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I tumulti del '19 a Cabras

I vecchi lo chiamano «lo sciopero del '19». Sciopero, nel linguaggio locale, significa «rivolta», azione di forza popolare contro la prepotenza padronale e, in special modo, «tumulto».

«Quello sciopero è stato una rivoluzione - ricorda un artigiano sui sessant'anni. - Io ero ancora giovincello, ma ricordo bene tutto, come fosse accaduto ieri… I militari della guerra '15-18 erano stati congedati ed erano arrivati in paese. Le donne avevano raccontato loro tutto ciò che avevano dovuto subire quand'erano sole. Non venivano dati i sussidi, se li tenevano quelli del Comune, oppure li davano in cambio di certe cose… e qualche donna si era lasciata mettere sotto. Avevano calpestato tutti quelli che erano rimasti, avevano fatto soldi alle spalle dei poveri.
Quella mattina, i congedati e le donne erano andati in piazza, gridavano, volevano entrare nell'ufficio comunale per buttar via il sindaco. In paese non c'era roba da mangiare, ma i magazzini dei ricchi e i negozi erano pieni di ogni grazia di Dio. Il signor Cubeddu aveva il negozio vicino al Comune. Uno ha lanciato un sasso, allora la gente gridando si è precipitata dentro. Hanno sfasciato e dato fuoco a tutto. Tiravano fuori la merce, l'ammucchiavano in mezzo alla piazza, la bruciavano. Nessuno rubava. Solo noi ragazzi qualche cosa riuscivamo a prenderla: caramelle o altra roba dolce. Poi, tutto il gruppo inferocito era andato nel negozio della zia del sindaco, Elisabetta Loi. Lì avvenne lo stesso. Siccome era chiuso, avevano sfondato porte e finestre. Poi, avevano gettato fuori per strada pasta, stoffe, zucchero, olio e bruciato tutto. Per errore avevano bruciato dentro una cassa i vestiti di Santa Maria, che la padrona Pisabella Loi teneva in custodia, essendo prioressa a titolo d'onore. Poi il negozio di Sanna, dove prima c'era il Dazio, vicino alla Posta di adesso. Dal fumo che c'era non si riconosceva il padre con il figlio. Gridavano come bestie inferocite, e avevano ragione. Ferralis era stato furbo. Quando aveva visto la gente avvicinarsi, aveva aperto la porta e aveva detto: "Entrate, prendete quello che volete". A lui lo avevano rispettato un po'. Poca roba gli avevano preso e bruciato…
Avevano arrestato molta gente: più di trecento. Il Sindaco era scappato all'estero. La giustizia lo voleva arrestare per i sussidi dei reduci e per altro. Gli arrestati hanno fatto solo qualche mese, poi li hanno rilasciati. Nessuno aveva fatto male ad anima viva. Eh, quello sì, che era uno sciopero! Avevano perfino bloccato le strade e strappato i fili del telefono. Tutt'intorno c'era la fanteria di Oristano che presidiava il paese. E dopo, gli scioperanti avevano dato fuoco al grano delle aie. Il fuoco era partito dalla zona di Giampaustinu, dove ci sono i pescatori adesso, dove si allaga tutti gli anni con la marea dello stagno».

Non ci sono reticenze, come per fatti o avvenimenti presenti per i quali si ha paura che quanto vien detto può nuocere. Tutti raccontano le stesse vicende fedelmente. Mutano solo le prospettive.
Il signor Meli, contadino, piccolo proprietario, mi invita a casa sua per raccontarmi con più tempo e più comodo ciò che ricorda. Mi fa passare in cucina. Siedo davanti al camino acceso, su uno scrannu, una seggiola bassa.
Mentre parla non dimentica i suoi doveri di ospite. Mi offre vinello e cardi selvatici. Intanto, una sua figliola in maglione e blue-jeans prepara il caffè. Egli parla fitto e devo faticare a seguirlo:

«La canzone narra: Su millonoighentudegannoi, / sa dì degannoi, po s'arregodai, / O Santa Maria regnanti in Groria: / Ca Cabras teniad famini e onori!… [Il millenovecentodiciannove, / il giorno diciannove, lo si ricordi. / O Santa Maria regnante in Gloria: / Cabras aveva fame e onore!…].
L'olio correva per strada fino allo stagno, dai magazzini della signora Pisabella, la zia del sindaco di adesso. Lo sciopero fu un bel massacro! Non per la gente, ché non avevano fatto del male a nessun cristiano, ma per la roba. C'erano sì i carabinieri, ma non si erano mossi per paura. Stavano in mezzo alla gente e guardavano. Tutte creature battezzate erano; morti di fame e stracciati e senza grazia di Dio erano; pieni di molte promesse e di veleno… E' cominciato così: dovevano mettere il calmiere alle mercanzie e non si decidevano mai nel Comune, sempre facendo riunioni, sempre facendo chiacchiere. E la gente aspettava nella piazza da molti giorni. Bisognava il calmiere. La povera gente non ce la faceva più a vivere con quei prezzi e i pochi soldi che c'erano non bastavano e a credito non davano più nulla. E i magazzini e le botteghe erano pieni di roba.
Fu nell'ora che il sole entra e non entra. Io potevo avere un diciassette anni, allora. Mio padre mi chiama e mi dice: "Tu vai al Sinis, a guardare i cavalli". Arrivo in piazza dal signor Attilio e trovo il mio padrino, il figlio di Antoni Peppi, Giuanni Andria e molti altri. A noi giovani ci consigliavano di lanciare sassi contro la bottega del signor Attilio. C'era un mucchio di ghiaia grossa lì vicino, e dicevano: "Tò, tirate sassi, forza!". Poi ci siamo messi e in un momento abbiamo tirato tutto il mucchio; Poi i grandi (comandati dai soldati reduci, sono entrati dentro tutti insieme. Il signor Attilio ha sparato due colpi di fuoco (me lo ricordo ancora che aveva colpito lo spigolo del muro) poi è scappato nell'orto dietro casa e da lì nell'orto del Sindaco che c'è ora. Hanno preso tutta la roba, l'hanno gettata fuori in piazza e l'hanno bruciata. Neanche uno straccio sano hanno lasciato… Eh, i piccoli già se le eran riempite le tasche con le caramelle! Come a una festa di nozze credevano di essere, saltando allegri e contenti.
Perché bruciavano la roba! Eh, sì: a pensarci adesso, avrebbero potuto prendere e dare ai poveri o vendere a basso costo; tanto non era rubare per male. Ma erano inferociti, non ci pensavano dal veleno che ci avevano in corpo. Un po' dopo mezzanotte sono arrivati i carabinieri e i soldati armati sui camion. Parte avevano circondato il paese e parte erano entrati dentro.
Se gli scioperanti indovinavano i fili giusti, invece di tagliare quelli sbagliati, la notte rovinavano mezzo paese, avvelenati come erano, specialmente quelli tornati dalla guerra che gli avevano promesso cavallo, sella e sproni e invece… gli sproni sì che glieli avevano dati! La notte stessa avevano cominciato ad arrestare. Chi era scappato a casa e chi in campagna. Arrestavano, legavano e portavano via con i camion. Più di venti giorni arrestando e legando. I camion andavano e venivano ad ogni ora. Trecento ne avevano preso! Uno dei primi era stato Spizzettu…
Se avevano fatto resistenza? No, no. Non si era mosso nessuno, tutti chiusi in casa. I reduci avevano fatto in tempo a scappare in campagna ed erano rimasti latitanti. Il 20 di agosto avevano dato fuoco alle aie. Poi avevano scritto manifesti nel rione della Brigata Sassari dove dicevano che ci avevano gusto di aver bruciato anche le aie. Se non ci fosse stata l'amnistia della regina Elena li lasciavano molto in galera, perché bruciare la roba è più brutto di rubare. E allora li avevano fatti uscire tutti dalla prigione.
Certo che di ragione ne avevano da buttare via. Nel comune di allora c'era lo zio del signor Attilio, il signor Spano, su secretariu e altri, e quando qualche padre o madre di famiglia andavano in ufficio per un bisogno, se era donna le chiedevano di andare a letto, se era uomo gli dicevano di portare la moglie o la figlia.
Io, quando avevano cominciato ad arrestare gli scioperanti, ero scappato nel Sinis. Nella strada, vicino a Torregrande, mi avevano fermato due carabinieri di pattuglia. Mi avevano chiesto cosa fossero quei fuochi, cosa stesse succedendo a Cabras. Io ho risposto che non ne sapevo niente, che stavo andando al Sinis a guardare i cavalli. E così mi hanno lasciato andare».

Quando chiedo ragguagli sullo «sciopero del '19» mi fanno tutti il nome di Spizzettu.
Spizzettu abita fuori paese, vicino a una piccola idrovora del Consorzio agrario, in una baracca di cruccuri [falasco] che si è costruita con le sue mani. Lo trovo seduto a godersi il tiepido sole di gennaio, di fronte alla porta ricavata da cassette di sapone. Si alza e mi porge lo scanno migliore che possiede, perché mi sieda accanto a lui, nella striscia riscaldata dal sole.
Si presenta:

«Carta Luigi detto Spizzeddu, di anni 74, reduce della guerra di Libia e della Grande Guerra, ardito della Brigata Sassari, 151° reggimento fanteria, 11° battaglione, 6ª compagnia».
e comincia a raccontare:
«Dicono che io sono il capo dello sciopero del '19. Capi non ce ne sono stati. Mi ero congedato nel luglio, a Torino, poi da Livorno mi ero imbarcato per la Sardegna. Quando sono arrivato a Cabras ho visto un mare di gente, un grande bordello. Io non sapevo niente di quanto stava accadendo. Avevo ancora lo zaino a tracolla, avevo il vestito militare e non ero nemmeno andato a salutare la famiglia. Mi sono trovato imburrau [versato, si usa per il grano quando lo si versa nei sacchi] in mezzo alla gente che passava come un uragano, sfasciando, ammucchiando, rompendo e bruciando nelle case dei ricchi e nei negozi. Poi è arrivato il picchetto da Oristano e hanno cominciato ad arrestare e a portare via. Mi hanno preso, ancora col vestito militare, senza aver salutato in casa. Mi hanno incolpato di essere il capo sciopero. Ma i capi erano quei mascalzoni che affamavano i poveri; loro erano che avevano costretto la gente a diventare come cani rabbiosi».

Così mi dice in dialetto, con voce chiara e ferma. E' un bel vecchio; veste abiti lisi ma puliti. Indossa calzoni di fustagno marrone con gli spacchi alle caviglie, secondo la moda di tanti anni fa. La sua figura è snella, eretta, nobile. Fu forse il suo portamento aitante e fiero che da giovane gli valse la galera, sotto l'imputazione d'aver capeggiato la rivolta popolare.
«Sì. Io mi sono trovato in mezzo, con tutti gli altri, senza sapere nulla, a tipu pisci in s'arrezza [come un pesce nella rete]. Mi hanno rilasciato dopo due mesi. C'era il procuratore del re con tutta la giustizia e mi hanno detto: "E tu? Tu sei della brigata Sassari. Come mai?". E mi hanno liberato. Perché sia successo tutto quel bordello io non posso saperlo, perché ero in guerra. Ma la gente diceva era colpa del Sindaco, per i sussidi e per l'altro che si mangiava. Fiad tottu ghettau a pari [era tutto a catafascio]e non c'era comando né ordine. Il Sindaco, con la giustizia e il picchetto diceva: "Mettete i ferri a questo e a quell'altro". E legavano quelli che capitavano sotto. A me è successo vicino alla bottega di Peppi Sanna, dove avevano bruciato anche la casa. Il tenente del picchetto mi ha messo una mano sulla spalla. Mi ha detto: "Bravo, ci sei anche tu della brigata Sassari!". E mi hanno tenuto un mese in cella di rigore, segregato…
C'erano donne e molti ragazzi. Sì, anche donne hanno arrestato. E' stata una di queste che ha detto nell'istruttoria che comandavo la gente, che entravo nelle botteghe e nelle case col pugnale in mano, perché ero degli arditi. Io allora gli ho detto, al giudice: "Se sono io il capo, bene: resto io in galera. Tutti gli altri sono innocenti e tornano a casa. Pago solo io!"… Dopo che avevo fatto quattro anni di guerra, m'anti donau una surra de presoni [mi hanno dato una batosta di galera].
Eh, sì, fiad unu tempus malu de famini [era un brutto tempo di carestia]. I ricchi, che avevano le botteghe, quando ci andava un povero a comprare e soldi non ne aveva, gli ridevano in faccia: "se vuoi olio, ti compri oliveti; se vuoi formaggio, ti compri pecore; se vuoi farina, ti compri terre". E sono risposte brutte, molto brutte per la povera gente!».

Si interrompe per cambiare discorso, certo mosso da un suo interno assillo:
«Mi hanno detto che sui giornali c'è scritto che devono dare la pensione a tutti i reduci… Sarà vero - mi domanda, e prosegue senza attendere una mia risposta - Stanno aspettando che siamo sempre più pochi, per darcela. Speriamo di fare in tempo, prima di morire».
Sorride risentito, guarda per terra muovendola col suo lungo bastone di olivastro scuro. Quando risolleva il volto scarno vi scorgo tutta l'amarezza che ha dentro l'anima.
«Ce l'avevano promessa la pensione, quando ci siamo congedati nel '19. Eh, tutte le promesse per mandarci a morire, quando eravamo sul Piave! Anche il generale Sanna, di Senorbì, ce lo aveva detto: "Coraggio, coraggio! la patria ricompensa i suoi figli". Altro che ricompensa! Prigione e fame.
Possibile che io debba vivere in una baracca così, fuori del paese, come una bestia selvatica? Dicono che fanno le case popolari per i poveri che abitano nelle baracche e nei fortini, e invece… Io vivo e non lo so nemmeno io come. Possidenzia deu non di dengiu [proprietà io non ne ho] e uno dei miei figli, anche lui, poveretto, abita in un fortino… - Me lo indica con un gesto della mano - Quello, a cento metri da qui».
Riprende il discorso - la sua voce ora si è fatta stanca e più triste:
«Qui non c'era posto, se no lo tenevo. Ma è sposato, con molti bambini. E un fiammifero, con i bambini, non si sa mai. Non voglio morire bruciato qua dentro».
Cambia ancora discorso per tornare al suo argomento preferito. Gli occhi gli si fanno vivi, solleva il capo con fierezza quando parla della «sua» grande guerra:
«In quella guerra ero ancora giovane. Ci voleva coraggio, non è come oggi. Noi sardi eravamo sfottuti: "Sardignoli pastori", ci dicevano. Ma eravamo noi i migliori davanti al fuoco del nemico. E poi, col tradimento di Cadorna… Noi avevamo mantenuto la posizione sul Piave! Erano arrivati soldati americani e francesi e a noi della brigata Sassari ci volevano vicino, perché eravamo dei bravi combattenti… Porca miseria, siamo noi che abbiamo vinto la guerra! E adesso mi lasciano così… Erano bravi anche gli americani; ma di più i francesi. Ci avevano certi mortai… E i morti che c'erano… Quanti ne sono rimasti, buttati per terra… I capi della brigata, quelli sì che erano uomini! Ricordo il capitano Lussu che è anche venuto a Cabras per fare un comizio e adesso è alla Camera. Quando mi ha visto mi ha riconosciuto e mi ha detto: "Bravo Spizzettu! Sempre in gamba la brigata Sassari!". Gente di cuore era; e ci mandavano sempre noi, quando c'era più pericolo. E ci avevano promosso tutti arditi, col pugnale e le bombe. Oggi non mi sembra neanche vero che sono passato in quella strada. Mi pare come che l'abbia fatta in sogno».

Si è fatto tardi. Per congedarmi ho scelto una frase infelice: «E' tardi, levo il disturbo. Sono le dodici, ora di pranzo».
Si alza in piedi per salutarmi. Risponde:
«Per il pranzo, a me, anche se sono le dodici… Trovarne all'una vorrei, di roba da mangiare».

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