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Capitolo X - Dopo Barbagia Rossa viene il MAS

Esaurite le gesta criminose della società segreta Barbagia Rossa e della fantomatica colonna sarda delle BR (di cui al duetto Savasta-Libera spetta il merito d’essere stati inseminatori, ostetrici e prosseneti, e da ultimo becchini), la Sardegna sembrava essersi "ristabilizzata" sugli indici di valore comune della tradizionale criminalità pastorale barbaricina. In verità il netto declino, a valutare dai dati statistici relativi ai crimini "tipici" di quel mondo, soppiantata da altre forme di criminalità "tipiche" della civiltà dei consumi, di chiara importazione, i cui focolai si rilevano nelle grandi città. Ma ecco spuntare, con una serie di rivendicazioni relative ai più disparati reati, una fantomatica organizzazione terroristica, che si etichetta MAS, ovvero Movimento Armato Sardo, e si dà una verniciatina di ideologia politica di sinistra, con riferimenti malamente orecchiati, rafforzati da sofisticati documenti marxisti-leninisti di stampo brigatista.
L'opinione pubblica isolana è rimasta ancora una volta perplessa davanti a questo nuovo proliferare in ambiente sardo di prodotti tipici della disgregazione della cultura urbana continentale. Non così l'apparato repressivo dello stato italiano che giustamente, dal suo punto di vista si preoccupa di veder risorgere in Sardegna un fenomeno come quello del terrorismo politico che, giusto in tempo, si dice è riuscito a debellare in Continente. E - sembra di capire - che il timore non è da poco, se il terrorismo politico, in Sardegna, dovesse trovare legami e unità di azione con lo storico fenomeno del banditismo barbaricino: ne verrebbe fuori un nuovo, imprevedibile ed esplosivo organismo di rivolta e di destabilizzazione che - se fosse vero - darebbe non poco filo da torcere alle difese dello stato italiano (considerata anche la grave situazione di crisi economica e di sfacelo delle pubbliche istituzioni).
Dal canto suo la stampa - e non soltanto quella sarda, che in questi anni ha vissuto con l'invocazione "Dacci oggi il terrorista quotidiano" - non si è lasciata sfuggire l'occasione di manovrare in tutti i sensi l'ipotesi poliziesca della esistenza e pericolosità del fantomatico Movimento Armato Sardo.
Per oltre un anno, quasi quotidianamente, in riferimento a ogni loffa delinquenziale, si sono fatte fantasiose ipotesi di sovversivismo, rendendo pubblici nomi di pastori sospetti o indiziati di reati comuni, o di latitanti - i quali, per altro, hanno sempre smentito categoricamente di aver qualcosa a che fare con il fantomatico MAS, dichiarandosi apolitici.
Tuttavia, i volantini di rivendicazione, ogni tanto sono venuti fuori, siglati MAS; e in essi si tenta di fare in modo rozzo (forse per dimostrare che dietro ci sono davvero pastori analfabeti) il discorso pseudorivoluzionario del brigantismo crepuscolare; fino a scomodare l'idea indipendentista, di cui il MAS si dichiara paladino, formulando la singolare proposta di una separazione dall'Italia per potersi vendere in proprio all'America (come base militare), ricavando tutto l'utile della "marchetta" che invece si pappa quale "tenutario" lo stato italiano. Per inciso, l'idea, che certamente non piace al popolo sardo (che non ha la vocazione alla prostituzione) è probabilmente vista di buon occhio da certi settori della classe dirigente indigena - la quale potrebbe ricavarne cospicui utili, libera com'è da problemi di morale.
Mi è stato chiesto, più volte, pubblicamente che cosa ne penso del MAS. Ho preferito finora tacere sulla stampa per evitare strumentalizzazioni. Non ho alcuna stima del potere, per averne fiducia. Tra le arti del potere c'è quella di distorcere e falsare fatti e pensieri, adattandoli ai propri turpi fini di dominio. Il "quarto potere" non fa eccezione alla regola. Ne parlo ora, qui, brevemente - convinto di esprimere opinioni personali che collimano con quelle che ha la mia gente.
In primo luogo, MAS è una sigla di pessimo gusto, malfamata perché storicamente riferita ai "guastatori" della Decima capitanati da Junio Valerio Borghese (che non era né un criminale comune, né un ideologo dell'indipendentismo dei popoli coloniali). Anche valutando soltanto la banalità e incongruenza della sigla, chi c'è dietro è certamente - per dirla pulita - una manica di provocatori di bassa lega. Di provocatori, attualmente, ce ne sono dappertutto e di diverse categorie e funzioni. Pertanto, dietro il MAS potrebbero esserci:
a) criminali comuni che si danno una colorazione politica: una sorta di provocatori alla rovescia, con lo scopo di depistare le indagini e uscirne per il rotto della cuffia; b) criminali comuni di mezza tacca, i quali dandosi una matrice politica presumono di acquistarsi una patente di nobiltà e una "solidarietà popolare"; c) esaltati e rozzi orecchianti di un'idea separatista degenerata (per intenderci del tipo qualunquista emerso nella Sicilia del secondo dopoguerra), che sostiene senza alcun pudore di sganciare la Sardegna dall'Italia per venderla al migliore offerente (le simpatie andrebbero agli Stati Uniti; e logica vuole che nella manovra potrebbe andarci anche lo zampino della CIA); d) che il MAS sia una messinscena di burloni, i quali inventando una sigla terroristica e attribuendosi veri e presunti granguignoleschi attentati vogliano produrre allarmismo e divertirsi alle spalle degli zelanti tutori della legge e dell'ordine costituito; e) in ultimo, che si tratti di forze (di potere, di segno non facilmente decifrabile) che hanno interesse a creare fantasmi per avere poi il destro di utilizzarli per oscuri fini (di potere) e alla fine attribuirsi anche il merito di averli esorcizzati.
Ribadisco l'opinione - che è frutto della conoscenza della storia culturale e politica del mio popolo - che forme di criminalità politica (o politicizzata) come quelle che, non richieste, "si attribuisce" il fantomatico Movimento Armato Sardo (e così come sono state attribuite da pentiti come Savasta, ottimi delatori ma pessimi conoscitori della cultura dei Sardi, a vere o presunte colonne "ascare" di BR, a Barbagia Rossa o ad altre consimili organizzazioni delle quali sono esistite soltanto le sigle) sono del tutto estranee al tessuto connettivo storico etico sociale politico della società sarda, specie pastorale e contadina; tutt'al più potrebbe trattarsi di tentativi (maldestri) di trapianto nell'isola di "essenze esotiche" che difficilmente possono allignare, e tanto meno dar frutti. Una cultura come quella sarda, che per sopravvivere ha esasperato i valori di coesione comunitaria e ha basato ogni suo progresso in forme selettive naturali favorendo le capacità (balentia) dell'individuo, ha propri modi di opposizione al potere dello stato italiano (quando non dovesse accettarlo). Modi che non sono mai "di attacco", ma sempre "di difesa"; di "rifiuto", più che di "destabilizzazione" attraverso atti terroristici. Modi che sono scevri di influssi marxisti-leninisti - come dimostra (oltre l'assenza di una vera e propria classe operaia indigena) anche l'incapacità di dare vita a organizzazioni proprie dell'ideologia marxista, e per essere più precisi a qualunque forma organizzata di risposta politica armata, di classe. In Sardegna vi è stata, forse più che in altre regioni d'Italia opposizione al fascismo, rifiuto dell'ideologia fascista: tuttavia non vi è stata lotta armata partigiana contro il fascismo. Evidentemente, per i Sardi, la questione della propria liberazione non si risolveva (e non si risolse) con un mutamento del regime politico dello stato del paese colonizzatore. Se vogliamo parlare di "bande armate" organizzate dai Sardi contro l'invasore, dobbiamo rifarci al modello storico della bardana: un fenomeno durato duemila anni, dalla dominazione romana a quella sabauda, che consisteva nella estemporanea raccolta di un certo numero di cavalieri armati che assalivano i punti nevralgici del colonizzatore con rapide puntate, vere e proprie azioni di guerriglia, e non semplicemente atti di rapina, saccheggi e grassazioni. La banda, esaurito il suo compito, si scioglieva, riprendendo ciascun componente il proprio posto nella comunità di origine, senza mantenere tra loro alcun rapporto.
Si potrebbe obiettare che i tempi sono mutati. Si risponde che in verità, per la Sardegna, al mutare dei tempi non ha corrisposto in profondità un mutamento dell'uomo, nel suo dato psicologico, etico, sociale. L'uomo, per mutare, necessita di mutamenti strutturali, o essenziali, come quelli di una autentica autonomia, di nuovi rapporti di produzione, e così via. Mutamenti che sono ancora di là da venire. I mutamenti che si è tentato di apportare nella realtà del mondo sardo, come le petrolchimiche e altri, si sono dimostrati una truffa; altro effetto non hanno avuto se non quello di respingere ancora di più il Sardo nel suo passato, ancorandolo ancor più saldamente ai suoi storici valori di isolano diffidente e ribelle.
Sembrerebbe che l'esistenza di un MAS, di un Movimento Armato Sardo, ovvero di una simbiosi tra banda armata di terroristi politici e anonima sequestri, favorisca le ricerche di inquisitori a corto di piste. Il 21 dicembre '83 - dopo l'invio del sanguinoso trofeo effettuato dai sequestratori dei Bulgari in risposta alla decisione del magistrato di bloccare i beni di famiglia dei sequestratori - i giornali riportano a grossi titoli la seguente notizia.
"Dopo l'invio dell'orecchio mozzato indagini sulla nuova pista. ANONIMA SARDA E MAS HANNO RAPITO I BULGARI? Gli inquirenti affermano di avere numerosi indizi. Gli inquirenti romani non hanno più dubbi: a rapire Anna Bulgari e il figlio è stata una banda di sardi. E i sequestratori sarebbero legati al MAS, il Movimento Armato Sardo. A tirare le fila dell'organizzazione sarebbero cinque latitanti sardi, che si trovano nel centro Italia, e che probabilmente si sono politicizzati dopo un contatto col pentito delle BR Savasta" (La Nuova). Un formidabile predicatore sardo, il Savasta. E meno male che si è pentito, diversamente avrebbe catechizzato e inquadrato in un'unica banda armata tutti i Sardi: altro che Giovanni Maria Angioy!
Sullo stesso quotidiano citato (22 dicembre) Giannino Guiso commenta, sotto il titolo "Perché i rapitori dei Bulgari non possono essere sardi":
«Dire che il delitto è stato consumato da sardi, è forse parzialmente vero, nel senso che possono esservi dei sardi tra loro. Ma altri segni indicano che la direzione e la gestione hanno una matrice più qualificata: forse mafiosa.
Non credo siano fondate perciò le ipotesi avanzate da molti che il movente del sequestro possa essere politico perché il Movimento Armato Sardo (MAS) non sarebbe estraneo. A mio parere nulla c'è di politico nel sequestro anche perché nulla c'è di politico nel MAS. L'ipotesi va quindi ricondotta a quanto prima ho detto.
Il pastore bandito si è evoluto e con lui la tecnica e i rapporti delinquenziali; se una componente vi è nel sequestro Bulgari, non partecipa come cervello dell'operazione. La parlata sarda è un elemento equivoco, perché le persone che formulano il giudizio non sono - a mio parere - in grado di distinguere tra due interlocutori, colui che è sardo e colui che lo imita. Le tracce possono essere create volutamente per depistare, come il pane carasau trovato nell'auto che servì per il sequestro e che fu abbandonata subito dopo. D'altronde non furono rinvenute impronte digitali e il dato sconfessa la superficialità attribuita agli esecutori che avrebbero lasciato gli indizi.
Le modalità per la contrattazione sono poi abnormi rispetto alle cautele e alle essenzialità che sono riscontrabili nell'esecuzione del delitto sardo. L'introduzione di un richiamo religioso, e in particolare l'imprevedibile richiesta di mediazione del Papa, ricordano l'intervento del clero (tratti di Mazzarino, don Agostino Coppola, eccetera) nei reati di stampo mafioso. Tale considerazione mi induce a respingere l'ipotesi che l'assimilazione delle modalità delinquenziali altrui, per contatto o per contagio, possa aver raggiunto livelli capaci di modificare la laicità strutturale del mondo pastorale sardo, ove l'elemento religioso richiamato è solo quello mitico o magico, mai autoritario e gerarchico, rifiutato storicamente.
Anche la mutilazione ci riconduce all'altra isola. Già Paul Getty fu mutilato dell'orecchio; e quello fu un delitto di mafia. Il padrino di Puzzo fa riferimento alla mutilazione di un dito dell'ostaggio; una più recente realtà ci presenta una testa tagliata e abbandonata poi su un sedile di un'automobile. Vari gesti - rituali e crudeli - evidenziano una condotta comportamentale esemplare. La intimidazione terrificante e strutturale ad un tipo di delinquenza bene individuato e che non ha nulla in comune con la malavita di origine sarda».

Il caso Gazzaniga / Galera e pazzia

19 novembre '83. "Da oggi Giulio Gazzaniga potrà tornare in libertà. Il giudice istruttore di Cagliari Marchetti ha firmato il provvedimento di libertà provvisoria, accogliendo l'istanza presentata dal difensore Michele Costa. Ma c'è voluta una quarta perizia per sancire definitivamente che Giulio Gazzaniga è impazzito durante i tre anni e nove mesi di carcerazione preventiva trascorsi dall'arresto avvenuto il 15 febbraio 1980, subito dopo la sparatoria avvenuta a Cagliari in piazza Matteotti tra la polizia e i brigatisti rossi Antonio Savasta e Emilia Libera. In questo periodo il giovane è passato attraverso il carcere, il manicomio e l'ospedale". (La Nuova)
Così, lo stesso quotidiano di Sassari ha raccontato il giorno dopo, il 20, la liberazione del giovane:
«E' finito un incubo. Il giorno più lungo per Giulio Gazzaniga, è cominciato alle otto del mattino di ieri. E' stato in quel momento che un agente gli ha comunicato che di lì a poco sarebbe stato rimesso in libertà. Da quell'istante per il geometra nuorese coinvolto nell'inchiesta sul terrorismo in Sardegna è cominciata una snervante attesa. Controlli, verifiche e accertamenti burocratici hanno richiesto più tempo del previsto. Prima che lasciasse l'ospedale sono così passate parecchie ore. Soltanto alle 13,45 quando la polizia ha ricevuto l'ordine di scarcerazione definitivo, il giovane ha potuto abbracciare i parenti e gli amici e far ritorno a casa. "E' la fine di un incubo - ha mormorato uno dei familiari sedendosi al suo fianco nell'auto che li riportava insieme a Nuoro".
Quelle che hanno preceduto la liberazione di Giulio Gazzaniga, per i fratelli e gli altri parenti, sono state ore di estrema tensione. Molti, nel reparto dialisi al terzo piano dell'ospedale dove si trova la camera riservata ai detenuti ripensavano alle fasi della drammatica vicenda giudiziaria e umana del geometra nuorese. La sua storia ha avuto inizio nel febbraio del 1980 a Cagliari. Il 15 di quel mese, nella piazza della stazione ferroviaria, Antonio Savasta (che era in compagnia di Emilia Libera) aveva ingaggiato un conflitto a fuoco con la polizia. Gazzaniga, poche ore dopo, era stato arrestato insieme con altri giovani nuoresi e cagliaritani.
Le accuse nei suoi confronti sono sempre state molto gravi (ma in verità poco fondate - n.d.A.): concorso in detenzione illegale di armi (si trattava di una pistola, alla cui detenzione hanno "concorso" numerosissimi ragazzi che in qualche modo conoscevano il "detentore" - n.d.A.) e nell'ambito delle istruttorie sui movimenti eversivi nell'isola, concorso in organizzazione di banda armata (altro grave reato, questo del "concorso" in organizzazione di banda armata, la cui esistenza andava riferita ai brigatisti rossi Savasta e Libera in trasferta in Sardegna appunto per organizzare una banda che è stata debellata prima che si costituisse - n.d.A.). Non è però mai stato processato a causa delle sue condizioni di salute: durante la carcerazione preventiva è impazzito.
In prigione il giovane è stato sottoposto a ben quattro perizie psichiatriche. In tutto questo periodo (quasi quattro anni) non è però rimasto soltanto in carcere. Per quasi due anni è stato ricoverato nel manicomio giudiziario di Barcellona. Negli ultimi mesi ha tentato più volte il suicidio. Nell'ospedale sassarese si trovava da qualche settimana. Ed è stato proprio qui che ha saputo che forse avrebbe potuto ottenere la libertà provvisoria. Il provvedimento è stato firmato l'altro ieri dal giudice istruttore del tribunale di Cagliari Marchetti dopo che una perizia specialistica ha stabilito che Giulio Gazzaniga avrebbe potuto guarire soltanto dimenticando definitivamente manicomi e carceri.
Sin dalle otto, ieri mattina, al terzo piano dell'ospedale si è radunata una piccola folla formata da amici, parenti e conoscenti. Ad attendere il giovane c'erano tra gli altri i fratelli Luigi e Graziano, la fidanzata Antonietta Sanna, il figlio adottivo Francesco, un bambino ugandese. Tutti hanno vissuto con apprensione le fasi che hanno preceduto la liberazione. "Ora Giulio deve pensare soltanto a guarire ha detto Pasquale Manca, zio e padrino del geometra nuorese. - Deve dimenticare la brutta storia nella quale si è venuto a trovare, le ingiustizie patite. Anche la stampa in questi anni ha riferito tante inesattezze sul conto di Giulio. Non è vero per esempio che si sia mai dichiarato prigioniero politico".
Alle dieci qualcuno ha cominciato a pensare che forse il momento della liberazione era arrivato. Nel settore destinato ai detenuti, intanto, il geometra dava segni di impazienza, non aspettava altro che poter riabbracciare i familiari e gli amici. La borsa già pronta poggiata su una sedia, blue jeans, camicia portata fuori dai pantaloni, il volto ben rasato, appariva in buone condizioni fisiche. Ma ha dovuto attendere ancora.
L'ordine di scarcerazione era giunto al posto di polizia dell'ospedale da tempo, ma c'era la necessità (sic!) di verifiche. Tra gli agenti, la questura, la casa di reclusione di San Sebastiano e il tribunale di Cagliari si è intrecciata una fitta serie di telefonate. Quando finalmente è arrivata la conferma definitiva, Giulio Gazzaniga ha disceso quasi di corsa i tre piani che lo separavano dall'uscita dell'ospedale. Nell'androne del pronto soccorso ha abbracciato la fidanzata, i familiari, gli amici. Non ha voluto rilasciare dichiarazioni, né commentare in alcun modo il provvedimento che gli ha consentito di tornare in libertà…».
Il caso del giovane Gazzaniga è uno dei tanti drammi in cui si sono viste distrutte centinaia di vite umane durante l'ultima fase della caccia alle streghe terroriste, che ha funestato la Sardegna e che ancora imperversa.
Tratto in arresto insieme ad altre decine di ragazzi - sospettati perché facevano politica fuori dai partiti - nel cosiddetto blitz effettuato dalla polizia subito dopo lo sconcertante conflitto a fuoco tra i brigatisti sbarcati dal continente, Savasta e Libera, e gli agenti della questura che avevano fermato il duetto per "accertamenti", Gazzaniga viene giudicato in carcere "infermo di mente". La diagnosi della malattia mentale di cui soffre il giovane è accertata da tutti i periti, di ogni parte. Tra gli stessi periti non c'è però accordo sul "quando" il giovane abbia contratto la malattia: se era pazzo prima dell'arresto o se è diventato pazzo, dopo, nella segregazione della galera. In attesa di sciogliere questo nodo bizantino, la magistratura ha tenuto il ragazzo malato di mente per quasi quattro anni recluso, parte in galera e parte in manicomio criminale. Eppure il nodo era semplice da sciogliere: se il ragazzo era già "incapace di intendere e di volere" prima dell'arresto, perché è stato tenuto per tanto tempo in isolamento carcerario, se "non era punibile? E se è impazzito dopo, in galera, in seguito al bestiale isolamento, perché continuare a trattarlo da criminale anziché da malato, e come tale curarlo? Dopo quasi quattro anni i periti nominati dallo stesso tribunale affermano che Gazzaniga è impazzito in carcere. Il giovane ha duramente pagato (e senza che nessun tribunale lo abbia giudicato colpevole) del reato di "concorso" in detenzione di arma e "concorso" in organizzazione di banda armata. Ma c'è da scommettere che nessuno pagherà (neppure per "concorso") per avere torturato Gazzaniga fino a fargli perdere la ragione.
In Sardegna, la gente non ha mai creduto alla pericolosità sociale di questi giovani criminalizzati come terroristi con troppa disinvoltura - e direi per eccesso di zelo. In Sardegna, infatti, non ci sono stati - come nelle metropoli del continente - veri e propri fenomeni di terrorismo politico, e per poter in qualche modo "punire" questi giovani si è voluto coinvolgerli in attività criminali comuni, quali rapine e sequestri di persona attribuibili a tutt'altro settore che quello politico. Ma in Sardegna - la storia ce lo insegna - quando le "prefigurate" bande criminali o sovversive non ci sono, si inventano o si producono importandole dal continente.
Sempre più la gente ha lo stomaco in subbuglio per come viene amministrata la giustizia. Si dice che il terrorismo è ormai sconfitto, ma si continuano ad effettuare i blitz per acciuffare i terroristi, e si continuano a sperperare miliardi per edificare caserme bunker, tribunali bunker, galere bunker - mentre migliaia e migliaia di cittadini, terremotati e no, vivono in condizioni subumane in tende, in roulottes, in baracche, per strada.
In una recente nota (4 settembre '83), il direttore del settimanale Famiglia Cristiana, in parole semplici ma chiare, auspica (dopo le ondate di leggi speciali) un diverso e più umano trattamento per le migliaia di giovani (vittime più che responsabili) travolti da una violenza indotta dalla realtà storica determinata dallo stesso potere. Di cui appunto è il potere il primo e il massimo responsabile. I cosiddetti "anni di piombo" sono comunque finiti. E che lo si voglia o no sono da considerarsi l'aspetto di un periodo della storia attuale. E la responsabilità di fatti che sono storici non la si può semplicisticamente scaricare sulle spalle di questi giovani. Se una lezione si deve trarre da questi fatti è necessaria in primo luogo una onesta critica da parte del potere. (Ammesso che il potere possa farsi "oneste critiche").
Riporto testualmente il brano conclusivo del pezzo sull'argomento apparso sul citato settimanale: «Proprio perché nel mondo c'è dominio, potere, ingiustizia, dobbiamo aiutarci a non tornare alla società che ci ha generati, ma a generare una società rinnovata». In altre parole, non si tratta di cancellare i sintomi spiacevoli di una malattia alternando terapie violente a terapie oppiacee ma eliminando le cause della malattia stessa; o per uscir di metafora, la rivolta delle giovani generazioni contro questo potere e contro questa ingiustizia non si può cancellare né con i blitz, né con i lager, né con le torture, e neppure con il perdono per chi abiura e tradisce, ma eliminando questo potere e questa ingiustizia che sono la causa della rivolta. «Senza questa determinazione e questo coraggio, che hanno i connotati di una giustizia più umana e cristiana, non ci sono possibilità di redenzione e di riconciliazione autentiche; c'è solo la repressione, che può preludere a scopi ancor più devastanti di quelli che abbiamo conosciuto in questi nostri anni di piombo».
Nel Nuorese, nel mondo barbaricino in particolare si dispiega e si attua in tutta la sua violenza la repressione. Il carcere di Bad'e Carros, in particolare il "braccio speciale" riservato ai politici è un lager dove imperversa il terrorismo di stato. E finché a denunciare arbitri e violenze erano i carcerati o i loro familiari, le solite autorità competenti e la stampa o non davano peso o lasciavano sottintendere che si trattava del solito tentativo dei sovversivi di gettar discredito sulle istituzioni. Ma ora è lo stesso vescovo di Nuoro che rilascia dichiarazioni in cui giudica disumano il trattamento dei carcerati della sezione speciale, e appunto per questo, per protesta, il presule ha rinunciato a celebrare la Messa di Natale nel carcere di Bad'e Carros.
Ma c'è di più. Il cappellano dello stesso carcere, in una lettera al vescovo e alla stampa, ha deciso di non svolgere più la sua opera in una "fortezza" dove non sono rispettati i principi di umanità nei confronti dei carcerati. Il sacerdote - facendo propria la protesta di sei brigatisti che dal 23 dicembre scorso hanno iniziato lo sciopero della fame - parla di "terrorismo di stato" che viola i diritti umani dei detenuti.
Questo il testo della lettera del cappellano don Salvatore Bussu così come la presenta ai suoi lettori il quotidiano di Sassari La Nuova (27 dicembre '83):
«Eccellenza, mentre celebravo in carcere la messa di Natale, che Lei per una precisa scelta pastorale non ha voluto presiedere, pensando che a cento metri di distanza sette detenuti della sezione speciale da quasi venti giorni fanno lo sciopero della fame (dal 23 cinque di essi hanno anche rinunciato a quel quarto di latte zuccherato che stavano prendendo nei primi quindici giorni) ho provato un'enorme angoscia. E' stato tutto inutile. Essi - scrive ancora il cappellano - sono decisi ad andare avanti fino alla fine, se non cambiano le condizioni disumane di esistenza in cui vivono. Ora, mentre dei miei fratelli - perché tali li sento, chiunque essi siano e qualunque reato abbiano commesso - muoiono lentamente, non posso continuare a esercitare il mio ministero a pochi passi di distanza, come se nulla stesse avvenendo. Da oggi, perciò, interrompo il mio servizio pastorale a Badu'e Carros, pronto a riprenderlo solo quando in quel carcere, anche nel braccio speciale, verrà instaurato un trattamento conforme e sia assicurato il rispetto della dignità della persona, come vuole l'articolo uno dell'ordinamento penitenziario del 1975.
Il mio - ha voluto spiegare don Bussu - non vuole essere un gesto di protesta contro la direzione del carcere, che è ben conscia della giustezza delle ragioni per cui i sette detenuti fanno lo sciopero della fame, ma contro le autorità governative che continuano a imporre, nel modo più drastico, l'applicazione dell'articolo 90 della legge '75 che prevede per gravi ed eccezionali motivi di ordine e di sicurezza, per un periodo determinato e strettamente necessario, anche la sospensione di alcune regole di trattamento umano, rispetto della personalità di ciascuno, ai fini della risocializzazione previsto dalla stessa legge. Questo periodo, "determinato e strettamente necessario" purtroppo si protrae troppo a lungo. E' da quasi due anni che tale applicazione è in vigore e non se ne vede ancora la fine.
Sperando che i sette detenuti si ricredano - scrive il cappellano - e riprendano a nutrirsi, la prego di voler capire il mio atteggiamento che non è di disubbidienza nei suoi riguardi, ma di rispetto alla mia coscienza di sacerdote che si ribella a ogni forma di violenza. Perché, se da una parte c'è stato un terrorismo delle brigate rosse - e Lei sa come l'ho sempre condannato nel settimanale che dirigo - dall'altra parte, oggi, per reazione, c'è purtroppo un terrorismo di Stato, certo meno appariscente e più "scientifico" ma non per questo meno condannabile.”
Don Salvatore Bussu, dopo aver sottolineato che quanto va affermando "può dar fastidio", ribadisce che "non si è fatto prete per puntellare un ordine costituito che molto spesso non ha nulla di cristiano. Anche i carcerati, per me, sono veramente Chiesa. Quelli che sono dietro le sbarre mi appartengono come mi appartengono le creature più care".
Dico di più - ha concluso il cappellano - mi appartengono (mi perdoni l'accostamento) come mi appartiene Cristo. C'è infatti quella sua parola quasi sacramentale che non posso dimenticare: - Io ero carcerato e tu mi hai visitato…
Il vescovo di Nuoro, Mons. Melis ha dichiarato di essere pienamente d'accordo con il cappellano, e ha precisato: "Io stesso avevo compiuto il gesto di non celebrare la Messa in carcere il giorno di Natale, come facevo abitualmente. Non sono voluto andare perché non volevo solennizzare la festa della venuta in terra di Nostro Signore Gesù con una parte dei detenuti, mentre sapevo che altri agonizzavano per questo sciopero della fame"».
Né il direttore del lager né il procuratore della repubblica hanno voluto rilasciare alla stampa alcuna dichiarazione. Si parla di "forte imbarazzo" negli ambienti della repressione istituzionalizzata, e di una probabile denuncia per la definizione "terrorismo di stato" giustamente attribuita all'attuale sistema di potere.
Che non tutto si svolga in modo regolare nelle carceri sarde si era già appreso dalla stampa il 13 dicembre, quando il ministro di Grazia e Giustizia Martinazzoli tira le orecchie al giudice Lombardini e al maggiore dei carabinieri Barisone, per "l'uso" diciamo "disinvolto" che questi facevano del detenuto "differenziato" Raffaele Cutolo all'Asinara - il carcere dove il boss della camorra è detenuto.
Le lamentele sono ovviamente partite dal boss, al quale sicuramente non garba "essere strumentalizzato" senza precise "contropartite" (tra boss - la storia insegna - o ci si allea o è guerra totale: la regola del profitto capitalistico non ammette eccezioni).
Il quotidiano del PCI L'Unità è insorto contro l'assunzione di un boss della malavita "a referente della nostra vita istituzionale" e cioè al ruolo di grande informatore al quale attingere per avere notizie su ogni trama più o meno oscura che ha avviluppato e avviluppa l'attuale storia politica economica (e criminale) dell'Italia. L'Unità - sembra - pur partendo da una preoccupazione di ordine democratico ("salvare le istituzioni"), ha anche in definitiva difeso il boss, alquanto seccato per questo quotidiano essere sottoposto a interrogatori fuori dalle carceri (come ormai d'abitudine, in una caserma dei CC, dove convergono i "grandi investigatori", gli 007).
Sulla faccenda - timidamente apparsa sulla stampa isolana - tutti avevano categoricamente ed energicamente smentito: procuratori generali e no, comandanti dei CC. Ma ecco il ministro Martinazzoli rispondere all'Unità scrivendo che è tutto vero e che ha disposto severi accertamenti per appurare le solite eventuali responsabilità penali. Stralcio alcuni passi della lettera del ministro di Grazia e Giustizia al direttore dell'Unità Macaluso:
«…Quando taluni organi di stampa - e tra essi il tuo giornale - hanno cominciato a dare notizia di trasferimento dal carcere dell'Asinara del detenuto Raffaele Cutolo e a ventilare l'ipotesi di interrogatori un poco misteriosi svolti in sedi diverse dal carcere, ho immediatamente richiesto alla direzione generale per gli istituti di prevenzione un dettagliato rapporto, acquisendo la relativa documentazione.
«E' risultato così che - con fonogramma del 20 ottobre 1982, confermato da una successiva conversazione telefonica - il giudice istruttore di Tempio Pausania dotto Lombardini aveva richiesto "spostamenti giornalieri da casa reclusione Asinara at caserma carabinieri della stessa Asinara del detenuto Cutolo Raffaele per effettuazione atti istruttori (confronti), non effettuabili entro il carcere per motivi di opportunità e di riservatezza».
«A seguito di questa richiesta, che non poteva certo essere disattesa, la direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena disponeva la "traduzione giornaliera detenuto differenziato Cutolo Raffaele at caserma carabinieri Asinara sino at termine atti istruttori innanzi predetto magistrato secondo scrupolosa osservanza disposizioni G.I. Lombardini».
A decorrere dal 25 ottobre 1983 il detenuto Cutolo veniva periodicamente tradotto dalla casa di reclusione dell'Asinara alla caserma della stessa località.
Per altro, dal controllo da me richiesto, è emerso che certamente il Cutolo - nella caserma dei carabinieri alla quale veniva tradotto per richiesta del giudice istruttore e ai fini nella richiesta stessa precisati - ha avuto anche colloqui con il comandante del nucleo operativo carabinieri di Nuoro, capitano Enrico Barisone. (In verità Barisone, forse in un lapsus freudiano, viene "degradato" dal ministro, dato che egli è attualmente colonnello, non capitano - n.d.A.).
Per questa ragione, ho immediatamente disposto che la direzione generale per gli istituti di prevenzione e pena ordinasse la revoca dell'autorizzazione ai trasferimenti del detenuto Cutolo.
Contemporaneamente, informando delle notizie da me assunte, ho richiesto un dettagliato rapporto al presidente della Corte di Appello di Cagliari per l'istruzione di una eventuale procedura disciplinare, ed ho altresì sollecitato al procuratore generale presso la Corte di Appello una indagine accurata per l'accertamento di possibili responsabilità penali.
…Non è pensabile che un imputato di reati gravissimi diventi una sorta di referente della nostra vita istituzionale. E' giusto, quindi, che si esiga verità e che si pretendano comportamenti limpidi».

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