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S'Ardia/La Guardia

La sagra di San Costantino

Annualmente, dal 5 al 7 luglio, a Sedilo, in provincia di Nuoro, si festeggia Santu Antine (San Costantino). Si tratta di una sagra paesana forse la più interessante fra quante se ne tengono nell'lsola. Per l'occasione, sono presenti folte rappresentanze anche delle più lontane comunità, che danno luogo a una singolare rassegna del  costume e a una vera e propria fiera dei prodotti tipici della Sardegna.
Il clou della festa, o se si preferisce il momento di maggior rilievo, che caratterizza di profondi significati culturali una comune sagra strapaesana, è la corsa detta de s'Ardia, della Guardia, che consiste in una spettacolare esibizione di  bravura ippica, in una prova di ardimento in cui si cimentano i migliori cavalieri dell'Isola. Non è esagerato dire che si assiste a una vera e propria sfida alla morte.
Certamente i mitici cow-boys del selvaggio West e i famosi butteri della paludosa Maremma - oggi scomparsi, travolti dal rullo compressore della civiltà della  macchina - non saprebbero fare meglio di quanto non facciano i cavalieri sardi che con i loro bellissimi destrieri danno luogo alla spericolata, turbinosa e folle corsa nell'accidentata pista attorno al santuario di Santu Antine.
La corsa detta s'Ardia si svolge nel tardo pomeriggio del giorno 6 e attualmente viene ripetuto, per ragioni turistiche, la mattina del giorno dopo. Il numero dei cavalieri partecipanti alla corsa non è limitato: chiunque se la senta, di qualunque età egli sia, può cimentarsi. Quest'anno erano presenti circa settanta partecipanti, alcuni dei quali giovanissimi, sui diciassette anni.
Conducono la corsa is obrieris, (che possiamo tradurre con "operatori della festa") che sono tre: uno di essi è il capo, detto sa prima pandhela, (la prima bandiera), e gli altri due che lo fiancheggiano sono detti rispettivamente segunda e terza pandhela (seconda e terza bandiera). Tale denominazione deriva dalla bandiera che ciascuno dei tre regge e che viene solennemente consegnata loro dal sacerdote del tempio. Le tre pandhelas sono di colore diverso : una è bianca, una è gialla e l'altra ancora è rossa. Ai tre obreris portatori de pandhelas,  si uniscono altri due cavalieri scelti, detti s'iscorta (o iscolca, da scolta, scorta, sentinella). Compito delle  scolche è quello di non consentire ad alcun cavaliere del seguito di sopravanzare is pandhelas durante la corsa. Tale compito essi assolvono a suon di scudisciate, che distribuiscono senza risparmio ai cavalieri  più ardimentosi che osano tentare il sorpasso. La regola del gioco vuole che le scudisciate risparmino i cavalli ma siano generosamente affibbiate, dove tocca tocca, ai cavalieri del seguito.
La corsa de S'Ardia muove dal sagrato della chiesa, si snoda fino al punto in cui si trova un monolito, una pietra sacra (betilo mammellanare) simboleggiante la Dea Madre, dove il sacerdote - anch'egli a cavallo, come vuole la tradizione, intona preghiere e benedice il corteo. Questo, sempre guidato da is pandhelas, i portatori di stendardo, raggiunge uno spiazzo che trovasi dietro la chiesa, in alto. Una fucilata - cui durante la corsa ne seguiranno numerose altre - dà inizio alla folle galoppata giù lungo uno scosceso accidentato sentiero fra le rocce. Per sette volte, a corsa sfrenata, il corteo gira attorno al santuario, ogni volta passando attraverso l'angusto arco di accesso alla corte del tempio - che un cronista cui non deve mancare l'humor, ha chiamato in un suo servizio "l'arco di Costantino". (Ma è scusato, se si pensa che un nostro famoso archeologo chiama il betilo raffigurante la Dea Madre "tomba di Costantino"). A conclusione, il corteo dei cavalieri compie tre giri attorno al monolito, la sacra pietra. La quale, per inciso, è stata rimossa nei tempi andati dalla sua originaria sede, la terrazza circolare, nel cui centro, al suo posto, campeggia la croce del Cristo. A indicare la sua vittoria e la sua supremazia sulle vecchie divinità pagane.
Questo non singolare spodestamento della Dea Madre, soppiantata dal simbolo della nuova religione imposta ai Sardi dai conquistatori bizantini, ci consente di introdurre qui alcune considerazioni critiche sull'Ardia, la cavalcata rituale inserita nel contesto di una comune, seppure assai celebrata fiera paesana. Se è vero che tale fiera vede radunata tanta rappresentanza di Sardi da potersi definire "nazionale" o "federale", e pertanto può considerarsi la più antica e la più genuina tra gli appuntamenti folcloristici che annualmente le diverse comunità isolane si danno, con un evidente - e ormai in gran parte superato - scopo economico culturale: conoscersi e scambiare i diversi prodotti, se tutto ciò fa già della sagra di Santu Antine una delle più interessanti feste fra le tante che ancora hanno luogo in Sardegna, è anche vero che s'Ardia - la corsa ippica rituale che vi è inserita - è da considerarsi la testimonianza di un lontanissimo rito che si è ripetuto fino ai nostri tempi, conservando intatti i suoi valori originari.
Come qualche studioso, e in particolare Sebastiano Dessanay, hanno rilevato: si è chiaramente, e malamente, sovrapposto, con diversi elementi formali, il culto di un imperatore, santificato dal clero orientale (e che non è santo per la chiesa cattolica) su un rito pagano, quale è quello della corsa dei cavalieri armati attorno a un sacro recinto.
In parole molto semplici, la cavalcata rituale intorno al tempio altro non è se non la ripetizione in chiave simbolico-religiosa di un antichissimo originario compito de scolta, di guardia, affidato ai più valenti cavalieri del clan, che appunto vigilavano percorrendo la fascia di confine che separava il territorio di un villaggio da quello di altri. L'istituto millenario della scolca (da cui probabilmente ha origine il più moderno istituto del barracellato), conservatosi come residuo di un rito religioso pagano, diventa Ardia, Bardia, Guardia d'onore dell'imperatore Costantino il Grande - santificato dai cristiani per grazie ricevute con l'Editto di Milano.
Per avere un quadro più completo della eccezionale sagra di Santu Antine, cedo ora la parola ad altri studiosi, del passato e del presente, che hanno descritto s'Ardia, un rito ancora tutto da studiare.

a - Sa Bardia nei secoli

"Sedilo. Per la festa del patrono Santu Antine, un gruppo di spericolati cavalieri si lancia in sfrenato galoppo verso il santuario, tra fitte scariche di fucile cui rispondono, dalla corte della chiesa, le incitazioni e le preghiere gridate dal popolo inginocchiato nella polvere."
(Tuttitalia - Enciclopedia dell'Italia antica e moderna - Vol. Sardegna di Aa. Vv. - pag. 87)

"... una turba varia di devoti, d'ambo i sessi, a piedi nudi, col capo scoperto e coi capelli sciolti, reggendo in mano ceri, labari, croci ed ex voto… si slanciava... ad una fuga demente, frenetica... e s'aggirava intorno alla croce tre volte, per impegno sacro, come posseduta da  uno spirito turbolento di baccanale, trascinata da una rapina di delirio... Chiome di vergini ondeggiavano al vento, nella ridda macabra giovani si rincorrevano... gavazzanti nella libera promiscuità... nitrendo oscenamente. Zitelle strillavano, piangevano, frignavano udendo alle calcagna lo scalpitar dei cavalli, incombenti alle loro spalle."
(Il testo è dello scrittore di Berchidda, Pietro Casu, teologo e famoso predicatore in logudorese - ripreso da S. Dessanay in "Gli antichi riti agrari nella Bardia di Sedilo" - "Sardegna Oggi" n.8 del 30/7/1962)

"Luglio, 5-7- A Sedilo ha luogo la sagra di S. Antine con la tradizionale corsa dell'Ardia. Questa si corre nel pomeriggio del giorno 6 e si ripete il giorno 7. Più che una "corsa" è una vera e propria "carica di cavalleria" compiuta da spericolati cavalieri contro un nemico invisibile e pur presente (sic! ) negli spiriti eccitati dal parossismo epico-religioso. L'Ardia, infatti, vuole ricordare, non si sa bene per quale antica tradizione trapiantata in Sardegna, la battaglia combattuta e vinta da Costantino Imperatore a Ponte Milvio nel luglio del 323 d.C. In Sardegna la tradizione vuole questo imperatore innalzato dalla chiesa agli onori degli altari. Pittorico anche il quadro folclorico che offre la sagra e la località ove essa si svolge."
(Da "Sardegna" - Breve guida turistica- Isili 1962)

"In questo villaggio di Sedilo occorre la festa di San Costantino cui è consacrata una chiesa fin da tempi antichi, di stile gotico a tre navate sostenute da colonne. La Sardegna dal tempo dell'impero Bizantino ha introdotto il culto di questo Imperatore che non è stato riconosciuto dalla chiesa occidentale. Il giorno della sua festa, che cade nel 5, 6 e 7 di Luglio, si fa una gran fiera molto popolata, perché vi concorrono famiglie anche dai villaggi più lontani.
Il maggior divertimento consiste nella corsa di cavalli che chiamano Ardia (forse guardia). Centinaia e più di cavalieri con cavalli riccamente bardati fanno per tre volte il giro della Chiesa, e poi a gran corsa scendono dalla Chiesa alla vallata per fare altri tre giri attorno ad  un recinto nel di cui centro è piantata una croce. Questo spettacolo misto di sacro e profano dal popolo e dai devoti che concorrono per onorare il Santo è rispettato con fanatismo".
(Tratto da Emendamenti ed aggiunte all'itinerario dell'isola di Sardegna del conte Alberto Della Marmora pel Comm. Giovanni Spano Senatore del Regno - Cagliari 1874)

Alla voce Sedilo, a chiusura del brano sopra riportato, si dà la seguente notizia:
"In una carta del R. Archivio del 1590 si racconta diffusamente la storia di un famoso bandito Bachisio Melis ch'era il terrore di Sedilo e dei vicini villaggi. Il barbaro Governo di quei tempi ricorse alla pena della tortura di molti sedilesi per iscuoprire i fautori".
Nota del redattore: É evidente una contraddizione tra la definizione del bandito Bachisio Melis come "il terrore di Sedilo" e il ricorso alla "pena della tortura" per "iscuoprire i fautori" come li si chiamerebbe oggi i "fiancheggiatori". Non è detto quanti furono i "pentiti" dopo "il barbaro" trattamento governativo.
Sedilo ha dato i natali anche ad un altro famoso bandito, Peppino Pes.

b - S.Antine: Assemblea Nazionale dei Sardi

"Questa sagra è una delle poche che conservino intatto il carattere tradizionale, senza contaminazioni o adulterazioni. Qui la vecchia Sardegna mostra ancora il suo volto non deformato, le sue usanze integre ed il suo umore genuino.
Ogni anno, infatti, essa riunisce qui i suoi più pittoreschi costumi, tutte le sue non represse manifestazioni popolari, tutti gli istinti liberi e schietti della sua gente.
E perciò la festa di S. Antine oltre che una sagra religiosa è una sorta di assemblea nazionale dei sardi ed assume anche il valore d'un rito, in cui si esprime senza limitazioni una razza che non vuole livellarsi e perire del tutto. Anche quei sardi, che a contatto della civiltà sono scesi a compromessi ed hanno stemperato la loro sardità nel costume anonimo e generico, ritemprano, al contatto corale, la loro natura illanguidita. E quasi in una memoria atavica essi ritrovano gesti, parole, atteggiamenti comunemente scaduti.
La sagra di S. Antine ha dunque il sapore magico di un grande ritorno, forse inconsapevole, alle origini. Ed è sintomatico che a creare questo miracolo, forse l'unico compiuto da questo santo che non è santo, a creare quel clima che coagula gli antichi sentimenti sia un guerriero. Non diversamente d'altronde da quanto accade a Cagliari in occasione della festa di S. Elisio, che anche lui è un martire guerriero. Forse l'anima sarda trova più rispondenza e maggiore affinità in un santo bellicoso ed armato. Perciò l'imperatore cristiano accende ancora nel popolo sardo la fiamma dell'entusiasmo religioso e la sua piccola chiesa accoglie ogni anno migliaia di fedeli venuti ad implorare una grazia, a sciogliere una promessa o a confessare nel venerato simulacro le angustie della miseria o le trepidanti speranze. Anzi, se qualcuno potesse raccogliere i voti, le suppliche, le confessioni che questi fedeli, sciolti dalla ritrosia abituale, vengono a deporre sul grembo di S. Antine, questi potrebbero intendere veramente l'anima della Sardegna. Conoscerebbe la sua pena segreta e le infinite piaghe che sfuggono forse al turista svagato e distratto da quei giocondi costumi color di fiamma e di cielo.
La festa di S. Antine, oltre questo suo aspetto intimo, ne rivela un altro pagano ed esterno, per il quale essa diventa una grande mostra dell'arte popolare, dell'abbigliamento, delle specialità gastronomiche dell'isola. Quasi tutti i paesi della Sardegna sono infatti rappresentati con i loro costumi, con i prodotti della terra dell'artigianato, con i cibi tradizionali, con i vini più generosi.
Sulla pianura incenerita dall'estate, sul sagrato e sulle colline sciamano e si intrecciano i cori delle fanciulle di Osilo, di Fonni, di Desulo, di Sennori, di Ploaghe, di Cabras, col capo avvolto in nitide bende o adorno d fazzoletti a fiorami o serrato entro cuffie policrome, coi il corpo chiuso nei farsetti scarlatti o d'argento e d'oro con la gonna increspata da mille pieghe o listata di seta o di ricami. Frattanto i mercanti gridano la loro merce. Quelli di Milis, le arance e la vernaccia; quelli di Cabras "su pisci e' iscatta" e "is buttargas"; i nuoresi, l'aranciata; quelli di Villacidro e di Santulussurgiu "s'abba ardente" (acquavite); i bosani, i pizzi e i merletti; gli isilesi, le bisacce e le coperte fiorite; quelli di Osilo e di Bolotana, l'orbace; quelli di Castelsardo e di San Vero, i cestelli e le "corbulas". La fase saliente della festa è quella dell'Ardia, una grandiosa cavalcata cui prendono parte centinaia di cavalieri, per commemorare ingenuamente la vittoria conseguita da Costantino su Massenzio a Saxa Rubra.
E le laudi, "is gosos", cantate dai fedeli lo dichiarano: "- Sa chi bos desit vittoria - contra Massenziu tiranu - como bos servit in manu - pro iscettru de tanta gloria - pignu de eterna memoria - pro su tempus benidore. - Siade nostru avvocadu, - Costantinu imperadore!"
Sull'ora del tramonto i cavalieri si raccolgono davanti alla casa del parroco. Questi consegna agli "obrieri" tre bandiere, una bianca, una gialla e una rossa. E la marcia si inizia tra le salve dei fucili. Precede s'Ardia la guardia d'onore. Segue il parroco sul cavallo, poi i vessilliferi e la massa dei cavalieri. Quando questa giunge presso un monolito, nel quale per la sua forma bizzarra il popolo scorge una donna così tramutata per la sua irriverenza verso il santo, il sacerdote intona le preghiere in lingua sarda. Poi la cavalcata si snoda per un sentiero dirupato. A un certo punto il capo obriere dà un segnale e tutta la turba si abbandona ad una carica folle. Giunti dietro la chiesa, i cavalieri si arrestano un attimo, e compiuti sette giri intorno con lena rinnovata corrono vertiginosamente verso il pendio e si precipitano nella discesa per compiere altri tre giri intorno al monolito. L'ultima galoppata tumultuosa è verso la chiesa per salutare il santo guerriero. Tutti i labari si abbassano, tutte le fronti si scoprono. L'Ardia è finita. Ed hanno inizio i balli e le gare canore in tutti i dialetti. Ma poiché anche i balli si differenziano da paese a paese, tutte le migliaia di pellegrini finalmente s'accordano nel ballo tondo o "duru duru", il ballo nazionale che tutti conoscono e che é dunque una sorta di esperanto tra le danze sarde. In questa gigantesca e favolosa danza notturna, che si snoda tra i fuochi dei bivacchi e le luminarie, tutta la Sardegna si incontra e si comprende in un gagliardo ansito comune, che ha la potenza di cancellare il tempo e di assopire quella pena che è l'ospite irrecusabile d'ogni altro giorno."
(Da Marcello Serra in "Mal di Sardegna" - Firenze1963)

c- Gli antichi riti agrari nella Bardia di Sedilo

"Una tra le più tipiche feste religiose sarde mi pare sia quella che si celebra presso Sedilo in onore di Costantino Magno. Una festa che si può ricondurre alle feste di chiusura dell'anno agrario. Il culto di Costantino è molto diffuso in Sardegna. La chiesetta presso Sedilo può considerarsi un vero e proprio santuario e la festa che vi si svolge una vera e propria festa federale.
Come e quando il culto di Costantino sia giunto in Sardegna non è difficile immaginare. Intanto credo si possa pregiudizialmente respingere tanto la tesi di coloro che pensano al giudice d'Arborea, quanto quella sostenuta nel secolo XVII da Agostino Tola, secondo la quale i sardi avrebbero un motivo nazionalistico di venerare Costantino. Nella sua opera "La corona di triumphos" egli schiera ventiquattro argomenti per dimostrare che sant'Elena, madre dell'imperatore, era sarda: mentre nel "Tesoro escondido" afferma di provare "con muchos fuertes fundamentos" che Costantino Magno è santo.
Come ognuno sa, la storia del culto di Costantino è ancora da farsi e io non intendo affatto affrontare questo problema.
Ho detto che non è difficile immaginare il tempo storico della nascita di tale culto in Sardegna. Credo si possa attendibilmente ipotizzare che esso sia stato importato o da quei vescovi africani che in periodo vandalico furono esiliati in Sardegna, o direttamente dalla chiesa ufficiale di rito ortodosso nel periodo della conquista bizantina dell'isola.
Ma non è neppure questo il problema che attualmente mi interessa.
Ciò che attualmente mi interessa è prendere in considerazione critica alcune manifestazioni popolari che si svolgono durante la celebrazione della sagra di Sedilo. La prima osservazione che si può fare è che esse se non del tutto sono quasi del tutto identiche a quelle delle sagre popolari dei paesi di Grecia e dell'Asia Minore. Vediamone qualcuna. La manifestazione della vigilia. In Sardegna come in Asia Minore un gran numero di fedeli si installa nel recinto della chiesa per passarvi la notte cantando inni sacri mescolati a canzoni profane, danzando e banchettando.
I balli nelle chiese. Ancora nel secolo XVI tutto ciò avveniva anche all'interno del tempio come si desume da un passo della  "Sardinia brevis historia et descriptio" di Sigismondo Asquer: "Cum diem festum alicuius sanctis celebrant, audita missa, in ipsius sancti templo, tota reliqua die et nocte saltant in templo, profana cantant, choreas viris  cun feminis ducunt, porcos, arietes et armenta mactant,  magnaque letitia in honorem sancti vescuntur carnibus  illis".
Come è chiaro il richiamo alle "agapi" delle prime comunità cristiane è troppo poco. Meglio rispondono le "cléseis" dell'ippodromo bizantino. Ma soprattutto ritroviamo, cristianizzati, gli antichi riti agrari, i "banchetti comuni" con tutti gli eccessi che essi comportavano. Fino a pochi anni questi banchetti erano veramente comuni e si facevano a spese della comunità locale. Chiunque venendo dagli angoli più diversi del paese o dai villaggi più lontani poteva di pieno diritto sedersi alla tavola comune. Altra manifestazione interessante è quella comunemente detta del panegirico, che costituisce, in Sardegna come in Grecia e nell'Asia Minore, per così dire, l'epopea del santo. Consiste nel sermone svolto dal predicatore e dal canto dei gosos, quasi a illustrazione del sermone, in quanto enumera gli atti, le res gestae del santo, come si faceva per gli antichi eroi della Grecia. L'esecuzione ha carattere responsoriale: di solito un solista canta appunto le res gestae, mentre tutti i fedeli rispondono in coro col predisposto ritornello. Il canto è accompagnato dalla musica delle launeddas.
Le epopee popolari. Anche nell'Asia minore esistono ancora epopee popolari in versi sulla vita dei santi che servivano come audizione musicale nei panegirici. In Sardegna i gosos costituiscono anche l'elemento fondamentale del dramma processionale. Il nome gosos ci rimanda allo spagnolo gozos e al catalano goigs, ma se dovessimo pensare alla prima radice saremmo tentati di riandare a gres denominazione greca del lamento funebre, passato forse in epoca bizantina ad indicare i canti anniversari della morte dei santi. Più che alle alabanzas spagnole, i gosos ci riconducono agli encomia bizantini, che, come si sa, si applicavano non alle lodi, ma agli atti e avevano il senso di una narrazione, o di un canto che enumerava gli atti compiuti da un personaggio e si eseguiva a sua gloria in una festa nazionale o popolare. Non è da escludere dunque che la denominazione spagnola o catalana abbia sostituito la precedente, giacché è assai probabile che questo tipo di canto sia stato introdotto in Sardegna dai bizantini con il paneghi riko's popolare che fiorì dal VI al IX secolo.
Sotto il regno di Costantino VII, la celebrazione del panegirico prende uno sviluppo particolare, tra l'altro col dramma processionale come in Sardegna. E come in Sardegna, il panegirico popolare ornò ogni grande festa ecclesiastica, da quando Teofilate introdusse l'orchestra scenica nella chiesa di Santa Sofia.
L'ippodromo bizantino. Ma la manifestazione più famosa della festa di S. Costantino è quella denominata Ardia o Bardia. Secondo l'opinione comune e dirò unica finora essa sarebbe una caratteristica esclusiva del culto riservato a Costantino il Grande. Ma così non è. Essa appartiene a moltissimi altri santi che si celebrano in Sardegna, ad esempio S.Bartolomeo di Ollolai. Non è, come anche di recente ha scritto F.Alziator, la rappresentazione della "vittoria di Costantino il Grande su Massenzio a Ponte Milvio". Può invece far pensare agli intermezzi ippici introdotti in Santa Sofia da Teofilate. Possiamo anche tornare più indietro ai ludi dell'ippodromo bizantino o alle corse greche dei tempi omerici e a quelle descritte da Pausania. Ma forse le radici sono più profonde e vanno ricercate in antichissimi riti agresti, come la lustratio pagi delle feriae paganicae. Vi accenna Ovidio: "Pagus  a gat festum; pagum lustrate coloni". Ma che cosa era la lustratio? Sostanzialmente era un rito di purificazione, propiziazione e solenne ricognizione dei confini del pagus.
Vediamo in breve come questa manifestazione si svolge. Si tenga presente, innanzi tutto, che dalla chiesa parte un recinto a muro circolare che chiude e separa, per così dire, lo spazio sacro da quello profano. Al centro del recinto è una terrazza pur essa circolare, nel mezzo della quale si erge la croce di Cristo. In tempi lontani, nel luogo della croce era una divinità preistorica, una pietra sacra mammellanare aniconica, rappresentazione della Dea Madre, ora sistemata presso il fianco destro della chiesa.
La corsa a precipizio. Vediamo, dicevo, come si svolge s'Ardia.
I cavalli si radunano su una altura vicina e, alla prima fucilata che fa da segnale, per un viottolo "orribilmente scosceso" si lanciano a precipizio. Davanti sta il cavaliere che porta lo stendardo, che non deve essere sorpassato. La corsa tempestosa, al rombo degli spari, raggiunge lo spazio sacro e vi penetra attraverso un accesso ad arco salendo fino alla chiesa. Si ha l'impressione di un rito di iniziazione, di una conquista eroica o mistica dello spazio magico, inviolabile per i non iniziati. É anche una Difesa del centro che contiene la divinità: Guardia, Bardia, Ardia. Concetti tutti riducibili in termini militari, oltre che religiosi. Così la Bardia sbarra l'accesso ai demoni del deserto e alla morte, ma anche alla penetrazione del nemico, dopo aver fatto una ricognizione dei limiti del pagus. In questo senso questi antichi elementi rituali possono essere la proiezione di società  ancora più lontane del pagus e forse risalgono al territorio tribale da difendere contro invasioni di altre tribù. Ogni tribù, è risaputo, possedeva il luogo della effettiva residenza e un territorio per caccia o pesca o coltura, al di là del quale era una striscia di territorio neutro che separava una da altra tribù. Tale striscia era la foresta di confine (in Sardegna ancora oggi determinate foreste sono denominate Marghine, margine, confine). Nella fascia di confine avvenivano gli incontri delle diverse tribù. Tale delimitazione si rese necessaria specie col passaggio dalla economia di caccia e di raccolta a quella dell'agricoltura e dell'allevamento.
Insieme a nuove attività produttive e a nuovi modi di vita sorge l'esigenza della difesa del territorio per le interferenze possibili delle altre tribù. Sicché all'interno di ogni tribù esisteva una organizzazione militare. E in linea di principio ogni tribù si considerava in stato di guerra con le altre tribù. Spedizioni belliche venivano spesso organizzate a scopo di razzia come accrescimento delle sostanze comuni o come reintegro di eventuali perdite. E qui tornerebbe opportuno parlare dell'istituto primitivo della Bardana, voce che forse corrisponde a Gualdana, ma andremmo troppo per le lunghe.
I tre giri rituali. Fermiamoci per ora al concetto di Bardia come ricognizione dei confini. E si tenga presente che bardadu in dialetto barbaricino si dice di un terreno delimitato (terrenu bardadu). Talvolta il rito della Bardia oltre la pura e semplice lustratio comprendeva anche la exterminatio, quando si adducevano vittime e con esse si faceva il giro della chiesa per tre volte. Nel libro del Pighi, "La poesia religiosa romana", è riprodotta una interessante lustratio populi con exterminatio.
Anche la Bardia di S. Costantino termina con tre giri intorno alla chiesa. Quanto al 3 è superfluo ricordare che si tratta di un numero rituale rispondente a ben note concezioni relative alle iniziazioni mistiche. Ma forse le circumambulazioni corrispondevano alle ricognizioni.
É mio convincimento che, attraverso un'accurata ricerca, sia possibile mostrare come dalla Lustratio Pagi, per quanto riguarda la ricognizione dei confini, si sia giunti lentamente, da un lato a un modello culturale di ordine strettamente religioso, la Guardia del santo, dall'altro ad una organizzazione civile che ha perduto ogni significato religioso, la Scolca prima e il Barracellato poi."
(Da S. Dessanay - "La sagra di San Costantino - Gli antichi riti agrari nella Bardia di Sedilo" - In "Sardegna Oggi" n.8 del 15/7/1962)

d - Il paese I

"Sedilo. Appartenne al giudicato di Arborea e fece parte della curatoria di Gilciber, detta più tardi Ozier Real, della quale Sedilo fu capoluogo dopo Abbasanta. Passato agli Aragonesi venne nel 1435 concesso in feudo dal re di Aragona a Galcerado de Requenses. Precedentemente nel 1416 era stato concesso con tutto il Gilciber e il territorio di Parte Barigadu a Valore de Ligia, un arborense, che aveva tradito tempo prima nel corso delle guerre tra Aragona e Arborea il giudice d'Arborea Ugone III; allorché però Valore de Ligia e il figlio di lui Bernardo si recarono a prender possesso del territorio, a Zuri vennero uccisi con la loro scorta dagli abitanti delle due contrade. Nel 1537 i quattro paesi di Tadasuni, Boroneddu, Sedilo e Zuri vennero venduti da un nipote del Requenses ai Torresani, e nel 1566 formarono una contea, confermata agli stessi Torresani. Estinta la Famiglia Torresani passarono nel 1725 al fisco regio. Nel 1737 la contea, eretta a Marchesato, venne concessa al canonico Francesco Solinas. Dal Solinas i paesi passarono ai Delitala, che fissarono la loro residenza a Sedilo e ai Delitala vennero riscattati nel 1839.
Nuraghi: Thalasai, ben conservato e in posizione assai pittoresca, Lighei, pure ben conservato, ed altri. Nella regione Thalasai vengono indicati i resti di un muro ciclopico, che la tradizione afferma essere appartenuto ad un castello. Possiede Domos de Janas a Su noi de Ziu Marcu e a Sas Loggias. Oggi queste tombe servono da abitazione. Sepolture di giganti si trovano a Giustari e a Chiligheddu. Un monolite è in regione San Costantino. La chiesa parrocchiale di San Giovanni Battista presenta tracce di strutture del secolo XV. La facciata fu compiuta nel 1703. Ad un chilometro dal paese si trova la chiesa rurale di Santu Antine, dove ha luogo dal 5 al 7 luglio la corsa detta dell'Ardia.
Cereali, vino, bestiame. Possiede un filone di terra saponacea. Abitanti 3317; altitudine m. 388; distanza da Cagliari chilometri 147.
(Tratto da Dizionario della Sardegna di Aa. Vv. - Cagliari 1955)

e - Il paese II

Sedilo. É posto a cavalier del bacino del Tirso, che si estende maestoso ai suoi piedi fino alla diga.
É situato su un promontorio; altezza 388 metri e domina una vasta zona.
Ha una popolazione di circa 3255 abitanti.
Questo paese è conosciutissimo per le grandiose feste che si fanno dal 5 al 7 luglio in onore di San Costantino, che viene venerato da tutta la Sardegna, per quanto si affermi con insistenza che Costantino non è mai stato santificato. Ora però la tradizione lo vuole così e guai ad  intervenire. É assai rinomata la cavalcata denominata Ardia, che in fondo è una fantasia di cavalleggeri di tipo arabo, ma la più attraente è la corsa sfrenata, irregolare che vien fatta da tutti gli ospiti venuti a cavallo, che corrono nei vicini viottoli con pericolo di rompersi il collo, ma che vanno lo stesso, sicuri che il santo li protegge. Infatti si dice che molti sono caduti da cavallo ma nessuno si è fatto male e nessuno è morto, miracolo evidente!
Un monolito è vicino alla chiesa e si attribuisce all'epoca nuragica. Il popolo invece dice che è il corpo pietrificato di Giorgiana Rosse peccatrice punita per i suoi peccati.
Si trova sul Monte Thalassai un nuraghe ancora in buono stato. Anche il nuraghe Lighei è ben conservato.
Vi sono pure due tombe di gigante scavate sulla roccia."
(Tratto da Giuseppe Manca - "Saldigna" - Cagliari 1960)

Nota sul paese

Sedilo fa parte dell'attuale nuova provincia di Oristano, sulle rive settentrionali del lago artificiale Omodeo, sul Tirso, ai confini con la Barbagia di Ollolai. Nonostante abbia fatto parte del dominio arborense e anche che attualmente appartenga a una provincia di cultura prevalentemente contadina-campidanese, Sedilo è per lingua, usi e costumi di cultura barbaricina-pastorale.
Il numero dei suoi abitanti scende a 3.160 nel 1960 e si riduce in questi ultimi anni a 3.008. Tale tracollo anagrafico è da imputare alla repressione poliziesca degli Anni Sessanta che fece largo uso dell'istituto del confino e alla emigrazione coatta, oltre che alle condizioni economiche e igienico-sanitarie in cui versa la comunità. Un ulteriore cenno merita il monolite detto Perda Fitta, che si trova nei pressi della chiesa di san Costantino. Si tratta di un betilo (dal greco baitylos, casa di Dio, e anche dall'ebraico Bet-El con lo stesso significato), una pietra sacra considerata dimora di una divinità. Scrive G. Lilliu: "Un betilo di Sedilo..., custodito nel sagrato della chiesa rurale di San Costantino e un tempo usato forse per farci girare a cerchi ripetuti ritualmente la sfrenata cavalcata dell'Ardia (carosello di cavalieri detto Ardia = guardia in ricordo della guardia dell'imperatore Costantino venerato come santo in Sardegna), mostra... una bozza e un incavo, situati a pari altezza. In questo betilo l'incavo segna, con rilievo negativo, ciò che esprime la bozza, cioè una mammella; rappresenta cioè uno schema femminile con le due poppe" (da La civiltà dei Sardi - Torino 1963)
Nota: Lo stesso studioso nella stessa Opera sostiene che si tratta della "tomba forse di Santu Antine" (pag. 295). Una ipotesi alquanto fantasiosa, ancor più dell'altra, che la cavalcata detta Sa Bardia abbia avuto origine dal culto di un imperatore romano santificato dai Sardi.

Il Santo

"Costantino Flavio Valerio detto "il Grande" (271/275 - 337), figlio di Costanzo Cloro. Trascorse la giovinezza alla corte di Diocleziano e dopo l'abdicazione di questi e di Massimiano al trono imperiale seguì il padre, proclamato Augusto, in Gallia.
Dopo la morte di costui, Costantino fu acclamato Augusto dall'esercito ed entrò nel vivo delle contese che dividevano allora i principali personaggi al governo nelle provincie imperiali, finché riuscì a battere il suo rivale Massenzio a Ponte Milvio presso Roma e ad impadronirsi dell'occidente (312).
L'anno seguente emanava il famoso Editto di Milano col quale accordava ai cristiani piena tolleranza e libertà religiosa - cose di cui i cristiani avevano del resto  già ampiamente goduto in precedenti periodi di tempo e ordinava la restituzione alle loro comunità dei beni confiscati. Da ciò - e grazie a numerose leggende sorte in seguito - si è a lungo creduto che Costantino sia stato il primo imperatore cristiano.
In realtà... la sua cosiddetta conversione non fu altro che un abile atto politico mirante ad immettere nell'ambito dello Stato la considerevole forza rappresentata dal Cristianesimo in Occidente e soprattutto in Oriente, dove l'imperatore intendeva spostare il centro dei suoi interessi politici e militari. Qui infatti egli, dopo aver  sconfitto, al termine di una lunga guerra, Licinio, che era rimasto solo arbitro dell'Oriente (324), pose la nuova capitale dell'Impero riunificando, ampliando Bisanzio e imponendole il nuovo nome di Costantinopoli.
Rimasto unico imperatore, Costantino si diede ad una attiva opera di trasformazione politica ed amministrativa dell'Impero... Dotato di grandi virtù politiche e militari e di un prezioso ascendente sui soldati, fu imperatore di spiccata personalità ma anche di estrema crudeltà al punto da ordinare, tra l'altro, l'uccisione della moglie Fausta e del proprio figlio Prisco".
 (Tratto dalla Enciclopedia Nuovissima - Edizioni del Calendario del Popolo - Novara 1959 - alla voce Costantino)
Nota. Tra le virtù politiche di Costantino Magno, sulla cui santità ci sarebbe da discutere, aldilà degli stessi canoni della Chiesa Cattolica che pur non riconoscendogli ufficialmente l'attributo di santo ne tollera il culto nel popolo, c'è una particolare virtù di cui hanno scritto gli Illuministi: quella dell'astuzia. Pare che Costantino, pur avendo abbracciato la nuova religione, e aver anche portato alla conversione sua madre Elena, più tardi santificata dalla Chiesa, egli rifiutò il Battesimo. Poiché, come è noto, tale Sacramento cancella del tutto ogni peccato, insieme a quello fondamentale o "originale", Costantino attese a farsi battezzare quando fosse giunto in punto di morte. Ciò che - si dice - egli abbia fatto, evitando così di trascorrere dopo morto un lungo periodo di espiazione nel Purgatorio.

L'editto di Milano del 313.

Si usa impropriamente il termine editto per indicare il mandatum che venne emanato a Milano nel 313 d.C. da Costantino e Licinio, che praticamente ricalcava, e ridava nuovo valore, all'Editto detto di Tolleranza emanato da Galerio due anni prima nel 311.
Il cosiddetto Editto di Milano ribadiva per le comunità cristiane piena libertà di culto e parità di diritti nei confronti delle altre comunità di culto diverso dell'impero.
Fra gli altri diritti, si concedeva ai cristiani la libertà di propaganda e di proselitismo (naturalmente tra i pagani) e restituiva loro ogni avere o patrimonio che precedentemente fossero stati confiscati dallo Stato. Infine fu ai cristiani concesso il diritto di edificare templi e di aprirli al pubblico e di avere propri distinti cimiteri.
Si trattò in pratica del primo esempio storico di Concordato politico tra Chiesa e Stato. In cambio dei diritti e dei privilegi ottenuti, la Chiesa Cattolica fece propria sostenendola la politica dell'lmperatore.

La leggenda.

"Qui, a Scano Montiferro, è nata la leggenda per la quale l'imperatore Costantino fu santificato dalla superstizione popolare ed ebbe persino gli onori degli altari con il nome di Santu Antine. Racconta dunque la leggenda che Costantino apparve armato ad un uomo di Scano, fatto prigioniero dai barbareschi. Lo liberò dalle catene e gli chiese in compenso di edificargli un santuario. Ciò che il  pastore fece nei pressi di Sedilo a poca distanza dal Tirso.
Così la chiesetta divenne un centro di irradiazione religiosa e fece anche divampare la rivalità tra Scano e Sedilo che a un certo punto si contesero il simulacro e l'onore di trasportarlo durante la sagra. Scoppiò finalmente una furibonda zuffa tra i pellegrini dei due paesi e il santo rimase definitivamente in possesso di Sedilo, dove ancora si festeggia.
(Da Marcello Serra - In "Mal di Sardegna" - Firenze 1963)

La madre del Santo

Elena Flavia Giulia Augusta è la nobile madre di Costantino il Grande, Augusto imperatore.
Elena nacque povera e plebea e morì ricca e nobile. Il luogo e la data della sua nascita sono incerti. Alcuni storici danno come luogo di nascita Drepanum, in Bitinia, intorno alla metà del Ill secolo. Morì nel 335 probabilmente a Costantinopoli.
Elena è stata santificata sia dalla Chiesa Cattolica, che la celebra il 18 agosto, sia dalla Chiesa Greco-ortodossa, che la festeggia il 21 maggio. L'agiografia della Santa Elena è quanto mai ricca, come si addice alla madre di un grande imperatore cristiano. Numerose le leggende che danno lustro alla sua figura. Il suo culto è diffuso anche nella nostra Isola.
Che Elena fosse di umili origini è un dato storico. Era una locandiera e da giovane viveva facendo la sguattera e mescendo il vino nelle osterie frequentate dalla soldataglia - senza per altro venir meno alla sua purezza di fanciulla morigerata, anche se pagana.
Non si sa attraverso quali circostanze - forse ammirata da qualche ufficiale della guardia dell'imperatore che riferì di lei all'Augusto - divenne la concubina di Costanzo Cloro. Da questo rapporto nacque il santo, che diverrà poi imperatore.
Nel 293 Costanzo Cloro ruppe il rapporto con Elena allontanandola dalla corte, per sposare Teodora, la leggiadra figliastra di Massimiano della quale si era invaghito.
Alla morte di Costanzo Cloro, Costantino divenuto imperatore dopo aver sconfitto i suoi rivali, volle vicino a sé la madre Elena, coprendola di onori (fu proclamata  Augusta nel 325), cioè di fatto Imperatrice e la sua effigie fu coniata nelle monete.
Secondo la testimonianza del vescovo Eusebio fu lo stesso Costantino a operare la conversione della madre Elena. Dopo di che ella intraprese un pellegrinaggio nelle terre dell'Oriente, visitando i luoghi sacri e facendo opera di proselitismo.
Una leggenda narra che durante tale pellegrinaggio rinvenne la vera croce del Cristo e che una parte di questa sia stata da lei portata a Roma e conservata nella Basilica di Santa Croce in Gerusalemme, da lei stessa fatta edificare. La tradizione le attribuisce la costruzione di numerose altre basiliche, tra queste una a Costantinopoli, una a Betlemme e un'altra a Gerusalemme.
Come si diceva, è assai diffuso il culto di questa santa anche nell'Isola, e alcuni storiografi sardi sostengono che la stessa Isola ebbe il privilegio di averle dato i natali. Si spiegherebbe così il particolare attaccamento religioso dei Sardi per Costantino, che sarebbe quindi un Imperatore romano di origine sarda.

Il figlio del Santo

Costanzo II, il figlio del Santo, viene ricordato dai testi scolastici di storia con poche righe. Più o meno così: Costanzo Il Flavio Claudio, nato nel 317, fu imperatore dal 337 al 361, anno della sua morte, che avvenne mentre marciava con il suo esercito contro Giuliano, da lui nominato Cesare delle Gallie, ribellatosi e acclamato imperatore dalle sue legioni. Alla morte del padre divise l'impero con i due fratelli Costantino II e Costante. Escludendo i nipoti, che secondo il testamento paterno avevano diritto a una parte dell'impero, egli si impadronì dell'Asia e dell'Egitto; e alla morte dei fratelli riunì sotto il suo potere tutto l'impero. In pratica divenne anche la massima autorità in fatto di ortodossia religiosa. Convocò diversi Concili (Arles nel 353 ; Milano nel 355; Rimini nel 359). Fu acerrimo nemico degli ariani e decretò la fine del paganesimo. Può essere considerato il primo degli imperatori bizantini.

Come Costanzo II, figlio di Costantino, distrusse il paganesimo

"La lotta fu ingaggiata su tre punti: l'istituzione in se stessa, le persone, le cose...
Per quanto riguarda l'istituzione... lo si può comprendere leggendo qualche decreto di poche righe...
L'imperatore Costanzo:
Cessi ogni superstizione! La follia del culto pagano sia abolita! Tutti coloro che oseranno disobbedire a quest'ordine e celebrare dei sacrifici, saranno puniti secondo le pene stabilite dalla legge.
Oppure ancora:
Vogliamo che tutti rinuncino ad esercitare il culto pagano.
Se taluno disobbedisce, sia colpito dalla spada vendicatrice. (Ultore gladio sternatur.)  
Per quanto riguarda le persone, ecco le più importanti disposizioni:
1° - Proibizione di avvicinarsi ai templi in tutti i luoghi, in tutte le città. (Nemo templa circumeat.)  
2° - Pena di morte per tutti coloro che visitino i templi, accendano il fuoco su un altare, brucino l'incenso, facciano libagioni, ornino di fiori i cardini delle porte.
3 ° - Morte civile per quelli che ritornino all'antica religione. l loro beni siano trasmessi senza testamento ai loro più prossimi parenti.
4° - I preti, esiliati dalla metropoli, siano sottomessi alla giurisdizione competente.
5° - (Omissis)
6° - I governatori delle provincie, gli ufficiali pubblici, resi direttamente responsabili dell'esecuzione di queste leggi, sotto minaccia della pena capitale e della confisca dei beni.
Dopo ciò rimaneva da regolare le "cose", il che si fece nel modo seguente:
1° - Ordine di chiudere, distruggere, radere al suolo i templi: sine turba ac tumultu diruantur! Infatti, aggiunge la legge, distruggendo gli edifici si distrugge la materia stessa della superstizione.
2° - Ordine di abbattere, in tutti i luoghi, i simulacri, le statue, le immagini, di demolire, estirpare gli altari. (De simulacris et aris evellendis, destruendis.)  
3° - Distruzione delle scuole pagane, gli edifici (dedicati al culto) abbattuti. (Excisis prius aris et scholis.)  
4° - Soppressione di tutto ciò che noi chiamiamo, oggi, il salario del clero, che viene, invece, destinato al mantenimento delle truppe. (De annonis templorum ad annonam militarem trasferendis.)
5° - Trasformazione degli edifici religiosi che non si distruggevano e loro destinazione, una volta divenuti proprietà dello Stato, ad usi civili e pubblici.
6° - Tutte le proprietà private, in cui si compirà ancora qualche rito del culto antico, oppure in cui fumerà l'incenso, (siano) devolute al fisco.
Ecco come la nuova Chiesa si è fatta strada nel mondo."
(Tratto da Edgard Quinet - La rivoluzione religiosa nel secolo XIX - Bruxelles 1857 - Milano 1950)

La falsa donazione

Al nome di Costantino il Grande il santo di cui si parla, è legata la più colossale truffa di cui la storia si sia mai occupata.
"Donazione o Costituto costantiniano. Clamoroso falso che risale all'epoca carolingia (VII - IX secolo), sul quale si è fatto basare sino al Rinascimento il potere temporale dei Papi. In segno di riconoscimento per essere stato guarito dalla lebbra, l'imperatore avrebbe accordato, i massimi onori al vescovo di Roma, Silvestro (314 - 335), concedendogli il diritto di proprietà su Roma e su larga parte dell'Italia centrale e meridionale. Più volte messo in dubbio anche nel Medioevo, il documento venne definitivamente smascherato dagli umanisti Nicolò Cusano e Lorenzo Valla nel secolo XV."
(Tratto dalla Enciclopedia Nuovissima - Edita da "Il calendario del popolo" - Novara 1959)

Il cavallo

Mi piace chiudere questo breve saggio parlando del cavallo, de su caddu, che è il vero protagonista de S'Ardia, e senza il quale su caballeri, il cavaliere, non può mostrare la propria balentia.
La voce sarda che indica il prestigioso quadrupede è simile in tutte le parlate: cuaddu in campidanese, caddu in logudorese, cabaddu in settentrionale. "De caballus latinu antigu usau de Pliniu e de Luciliu in logu de cavallus, cambiada sa doppia ll in doppia dd a s'usu atticu"  (Dal latino antico caballus usato da Plinio e da Lucilio, modificata la doppia ll in doppia dd alla maniera attica) - annota diligentemente lo studioso Vissentu Porru nel suo Dizionario del 1832.
"Essere a cavallo" è sinonimo di "essere un signore". Cadere da cavallo è cadere in disgrazia, perdere posizione e prestigio sociale. Numerosi sono i modi di dire che significano il privilegio dello stare sopra un cavallo: "Ge' in d'has a cabai!" (Ne scenderai!) Sottinteso da cavallo,  equivale a umiliarsi. "Su tali hat fattu de cuaddu a molenti", il tale è passato da cavallo ad asino, è sceso da un livello sociale alto a uno basso.
A prova della importanza che ha il "nobile destriero" nella  cultura dell'Isola, la lingua sarda annovera oltre venti diversas mantas de cuaddus: de baju a castangiu, de  ghiani a melinu, de muru a piberazzu, diversi mantelli di cavallo: da baio a sauro, da morello a storno, da roano a balzano - tanto per nominarne qualcuno.
In pratica per l'uomo sardo del passato il cavallo era ciò che per l'uomo dell'attuale civiltà delle macchine è l'automobile. E non soltanto nell'uso, per ambedue, come mezzo di locomozione o di trasporto come elemento compensativo, come simbolo di uno stato sociale.
L'auto - come ho scritto altrove - è per molti aspetti un "corpo" meccanico sostitutivo di quello naturale; un corpo ben più efficiente in mobilità di quello avuto in dotazione da madre natura; un corpo che si può avere tanto più mobile e potente quanto più denaro si possiede. Un corpo che però sostituisce solo in parte quello naturale, perché ha ancora bisogno di essere guidato; che già provoca imprevedibili squilibri e, con questi, alterazioni permanenti nella psiche, sollecitata a un difficile se non impossibile adattamento. Il fenomeno di "disumanazione", che deriva dalla acquisizione di un "corpo sostitutivo" del proprio, è assai complesso; alcuni aspetti sono però facilmente individuabili: si ha nel motorizzato una maggiore aggressività, un maggiore spirito di emulazione e di sopraffazione, una diminuzione del bisogno di comunicare con i propri simili, una maggiore sicurezza di sé - che porta in molti casi alla follia dell'autodistruzione.
Lo stesso discorso potrebbe farsi per l'uomo "a cavallo". Tuttavia c'è una sostanziale differenza tra i due mezzi "sostitutivi": uno è artificiale, l'altro è naturale  L'uomo e la macchina restano due entità ben distinte. L'uomo e il cavallo si fondono e danno vita a una nuova originale creatura, il mitico centauro: l'intelligenza delI'uomo e la forte eleganza del cavallo. Nell'uomo in auto I'acquisizione di maggiori capacità fisiche è una presunzione, avviene in modo passivo; nell'uomo a cavallo è reale, avviene attivamente, con la sua concreta partecipazione.
 Il cavallo diventa così simbolo di prestanza e balentia, ma anche di potere. "Su rei andat a cuaddu", mentre il suo seguito va a piedi. Così il generale che guida l'esercito. Così il pastore che vigila il gregge. Il volgo è sempre appiedato: usa il cavallo di San Francesco. Se un re, un generale, un pastore che sia di razza li raffigurate viandanti appiedati, perdono tutto il loro prestigio, la loro autorità, diventano volgo.
Da questi pochi cenni è facile dedurne quali significati possano attribuirsi al rapporto tra l'individuo e il cavallo in una società che nella sua millenaria storia ha allevato, curato e selezionato diverse razze equine - tante quante gliene hanno fornito i suoi numerosi colonizzatori, dai cartaginesi ai romani agli arabi agli spagnoli (escludendo i Sabaudi, allevatori di eguas, cavalle di bassa macelIeria) - fino a ottenere esemplari fra i più pregiati del mondo.
Penso di far cosa gradita al lettore riportandogli alla memoria alcuni dei detti e proverbi di uso comune tra i Sardi sul tema del cavallo - che nonostante l'avvento della rumorosa e inquinante auto ancora resiste, almeno nelle sagre popolari. .
Specialmente nel mondo pastorale, l'importanza di questo animale è tale da paragonarsi a quello della donna, della moglie. Lo dimostrano i seguenti detti. "Caddu e pobidda leadidda in bidda", che fa il paio con l'italiano contadinesco "moglie e buoi dei paesi tuoi". "Caddu et muzere in podere de quie dat"; cioè il cavallo e la moglie appartengono a chi li possiede e non sono da prestare per nessun motivo. Il concetto della esclusività è rafforzato in "Caddu de mesu a pare nen fune nen crabistu", il cavallo tenuto in comune non ubbidisce, non lega con alcuno. E ancora più chiaramente riferibile anche all'uso illegittimo della donna d'altri: "Qui caddigat in caddu anzenu, a pei torrat", chi cavalca il destriero altrui finisce disarcionato. (Anche se é vero che "Quie seit a caddu est subjectu a nde ruere", è soggetto a cadere colui che cavalca). Una buona massima per tenere a freno le due "creature" più importanti e spesso più riottose: "A su caddu s'isprone a sa femina su bastone", al cavallo lo sprone e alla femmina il bastone.
Creature amate, cavallo e femmina, tuttavia portatrici di rogne e dispiaceri: "Qui hat caddu bonu et bella muzere non instat mai senza dispiaghere", chi ha un buon cavallo e una bella moglie non sta mai senza dispiaceri. Ma in fin dei conti vale la pena avere un buon puledro e una bella moglie: "De caddu e muzere imbidia li tenen!", cavallo e moglie te li invidiano, é vero, ma ti danno prestigio e ti rendono orgoglioso. Perché tu li possiedi e tu solo li puoi caddigare, cavalcare.
Nei detti popolari, il cavallo non è accostato soltanto alla donna, ma simboleggia, di volta in volta, lo stato umano. "Caddu bonu a s'arrivu", il buon cavallo lo si giudica all'arrivo, l'uomo si valuta dal successo che ottiene, da ciò che fa, non da ciò che dice. E ancora il diffusissimo "Caddu friau sa sedda ddi pitziat", cioè a dire: colui che ha avuto cattiva esperienze ci va più cauto.
Il vecchio cavallo è tutt'uno col vecchio uomo, che ha particolari diritti di rispetto, di attenzioni. Al vecchio i bocconcini più gustosi del pranzo, le parti più tenerelle: "A caddu 'etzu erva modde"., a cavallo vecchio erba tenera. E perché no? "A caddu 'etzu ebbas bonas," a cavallo vecchio giovani puledre, con le quali accompagnarsi e rendere la sua età meno malinconica. D'altro canto, il vecchio non è da buttare via - o com'era antico costume, da uccidere a randellate e far precipitare da un burrone, quando avesse cessato d'essere produttore. "Marrada de caddu betzu, fossu mannu", la falcata del vecchio cavallo lascia sul terreno tracce profonde: il vecchio ha dalla sua l'esperienza e opera meglio.
Ci sono d'altro canto vecchi che forti della loro sacra vetustà si concedono eccessivi lussi e privilegi, tra questi quello di dar pizzicotti alle fanciulle e di tenerle a cavalluccio sopra le ginocchia. C'è appunto un proverbio che avverte "A caddu becciu funi noba", a cavallo vecchio fune nuova. O per dirla come i Logudoresi: "A caddu betzu fune curtza", cioè a vecchio cavallo fune corta. Qualcuno aggiunge: meglio se oltre a essere nuova è anche corta. Con certi vecchi stalloni non si sa mai.
Cagliari luglio 1983

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