pur vero che un pugno di farabutti al potere ha usato gli stessi metodi per assoggettare e dominare i propri simili.
Quando si cominciò a parlare, nel 1968, di Piano Mansholt e del Progetto 80, tra le altre cose saltò fuori l'idea del Parco del Gennargentu. L'opposizione delle popolazioni barbaricine è sufficientemente fondata nella sua motivazione politica e umana: «Salviamo coi mufloni il pastore sardo».
Per salvare il pastore e il contadino sardi si è deciso di portare nell'Isola le industrie. Tra gli altri nefasti fenomeni causati dalla «arretratezza», le industrie avrebbero eliminato anche il «banditismo». Ci sono piovute addosso le industrie petrolchimiche, quelle che costano di più, impiegano meno manodopera e producono i peggiori danni all'ambiente. Non hanno debellato il «banditismo», anzi lo hanno creato in nuove forme: la presenza di un ceto imprenditoriale con grossi capitali in banca ha incrementato il sequestro di persona su mandato di capitalisti concorrenti.

2 - Le grandi potenze capitaliste utilizzano sempre più aree coloniali per impiantare le loro raffinerie, necessarie a rifornire di energia il loro complesso apparato tecnologico, civile e militare, di sfruttamento e di oppressione. Gli USA raffinano in casa loro soltanto una piccola percentuale del fabbisogno energetico. L'Italia, al contrario, ospita (in Sardegna prevalentemente) impianti capaci di raffinare oltre il doppio del fabbisogno energetico nazionale. Gli economisti, foraggiati dai petrolieri, dicono che questo è un bene, perché ci consente di guadagnare. E' evidente che i padroni delle raffinerie ci guadagnano. Non ci guadagnano invece gli abitanti delle aree dove tali impianti vengono installati;
I pennaioli continuano a decantare la Sardegna nei depliants turistici affermando che «la natura vi serba intatto il suggello della prima creazione». La realtà è ben altra.
Secondo dati approssimativi - diffusi sulla stampa e non smentiti - l'80 per cento delle acque interne, lagunari e marittime riceve sostanze inquinanti che i concentramenti petrolchimici scaricano senza impianti di depurazione. Le acque delle coste a Nord sono minacciate da inquinamenti radioattivi per la presenza a La Maddalena di una nave appoggio per sommergibili a propulsione e ad armamento nucleari. Il mare, per vasti tratti, è inquinato dagli scarichi delle petroliere: le analisi fatte da Picard su mandato della Regione sarda lo confermano. In questi ultimi anni, i turisti approdati in Sardegna si sono abbronzati più che di sole di catrame. Si sono registrati, in forte aumento, casi di tifo, di epatite virale, di gastroenterite, di colera, di cancro. Il patrimonio ittico è gravemente danneggiato: negli stagni di Santa Gilla (Cagliari), di Cabras e Santa Giusta (Oristano), di Tortolì (Nuoro), un tempo pescosissimi, i pochi pesci rimasti sono immangiabili. E negli stagni di Sant'Antioco la pesca è rigorosamente vietata per il mortale pericolo costituito da quel prodotto.
Già dalla nascita le petrolchimiche hanno funestato la Sardegna: nella fase di impianto si è registrata una serie spaventosa di omicidi bianchi. Giugno 1965: sette morti, due feriti, sei vedove, ventinove orfani: questo il bilancio della sciagura di Macchiareddu. Settembre 1968: dieci operai mentre saldano una condotta per metano (un alcool etilico) sono investiti da una fiammata che provoca loro gravissime ustioni: cinque cessano di vivere a distanza di ventiquattro ore e gli altri restano menomati.
Agli omicidi bianchi le petrolchimiche ne aggiungono altri nuovi. E' di questi giorni un drammatico allarme partito da Portoscuso.
«Il prof. Casula avverte che bisogna «al più presto installare dei sistemi efficienti di aereazione e di protezione dall'inquinamento. Le intossicazioni derivanti dai rifiuti industriali avvengono lentamente, subdolamente, a dosi bassissime, che oggi non possono essere riscontrate: ne subiranno le conseguenze le generazioni successive. Se non verranno installati al più presto i sistemi necessari per proteggere il lavoratore dall'inquinamento e per prevenire le malattie professionali, si potranno constatare una miriade di tumori, tantissime nuove malattie, conseguenze anche nel feto materno…» «L'Unione Sarda» del 2.3.1974.

«L'Espresso» del luglio 1971 in una sua inchiesta denuncia l'estinzione del patrimonio ittico negli stagni.
«…Gli ecologi dicono che nel giro di pochi anni lo stagno di Santa Giusta sarà irreversibilmente perduto. E a questo punto si impone una riflessione. Abbiamo infatti visto i pochi soldi che era costato triplicare la resa dello stagno di Santa Giusta su cui vivevano la metà delle famiglie del paese. (2.500 abitanti - n.d.a.) Prendiamo ora le arroganti industrie che dovrebbero riscattare tecnologicamente quell'Isola infelice…» A conti fatti - conclude «L'Espresso» - le sole peschiere impiegavano più unità lavorative e davano maggiore reddito (con bassissimi costi di impianto e di produzione) di tutte le industrie messe insieme.
D'altro canto «L'Espresso» nella sua inchiesta non ha registrato gli scarichi inquinanti delle petrolchimiche di Ottana sul fiume Tirso, le cui acque, dopo avere dissetato il Campidano oristanese, si gettano nel golfo di Oristano, nei pressi degli stagni di Santa Giusta e di Cabras.
In più alle normali scorie velenose diffuse dalle lavorazioni, ci sono gli inquinamenti accidentali. Nel marzo del '74 oltre 1.000 litri di olio combustibile sono stati versati sul fiume Tirso «per errore». Il quotidiano petrolifero di Cagliari dà notizia dell'accomodamento dell'increscioso incidente, avvenuto tra l'assessore regionale «competente» e il direttore generale della società chimica di Ottana, nel salotto riservato del primo. «E' stata… fornita da parte del direttore generale e dei tecnici della società di Ottana ogni garanzia circa la predisposizione delle più rigorose misure precauzionali dirette ad evitare il ripetersi di analoghe disfunzioni».
Una disfunzione che l'onorevole assessore «competente» non è riuscito a fare evitare ai petrolieri è quella piovuta addosso agli abitanti di Calasetta a Sant'Antioco. Il 23 luglio '73, in piena stagione turistica (gli abitanti dell'isola omonima vivono prevalentemente di pesca e turismo), una petroliera che trasportava olio combustibile denso a Portovesme, si è incagliata nel canale di San Pietro, si è squarciata e ha riversato in mare tutto il suo contenuto. Il quotidiano petrolifero di Cagliari minimizza il fatto, relegandolo in sesta pagina, e annuncia che le «competenti autorità» e i «competenti tecnici» stanno provvedendo a sistemare al faccenda: «E' stata istituita una cintura di protezione con panne galleggianti che impediscono al combustibile che esce dalle tanche squarciate… di estendersi in mare».
Cinque giorni dopo, disperati, sommersi dal catrame, gli abitanti di Calasetta minacciano la rivolta se le «competenti autorità» non interverranno a dare una mano. Lo stesso quotidiano è costretto a riportare i fatti in prima pagina. Venti chilometri di costa sono ricoperti di olio e catrame. I pescatori di Sant'Antioco si vedono privati della laguna che dava loro da vivere. A Calasetta - il paese più colpito - si lotta senza sosta per giorni e notti contro la coltre di grasso che ricopre mare, scogli, spiagge: oltre 500 tonnellate di nafta pesante. Il sindaco vive le drammatiche giornate insieme ai concittadini. Dice: «La petroliera si è arenata verso le 7 del mattino e i primi soccorsi sono giunti alle 7 di sera: per 11 ore la nafta di cui era carica ha potuto liberamente disperdersi in mare per poi rovesciarsi sulle nostre coste. Dicono di aver fatto il possibile per evitare l'inquinamento. Balle: è da quattro giorni che bussiamo a tutte le porte per avere una briciola di aiuto. Servono ruspe, pale meccaniche, lanciafiamme, diluente. Niente: solo telegrammi, assicurazioni». Il telegramma del ministro Taviani è tra i primi ad arrivare.
Qualche mese dopo, in dicembre, si ripete «il drammatico incidente» presso le coste del Sulcis, un po' più lontano dai centri abitati. Una petroliera si incaglia in una secca davanti a Portovesme. Ci troveremo in estate le spiagge meglio incatramate.
Con un via vai così intenso di petroliere, parlare di «fatalità» è quanto meno ipocrita. Gli incidenti non possono che essere frequenti. E molti vengono taciuti per «non turbare» la quiete pubblica. Poco si sa, per esempio, della petroliera norvegese alla fonda a Sarroch che nel febbraio del '73 ha riversato una imprecisata quantità di petrolio che ha ricoperto una superficie di mare vasta 4.000 metri per 300.
Nel luglio del 1973, un gruppo di politici «ecologici» della regione decide di costituire una commissione di inchiesta sulla questione degli scarichi del polo petrolchimico di Ottana. Essi dicono:
«Accertato il grave pericolo che incombe sul Campidano di Oristano per l'eventuale inquinamento del sottosuolo, delle acque del Tirso e del lago Omodeo, ad opera di possibili scarichi inquinanti provenienti dalle industrie della Media Valle del Tirso; considerato che l'inquinamento attenta direttamente alla salute dell'uomo che è costretto nel Campidano oristanese ad alimentarsi con l'acqua emunta dai pozzi trivellati e dai canali di irrigazione che provengono dal Tirso; ritenuto che l'inquinamento del Tirso e del lago Omodeo danneggia direttamente l'agricoltura, la pastorizia e l'itticoltura oristanese; impegna la Giunta regioanle a bla, bla, bla…»

Essi sono, chi più e chi meno, gli stessi politici che non certo disinteressatamente hanno steso tappeti di incentivi e sventolato foglie di palma demagogica ai petrolieri sbarcati nell'Isola.
Neppure Sassari ride - lei che vanta la Costa Smeralda e altre stupende spiagge. Sotto il titolo «Inquinamento a Porto Torres: 100.000 tonnellate di gas al giorno dalla termocentrale di Fiume Santo», la rivista «Sassari Sera» (1° aprile 1973) pubblica un servizio sui danni che l'impianto ENEL, in aggiunta alle petrolchimiche della SIR, arreca agli abitanti e all'ambiente.
Il 4 giugno 1974 il Cipe ha approvato l'iniziativa della società RASS di creare nella Planargia un grande allevamento di suini che è stato battezzato «la porcopoli». La regione sarda, dal canto suo, si è espressa favorevolmente per quanto riguarda gli aspetti ecologici. Il progetto prevede un investimento di 150 miliardi di lire (in maiali - venuti di moda dopo la crisi della bistecca di manzo che dissesta l'erario).

«Se tanto può inquinare un pollaio - scrive Maria Giacobbe - mi domando: che cosa sarà l'aria attorno a una porcopoli delle dimensioni che l'entità della cifra stanziata lascia prevedere? Perché non risponde ai "si dice", perché non ci tranquillizza? E i contribuenti sardi che cosa ne pensano di questi 150 miliardi messi a disposizione della "societé RASS"? E chi è la società RASS? E che cosa ne pensano dei progetti della società RASS i più diretti interessati, gli abitanti della Planargia? I nostri "tecnici" e i nostri "specialisti di ecologia" negli uffici della Regione sarda e del Cipe dovrebbero informarcene e spiegarcelo in termini comprensibili. Dovrebbero aprire un dibattito e ascoltare il pubblico, prima di "rendere il progetto operante", come si dice. Così almeno si farebbe in un paese democratico» «L'Unione Sarda» del 1.10.1975.

Si dirottano in Sardegna - diventata ormai il cacatoio del capitalismo internazionale - con la complicità della classe dirigente indigena, gli impianti rifiutati dal continente per le gravi alterazioni che producono nell'ambiente.
Carloforte, nell'isola di San Pietro, lamenta da anni i danni che arrecano i «fanghi rossi», fanghi chimici emessi dagli stabilimenti dell'Euralluminia di Portovesme e che finiscono in mare. Sono gli stessi bouess rouges che hanno provocato in Corsica una vera e propria rivolta popolare - e bisogna dire con un certo successo, visto che i Corsi sono riusciti a smuovere Parigi: governo, stampa e tivù. E' un esempio che i Sardi dovrebbero riprendere.

Ma il pericolo più terrificante ci viene da La Maddalena che ospita la Gilmore, la mostruosa base yankee per la manutenzione e riparazione di sommergibili a propulsione nucleare. Nel corso di un recente congresso, 500 fisici convenuti a Cagliari hanno affrontato e discusso i problemi di questa base.
«Al termine del congresso è stato stilato un documento in cui si invitano le autorità a non consentire di provocare incidenti con danni incalcolabili per le popolazioni. Dal documento si apprendono notizie nuove e di notevole gravità, che dimostrano ulteriormente la fondatezza e la validità delle argomentazioni di quanti si oppongono alla base USA a La Maddalena… La legge italiana prevede rigorosissimi controlli e precise garanzie di sicurezza assoluta per qualunque centrale nucleare funzionante. Ogni centrale è sotto il controllo del CNEN e dell'Istituto Superiore di sanità, ai quali si affiancano tecnici dei ministeri dell'interno, dell'industria, dei lavori pubblici e del lavoro. Uno spiegamento di forze di controllo notevole che i terribili pericoli di inquinamento nucleare richiedono per qualsiasi mezzo o strumento utilizzi tale energia. Nel documento si ricorda l'allarme che ci fu nei porti italiani quando si dovette ospitare la nave statunitense Savannah a propulsione nucleare. Vennero effettuate accurate ispezioni e predisposti piani di emergenza contro i rischi di un inquinamento da sostanze nucleari. L'allarme che precedette e seguì l'arrivo della Savannah non si è ripetuto per La Maddalena. Qui nessun controllo è stato finora effettuato dalle autorità preposte alla sicurezza della popolazione dell'Isola. Il segreto che ha avvolto tutta l'operazione permane sottraendo agli organi di controllo ogni possibilità di accertamento, impedendo cioè quanto normalmente avviene nelle operazioni di controllo che vengono effettuate rigorosamente per ogni centrale nucleare. Il governo quindi oltre ad aver concesso l'Isola alla base USA senza sentir l'obbligo di consultare le Camere e la Regione sarda, evita anche di attuare qualche misura precauzionale a tutela della gente. Ciò è ancora più grave quando si pensi a quali terribili conseguenze potrebbero derivare alle popolazioni in caso di incidenti nucleari. Gli esempi a questo proposito non mancano» «Sassari Sera» del 15.11.1972.

Il Lawrence, nel suo libro di viaggi del 1927 «Mare e Sardegna» trova nella meravigliosa e ancora in parte incontaminata natura dell'Isola e negli usi e costumi dei suoi abitanti nuovi elementi per la sua tesi contro una «civiltà» che degrada la natura e l'uomo. Egli ammira il popolo barbaricino che ha volontà di conservare valori arcaici insostituibili, lasciando «che il resto del grande mondo vada verso il suo illuminato inferno». L'onore di una polemica postuma col grande naturista e filosofo inglese se lo è preso il borghese compradore Pirastu, deputato comunista, il quale, falsando o non comprendendo l'ideologia del Lawrence, ribatte: «…in realtà l'inferno non era quello del resto del mondo, ma quello dei pastori…». Il Pirastu dimentica che a rendere infernale il mondo dei pastori è il colonialismo, espressione di quel «grande mondo» cui il Lawrence si riferisce, definendolo stupendamente «illuminato inferno». I comunisti compradoris - raggiunto l'accordo coi democristiani sulla quantità di capitale statale da accompagnare al capitale privato - hanno portato con le petrolchimiche, con le basi nucleari e con le porcopoli, in Sardegna - per fare uscire i pastori dal loro «inferno» - uno scorcio di «paradiso capitalista».

3 - Per la sua appassionata campagna in difesa della natura in Sardegna «Il Corriere della Sera» potrebbe chiamarsi il «corriere del turismo». Che gli interessi del Corriere siano di natura capitalistica non v'ha dubbio; ma se, al limite, si fosse costretti a scegliere tra due mali, sarebbe da stupidi non scegliere il meno peggio. C'è un settore del capitalismo imprenditoriale e d'Oltre Alpi, che sulla scia della nota operazione Costa Smeralda (capitale internazionale) vede di malocchio la utilizzazione dell'Isola in funzione militare e petrolchimica e vagheggia una sua utilizzazione come area di servizi turistici.
Sotto l'aspetto puramente economico e della conservazione del patrimonio naturale è l'ipotesi meno peggio, in una dimensione coloniale.
Il discorso che fa il Corriere è chiaro e non manca di buon senso. La Sardegna poteva essere l'oasi dell'Europa industriale, il polmone di un continente soffocato, inaridito, corrotto. Poteva essere, per le masse lavoratrici ridotte ad automi dal processo produzione-consumo, una «clinica riumanizzante»: un luogo dove l'uomo ritrova la propria dimensione naturale (almeno per il periodo che il padrone gli concede per ritemprarsi e tornare «vispo» al lavoro). Poteva essere. Forse è troppo tardi. E l'umanità avrebbe perso così una delle ultime occasioni per conservarsi una via di salvezza davanti al rullo compressore della civiltà delle macchine.

Alfredo Todisco scrive: «Di fronte al frenetico sviluppo industriale moderno la natura di restringe come la pelle di zigrino della favola. Diventa un bene sempre più scarso, mentre la domanda di ambiente fisico vivibile, non contaminato aumenta in proporzione all'aumentare del reddito e del tempo libero di moltitudini sempre più fitte e provate dai flagelli dell'inquinamento di ogni tipo… Siamo giunti, cioè, ad un tornante della storia in cui la natura emerge come una nuova preziosa irriproducibile materia prima, che in prospettiva non può che aumentare il suo valore… La Sardegna, non solo conserva uno dei paesaggi più eletti al mondo del capitale natura; ma si trova alle frange di un continente sempre più industrializzato e denaturato che comincia a porre in cima ai suoi bisogni proprio ciò che l'isola può offrire in modo privilegiato… La Sardegna, avviandosi a costi pazzeschi sulla via di uno sviluppo industriale, anche a causa della limitatezza del suo mercato interno, non potrà mai raggiungere uno stadio autoproduttivo da reggere al triangolo, rimarrà sempre in posizione subalterna. Rischia però di sommergere in pochi lustri, sotto una mediocre coltre di cemento, di ferro, di petrolio, un capitale ambientale unico al mondo, più redditizio alla lunga di quello industriale, e di distruggere insieme le sue tradizioni arcaiche, i suoi caratteri di popolo, i suoi millenari valori culturali…» «Il Corriere della Sera» del 27.4.1971.

Al Corriere risponde il quotidiano petrolifero di Cagliari, paludandosi di orgoglio sardista. In sintesi dice che quelli che stanno dietro il Corriere vorrebbero una Sardegna tipo le Hawaj con gli indigeni (non dice «le indigene» per rispetto all'arcivescovo) affannati a intrecciare ghirlande floreali per i turisti; per questo vedono male il processo di industrializzazione nell'Isola, che è stato voluto dai Sardi, i quali hanno dimostrato non soltanto di essere ormai maturi, ma anche intelligenti scegliendo nel campionario delle industrie in commercio quelle petrolchimiche, che sono i capisaldi della moderna economia. Dopo che i Sardi hanno dimostrato di essere maturi e intelligenti scegliendo le industrie petrolchimiche di Moratti e Rovelli - prosegue il quotidiano petrolifero - devono continuare a esserlo rifiutando i progetti petrolchimici dell'ENI. E non per cattiveria verso i comunisti che premono in quella direzione, ma perché adesso è il momento di passare alla creazione di industrie manifatturiere di seconda e terza lavorazione (e qui è chiaro che non si tratta di industrie di lavorazione di prodotti agricoli o ittici, ma di sottoprodotti del petrolio di Moratti e Rovelli). Il discorso diventa osceno quanto afferma che le petrolchimiche erano necessarie per occupare la manodopera in soprannumero nelle campagne e per mettere freno alla emigrazione. E' ovvio che se si mette in crisi l'agricoltura e si affanna il contadino, questo va anche a prostituirsi, pur di sfamarsi. Ma non va a prostituirsi per «vocazione petrolchimica», come sostiene il quotidiano di Cagliari, o per «vocazione operaistica», come sostiene «Rinascita Sarda». Il discorso petrolifero dell'Unione conclude liquidando la questione degli inquinamenti con un sorrisetto: «Che due o tre industrie di questo tipo possano inquinare l'Isola e danneggiare l'agricoltura e il turismo… sono affermazioni francamente gratuite». Complessi industriali come la SARAS, con la capacità produttiva di 5.200.000 tonnellate e un via vai di oltre 600 petroliere all'anno, non sono «francamente» sciocchezzuole…

4 - Sarei parziale se dicessi che gli industriali sono gli unici responsabili del depauperamento e dell'inquinamento del nostro patrimonio naturale. Va dato a Cesare quel che è di Cesare. Tra i più pericolosi «inquinatori» sono da classificare i responsabili del governo regionale - la cui competenza può essere valutata da quel che fanno.

La storia della campagna di deferulizzazione nell'Isola è esemplare e la trascrivo come l'ho raccontata altre volte.
«La ferula è una pianta delle ombrelliefere molot diffusa nell'Isola. Gli ovini, da che mondo è mondo, se ne pascono. I pastori dicono che non fa male al bestiame, purché non ne abusi. Infatti, dopo una giornata di pascolo in zona ricca di ferula, il gregge viene spostato in altra parte che ne è priva. Il pastore usa anche recidere la ferula o appenderla per somministrarla secca nei momenti di scarsità di pascolo. Non esistono studi seri che accertino la composizione chimica della ferula. L'unico studio è quello di un vecchio farmacista sassarese che ritenne la ferula un ottimo pascolo per la presenza in essa di sostanze alcaline, stimolatrici della digestione.
Orbene, qualche anno fa, non si sa bene da parte di quali esperti, alla Regione si è scoperto che la ferula è nociva per le pecore e che a questa pianta devono attribuirsi le morie. Detto fatto, furono varate leggi per contributi per morie da ferula e per la campagna di deferulizzazione della Sardegna. Per la deferulizzazione sono stati adottati alcuni metodi senza alcun risultato, con la spesa di circa un miliardo e mezzo in quattro anni. Si è quindi passati alla lotta tipo Vietnam, con l'uso di potentissimi diserbanti che, ovviamente, distruggono ferula e tutto il resto. A questo punto, gli americani, che sono fra i più grossi importatori del nostro formaggio, lamentano la presenza di sostanze tossiche nel prodotto caseario» «Mondo Giovane» nn. 9/10 del 1971.
Poco male per le dissenterie degli yankee: il DDT ce l'hanno rifilato loro, ed è giusto che se ne riprendano indietro almeno un poco.

Altra storia esemplare sul tema «inquinatori politici» ci viene dalla faccenda del Pinus radiata.
«La cartiera di Arbatax - il vasto complesso che contribuisce in misura notevole a inquinare le acque delle coste Centro-orientali, dando da mangiare a meno famiglie di quante non ne nutrirebbero i pesci che distrugge - importa il legname necessario alla produzione della carta. Per ciò bisogna impiantare alberi in Sardegna: non andiamo a comprare fuori, alleggeriamo la bilancia dei pagamenti, sempre gravida, peggio di una puttana cattolica, riduciamo i costi di lavorazione e aumentiamo i profitti - i salari no, perché non possono essere reinvestiti e non giovano alla economia generale. Così dicono, ragionando coi politici, i padroni della cartiera.
La Regione - tasto sensibile al dito padronale - promuove incentivazioni e contributi per impianti forestali utili a quell'industria. Ad impiantare gli alberi non saranno però i contadini, ma i padroni della stessa cartiera, che vanno a caccia di terre, le prendono in affitto per venti anni, pagandole una miseria - intascando essi i lauti contributi regionali.
Che cosa si decide di impiantare? Alberi tipici dell'ambiente isolano? Alberi che comunque si adattino e si sviluppino senza produrre danni e squilibri biologici? No, ciò che conta sono i profitti; e viene scelto il Pinus radiata: cresce abbastanza rapidamente e in dieci anni è pronto al primo taglio.
I botanici però avvertono che il Pinus radiata isterilisce il terreno in cui cresce per almeno due o tre secoli. Quando trascorreranno i venti anni e scadrà il contratto di affitto, il proprietario si vedrà restituire un pezzo di deserto dove non crescerà neppure la denigrata ferula» «Almanacco della Sardegna» 1971.

5 - Anche la questione ecologica non può essere disgiunta dalla analisi delle strutture e dei procedimenti colonialistici di rapina e di sfruttamento. L'ecologia diventa un passatempo salottiero se non si pone in termini politici. Non avrebbero un senso - o avrebbero quel senso di «fatalità» che torna comodo alla consorteria al potere - i gravi fenomeni di degradazione e di distruzione del nostro patrimonio naturale. In quest'ambito va visto il fenomeno di totale estinzione del patrimonio boschivo di pianura e di collina, attualmente in atto.
Il fenomeno ha origine nella presunzione e nella ignoranza dei tecnici della «bonifica integrale» fascista, seguita dai trapianti umani, bovini e suini ad Arborea, e poi della «disinfestazione integrale» dello yankee Rockefeller a base di DDT, e che si lega infine alla invasione dei petrolieri.

Nell'estate del 1970, un gruppo di entomologi dell'università di Cagliari scopre un insetto parassita dell'eucalipto, il Phoracanta semipunctata. Il terribile insetto era ignoto nel nostro ambiente: ed è naturale perché si tratta del parassita specifico dell'eucalipto, una pianta originaria dell'Australia che in Sardegna è stata importata e impiantata per seme. I colonizzatori, dopo avere rapinato e distrutto il patrimonio boschivo isolano, nei primi decenni di questo secolo lo hanno in parte sostituito con piante di importazione, in massima parte eucalipti. Attualmente costituiscono la quasi totalità del patrimonio boschivo in pianura e in collina. Sono cresciuti e si sono diffusi senza parassiti. Con la costruzione degli impianti petrolchimici della SARAS - pare residuati del Medio-Oriente - con il legname di imballaggio dei macchinari, ricavato dall'eucalipto, sbarca e invade la Sardegna anche il Pharacantha semipunctata.
«Il focolaio di infestione, localizzato nella fascia costiera tra il Golfo degli Angeli e Domus de Maria, si va allargando. Pare che abbia raggiunto Teulada e Sant’Antioco e che, attraverso Villacidro, si diriga verso l'Oristanese… Il parassita trova qui in Sardegna un ambiente climatico favorevole al suo sviluppo e alla sua diffusione e non trova qui nemici naturali (iperparassiti) che nel suo ambiente di origine lo decimano e lo ridimensionano. Potrà quindi rodersi indisturbato una decina di milioni di alberi di eucalipto… Il fatto diventa ancora più drammatico quando si apprende che allo stato attuale non si conoscono armi idonee a debellare il malefico insetto. Due metodi ci sarebbero - dicono gli studiosi. Uno, vecchio quanto il cucco, di mettere a ferro e a fuoco il nemico incendiando le piante infette. L'altro, quello di andare in Australia, raccogliere un certo numero di parassiti del parassita, i cosiddetti iperparassiti, portarli qui in Sardegna e attaccarli alle costole del Phoracanta semipunctata. Noi non siamo biologi e non ci permettiamo alcun dubbio sulla serietà dei loro studi. Dubitiamo però - e a ragione - che la scienza possa riequilibrare ciò che ha incautamente squilibrato…» «La Nuova Sardegna» del Lunedì - del 31.8 e 14.9 del 1970.

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