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PERCHE' QUESTO LIBRO

1 - Questo lavoro vuole testimoniare alcuni aspetti del movimento popolare di liberazione, emerso e delineatosi contemporaneamente alle iniziative di educazione degli adulti, promosse in Sardegna nel decennio 1958 -1968.
Documenti e testimonianze riportati sono per la maggior parte inediti e - per quel che risulta - in gran parte ignorati dallo stesso settore della cultura ufficiale che si occupa di pedagogia.
In particolare i documenti sulla nascita, organizzazione e attività dei Centri di cultura aderenti all’AILC (Associazione Italiana per la Libertà della Cultura) e al MCC (Movimento di Collaborazione Civica) dimostrano come quegli stessi Centri assunsero, non senza travaglio, una sempre maggiore autonomia, una sempre più chiara fisionomia popolare, una sempre più marcata ideologia libertaria; e come, contro ogni tentativo esterno di imbrigliamento o di ricatto, di strumentalizzazione o di disgregazione, i Centri portarono avanti una azione culturale e politica di critica al potere e alle istituzioni del sistema, ricercando e promuovendo nel contempo formule e strumenti nuovi e alternativi.
In pratica, per la presenza attiva nei Centri delle componenti economico-sociali più oppresse della comunità, tali esperienze tendevano a far coincidere in modo sempre più organico le attività educative con una lotta polare di liberazione.
Nel decennio 1958 - 1968, il movimento popolare per una nuova cultura in Sardegna - come altri movimenti sorti in opposizione agli interventi guidati dell’UNESCO nei paesi del Terzo Mondo - anticipa analisi e linee di crescita che hanno caratterizzato anche il movimento di rivolta dei giovani e delle donne.
Ritengo utile, per quanto del passato può essere riconducibile alla prassi attuale, e doveroso, come riconoscimento alle capacità culturali della mia gente, far conoscere una esperienza storica che i canali del sistema hanno ignorato o tentato di liquidare sbrigativamente come fatti rozzi e insignificanti, rapportandoli all’efficientismo degli “esperti” dell’UNESCO e dell’OECE, battistrada del capitalismo.
Questo lavoro vuole anche demistificare l’attuale revival di interventismo, da parte delle istituzioni culturali pedagogiche, nel cosiddetto “settore dell’educazione degli adulti”, dopo la scoperta pseudo-rivoluzionaria degli “esperti” UNESCO della “educazione permanente”. Un interventismo verticistico che maschera sempre - al di là delle personali buone intenzioni degli operatori - il vecchio disegno reazionario di contenere e incanalare l’onda della rivolta popolare, quindi di favorire e produrre nel popolo una crescita culturale programmata e guidata, acritica e folclorica, facilmente dominabile.
I contenuti di questo lavoro, le valutazioni che ne emergono o che potrebbero darsi, mi suggeriscono alcune considerazioni critiche di carattere generale sul concetto di cultura. Esporrò queste considerazioni in modo semplice e chiaro; convinto che semplicità e chiarezza sono caratteri indissociabili, direi connaturati alla verità e alla libertà: caratteri che ho sempre riscontrato nel pensiero e nella pratica del popolo.

2 - Ho documentato altrove i procedimenti colonialistici messi in atto dal capitalismo nell’assoggettamento della Sardegna, e quale sia, in definitiva, l’uso che di essa vuol farne l’invasore. In queste analisi della realtà della mia terra - un’Isola trasformata in area di servizi militari, petrolchimici, di bassa forza e di sperimentazione di tecniche repressive e di pericolosi ritrovati della tecnologia - analisi che vengono riprese negli studi più avanzati della cultura ufficiale del Continente, manca o vi è appena abbozzata la parte relativa agli interventi colonialistici della cultura egemone allo scopo di disgregare, folclorizzare, mummificare la cultura sarda. Ed è da sottolineare come il “Progetto Sardegna” dell’OECE/AEP (“Progetto Pilota” di intervento economico culturale nei paesi sottosviluppati, studiato dall’UNESCO) sia sbarcato e si sia attuato nell’Isola, alla fine degli Anni Cinquanta inizio Anni Sessanta, con la specifica funzione di battistrada del capitalismo, in correlazione agli interventi previsti dal Piano di Rinascita.
Nel Secondo Dopoguerra, in Sardegna come in altri paesi coloniali, si sono sviluppate, a diversi livelli, lotte di liberazione che hanno visto mobilitarsi intere popolazioni. Viene ormai comunemente rilevato che l’industrializzazione della Sardegna (a base di petrolchimiche) è stata una scelta politica operata dai vertici del potere in risposta a quelle lotte. La presenza storica di fenomeni di banditismo nelle Barbagie (in pratica fenomeni di “resistenza” popolare alla penetrazione dell’invasore, comuni in tutti i paesi colonizzati) consentiva di criminalizzare le opposizioni popolari spontanee, accomunandole tout court agli aspetti meno validi e più emotivi del banditismo barbaricino (portatore di “tensioni sociali”), e insieme consentiva di introdurre il piano di industrializzazione (con le petrolchimiche) come l’unico intervento capace di modificare “strutturalmente” la fisionomia “pastorale” e quindi “banditesca” della Sardegna.
In effetti, come è stato dimostrato dai fatti, un programma di industrializzazione imperniato sulle petrolchimiche (settore produttivo totalmente estraneo al tessuto sociale ed economico dell’Isola), indipendentemente dagli alti costi di impianto e dalla bassa quantità di manodopera occupata, e indipendentemente anche dagli interessi contingenti degli operatori economici, aveva la funzione di operare una rottura nel già precario equilibrio delle strutture produttive indigene, serviva a disgregare la cultura e quindi la capacità di resistenza del popolo.
E’ ancora aperto il dibattito sulla definizione del rapporto sviluppo-sottosviluppo, in cui rientra la definizione del concetto di colonialismo (con le sfumature di neo-colonialismo e di semi-colonialismo). A me interessa ben poco un simile dibattito. Sono arrivato da un pezzo alla conclusione che un paese colonizzato è sempre sottosviluppato, che ogni sottosviluppo dipende da una situazione di oppressione e sfruttamento a opera di classi egemoni interne o esterne, e ancora più precisamente, che non esiste sottosviluppo senza sfruttamento.
Ma se per poter definire “colonia” la Sardegna è necessario elencarne gli attributi che caratterizzano tale dimensione, il compito non è difficile.
Gli aspetti dello sfruttamento colonialistico in Sardegna sono:
- la rapina del patrimonio naturale, storico e delle risorse umane;
- lo sfruttamento monopolistico nel settore dell’industria, operato con l’impianto di produzioni slegate dalle necessità dell’Isola;
- lo sfruttamento monopolistico nel settore dell’agricoltura e dell’allevamento con l’inserimento di aziende e culture in funzione dei mercati esterni e non delle necessità dell’Isola;
- un continuo dosato aumento dello squilibrio economico che divide la metropoli dalla colonia;
- la sempre presente discriminazione nell’assegnazione dei posti di lavoro tra Sardi e Continentali;
- l’eliminazione di ogni forma di autoconsumo e nel contempo la vanificazione dei miglioramenti salariali attraverso l’imposizione di acquisto di beni di consumo importati dall’esterno;
- la sistematica cancellazione della storia sarda o dove non sia possibile la sua contraffazione; la sclerotizzazione della cultura indigena per essere riproposta e consumata in termini folclorici; l’eliminazione di ogni testimonianza culturale, la svalutazione di ogni prodotto d’arte popolare;
- l’emigrazione programmata: una vera e propria deportazione in massa della forza lavoro, allo scopo di sviluppare l’economia della metropoli sulla degradazione della colonia;
- l’uso di leggi speciali e di tecniche repressive specifiche, assenti nella metropoli;
- l’occupazione e la stabilizzazione del proprio “ordine” da parte del militarismo;
- la sperimentazione “sul vivo” di tecniche belliche e di ritrovati tecnologici pericolosi per l’uomo e il suo ambiente;
- l’impianto di lager per oppositori politici.
E’ stato più volte scritto - e va ribadito - che attualmente, nella realtà sociale economica politica della Sardegna risultano chiaramente presenti tutti i punti indicati come caratterizzanti di una situazione coloniale e che dall’insieme emerge una precisa destinazione d’uso della stessa Isola come area di servizi del capitalismo internazionale. Tuttavia, i partiti vecchi e nuovi della sinistra rifiutano di riconoscere questa realtà come coloniale - un rifiuto che è la logica conseguenza delle scelte politiche dei vertici di questi partiti, che hanno fatto della scalata al potere borghese la loro unica ragione di essere.
Da ciò, anche, la necessità per gli oppressi di organizzare la propria lotta di liberazione fuori dai partiti e dalle organizzazioni politiche integrate nel sistema, cercando invece nella propria cultura forme di risposte proprie e autonome, che seppure apparissero attualmente rozze e improvvisate sono quelle che unicamente contano e che si dimostreranno vincenti nel tempo.
Un sistema fondato sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, sul privilegio di pochi e sulla degradazione di molti, dà luogo necessariamente a una società irrazionale e ingiusta, divisa su due fronti in perenne e inconciliabile conflitto: da una parte le élites che possiedono ogni ricchezza e ogni potere, con gli strumenti economici, giuridici, culturali per perpetuare l’ingiustizia; dall’altra parte il popolo, la grande maggioranza dell’umanità, spogliato di tutto, che non possiede nulla, spesso neppure i mezzi per soddisfare le esigenze della vita animale.
Questa definizione del sistema può apparire manichea, elementare e perfino semplicistica; tuttavia è necessaria all’oppresso, nel proprio processo di coscientizzazione, per ritrovare se stesso nella sua originaria identità di uomo libero e per individuare con chiarezza, senza alcuna possibilità di dubbio, la vera faccia del nemico.
Infatti, se da una parte l’oppressore tende a trovare convivenza, punti di incontro, se non addirittura il consenso dell’oppresso per la conservazione e il perfezionamento del sistema; dall’altra parte deve esserci la tendenza opposta: l’opposizione intransigente, il rifiuto totale di ciò che viene dalla controparte. In parole semplici: l’oppressore ha bisogno dell’oppresso per esistere e perpetuarsi; l’oppresso, al contrario, deve eliminare l’oppressore per liberarsi ed esistere come umanità.

3 - Il sistema prospera sugli equivoci. E’ equivoco anche il concetto di cultura, cui si danno significati e contenuti idealistici, astratti e diversi secondo il settore d’impiego. Il concetto di cultura, perché abbia un significato univoco o comunque non mistificatorio, va riportato all’uso concreto che di essa si fa sul piano dello sviluppo umano e dei rapporti sociali.
Al di là delle definizioni di comodo, cultura è in pratica un insieme di nozioni, di capacità, di tecniche e di moduli comportamentali acquisiti secondo un complesso processo di condizionamento, i cui contenuti - valori e fini - portano il crisma dell’autorità (specifica) costituita. Tale cultura consente all’uomo “moderno” di integrarsi “ordinatamente”. Cultura diventa così condizione e titolo per accedere alle olimpiadi della scalata sociale - attributo illuminante del potere, moneta aggiuntiva a quella aurea per realizzare l’avere. Quanto più un uomo possiede e ha potere, tanto più passa per uomo colto.
Le élites al potere, definendo il popolo incolto e rozzo dopo averlo degradato, tentano di dimostrare che tale stato di degradazione è dovuto alla ignoranza e non invece allo sfruttamento. Da qui non poca confusione, che torna utile alla conservazione del privilegio. Non sono pochi gli educatori, i sociologi, i politici - credo anche in buona fede - i quali, nell’entusiasmo della scoperta del binomio (artificioso) ignoranza-miseria, si sono battuti a spada tratta per sollevare il popolo dalla ignoranza, convinti che fosse sufficiente modificare il primo termine per modificare il secondo. Da qui, anche, l’allettamento che ha influenzato i meno resistenti all’integrazione: l’acquisizione di un modello di uomo colto, titolato, su cui combaciare, per poter poi accedere, con ulteriori crismi e apprendimenti, a livelli sociali “più alti”, più prestigiosi e redditizi.
Si vede, con l’attuale inflazione dei “titoli”, quanto questo tipo di cultura abbia una reale utilità - non dico nella realizzazione di sé, ma nella stessa “carriera” sociale. Il figlio del contadino o del pastore, laureatosi in scienze politiche o in leggi, si rende conto che pur possedendo lo stesso titolo di un Agnelli o di un Leone non è diventato né capitano d’industria né presidente di Repubblica. E’ rimasto miserabile e ignorante nonostante il “titolo” e la quantità di cultura ingerita.
Nel popolo degli oppressi (umanità premuta da una necessità di liberazione) il concetto di cultura non può che essere diverso: è il patrimonio di esperienze e di capacità proprio di ciascun uomo; patrimonio che si costituisce e si sviluppa nel realizzare se stesso in un rapporto di solidarietà con i propri simili, in armonia con il mondo della natura.
E’ rilevabile nel popolo un sentimento misto di invidia, diffidenza, rifiuto nei confronti dell’intellettuale e della sua cultura. Invidia per quel legame esistente tra livello di istruzione e livello sociale ed economico; diffidenza e rifiuto per la consapevolezza che quella cultura non realizza l’uomo, non lo rende felice, anzi è malvagia portatrice di squilibrio e di ingiustizia, prostituta di un potere che utilizza sapere e scienza per sfruttare più sapientemente e scientificamente l’uomo.
Illuminanti le parole di un pastore di Orgosolo, intervistato sulla situazione di oppressione in cui la sua comunità è tenuta dallo Stato italiano: «Abbiamo perfino paura a far studiare i nostri figli, perché domani anche essi potrebbero usare lo studio per imbrogliarci».(1)
Conversando con contadini e pescatori dell’Oristanese, alla domanda «Perché non avete frequentato la scuola da piccoli?», essi immancabilmente rispondevano: «A su poburu non descit studiai; ddi descit traballai». (Al povero non è decoroso studiare; gli è di decoro lavorare). Pensavo allora che quel “non essere decoroso studiare” fosse un principio imposto al povero dal pregiudizio del padrone. Oggi sono più propenso a credere che il concetto esprima principalmente una cosciente valutazione popolare di “vanità” dello studio, contrapposto al “lavoro”, che è decoroso in quanto realizza l’essere.
Una valutazione, questa, che non ha niente a che vedere con l’interessata apoteosi del lavoro che ne fa il sistema. Il lavoro è decoroso in quanto soddisfa l’esigenza umana di intervenire nell’ambiente e non sull’ambiente naturale in cui si vive. Decoroso, quando non è prostituzione di sé in cambio di mezzi di sussistenza, ma è svolto per l’appagamento di bisogni autentici. Il bracciante agricolo, il manovale che dopo le otto ore sotto il padrone coltiva il proprio pezzetto di terra o si costruisce un tetto, vivrà questo e non quello come “lavoro dignitoso”, come espressione autentica di sé - per quanto tradizionali possano essere i moduli e gli strumenti che utilizza per raggiungere lo scopo.

4 - La posizione del sistema sul principio secondo cui quanto più un popolo è ignorante tanto meglio si può dominare e sfruttare è stata riveduta nel secolo scorso e nel presente, con lo sviluppo industriale.
Nel periodo del potere rozzo, assolutistico, i regnanti sostenevano scopertamente che soltanto gli ignoranti erano da considerarsi “sudditi fedeli”. E di conseguenza programmavano la diffusione dell’analfabetismo e della ignoranza. In questa operazione, la Chiesa Cattolica reggeva egregiamente il sacco, falsando per cupidigia di potere il concetto cristiano sulla beatitudine dei poveri di spirito.
Dirò più avanti come l’ignoranza (del sapere del sistema) possa costituire nel popolo un ottimo vaccino contro la manipolazione e il condizionamento, quindi anche contro lo sfruttamento scientifico, integrale.
Il popolo viene deliberatamente e metodicamente costretto nella più assoluta ignoranza fino al momento in cui il potere economico passa da forme di sfruttamento grezze a forme tecnologicamente avanzate. Si dà una “giusta dose” di cultura al popolo quando, con il progresso tecnologico, il capitalismo deve mettere il lavoratore a contatto con macchine complesse, che abbisognano - per essere utilizzate con profitto - di conoscenze specifiche e di un certo grado di istruzione.
Padronato imprenditoriale, borghesi “illuminati”, dirigenti di partito e di sindacato, uniti nel medesimo disegno, premono sul popolo perché accetti di “bere” questa “giusta dose” di cultura. Vengono usati diversi allettamenti: “Migliorerai la tua posizione, avanzando nella scala sociale”; “Acquistando conoscenze tecniche aumenterai il tuo salario”; “Potrai aspirare a posti di responsabilità”; “E’ richiesto il titolo di studio per fare il capo-squadra”; “Potrai rivolgerti al padrone usando la sua stessa lingua”.
Una parte della consorteria al potere (chiamarla la parte più reazionaria sarebbe un immeritato complimento alla restante parte), quella per intenderci di stampo clericale-borbonico, dal canto suo si preoccupava del fatto che dando anche soltanto una ben dosata e annacquata istruzione agli straccioni, questi avrebbero potuto acquistare malizie tali da organizzarsi e mordere la mano al padrone.
Ma l’altra parte, la borghesia imprenditoriale, premuta dalla necessità di mettere in moto la nuova macchina di sfruttamento, e di incassare, insisteva sbandierando da un lato lo spauracchio di maggiori possibilità di rivolta da parte di masse ignoranti e affamate, e da un altro lato spiegando come, con una appropriata istruzione e tenendo ben fermo il metodo del bastone e della carota, si sarebbe giunti alla integrazione di tutte le componenti popolari chiamate a produrre.
Ribadisce Rosada: “Nel clima della cultura positivista, all’idea di una scuola che, aprendo gli occhi agli sfruttati sulle loro catene, ne avrebbe fatto dei ribelli, si era sostituita in molti la convinzione che proprio le masse incolte costituivano un pericoloso potenziale di irragionevoli rivolte, e che una giusta evoluzione culturale avrebbe garantito il diffondersi di un saggio spirito di collaborazione tra le classi”.(2)

5 - E’ da rifiutare l’affermazione che nega al popolo una propria cultura. Il fatto stesso che sia necessario un processo di assoggettamento culturale prova che le classi egemoni colonialiste trovano e devono vincere una resistenza, ovviamente di carattere culturale.
E’ stato rilevato che l’integrazione violenta del colonizzato nella cultura del colonizzatore non riesce ad annientare la cultura autoctona, che continua a sopravvivere e a resistere seppure in forme degradate. Ed è stato anche rilevato che, in determinati momenti storici, l’oppresso ritrova la propria cultura, se ne riappropria e da questa ritrovata identità muove e sviluppa la lotta di liberazione.
Franz Fanon illustra questi concetti in modo convincente, nell’analisi che egli fa dei rapporti, all’interno del processo di colonizzazione, tra cultura autoctona e cultura dell’oppressore. Intanto va detto subito, in riferimento alla realtà della Sardegna - qualunque sia la definizione che si voglia dare dei rapporti tra l’Isola e la Madrepatria - che non c’è differenza sostanziale tra i rapporti in un processo di colonizzazione e i rapporti che intercorrono, all’interno di uno stesso Paese, tra cultura popolare e cultura egemone, nel processo di assoggettamento del popolo da parte delle élites al potere.
La dottrina della gerarchia culturale, per la quale esistono gruppi umani senza cultura e altri gruppi con culture poste su scala di valori diversi, è da demistificare e rifiutare. In pratica - dice Fanon - «esistono certi raggruppamenti di istituzioni, vissuti da determinati uomini, nel quadro di aree geografiche precise, che ad un certo punto hanno subito l’attacco diretto e brutale di sistemi culturali diversi».(3)
Il grado di sviluppo tecnico è alla base del processo di assoggettamento scientifico. L’operazione di smantellamento della cultura autoctona di un popolo assoggettato - che dalla dottrina precedente è definito senza cultura - è il negativo della operazione di asservimento economico.
Il razzismo è insito in ogni cultura che teorizza e opera lo sfruttamento di altri popoli - in senso più generale, ma più precisamente “lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo” - ed è parallelo e correlato, nel suo manifestarsi e nel suo svilupparsi, al modo di essere e di evolversi delle tecniche di sfruttamento. Il razzismo grezzo che, prima nella Bibbia e poi nella biologia, aveva cercato di trovare una base di sostegno “scientifica”, si trasforma, “incivilendosi”, in razzismo culturale. “Oggetto di razzismo non è più l’individuo ma una data forma di esistenza”.(4) La valutazione della inferiorità di un popolo si sposta dalla forma del cranio, dalla quantità di massa cerebrale, dal colore della pelle al comportamento, al modo di vestire, alle istituzioni sociali.
Nel processo di assoggettamento appaiono alcune costanti: distruzione dei valori culturali, dei modi di vita; svalutazione della lingua, dell’abbigliamento, delle tecniche. Se tutta questa operazione ha per scopo il profitto economico, l’asservimento ne è la condizione indispensabile. Infatti, per asservire un popolo è necessario «infrangere le sue coordinate mentali. L’espropriazione, la razzia, l’assassinio oggettivo si accompagnano al saccheggio di schemi culturali o quanto meno lo condizionano. L’ambiente sociale viene sconvolto, i valori dileggiati, calpestati, svuotati», precisa Fanon.
L’uomo che ha subito l’operazione di asservimento viene a trovarsi davanti a due culture: la propria, degradata e quindi incapace di assolvere alla sua funzione; quella dell’oppressore, viva e vegeta, che si impone come l’unica all’interno della quale è possibile crescere.
L’originalità dell’analisi del Fanon sta nell’avere rilevato come e perché un regime coloniale (o di sfruttamento di élites sul popolo) non comporti la morte della cultura autoctona, del popolo. Anzi, l’obiettivo voluto dall’oppressore è “l’agonia prolungata” della cultura preesistente, fino alla sua “mummificazione” - conservarla, cioè, come presenza passiva in forme e in istituti atrofizzati, incapaci di funzionare e di adeguarsi ai tempi.
«La mummificazione della cultura produce quella del pensiero individuale. L’apatia che tutti notano nei popoli coloniali non è che la conseguenza logica di tale operazione». Nessun uomo, infatti, può realizzarsi e crescere se non all’interno di una cultura che gli è propria.
La conservazione in forme mummificate (svuotata di capacità di essere e divenire) della cultura autoctona è necessaria alla cultura egemone per dimostrare, in un continuo confronto, la validità di questa su quella. «Da un lato c’è una cultura alla quale si riconoscono qualità dinamiche, di sviluppo e di approfondimento. Una cultura in movimento che perennemente si rinnova. Dall’altro delle caratteristiche, delle curiosità, delle cose, mai una struttura».
La colonizzazione - portata avanti alternando a livelli diversi sfruttamento, razzismo, segregazione, degradazione della cultura e dell’ambiente - trasforma l’autoctono in oggetto nelle mani dell’oppressore. «Questo uomo oggetto, senza mezzi per vivere, senza ragione d’essere, è spezzato nel più profondo del suo essere. Il desiderio di vivere, di continuare, diventa sempre più incerto, sempre più fantomatico”.
A un certo punto, il processo di assoggettamento si modifica con l’evoluzione delle tecniche di produzione (seppure l’industrializzazione nelle colonie e nelle aree di colonizzazione sia sempre limitata a impianti per la rapina delle materie prime o a impianti di lavorazione particolarmente dannosi all’uomo e all’ambiente). Il razzismo, allora, sembra perdere la sua virulenza, la sua rozzezza. Accade che l’uomo assoggettato scopre che lo sfruttamento dell’uomo è il fondamento del sistema, ed è presente anche all’interno della nazione “civilizzatrice”.
L’oppressore - depositario della cultura egemone, della “civiltà” - deve di conseguenza mascherarsi, nascondersi. E’ costretto a riconoscere che esiste sì un razzismo, ma che esso è un fatto non determinante nella propria vita politica, economica, culturale; che si tratta di una sorta di residuo sociale, di atteggiamento mentale, quasi “un pregiudizio divenuto inconscio”. Ed è lo stesso sistema colonialista, allora, che, sulla base di presunti valori democratici e umanitari, per ottenere la collaborazione dello sfruttato, inizia una critica al razzismo, mobilitando sociologi antropologi psicologi. Il razzismo contesta se stesso. E’ un fenomeno - comune anche in altri settori - di “contestazione guidata”, che non elimina l’oggetto della contestazione ma lo perfeziona riproponendolo, falsato e mercificato, in termini più subdoli.
«Il razzismo - scrive Fanon - altera e sfigura il volto della cultura che lo pratica. La letteratura, le arti figurative, le canzonette, i proverbi, le abitudini, gli schemi che si prefiggono di fargli il processo o che lo banalizzano tendono comunque a riproporlo. Il che significa che un gruppo sociale, un paese, una civiltà non possono essere razzisti inconsciamente... il razzismo... è un elemento nascosto e dissimulato... salta agli occhi proprio perché rientra in un contesto caratterizzato: quello dello sfruttamento spudorato di un gruppo di uomini da parte di un altro gruppo che ha raggiunto uno stadio di sviluppo tecnico più avanzato».
Quali sono le reazioni, i meccanismi di difesa, gli atteggiamenti dell’uomo, di un popolo assoggettato?
Da principio - come si è detto - l’oppressore legittima il proprio dominio con motivazioni scientifiche, costringendo la “razza inferiore” a negarsi in quanto razza, quindi a rifiutare la propria cultura per accettare il modello di cultura della “razza superiore”. «L’autorità dell’oppressore che assume un carattere globale e terrificante riesce a imporre all’autoctono un nuovo modo di vedere le cose, innanzi tutto un giudizio denigratorio delle sue forme originali d’esistenza».
Il risultato di questa operazione, che porta alla alienazione, viene definito dal sistema “assimilazione”. L’alienazione (o assimilazione) non riesce mai del tutto, per una complessità di cause: per i limiti di quantità e qualità cui è costretto l’invasore per poter fare procedere indefinitamente il processo di alienazione, che è correlato e parallelo al processo di sfruttamento; e ancora per la naturale e continua resistenza dell’uomo al proprio annientamento.
Convinto che accettando la cultura dell’oppressore egli ritrovi una dignità umana, l’oppresso vi si getta famelico. Impara così a conoscere il sistema nei rapporti sociali e di lavoro; ma insieme scopre e constata che permane nei suoi confronti il razzismo, che le cose sostanzialmente non sono cambiate. «Privato della sua cultura e costretto ad assimilare quella dell’occupante, l’oppresso continua a cozzare contro il razzismo». L’avere acquistato cognizioni e tecniche, l’avere anche spesso dimostrato di possedere una superiorità intellettuale rispetto all’oppressore, senza per ciò avere eliminato i termini della oppressione, della discriminazione e dello sfruttamento, gli sembra illogico e soprattutto ingiusto.
Scoperta l’inutilità dell’alienazione (o assimilazione), l’oppresso si ritrova sulle posizioni di partenza. Allora «si riimmerge appassionatamente nella cultura abbandonata, dimenticata, respinta e disprezzata».
Il Fanon descrive con vivezza e partecipazione l’enfasi con cui il colonizzato si riappropria della sua cultura, esibendola aggressivamente, rivalutandola in ogni aspetto, riscoprendo usi e costumi del passato… «Questa riscoperta, questa valorizzazione globale che ha un andamento quasi folle, insostenibile sul piano oggettivo, riveste una straordinaria importanza oggettiva. Uscendo da questo amplesso appassionato, l’autoctono avrà deciso con cognizione di causa di lottare contro ogni forma di sfruttamento e di alienazione dell’uomo. Da parte sua l’occupante, a questo punto, intensifica gli appelli all’assimilazione, poi all’integrazione, alla grande comunità».
«Il corpo a corpo dell’indigeno con la propria cultura è un’operazione troppo solenne, troppo brusca perché possa tollerare una qualsiasi incrinatura. Nessun neologismo può mascherare la nuova evidenza: il tuffo nell’abisso del passato è condizione e fonte di libertà».
«La logica fine di questa volontà di lotta è la liberazione totale del territorio nazionale. Per realizzarla, il colonizzato adopera tutte le sue risorse, le sue cognizioni, vecchie e nuove, sue e dell’occupante. La lotta diventa di colpo totale, assoluta».
Le tesi di Franz Fanon convalidano e integrano mie vecchie analisi, dove - su posizioni pressoché isolate - si arrivava alla conclusione che la liberazione della Sardegna dal colonialismo nazionale e internazionale deve necessariamente passare attraverso una lotta di popolo, una lotta essenzialmente culturale - comunque, culturale prima che politica - e non invece attraverso la lotta di classe, dentro o fuori istituzioni borghesi. Per inciso: popolo non vuole essere, qui, un termine con i significati interclassisti e ambigui che gli dà la dottrina borghese o marxista; vuole semplicemente significare tutte le componenti della comunità che subiscono oppressione e sfruttamento da élites al potere, indigene o straniere.
Soltanto una lotta di popolo che sia lotta culturale per la riappropriazione dell’identità individuale e comunitaria e che sia lotta politica per la riappropriazione del patrimonio naturale e degli strumenti di produzione, è lotta di autentica liberazione che sfocia nella realizzazione di una società nuova: una società nuova che si prefigura libertaria (un superamento quindi della cultura dell’oppressore ma anche di quella dell’oppresso), poiché la lotta di liberazione di un popolo, in quanto affermazione dell’uomo libero, coincide con un processo di crescita che in sé ha il rifiuto e la negazione di ogni forma di autoritarismo, di razzismo, di oppressione, di potere.
Una lotta in cui non sia presente tutto il popolo; una lotta soltanto politica e non anche e preliminarmente culturale; una lotta demandata ad alcuni strati, sia pure a quelli più avanzati, della comunità; una lotta gestita da specialisti all’interno delle istituzioni partitiche non realizzeranno mai una società nuova di uomini liberi e responsabili. Tali forme di lotta potranno produrre emancipazioni settoriali; riforme economiche e sociali forse anche avanzate - ma lasceranno immutata la sostanza di un sistema fondato sullo sfruttamento dell’uomo. Sistema che è proprio - giova puntualizzarlo - dei Paesi oppressori, ma anche dei Paesi oppressi. Ed è un dato di fatto che negli uni e negli altri Paesi, in forme e a livelli diversi, i popoli sono divisi e sfruttati; mentre le élites al potere, negli uni e negli altri Paesi, sono unite e sfruttatrici. Purtroppo esiste una internazionale degli sfruttatori, mentre finora sono falliti tutti i tentativi di organizzare una internazionale degli sfruttati.
Ribadisce il Fanon: «Molto prima della fase politica», della lotta di liberazione nazionale, si vede nel fervore del popolo, che ritrova rianimandola la propria cultura, «un’ansia di liberazione e di crescita».
«Noi pensiamo che la lotta organizzata e cosciente intrapresa da un popolo colonizzato… costituisca la manifestazione più pienamente culturale che esista».
«... La lotta stessa, nel suo svolgimento, nel suo processo interno, sviluppa le diverse direzioni della cultura e ne abbozza altre nuove. La lotta di liberazione non restituisce alla cultura nazionale il suo valore e i suoi antichi contorni. Quella lotta che mira a una redistribuzione fondamentale dei rapporti tra gli uomini, non può lasciare intatti né le forme né i contenuti culturali di quel popolo. Dopo la lotta non c’è soltanto scomparsa del colonialismo, ma anche scomparsa del colonizzato. Questa nuova umanità, per sé e per gli altri, non può non definire un nuovo umanesimo. Negli obiettivi e nei metodi della lotta è prefigurato questo nuovo umanesimo. Un combattimento che mobilita tutti gli strati del popolo, che esprime le intenzioni e le impazienze del popolo… è necessariamente trionfante. Il valore di questo tipo di combattimento sta nel fatto che esso attua il massimo numero di condizioni per lo sviluppo e l’invenzione culturale».(5)

6 - Il popolo - anche quello più sfruttato e degradato - ha una propria cultura e tende a rivalutarla per ritrovare una propria dignità quando entra in conflitto aperto con l’oppressore. La cultura del popolo non è teorizzata ma è pratica, correlata ai suoi bisogni e alla realtà del mondo in cui vive. E’ tendenzialmente la cultura dell’essere, cultura naturale, cioè istintuale e razionale insieme, promossa all’interno della coscienza umana - dove individuale e collettivo si fondono - e non imposta dall’esterno.
Nel sistema - al contrario - la cultura è sempre teorizzata in funzione dell’avere, ed è sistematizzata su due binari: una riservata alle élites, che ha come valore di base l’acquisizione di strumenti e di capacità di dominio e di sfruttamento dell’uomo e della natura; l’altra imposta al popolo, limitata a rudimenti nozionistici, che ha come principio assoluto la sottomissione all’autorità, il “nobile” principio del “servire tacendo”. Ambedue i binari su cui scorrono le due culture (in pratica le due facciate dello stesso edificio) vanno verso la realizzazione del potere tecnologico assoluto, dello sfruttamento scientifico totale, con l’appiattimento delle coscienze umane.
Il processo di assoggettamento e di condizionamento attraverso l’imposizione di un rudimento di cultura basata sul rispetto dell’autorità, e parallelamente la mummificazione e la folclorizzazione di ogni forma culturale autoctona, costituiscono un processo peculiare e essenziale di ogni colonialismo nei confronti di un popolo assoggettato; non soltanto: è anche proprio essenziale di ogni consorteria al potere nei confronti delle classi popolari subalterne, all’interno di una stessa nazione.
C’è chi sostiene che non resta nel popolo possibilità alcuna di crescita autonoma, di espressione in forme originali - che non esisterebbe quindi una cultura propria del popolo.
Non sono d’accordo. Se è vero che il complesso processo di repressione, di condizionamento fisico e psicologico e di imposizione di una cultura esterna “dosata” lascia ben poco spazio, all’uomo così trattato, per esprimersi come individuo e come gruppo, è anche vero che l’esigenza di essere se stessi, di realizzarsi liberamente secondo natura è talmente forte e insopprimibile, da trovare sempre spiragli nelle pur fitte maglie della costrizione, da trovare sempre forme, anche rudimentali, per manifestarsi ed esistere.
In verità, al di fuori, se non contro le linee di sviluppo morale, sociale, politico, “scientifico”, in una parola culturale dello sfruttatore, maturano e crescono - sia pure in forme limitate e talvolta sotterranee - linee di sviluppo proprie dello sfruttato. Basta vivere in una delle comunità agricole dell’interno della Sardegna, osservare con occhi non offuscati dalle artificiali luci del falso progresso, per scoprire quanti valori culturali autentici, quante capacità tecniche, quale filosofia semplice e naturale della vita e dei rapporti sociali ci sono in quella gente, in quel popolo che il sistema valuta “senza cultura”, “ignorante”, “simile a bestia”.
E’ a contatto di contadini “rozzi e ignoranti” che Tolstoi affina la sua cultura e matura la sua ideologia libertaria - ideologia che è propria, nelle linee essenziali, della cultura contadina: il naturalismo (l’uomo è migliore se respinge le manifestazioni artificiali della civiltà e vive in un rapporto organico con il mondo della natura: essere naturale egli stesso); il populismo (la fede nel popolo, nell’uomo senza potere, tendente contro ogni imposizione alla realizzazione di una società egalitaria, fatta a misura d’uomo); il solidarismo, la fratellanza universale («non tanto mi unisco quanto sono unito - scrive Tolstoi - lo voglia o no, con altri uomini in un unico corpo di credenti»); infine la sfiducia nel mito del progresso, quello imposto dal potere con lo sfruttamento e con l’assassinio.
Non mi pare che le ideologie libertarie, che specialmente in questi ultimi duecento anni si stanno chiarendo e diffondendo sempre più, siano frutto diretto della cultura del sistema - anche se le lingue che le esprimono e le diffondono appartengono per lo più a studiosi di estrazione aristocratica e borghese. Il popolo si riconosce in queste ideologie, in quanto sono sue proprie; e tende a manifestarle e a viverle sempre più, in alternativa. Che importanza ha il fatto che il popolo non riesca (o non senta il bisogno) a (di) teorizzare idee che esso vive nella prassi quotidiana?
Per il sistema - quando non si tratti del profitto capitalistico - è la capacità di astrazione e di teorizzazione ciò che vale, che rende l’uomo “colto”. Vivere nella prassi le proprie idee è pericoloso per l’ordine costituito. Perfino vivere idee che lo stesso sistema valuta “in linea teorica” validissime. Come le idee cosiddette democratiche.
Per la consorteria al potere, il popolo deve vivere non ispirandosi a certe “idee-specchietto per le allodole”, ma esattamente secondo i codici penale e civile - che sono e restano gli unici testi di filosofia esistenziale cui tutti devono conformarsi, pena la galera. E non sono ammesse ignoranze, stavolta: l’analfabetismo non è una attenuante, ma una aggravante.

7 - C’è una lunga serie di luoghi comuni, di pregiudizi, di falsi nella cultura delle élites nei confronti della cultura del popolo.
I teorizzatori del sistema, per giustificare “razionalmente” l’irrazionalità dello sfruttamento umano, hanno avuto bisogno di utilizzare la “scienza” cercando e indicando nello sfruttato caratteri di inferiorità rispetto a un modello ideale di uomo - presentato, e neppure rappresentato, dallo sfruttatore.
Definire “barbaro” e “incivile” qualunque popolo da assoggettare o assoggettato è un pregiudizio storico, diffuso tra quei predoni che furono i Romani. Tutti gli invasori che si sono succeduti nel dominio della Sardegna hanno deliberatamente definito “criminali” gli oppositori politici. E quando mancava una vera e propria opposizione politica, si alimentavano fenomeni di banditismo: se in Sardegna ci sono “banditi”, i Sardi sono “banditi”; ne consegue che sbarcarvi un esercito per debellare il “banditismo” diventa “un fatto di civiltà”, e non invece “una aggressione”. Il fascismo per giustificare l’invasione dell’Etiopia proclamò di volervi abolire la schiavitù. Il colonizzatore maschera sempre i suoi disegni di assoggettamento assumendo il ruolo di “portatore di civiltà”. In pratica, il pregiudizio razziale concorre a giustificare l’aggressione e ad aumentare gli interessi del capitale.
Ma se è evidente che il pregiudizio razziale serve di copertura a un piano di sfruttamento di un popolo pregiudicato “inferiore”, è anche evidente che in conseguenza dello sfruttamento il popolo “pregiudicato” finisce per acquistare una “inferiorità” obiettiva rispetto al suo oppressore.
Il razzismo, anziché scomparire alla luce del progresso scientifico, si perpetua e si diffonde in forme più sottili. La scienza al servizio del potere, anziché diradare le nebbie dell’oscurantismo le ha infittite, dando al pregiudizio un carattere di maggiore attendibilità e in definitiva rafforzandolo.
L’attuale sistema - come quelli precedenti su cui si è evoluto - è fondato sul falso sistematico. Le élites al potere distorcono l’immagine reale delle parti avverse; vengono date attribuzioni dispregiative, in chiave manichea, a gruppi etnici, a categorie sociali, a oppositori politici, perpetuando la discriminazione in “buoni” e in “cattivi”. Il razzismo dell’oppressore suscita e alimenta un razzismo alla rovescia nell’oppresso - nel quale resta, comunque, sempre a livello di difesa, come disperato tentativo di affermarsi, di sopravvivere trovando in sé valori positivi da opporre a quelli dell’oppressore che lo annullano.
Dice il falso chi dice che attualmente il pregiudizio razziale è stato superato. Il razzismo è sempre presente in ogni processo di assoggettamento e sfruttamento del popolo, in ogni forma di oppressione e sfruttamento dell’uomo.
Le conseguenze del pregiudizio razziale furono e sono la discriminazione, la criminalizzazione, la degradazione, l’assassinio dell’uomo. Va ribadito che la situazione di coatta inferiorità dell’oppresso rispetto all’oppressore, produce una “effettiva” inferiorità, che serve a sua volta a rafforzare il pregiudizio. Pregiudizio del dominatore e basso livello di vita del dominato finiscono per determinarsi l’un l’altro, creando un circolo vizioso che non può spezzarsi se non con la rivolta dei popoli. Il razzismo scompare soltanto con la scomparsa dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

8 - All’interno di un discorso sul razzismo - che è complesso, in quanto presente, e spesso in forme nascoste, in ogni aspetto della vita culturale (economica, sociale, politica, morale) - mi interessa qui fermare l’attenzione sulla definizione e sull’uso dei termini di “razionalità” e di “istintualità” che ne dà e ne fa il sistema.
Per giustificare le leggi del patriarcato che tengono sottomessa la donna - per esempio - si sono attribuiti a questa diversi caratteri presunti “negativi”: in primo luogo, e ricorrentemente, un carattere di “istintualità” (attributo “negativo”) contrapposto alla “razionalità” (attributo “positivo”) del maschio.
La stessa affermazione è alla base del complesso di valutazioni denigratorie e discriminatorie nei confronti del popolo, della sua cultura. Anche studiosi di ideologia materialista marxista, tra questi Gramsci, parlando della cultura del popolo, sostengono che in essa domina l’irrazionalità e l’istintualità - remore a un processo di crescita civile e politica.
Per colui che voglia fare una analisi corretta, direi “razionale” della realtà, c’è molto da demistificare e da chiarire. A cominciare dal significato volutamente equivoco nei vocaboli filosofici di uso comune e di fondamentale importanza in un dialogo tra uomini che vogliono capirsi.
I significati di “istinto” e di “ragione”, ciò che precisamente significano, dovrebbero essere semplici e chiari. Invece non lo sono. Per la cultura ufficiale, istinto può voler dire un mucchio di cose - seppure tutte con carattere negativo. Ecco alcune definizioni da manuale: «Impulso naturale e irrazionale»; «Serie di atti spontanei, non volontari e tuttavia collegati, succedentisi con ordine inesorabile, rispondenti a un fine non conosciuto da chi li compie»; «Attività mentale spontanea adattata a uno scopo, e col carattere di una tendenza innata, come, ad es., l’istinto del ritmo nei poeti (sic!)»; «Il Bergson lo oppone alla intelligenza…».
Le definizioni di “ragione” diventano meno sbrigative e più complesse ma niente affatto chiare: «Complesso di facoltà mentali che distinguono l’uomo dal bruto»; per Kant è «fonte di principi a priori dai quali deriva la legge della moralità»; per Platone è «la qualità più elevata dell’anima, quella che può rappresentarsi le idee eterne»; per Schopenhauer ce n’è di quattro specie: «Ratio essendi, ratio fiendi, ratio cognoscendi, ratio agendi»; e così via.
La teoretica del sistema distorce i significati dei termini per falsare la realtà, forte della somma di elaborazioni fornitegli da corti di filosofi e scienziati, e istituzionalizza solenni imbecillità su “istintualità” opposta a “razionalità”. L’istintualità sarebbe propria del popolo, dell’ignorante, della donna, del bambino, del nero, del sardo e di tutte quelle componenti umane che necessiterebbero di un padrone “razionale” per poter vivere. Si possono portare infinite citazioni dotte e serissime sulla presunta inferiorità del bambino, del nero, del sardo, della donna, del popolo: inferiorità basata su una presunta loro precipua istintualità e mancanza di razionalità.
“Razionalità” sarebbe in definitiva capacità di conoscere scientificamente la natura per dominarla; razionalità come fonte unica di progresso, quindi di benessere, e sinonimo di civiltà. Tutto ciò che è razionale verrebbe direttamente da Dio e dai membri della consorteria al potere. Lo Stato e le istituzioni che concorrono a mantenerlo sarebbero creazioni sublimi della razionalità.
In contrapposizione, l’istintualità diventa sinonimo di ignoranza e rozzezza, di confusione e disordine (caos anarchico - dicono gli apprendisti stregoni); istintualità come fonte di arretratezza, di miseria, di abbrutimento. L’istintualità o irrazionalità verrebbe da Satana e sarebbe incoraggiata da pensatori demoniaci come Campanella, Fourier, Proudhon, Lawrence.
Con un minimo di buonsenso e di “ragione” è facilmente verificabile che non vi è nulla di irrazionale nell’istinto: nella economia del processo di sviluppo della personalità umana, la ragione è a servizio dell’istinto.
Se istinto è stimolo vitale, pulsione alla naturale realizzazione di sé, la ragione non è altro che la capacità di elaborare le esperienze in funzione dell’io istintuale - in funzione cioè del soddisfacimento degli stimoli, dei bisogni naturali.
Tanto più complessa è la realtà e complesse sono le esperienze, tanto più sviluppata sarà la ragione, il cui lavoro di elaborazione e valutazione ai fini della realizzazione dell’io-istintuale diventa correlativamente complesso - tuttavia la sua funzione resta immutata: la ragione a servizio dell’istinto.
Cerchiamo di essere chiari e semplici. Quando parlo di ragione non faccio riferimento a una categoria filosofica astratta ma a una attività pratica mentale, propria di ciascun uomo - e nulla, se non la presunzione e l’ignoranza, ci autorizza a negarla anche negli animali.
Ciascun uomo è fornito di una propria ragione - indipendentemente dal fatto che qualcuno la usi poco o nulla. Pertanto, innanzi tutto, direi che è sicuramente razionale pensare con la propria testa e decisamente irrazionale pensare con la testa di altri. Chi pretende come fa il sistema - di farmi pensare con la testa di Aristotile, o di Hegel, o di Marx agisce in modo irrazionale e vuole che io mi comporti in modo irrazionale - anche ammesso che nella filosofia di quei signori la delega loro a pensare per gli altri sia un fatto razionale.
Si potrebbe facilmente ridicolizzare l’istituto della delega - espressione razionale della falsa razionalità del sistema - allargandolo dal soddisfacimento di bisogni intellettuali (produrre in proprio, far politica, elaborare una propria morale, avere una propria visione del mondo) al soddisfacimento di altri bisogni primari, specificamente corporali, come il nutrirsi, il defecare, il copulare.
In che senso, esisterebbero categorie umane “istintuali”, “emotive” e “non razionali”, quali i bambini, le donne e i popoli primitivi o sottosviluppati? Se in ciascun uomo - e in ogni creatura vivente - l’istinto necessita della ragione per potersi realizzare. Non è concepibile, in natura, l’appagamento dell’istinto senza un rapporto con la realtà esterna, senza conoscenza, senza elaborazione della conoscenza, senza l’uso quindi della ragione.
Il fatto è che il sistema privilegia sul piano della propria morale la razionalità, perché è attraverso questa che può portare avanti il suo disegno di condizionamento e di assoggettamento dell’uomo. La razionalità distorta, non più in funzione della istintualità, della naturale realizzazione dell’io, ma in funzione dei fini di potere del sistema, è utilizzata nella repressione e nella rimozione, nella deviazione e nella sublimazione dei desideri, dei bisogni istintuali. Non la ragione in funzione dell’essere, ma in funzione dell’avere.
L’istintualità - la pulsione alla vita, l’esigenza della libertà di essere in naturale armonico rapporto con il mondo vivente - non è facilmente sopprimibile nell’uomo. E non è neppure facilmente manipolabile, in modo diretto. E’ infatti attraverso la ragione, con un processo di condizionamento culturale, opportunamente dosato per ciascun gruppo umano, se non per ciascun uomo, che si arriva alla repressione e allo snaturamento della istintualità. Tuttavia, e nonostante l’evidente situazione di massificazione e di degradazione in cui versano i popoli, io affermo che non c’è lavaggio di cervello, non ci sono processi di repressione o di deviazione o di sublimazione totali e irreversibili. Io credo e affermo che in ogni uomo la spinta alla libera realizzazione di sé è irresistibile e insopprimibile come la vita stessa.
Intanto va sottolineato che un sistema sociale che teorizza e applica e produce sistematicamente lo sfruttamento del lavoro umano, l’assassinio di massa, la repressione nelle galere e nei ghetti, l’alienazione e la follia può anche essere un sistema scientifico, può anche essere matematico ma è certamente irrazionale.
E va anche sottolineato che l’affermazione dell’uso individuale della ragione è una affermazione estremamente eversiva e destabilizzante per le sue implicazioni - al sistema, nulla fa più paura degli uomini che pensano con la propria testa.
Tolstoi - come altri pensatori libertari - prefigurando una nuova società umana fondata sul rapporto “ragione-natura”, traccia alcune importanti linee di azione rivoluzionaria. «Come Godwin e, in larga misura, Proudhon, ritiene necessaria una rivoluzione morale e non politica: la rivoluzione politica, infatti, attacca lo Stato e la proprietà dal di fuori, mentre la rivoluzione morale opera all’interno della società e ne mina le basi stesse... (Egli) vede un solo mezzo efficace per trasformare la società: il ricorso alla ragione e,in ultima istanza, alla persuasione e all’esempio. Chi desidera abolire lo Stato deve cessare di cooperare con esso, rifiutarsi di servire nell’esercito, nella polizia, nei tribunali, rifiutarsi di pagare le tasse. Il rifiuto all’obbedienza è, in altre parole, la grande arma».(6)
L’idea di Tolstoi del rifiuto al sistema come la “grande arma” della rivoluzione deriva da esperienze concrete, dalla conoscenza diretta della vita e della cultura contadina del suo popolo, e delle risposte di questo alla oppressione zarista.
C’è nella resistenza passiva delle nostre comunità contadine - liquidata settariamente e semplicisticamente dai paleomarxisti come immaturità e fatalismo - una ben precisa forma di rifiuto nei confronti del sistema di potere esterno: è una razionale, storica, efficace forma di lotta per evitare con l’alienazione (cioè con la totale degradazione della propria cultura) quel processo di acculturazione strumentale necessario ai padroni per lo sfruttamento intensivo dell’uomo. E’ una forma di lotta, io credo, che se fosse stata stimolata e generalizzata avrebbe già portato al crollo del sistema di potere statalista - ed è una forma di lotta ovviamente o frenata o calunniata o repressa tanto dal potere borghese quanto da quello marxista, che hanno ambedue bisogno, per esistere, dello Stato e delle sue istituzioni coercitive.
Ci sono nel popolo atteggiamenti culturali di sprezzante indifferenza per le “magnifiche’’ invenzioni del sistema - atteggiamenti che rappresentano chiaramente scelte ideologiche e politiche rivoluzionarie. Illuminante una definizione, diffusa nell’Oristanese, che di sé dà il contadino: «Ddi podis chistionai de sa mellus cosa, de Deus o de Filosofia; t’hat a rispondiri sempiri: m… tua a issus, buffa!» (Gli puoi parlare delle cose più nobili, di Dio o di Filosofia; ti risponderà sempre: falli f… , bevi!)
Mi viene a mente, seguendo la logica di questo discorso, la naturale ritrosia di Cartesio a pubblicare i suoi scritti, e più in particolare ciò che egli scrive a Chanut in una lettera del 1° novembre del 1646: «… se fossi stato solamente così accorto come i selvaggi ritengono - a quel che si dice - che siano le scimmie, non sarei mai stato conosciuto da chicchessia come facitore di libri: essi pensano che le scimmie potrebbero parlare se volessero, ma se ne astengono per non essere costrette a lavorare. Ora per non avere avuto la stessa prudenza ad astenermi dallo scrivere, non ho più quel tempo libero e quel riposo di cui disporrei se avessi saputo tacere».(7)
Il rifiuto permanente, sottile, ironico presente nel popolo (umanità ancora e nonostante tutto “autentica”), nei confronti dell’autorità, dell’ordine, della cultura del sistema è un rifiuto istintuale e razionale insieme. La crescita naturale dell’uomo - che chiamo processo razionale di realizzazione della istintualità - passa evidentemente attraverso linee che sono esattamente all’opposto di quelle violentemente imposte dal sistema.

9 - Lo stesso concetto comune di “ignoranza” va visto e valutato sulla sostanza dei fatti, in particolare sull’uso che il sistema ne fa, contrapponendolo al concetto di “cultura”. C’è già una matrice politica nella errata contrapposizione di “ignoranza” a “cultura”. L’uso ambiguo di “ignoranza” che ne fa il sistema ricalca l’anfibolia classica.
L’opposto di “colto” e “incolto", uomo senza cultura - una valutazione dispregiativa diffusa per esempio tra i tedeschi per indicare l’Ausländer. Dove “uomo senza cultura” vuol dire precisamente “senza la cultura della classe egemone”.
“Ignoranza” è l’opposto di “conoscenza”; ed è una forzatura politica, un pregiudizio razzistico voler intendere la “conoscenza” sempre e soltanto correlata alla cultura egemone, «unica depositaria di verità e scientificità».
“Ignoranza” significa semplicemente “non conoscenza di qualcosa” - ma anche rifiutarsi di conoscerla per non doverla accettare. Tuttavia non c’è uomo, in condizioni di esserlo, che non conosca e non utilizzi tutto ciò che gli occorre per poter vivere e crescere, in un dato ambiente, in un dato momento storico. Conoscere è un processo naturale di crescita, proprio di ogni creatura vivente.
In pratica io non conosco - né posso concepire in teoria - alcun uomo “ignorante”. Se vogliamo quantificare e gerarchizzare in rapporto a un modello di uomo e di ambiente (ma è sempre una valutazione politico-morale e quindi soggettiva), si potrà dire che esistono diversi livelli di conoscenza, in quantità e in qualità, in rapporto agli interessi di ciascun uomo e in rapporto alla realtà più o meno complessa del mondo in cui ciascun uomo vive e si realizza. E poiché la conoscenza è un fatto di scelte - libere o necessarie o imposte - i diversi livelli di conoscenza sono correlati alle possibilità di scelta che ha ciascun uomo.
Se vogliamo parlare di “vera conoscenza”, direi che essa non deriva dalle scelte moralistiche, quando non scopertamente politiche (in senso deteriore), imposte dal sistema, ma scaturisce sempre e soltanto dalle scelte “libere”, individuali, armonizzate con le scelte “necessarie”, volute dalla natura - di cui l’uomo è componente, le cui leggi non possono contrastare con la libertà dell’uomo.
Il concetto comune di “ignoranza”, nel sistema, è fondato su una serie di pregiudizi razzistici tendenti a canalizzare e a strumentalizzare l’uomo per mezzo della sua esigenza di conoscere per crescere. Conoscere non è più ciò che realizza l’uomo, ma diventa un processo di condizionamento che torna utile alla economia del sistema - o più precisamente della consorteria al potere. In pratica sarebbe “ignorante” il cittadino che non conosca o non accetti le regole del sistema. Ho detto “regole” perché in definitiva tutto il sapere riservato al popolo è costituito da un ben dosato complesso di precetti pseudomorali.
La conoscenza di un sapere politicizzato è falsa e artificiosa e va ovviamente a scapito di una conoscenza basata sulla ragione individuale e sulla verità. Una persona “colta” in senso distorto è facile preda dei condizionamenti del potere connesso o innestabile a quel tipo di cultura. Al contrario, l’ignoranza di quella cultura è una formidabile difesa per evitare i condizionamenti che passano attraverso la stessa. Ciò, tenendo presente che l’ “ignorante”, lo stesso analfabeta strumentale, è più colto dell’acculturato integrato nel sistema, se dimostra di avere acquistato strumenti e capacità di conoscere e modificare (far crescere) se stesso nel mondo in cui vive.
Il popolo - si dice - è ignorante, “non ha una cultura”. Per ciò bisogna istruirlo e dargli una cultura. Inizia da qui, da un falso, il cancan degli interventi detti di educazione degli adulti. C’è comunque una resistenza nell’uomo alla manipolazione dall’esterno della propria personalità, in definitiva del proprio equilibrio socio-culturale: questa resistenza è la causa logica e naturale del fallimento di tutte le iniziative educative promosse dal sistema. Un fallimento però che purtroppo è parziale, perché un minimo di condizionamento quantitativo, in generale, e un minimo di condizionamento qualitativo, in particolare, ciascuna di tali iniziative riesce sempre a ottenere.
Devo dire - per averle vissute dall’interno - che le malizie tecniche del processo di condizionamento attraverso l’educazione sono infinite. E aggiungo, ottimisticamente: quanto infinite sono le malizie umane, individuali e di gruppo, per evitarlo.
E’ di recente data la riedizione, in termini più scientifici e tecniche e strumenti più sofisticati, di interventi educativi riservati al popolo - passando attraverso i punti chiave, utilizzando i moduli più significativi della cultura del popolo (ammettendone quindi l’esistenza) per vuotarla di contenuti vivi, degradarla e disgregarla, riproporla poi folclorizzata, inerte. Viene fatto di credere, a questo proposito, che gli studi antropologici dei marxisti in Italia sembrerebbero avere come scopo una sempre più efficiente organizzazione di “feste dell’Unità” - nel senso di voler operare un innesto (già operato dal cattolicesimo) di una ideologia riformistica statalista ed elitaria sul ceppo popolare di tradizioni comunitarie autoctone.
10 - Anche dopo l’acculturazione e l’integrazione della classe operaia - che ha imparato a usare la cravatta con disinvoltura, a fare propria la concezione borghese dello Stato e del potere e a sostituirsi alla polizia nei servizi d’ordine - resta ancora diffuso il luogo comune di un popolo ignorante, rozzo e tendenzialmente delinquente, contrapposto alla classe borghese (cui si aggiunge la classe operaia integrata), colta, di modi distinti, tendenzialmente onesta. Questa volta è di turno il binomio ignoranza-criminalità. Le due parti del binomio (artificioso) vengono fatte apparire sempre in stretta correlazione tra loro, tanto che finiscono per confondersi l’una con l’altra.
Il binomio ignoranza-criminalità è presente in tutti gli studi sociologici che io conosco sulla Sardegna. Altrove, e più volte, ho rilevato che ogni cultura (e nel suo interno ciascun individuo) ha peculiari forme di risposta nel rifiutare le leggi che le (e gli) vengono imposte. Cosicché i fenomeni di criminalità si possono correlare alla “ignoranza” come alla “conoscenza”, alla povertà come alla ricchezza - senza però dimenticare che è il potere a decidere quale azione è criminale e chi è criminale.
Ed è evidente che criminalizzando soltanto il popolo, il ventilato stato di diritto o è utopia o è una solenne truffa.
Far derivare la criminalità dalla ignoranza ha portato molti studiosi, anche in buonafede (nel senso che credevano nel riscatto civile del popolo) a battersi per la promozione di interventi educativi e di campagne per l’alfabetizzazione - interventi e campagne portati avanti poi dagli “esperti” del settore appositamente creato dal sistema, secondo un piano che abbiamo già visto: la dissoluzione della cultura autoctona per sostituirla con un rudimento di cultura, alienante, necessaria per lo sfruttamento integrale dell’uomo.
L’equivoco nasce dal fideismo, tipico del paleo-marxismo, sulla redenzione della umanità sfruttata mediante l’espropriazione e l’acquisizione degli strumenti di produzione e culturali della classe al potere.
La lotta rivoluzionaria per la espropriazione e l’acquisizione degli strumenti di produzione ha visto i marxisti ripiegare sempre più su posizioni riformistiche e di compromesso. Non più espropriazione ma semplicemente acquisizione per imitazione del modello culturale e politico della borghesia: nella assunzione di privilegi, nel modo di vivere, nel linguaggio, nel fare proprie le istituzioni stataliste - fino a integrarsi, come assimilati, nella realtà dell’antagonista di classe, mercanteggiando una co-gestione del potere in posizione subalterna.
Non si tratta solo di rivoluzione mancata, ma di mancanza di rivoluzione. Già sul piano della ideologia, le trasformazioni del marxismo portano a immagini grottesche di un sistema “modificato per capovolgimento”. Hegel è un idealista-reazionario. Tuttavia Marx riconosce che la teoria di Hegel sulla dialettica è perfetta. Ma la perfezione di un idealista-reazionario è necessariamente una perfezione idealista-reazionaria. Per farla diventare materialista-progressista bisogna “capovolgerla”: anziché sulla testa farla poggiare sui piedi. Questo dice Marx, se ho ben capito.

11 - Le considerazioni fin qui esposte ci aiutano a mettere a fuoco un sistema che si definisce civile, scientifico, efficiente ma che lo è soltanto nella facciata.
Computers, astronavi, missili intercontinentali, mezzi di locomozione a propulsione nucleare, centrali atomiche… tutto questo non è che la moderna “progressista” facciata di un edificio nel cui interno l’umanità è prigioniera come in un lager, incasellata, snaturata, alienata.
Il sistema ha potenziato e perfezionato oltre ogni limite la scienza e la tecnica ai soli fini del profitto, del privilegio - rapinando il patrimonio naturale comune fino al totale depauperamento, sfruttando l’uomo fino al totale abbrutimento.
Nel contempo, il sistema è rimasto grezzo, ignorante su tutto ciò che riguarda la conoscenza vera della natura, la creazione di strumenti che proteggano l’uomo dalle avversità ambientali, dai propri limiti fisiologici, che lo aiutino a crescere e a realizzarsi il più liberamente possibile.
Sempre più chiaramente e con forza dobbiamo dire che il tanto decantato progresso è in funzione dello sviluppo e perfezionamento della macchina bellica per tenere assoggettati i popoli e della macchina produttiva per realizzare lo sfruttamento dei popoli. Non ci sono eccezioni a questa regola: le briciole di progresso che in “giuste dosi” e “una tantum” cadono sui lavoratori rientrano nella fase di adescamento reiterato, che fa parte del gioco.
La liberazione dell’uomo dagli ingranaggi della mostruosa macchina è in una rivoluzione culturale, prima ancora che politica. La presa di coscienza di sé, dell’insanabile conflitto esistente tra la natura umana, le esigenze dell’essere e del divenire liberi, e la sostanza disumana, meccanicistica del sistema che le esigenze snatura e devia per schiavizzare e sfruttare.
Presa di coscienza è riappropriazione di sé e rifiuto di tutto ciò che non è autentico - un lavoro lungo difficile di continue piccole scelte alla ricerca di sé contro il millenario sottile ininterrotto processo di condizionamento cui ci ha sottoposto con ogni mezzo il potere. Una ricerca nel passato storico, nella cultura nostra, come popolo e come individui, per ritrovare e scegliere gli strumenti con cui opporci e lottare contro la degradazione e l’alienazione.

12 - Nel momento stesso in cui il sistema mostra tutta la sua efficienza oppressiva e sfruttatrice e dispiega tutta la sua potenza repressiva,mostra anche la sua debolezza: la paura che binomio oppressori-oppressi stia per giungere al limite di rottura.
Il processo di assoggettamento e di sfruttamento non può proseguire indefinitamente: ha dei limiti obiettivi di rottura. Il sistema conosce bene il gioco del tirare la corda senza romperla, allentandola al momento opportuno - ma proprio per questo, per presunzione, commette l’errore di sottovalutare la forza della controparte, degli oppressi. Il gioco è incerto, rischioso; prima o poi la corda si spezza. E non ci saranno fiancheggiatori e persuasori, non ci saranno partiti e sindacati, non ci saranno preti e maestri di scuola che potranno riannodarla.
Sempre più il popolo viene truffato, affamato, rapinato, sfruttato. Disoccupazione, miseria, fame, galera non sono una temuta prospettiva ma una realtà del nostro tempo. Non è rimasta nessuna forza politica che abbia conservato credibilità, che possa opporsi a una simile degradazione della vita civile. Il sistema ha saputo in questi ultimi anni inglobare tutte le opposizioni, creando la situazione favorevole per ristrutturare in forme più razionali e scientifiche la macchina di oppressione e sfruttamento.
Il dio Marx è miseramente fallito. Non c’è stata la profetizzata rivoluzione proletaria in seguito al generale processo di industrializzazione. Non c’è stata presa di potere del proletariato conseguente all’accumulo delle contraddizioni del sistema borghese. C’è stata sì l’industrializzazione, con alti costi e poca occupazione - non cattedrali in un deserto, ma cattedrali che hanno prodotto il deserto. Ci sono state sì le contraddizioni, a montagne, e non poche volute e prodotte in anticipo dallo stesso sistema per meglio controllarle; contraddizioni che il sistema ha saputo fagocitare ingrassando, che ha perfino mercificato, facendone sempre ricadere i costi sul popolo.
La sinistra marxista non è arrivata al potere con la rivoluzione, con il popolo. Ci è arrivata e ci sta arrivando con la prassi borghese dell’intrigo, del compromesso, con la svendita sottobanco dell’ideologia, con il tradimento quotidiano della rivoluzione e del popolo.
La sinistra di classe è ormai irrimediabilmente coinvolta nei giochi di potere dei padroni. Il PCI - dopo il PSI, ma in modo più grezzo e senza riserve - compartecipa al potere assumendo responsabilità e con la forza che gli viene dal suo passato rivoluzionario dando credito a un governo reazionario, fascista, clericale: approvando la politica andreottiana dei sacrifici, la politica di riconversione industriale sulla pelle dei salariati, la politica clericale della revisione del concordato che dà nuovi e maggiori privilegi al Vaticano, la politica atlantista che ha svenduto la nostra Terra al militarismo yankee, la politica della deportazione degli oppositori nei lager e dell’assassinio legalizzato.(8)
Il Parlamento, che si definisce “rappresentanza del popolo” e che in nome del popolo osa legiferare, oggi come ieri è soltanto una consorteria di ruffiani che tengono il sacco ai ladri che derubano il lavoratore.
Per mascherare il dilagare della corruzione e del ladrocinio - connaturati al potere - il sistema aizza con la violenza e con ogni provocazione il popolo, provocando risposte rabbiose nei ceti più sprovveduti; il sistema dilata e drammatizza anche banali episodi di violenza popolare, quando anche non li produce in proprio o non se li inventa, per avere l’alibi di sempre nuovi interventi repressivi.
Il preciso scopo dell’ondata di violenza in atto in Italia non è la destabilizzazione dell’attuale regime, non è lo scardinamento dello Stato: artefice e beneficiario unico di questa e di ogni violenza è il sistema statalista. Il preciso scopo della violenza è quello di mettere a tacere ogni opposizione popolare, con la eliminazione anche fisica dei cittadini che turbano “l’ordine costituito”. Ordine che significa nella sua espressione ottimale l’autocastrazione del cittadino: il consenso dell’oppresso a farsi continuare a opprimere.
Nella colonia Sardegna, area di servizi militari e petrolchimici, terra di lager e di criminali sperimentazioni, la strategia della tensione assume forme e dimensioni eccezionali, che travalicano perfino le stesse leggi fasciste dello Stato “democratico”.
Oltre che ai pastori-banditi, l’apparato repressivo rivolge da tempo la sua attenzione ai compagni-banditi, sfogando la sua rabbia specialmente sui giovani, capaci di sbocchi creativi. Sui giovani si spara a vista. I giovani di oggi sono i pericolosi eversori di domani, la parola d’ordine è di eliminarli - giusta la teoria dell’igiene preventiva.
E’ ipocrisia o malafede richiamare le forze dell’ordine al rispetto dello stato di diritto, delle libertà sancite dalla costituzione o all’elementare buonsenso. Il popolo sa, per averlo sempre sperimentato sulla propria pelle, che lo stato di diritto non è mai esistito, che la carta costituzionale è carta da cesso, che non può esserci buonsenso in killer addestrati a colpire il bersaglio - sagome di cartone o ragazzini di sedici anni come Wilson Spiga, come Giuliano Marras.
Eppure - non lo dimentichino i signori della consorteria - tanto più il sistema aumenta l’oppressione e la repressione, tanto più aumenta la resistenza nel popolo. Così come, tanto più la resistenza nel popolo tende a esprimersi in forme organizzate, tanto più il sistema dispiega gli strumenti della repressione.

13 - Questa è la situazione - estremamente dura, difficile, dolorosa. Ed è questo il momento ideale per affermarsi nel popolo la rivoluzione libertaria - la presa di coscienza individuale e di gruppo, la riappropriazione di sé come uomo e come umanità: contro i miti delle grandi teorie rivoluzionarie che hanno tutte come obiettivo la presa del potere e quindi la conservazione del sistema statalista, della oppressione e dello sfruttamento.
Sembra che a qualcuno che milita sul fronte del popolo faccia paura ammettere che l’utopia anarchica non è più utopia, che è nata e cresce. Un filosofo che ha creduto nel vangelo marxista, J. P. Sartre, in una intervista a Lotta continua sostiene che «libertà e potere non possono andare in coppia». Lo scrittore Cassola, il borghese intellettuale che per tutta una vita sfarfalleggia nell’empireo dei letterati-arcangeli, scopre l’idea anarchica e se ne fa apostolo. Non pochi compagni della sinistra di classe dissidente, compresi quelli che ruotano intorno al quotidiano Lotta Continua ammettono di essere usciti da posizioni di marxismo settario e di essersi avviati, grazie anche all’apporto ideologico del movimento libertario delle donne, a una rivalutazione critica del marxismo - l’accettazione del significato rivoluzionario nell’affermazione femminista “il privato è politico” è sintomatico; anche se questa affermazione è secondo me essenzialmente provocatoria, nel senso che ha preminentemente la funzione di dissacrare una entità, come la politica, posta al di sopra dell’uomo; dissacrare la politica non per rivalutarla in senso di esigenza umana ma per rispedirla nelle nebbie culturali e filosofiche che l’hanno partorita. Credo che la liberazione della donna, e dell’uomo, non passa attraverso una lotta politica (ripeto: la politica è categoria filosofica del sistema, come la morale o l’economia), ma passa attraverso la distruzione del sistema con tutte le sue categorie.
Dunque, in questa realtà densa di fermenti e ricca di mutamenti profondi, sostanziali, è tornata in discussione - difficile dire con quali fini reconditi - la questione del ruolo dell’intellettuale, oggi.
Qualcuno comincia a dire che il “vero intellettuale” è l’intellettuale che sta sempre “al di fuori dei partiti”, che è sempre in funzione critica nei confronti del potere. Ciò mi pare giusto - ma di quale potere si parla? Liberalismo e marxismo si identificano nella definizione che danno dell’intellettuale, in funzione di appoggio o di critica al potere, secondo la classe che lo detiene.
Per quel che ne so gli intellettuali che il sistema riconosce come tali svolgono attività critica nei confronti di un certo tipo di potere, non contro il potere in quanto tale.
Intanto devo dire che non esiste una categoria sociale di intellettuali - qualunque uomo lo è quando usi il proprio intelletto. Ma se proprio vogliamo classificare, direi che ci sono intellettuali che servono i padroni e condividono con questi potere e privilegi e ci sono intellettuali espressi dal popolo e condividono con questo oppressione e sfruttamento.
E’ una questione di scelte, certamente, non soltanto di nascita. Ma è un dato di fatto che nel potere, e nei privilegi che comporta, non c’è posto per l’intellettuale del popolo. La misura della validità rivoluzionaria del lavoro di uno scrittore è inversamente proporzionale al successo che il sistema gli riserva nell’Olimpo della cultura ufficiale.

14 - Per finire, una riflessione che non vorrei tenere tutta per me. In virtù della ragione del più forte, l’eretico ha l’obbligo di dimostrare in modo inoppugnabile le proprie tesi; al contrario, l’ortodosso, qualunque imbecillità sostenga, viene creduto sulla parola.
Cagliari, 1977

NOTE

1) U. Dessy - Il mitra puntato male, in Sardegna Oggi n.19 del 1-2-1963, pag. 17.
2) M. G. Rosada - Le università popolari - Ed. Riuniti, 1975, pag. 16.
3) F. Fanon - Comunicazione al 1° Congresso degli scrittori e degli artisti neri – Parigi 12/19 settembre 1956 - in Presence africaine, Revue culturelle du mond noir, nn.8/10 di giugno/novembre 1956.
4) F. Fanon - ibidem.
5) F. Fanon - Comunicazione al 2° Congresso degli scrittori e degli artisti neri – Roma 26/31 marzo 1959 - in Les damnés de la terre - F. Maspero Editeur, 1961
6) G. Woodcock - L’anarchia - Storia delle idee e dei movimenti libertari – Feltrinelli 1976 - pagg. 204/205.
7) Il pensiero di René Descartes a cura di G. Crapulli - Torino 1972, pag. XIX nota 2.
8) La valutazione sul defunto PCI è ovviamente riferibile a quel periodo. Va sottolineato che come altri intellettuali sono stato fin troppo facile profeta.

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