Copyright 2024 - Custom text here

Indice articoli


5. I “fatti di Sassari”

I “fatti di Sassari” denunciano in modo clamoroso uno stato di polizia che travalica le stesse leggi. Gigi Ghirotti, in Mitra e Sardegna edito da Longanesi, ne fa una sintesi magistrale:

Nel mese di agosto 1967 la scena della lotta al banditismo si anima di episodi crudeli e grotteschi. Nel Nuorese, i briganti rapiscono quattro persone in tempi successivi. A metà agosto la Corte d'assise di Nuoro manda assolto, con formula piena, e su richiesta del Pubblico ministero, un imputato che la polizia ricercava, con taglia, perché indicato come pericoloso e sanguinario, il più sanguinario dei latitanti. Nello stesso giorno, a Sassari, la polizia scopre una banda di malfattori che, capeggiata da due pregiudicati (pastori, naturalmente) operava in città e si proponeva di trasformala in campo d'azione delle sue gesta criminose. Da tempo deputati, avvocati, commercianti, industriali, a Sassari, hanno cominciato a ricevere lettere anonime, ingiunzioni di versare denaro per aver salva la vita. Non c'è dubbio: la nuova malavita non guarda in faccia nessuno. Tutti gli uomini che contano qualcosa, a Sassari, hanno ricevuto la lettera di ricatto, persino l'ex presidente della repubblica Antonio Segni. Ma la polizia è sull'allarme. Sovente i ricattati ricevono dalla questura l'offerta di una guardia di scorta personale, prima ancora che la lettera estorsiva sia arrivata a destino.
Questo è il clima della città, quando, aprendo il loro giornale, La Nuova Sardegna, i sassaresi apprendono che la pericolosa banda è stata messa al sicuro, quasi completamente: sono in arresto, sotto i torchi della Mobile, un autista disoccupato, Mario Pisano, un altro autista, Archelao Demartis, un pastore, un infermiere, Graziano Bitti e suo padre, il vecchio Sisinnio Bitti, anni 65, “buona lana” ben nota alle carceri locali, e infine uno studente in giurisprudenza, incensurato e fuori d'ogni possibile sospetto, Antonio Setzi. Fuori della rete sono rimasti i due “pezzi grossi”, Pasquale Coccone, pastore, Umberto Cossa, pastore, entrambi pregiudicati, entrambi fuggiti alla presa mediante la fuga.
E' il vice questore in persona, Giovanni Grappone, che dà notizia dell'operazione di polizia ai giornalisti sassaresi convocati in questura. Il racconto della mancata cattura di Umberto Cossa è drammatico. All'alba del 14 agosto, narra ai giornalisti il vice questore, gli uomini della Mobile sassarese, comandati dallo stesso dottor Grappone, hanno circondato l'ovile dove il pregiudicato Cossa stava radunando le sue pecore. Gli viene intimato l'altolà, ma il pericoloso soggetto, estratta una pistola, incomincia a far fuoco sugli uomini della legge. Per fortuna la pistola al secondo colpo si inceppa, e il Cossa la lascia cadere a terra (ora è in mano alla polizia che la esibisce a prova). Il pastore fugge “lanciandosi con una folle corsa giù per un impervio costone”, scrive il giornale quasi sotto dettatura. Ma perché - domandano i cronisti - gli uomini della polizia lo hanno lasciato scappare, se il tipo è tanto pericoloso? “A noi quel Cossa serve vivo!” chiarisce il dottor Grappone.
La sua fedina penale è squadernata: vi si legge un pericoloso precedente che lo designa autentico bandito. Nel 1958, ancor giovanissimo, il pastore Cossa venne sorpreso dai carabinieri nelle campagne di Urì, mentre spingeva avanti a sé un gregge di nove pecore rubate all'allora ministro dell'Agricoltura, on. Antonio Segni. All'intimazione di alt il Cossa reagì sparando. Catturato, processato e condannato: sette anni e otto mesi di prigione interamente scontati.
Impressionante è l'armeria dei banditi: mazze di ferro, martelli di gomma, pistole e fucili, piedi di porco, grimaldelli, chiavi false: quanto serve insomma, al fabbisogno di una cellula di criminali che si propongono un lungo programma di lavoro nella città di Sassari. In effetti, dai primi interrogatori, si ha la sensazione che i misfatti della banda fossero per lo più allo stadio di progetti. Ma intanto, sotto l'aculeo degli interroganti, cominciano le prime confessioni. Il 22 luglio 1967 alcuni uomini della banda sono entrati a faccia scoperta, pistole in pugno,. nella gioielleria del signor Salvatore Spanu in via Sorso. Alle grida della vittima designata (il signor Spanu ha settantanove anni) e della di lui figlia, Margherita, inaspettatamente, nel negozio, uno dei malfattori colpisce con il calcio della pistola il vecchio gioielliere: parte accidentalmente un colpo dall'arma, che va a conficcarsi nella parete. Impressionati, i banditi girano su se stessi e filano di gran corsa fuori dal negozio.
Di lì a pochi giorni, verso le tre del mattino, due malfattori si presentano al motel Lybissonis, alle porte della città: pistola in pugno, vogliono i soldi. Il portiere li avverte: “Ma badate, di là nel bar, c'è gente!”. I rapinatori girano sui tacchi e se la danno a gambe saltando su una “Giulia” che li aspetta fuori a motore acceso. Anche questo episodio (il Lybissonis trascurò di farne denuncia) è confessato in questura dagli uomini della banda.
Un industriale, Francesco Nulli, riceve una lettera estorsiva. Poiché non si dà pensiero di pagare il richiesto, la sera vede gironzolare alcuni tipi sospetti intorno alla sua casa. Dai giornali apprende che i ribaldi avevano in animo di rapirgli il figlio quindicenne…
Nel calendario dei delitti di là da venire, la banda confessa due progettati sequestri di persona e l'assalto ad una banca con il sistema del buco praticato nel soffitto. Nella sede della banca abita la sorella di quel Cossa, latitante, che per poco non fulminò con le sue pistolettate il dottor Grappone, il commissario Elio Juliano, capo della Mobile, il vice commissario Giuseppe Balsamo, suo collaboratore, andati quel mattino del 14 agosto ad arrestarlo nell'ovile. Di questo Cossa si leggono particolari sempre più sinistri: la polizia si domanda se non sia lui il colpevole di due omicidi commessi a Porto Torres nel 1958 e a Osilo nel 1959, e rimasti tutt'ora impuniti. Il fascicolo di questi due casi insoluti è riaperto, annunciano i giornali: quando il Cossa sarà chiamato al rendiconto, ne avrà da raccontare!
A questo punto sono le pubbliche informazioni, allorché la sera dell'8 settembre 1967, nella redazione del La Nuova Sardegna si presenta un giovane elegante; chiede udienza, sventola una carta d'identità. “Sono Umberto Cossa, il pericoloso fuorilegge…”
Ai redattori de La Nuova Sardegna il Cossa quella sera precisò innanzi tutto di avere un po' fretta: desiderava costituirsi… e per intanto il pastore Cossa prega di avvertire i carabinieri che lo vengano a prendere. I carabinieri, insiste, non la polizia “perché con quella non voglio avere a che fare”.
Il discorso cade subito sul conflitto a fuoco nel corso del quale il pastore Cossa, secondo la questura, avrebbe cercato di uccidere a rivoltellate gli uomini della polizia arrivati per arrestarlo. «Quella mattina», narra il pastore, «stavo radunando le pecore per la mungitura quando in lontananza notai delle persone. Le additai al fratello del mio principale, il signor Solinas, che però mi disse di star tranquillo: non c'è da preoccuparsi, e allora proseguo verso una casa campestre diroccata. Giunto ad una quarantina di metri dalla casupola vedo che all'interno ci sono delle persone, altre due sono all'esterno. Da un buco del muro vedo spuntare la canna di un mitra. Sento un ordine secco: “Fuoco!” e cominciano a spararmi addosso. “Ma siete pazzi?” grido io, agitando la mano e avanzando un passo o due verso di loro. Quelli continuano a sparare. Di fronte alla morte, che si fa? Si fugge. E sono fuggito, mentre le pallottole si conficcavano nel terreno intorno a me, sollevando un polverone che mi accecava! Ho corso una sessantina di metri. Poi mi sono gettato a terra, dietro un muretto a secco. Quelli smettono di sparare. Allora, visto che non mi inseguivano, mi sono allontanato dalla zona». «E la pistola puntata contro la polizia? La polizia ha raccolto quell'arma…» «Ma che arma? Non avevo addosso nemmeno uno spillo! Sfido che la polizia a dimostrarmi che su quella pistola ci sono le mie impronte digitali!» E il progettato colpo alla banca di Monte Rosello? Il pastore Cossa nega che un'idea simile gli sia mai passata per la testa. Quegli omicidi sui quali si indaga? «Per fortuna a quell'epoca ero in prigione! Per fortuna, perché se no come farei adesso a discolparmene? Il pastore porta sempre i suoi testimoni, i suoi alibi: ma sono sempre i testimoni del pastore, gli alibi del pastore… «Mi trovo innozente, ecco proite mi so' presentau!»
Senza il conflitto a fuoco il western non sta in piedi; o meglio si rovescia. Se non è più il Cossa che ha tentato di uccidere gli uomini della polizia sarà la polizia che ha tentato di uccidere il Cossa? Gli si domanda dei complici che in questura, sembra, hanno confessato. Tranne uno o due, mai visti né conosciuti. Al bar Mokador, indicato come sede della banda, il Cossa non mette piede da mesi: ha litigato con la padrona. In conclusione il pastore è fuggito «perché mi hanno sparato addosso; se mi avessero detto che erano della polizia mi sarei fermato; che cosa avevo da temere? Non ho commesso né furti, né estorsioni, né rapine! Dovevo sposarmi, mettevo in disparte i miei risparmi: che devo fare, il delinquente? Ditemelo un po' voi!»
Allo scoccare della mezzanotte Umberto Cossa entra nelle carceri di Sassari, scortato da un alto ufficiale dei carabinieri. A questo punto è come se il film si fosse spezzato e l'operatore, improvvisamente impazzito, cominciasse a volgere l'obiettivo di qua e di là, frugando dietro i fondali, puntando la macchina da presa sul retropalco, sorprendendo il regista e lo sceneggiatore e tutto il cast della produzione negli atteggiamenti meno irreprensibili della loro vita.
Chi sono i personaggi di questa sequenza fuori programma? Uno degli arrestati della “banda di ferragosto”, l'autista Mario Pisano, interrogato dal giudice istruttore, mostra le labbra tumefatte e bruciacchiate. Racconta d'essere stato sottoposto ad un crudele interrogatorio in un sotterraneo della questura: legato a pancia all'in su sopra un pancaccio corto, la testa e le gambe penzoloni, gli interroganti lo avrebbero costretto a confessare tenendogli le mascelle spalancate e facendogli ingerire acqua salata, cinque o sei litri, versata con un mestolo. Una scena medievale. Il giudice istruttore Pietro Fiore si consulta con il sostituto procuratore della Repubblica e ordina una perizia medico-legale. Ma l'autista Pisano ha dell'altro: furti, soprattutto dalle automobili in sosta, ne ha commessi per davvero, non lo nega. Ma di rapinare la gente non gli sarebbe mai passato per la testa, se non lo avessero istigato due sconosciuti, due strani personaggi mai visti prima d'allora a Sassari, che si facevano chiamare “Gianni” l'uno, “Franco” l'altro, e tutt'e due parlavano con l'accento partenopeo e si mostravano prodighi di consigli, ricchi di immaginazione, pronti a dare una spinta per risolvere le molte indecisioni degli aspiranti criminali.
E questi due napoletani, adesso, dove sono? Mario Pisano non lo sa, e deve essere allora il giudice istruttore a ordinare ai carabinieri una piccola inchiesta. Dalla quale risulta che tutt'e due si sono imbarcati dalla Sardegna proprio nel colmo di ferragosto, accompagnati al molo dall'automobile della questura. La cabina, per uno dei due, è stata prenotata al nome di Gigliotti: strano, Gigliotti è il brigadiere della squadra mobile che ha compiuto l'operazione. E l'altro? L'altro è partito verso la costa Smeralda. Giusto in quei giorni, nell'albergo L'abi d'oru nel golfo di Olbia s'è infilato un topo pericoloso che se n'è partito con gioielli per qualche decina di milioni.
L'obiettivo, adesso, inquadra in piena luce i protagonisti della “brillante operazione”. Anche dalla questura di Sassari zampillano testimonianze che illuminano agli occhi dei due magistrati le figure di questo western capovolto. Il vice questore Giovanni Grappone viene da Milano, ove, negli anni che seguirono la legge Merlin, si distinse per aver guidato la squadra del buon costume, centrali squillo smascherate, donnine in abiti succinti, commendatori sotto i letti e negli armadi…
A Sassari, il dottor Grappone s'è accorto che si vive in una atmosfera di lontana retrovia. Siamo in Sardegna, è vero. Ma i banditi preferiscono il Nuorese: se le pallottole fischiano solo in lontananza, che ci può fare un “giovane leone” arrivato qui deciso ad offrire il petto al nemico?
Anche il commissario Elio Juliano è un valente e ambizioso investigatore; un primo della classe nei concorsi, un fuori classe nel lavoro di ricerca dei criminali. Ha fatto le prime armi a Napoli, dove s'è costruito un bell'archivio criminale tutto per sé, con centinaia di nomi di pregiudicati, ciascuno con la sua scheda sempre aggiornata: le note caratteristiche, il campo di lavoro, le tendenze, gli amici, i nemici, il soprannome e l'indirizzo.
Il giudice istruttore pensa che proprio Juliano oppure il suo diretto superiore Grappone, oppure l'immediato inferiore Balsamo siano gli uomini più indicati per svelare il mistero dei due napoletani giunti in Sardegna a far comunella con i giovanotti della banda di ferragosto e poi partiti non si sa per dove il giorno in cui la banda venne arrestata. Ma tutt'e tre i funzionari, e anche il brigadiere Gigliotti si schermiscono dietro il segreto d'ufficio: non sono tenuti a rivelare il nome degli informatori della polizia. Il giudice osserva: non si trata di informatori, ma di malviventi che hanno istigato e guidato altre persone in losche imprese, e altre imprese sono sospettati di aver commesso anche in proprio. Gli uomini della polizia tacciono, il magistrato spicca tre mandati di cattura: per il commissario Juliano, per il vice commissario Balsamo, per il brigadiere Gigliotti. Le accuse sono di lesioni personali, abuso di autorità, violenza privata, falso ideologico in atto pubblico (il verbale di confessione del Pisano), calunnia. Questu'ultimo reato (punibile con la reclusione da tre anni e sei mesi fino a dieci anni) è doppiamente aggravato, sia perché commesso da funzionari con abuso di poteri, sia perché il pastore Cossa, vittima della calunnia, è stato incolpato innocente di triplice tentato omicidio aggravato; così grave, cioè, che se il Cossa non fosse riuscito a dimostrare la propria innocenza gli sarebbe venuta di certo una condanna di almeno sei anni di reclusione.
Ai primi d'ottobre il magistrato spicca i mandati di cattura. L'incarico di eseguirli è affidato ad un ufficiale dei carabinieri che però prende tempo, si consulta con i suoi superiori e infine decide di girare il mandato alla questura. E' probabilmente la prima volta che la tradizionale competitività tra polizia e carabinieri viene saggiata su un difficile caso di polizia giudiziaria: l'esperimento dà un risultato inatteso. La decisione del magistrato, cioè l'arresto di due commissari, Juliano e Balsamo, e d'un sottufficiale, Gigliotti, è tenuta in sospeso dai patteggiamenti e dai convenevoli tra polizia e carabinieri intorno ai tempi e ai modi di procedere all'esecuzione d'un ordine perentorio e insindacabile.
Nella notte tra il 4 e il 5 ottobre un deputato monarchico sassarese, l'avvocato Dino MIlia, indirizza alla presidenza della Camera un'interrogazione urgente per sapere se il governo conosce il motivo per cui i tre uomini della questura che dovrebbero essere già in prigione si trovano invece tuttora in libertà, anzi in licenza. Il governo, il Parlamento, i grandi notabili della Cassazione, della polizia, dell'arma dei carabinieri cadono dalle nuvole… Un'ondata di interpellanze e di interrogazioni investe palazzo Montecitorio e palazzo Madama.
Mentre Juliano, Balsamo e Gigliotti, con comodo, si presentano al giudice e passano alle carceri (ma solo per la registrazione dei nomi: trascorreranno i pochi giorni di detenzione nell'infermeria dell'ospedale militare di Cagliari), il Paese è agitato da una collera improvvisa. “I banditi fuori e i commissari dentro!” annuncia su nove colonne un giornale di Roma. “Si sfascia lo Stato!” fa eco un altro (il Secolo d'Italia del MSI). E' come se un pilastro giudicato forte e inamovibile, la struttura portante del potere, da secoli collaudata, si fosse abbattuto improvvisamente. Il mandato di cattura viene guardato in trasparenza: è legittimo? Si sono ricordati i due magistrati sassaresi, il giudice Fiore, il sostituto Manchia, di avvertire “i superiori gerarchici dei presunti imputabili e il capo della polizia”? E il prefetto, il procuratore generale, il ministro di Grazia e Giustizia, la Suprema Corte, sono stati informati di quel che stava avvenendo? Nell'Italia dei feudi e dei granducati pare impossibile che due oscuri magistrati di provincia abbiano, da soli, potuto tanto, senza chiedere il permesso a nessuno: s'invoca il ripristino della vecchia “autorizzazione a procedere” per i funzionari di polizia, oltre che per i deputati e senatori che già ne godono.
Il pastore Cossa e l'autista Pisano hanno svelato un abuso della polizia, ma l'Italia non ne vuol sapere. La radio-televisione tace, i giornali non informano o informano male. “Tutti, o quasi tutti i delinquenti accusano la polizia di averli maltrattati o picchiati durante gli interrogatori: sospettare un pregiudicato di appartenere ad una banda è forse illegittimo? E' calunnia? Ma allora?”, conclude il Corriere della Sera, “la polizia non potrebbe mai scoprire un delinquente?” “Spinte, schiaffi, occhi pesti sono una specie di reato professionale per la polizia” (L'Europeo), e i commissari sono stati incriminati “per qualche cosa che attiene alla lotta contro il banditismo, e non per debolezza o per omissione, si badi, ma per zelo, o per eccesso di zelo?” (Il Tempo). Che cosa sono questi atteggiamenti ultralegalitari dei magistrati? Dovrebbe forse la polizia “prendere per oro colato gli alibi dei ladri di bestiame”? (Il Messaggero).
I magistrati, che al nostro Parlamento sono sempre piaciuti poco, vengono fulminati con occhiatacce da tutti i settori dello schieramento politico. La Sardegna, che ha l'aria di farsi scudo con la loro toga, si piglia un'altra reazione di rimbrotti; per un quarto d'ora l'Italia ha l'impressione che in Sardegna sia scoppiata una specie di rivolta contro i poteri dello Stato. “La Magistratura ha incriminato alcuni elementi delle forze dell'ordine. Dov'è lo scandalo?”, si domanda il vice segretario della DC Flaminio Piccoli. Ma è una voce isolata. “E' uno scandalo senza precedenti nella storia nazionale”, proclamano quasi con le stesse parole il monarchico Covelli e il repubblicano Paccairdi. I comunisti profittano della confusione per chiedere che siano mandati a casa loro i “baschi blù”. L'organo della diocesi di Milano, L’Italia, scopre che il complotto sardo si articola in un fronte omogeneo, di tipo familiaristico che accomuna avvocati, magistrati e briganti: “Tra gli avvocati e i magistrati sardi esistono parenti, amici, conoscenti delle famiglie di coloro che sono diventati fuorilegge. Non è forse vero che uno dei più pericolosi banditi della Sardegna, Francesco Maria Serra, è stato processato da una Corte d'assise e, pur con gravi prove, assolto per non aver commesso il fatto?” E' vero, sì, ma il lettore de L'Italia è derubato di un particolare: le gravi prove erano una fotografia d'archivio a mezzo busto in cui era parso ad una testimone di poter ravvisare colui che la polizia le descriveva come uno dei suoi possibili rapinatori.
La verità è che l'Italia, nell'autunno 1967, nel pieno meriggio di centro-sinistra consolidato, si trova in corpo una grande nostalgia di forche, e diffida dei giudici che stanno troppo a sottilizzare sul valore della prova. Per un Francesco Maria Serra una vecchia foto dell'archivio di polizia sarebbe potuta bastare alla condanna. Per l'arresto di uomini della polizia, le testimonianze, le prove, le controprove, i verbali, le perizie non sarebbero mai abbastanza. Il senatore Donato Pafundi, già Procuratore generale presso la Suprema Corte di cassazione, oggi presidente della Commissione antimafia, vecchia toga rotta a tutte le battaglie, non manca l'occasione di far intendere ai magistrati delle nuove leve quale sia il “porro unum necessarium” del giudice. Anche lui rivolge la sua brava interrogazione per sapere se i magistrati sassaresi “ebbero a considerare il pregiudizio che la eccezionale determinazione apportava al prestigio e alla efficienza della pubblica sicurezza e quale spinta criminogena con tale provvedimento, non obbligatorio, essi davano al banditismo in Sardegna.”
“Le spinte criminogene”, ecco il punto. Il senatore Pafundi, quando i tribunali chiedono fascicoli o stralci del molto materiale accumulato dall'antimafia in alcuni anni di indagini, risponde che non può. “E' una polveriera!” ripete il vecchio magistrato. Un esempio da imitare: quando un giudice si trova in mano un fascicolo-polveriera, faccia come lui. Ci si sieda sopra.”

Il 23 gennaio 1970 presso il tribunale di Perugia, in sede d'appello, i “fatti di Sassari” vengono praticamente liquidati. Questo l'esito del processo:

ai sardi:
Pasqualino Coccone: 5 anni e 3 mesi (12 anni nel primo giudizio);
Mario Pisano: 4 anni e 6 mesi (7 anni e 6 mesi nel primo giudizio);
Umberto Cossa: 4 anni (7 anni e 6 mesi nel primo giudizio);
Monne: 4 anni e 10 mesi (7 anni e 6 mesi nel primo giudizio);

ai confidenti della polizia:
Biagio Marullo: 7 anni e 6 mesi (3 anni nel primo giudizio);
Vittorio Rovani: assolto per insufficienza di prove;

ai funzionari di polizia:
vice questore Grappone: assolto perché il fatto non sussiste;
commissario di p.s. Juliano: 1 anno con la condizionale;
brigadiere di p.s. Gigliotti: 6 mesi con la condizionale;
guardia di p.s. Cinellu: 6 mesi con la condizionale.

“fatti di Sassari” sono “singolari” perché alcuni magistrati hanno osato mettere sotto accusa funzionari di polizia, ma non perché accadano raramente. Fatti come quelli che hanno visto incriminati Juliano e compagni sono purtroppo molto frequenti in Sardegna seppure non appaiano quasi mai alla luce del sole. E quando appaiono, ciò accade per sotterranee rivalità tra gli stessi funzionari di questura. Nello stesso anno dei “fatti di Sassari”, circolava un memoriale anonimo - uscito, pare, dalla questura di Nuoro - che accusava i metodi della Criminalpol. Questa volta erano di turno il questore Guarino e il suo vice Mangano.

“…L'opera di questi esaltati doveva far subito scalpore per far valorizzare poi le loro operazioni ed i loro mafiosi nomi che dovevano sistematicamente assurgere agli onori della stampa, nel modo più clamoroso possibile. Iniziano così senza alcun criterio le numerose perquisizioni spesso arbitrarie che hanno portato al disappunto della Magistratura, agli assedi dei centri abitati, alle rappresaglie ed ai maltrattamenti contro i pastori ed altri onesti cittadini, agli indiscriminati blocchi stradali, ai rastrellamenti e alle grandi operazioni di tipo militare e a tanti altri soprusi che hanno provocato le motivate lamentele da parte della popolazione ingiustamente oppressa dalla follia di questi megalomani…
Per poter realizzare “qualche operazione”, si ricorre disperatamente “agli acquisti di latitanti” a pagamento diretto. Il vice questore Mangano inizia personalmente la questua opprimendo gli avvocati e prescegliendo i latitanti gravati di taglia che hanno la quasi certezza di essere assolti dalle vacillanti imputazioni giudiziarie. Si dimostra così l'impotenza assoluta delle ingenti forze di polizia presenti nel Nuorese. Alcuni latitanti, sentito il parere dei loro legali, trovano convenienza ad incassare la loro stessa taglia, si costituiscono con le dovute garanzie… e vengono allora “catturati” dal questore Guarino e dal suo luogotenente Mangano o da altri prediletti della loro combriccola…
Per valorizzare l'operazione si segnala la “drammatica cattura”. Vengono poi avanzate esagerate proposte e si ottengono altre somme a titolo di premio, e si usurpano immeritate promozioni da parte di funzionari e di altro privilegiato personale, con enormi vantaggi di carriera. Mediante gravi soprusi si riesce per poco prezzo a far uccidere un latitante già classificato “pericolosissimo” (e portato quindi agli onori della pericolosità), si spara sul suo cadavere per inscenare un conflitto, si compilano falsi verbali per la Magistratura e si intascano milioni e si ottengono altri vantaggi per la carriera… Secondo il memoriale Guarino e Mangano avrebbero facilmente assoldato e assoggettato il comandante del gruppo dei carabinieri che, allettato dai grandi vantaggi delle progettate questue dei latitanti, si è associato volentieri ai due mafiosi dittatori… Anche i carabinieri partecipano ora quotidianamente alle arbitrarie perquisizioni, agli assedi dei centri abitati, ai maltrattamenti contro onesti ed indifesi cittadini, alle insensate ed estenuanti operazioni di tipo militare e nazista, e perdono così la stima che godevano fra la popolazione e vengono anch'essi, in uno con la polizia, pubblicamente accusati dall'autorità e dalla stampa… Ma ai tre mafiosi tutto questo poco importa. Per loro il bello viene dopo. Il ministero dell'Interno riceverà la segnalazione della “drammatica cattura” e dovrà pagare diversi milioni a favore dell'inesistente “ignoto confidente”… pagherà ancora altre buone somme a titolo di premio per la riuscita dell'artificiosa operazione, e, sulla base di fraudolente proposte, elargirà, come è già accaduto, le usurpate promozioni al merito di servizio, che sono immediatamente fonte di duraturo benessere economico per taluni prediletti a danno degli onesti funzionari.” (Sassari Sera del 1 novembre 1967).

Le accuse rivolte agli alti funzionari della Criminalpol dall'anonimo memoriale col passare del tempo prendono sempre maggiore consistenza. Due anni più tardi, la stessa rivista Sassari Sera (1° dicembre 1969) riprende il discorso segnalando “gravi irregolarità nella gestione dei fondi della Criminalpol”:

“La stagione della facile gloria è già finita. GUARINO e MANGANO dovranno comparire davanti ai giudici, ma questa volta come imputati. Ne diamo notizia ai nostri lettori senza ombra di animosità nei confronti della Pubblica Sicurezza. Noi non siamo denigratori della polizia per convincimenti preconcetti. Le nostre critiche vogliono soltanto denunciare gli abusi, le prepotenze, le disfunzioni laddove esistono, convinti che il male debba esser individuato ed estirpato per il migliore funzionamento della istituzione. Il silenzio sarebbe grave e dannosa complicità.
Qualcuno ha osservato che la Sardegna ha avuto tanti guai: le incursioni barbaresche, la malaria, le cavallette e infine la Criminalpol. Tra il 1966 e il 1967 la Criminalpol ha fatto in Sardegna più danno delle cavallette. Noi denunciammo subito gli abusi, le prepotenze, i falsi, mentre la stampa governativa esaltava i successi dell'abilissimo questore Guarino e dei suoi collaboratori Mangano, Grappone e Juliano. Quelle prepotenze e quei falsi sono ora all'esame dei giudici. In base a due sentenze (sequestro Capelli e sequestro Catte) la Magistratura ha già censurato il comportamento della polizia. Ora seguono le denunce.
C'è da aggiungere che nel corso di due processi sono emersi alcuni sintomi preoccupanti: oltre ai falsi commessi dal vice questore Mangano nel rapportare all'autorità giudiziaria, si è dovuta fare anche qualche operazione aritmetica in merito alla utilizzazione, alla cessione e alla gestione dei “fondi segreti”. Ebbene, i conti non sono tornati; e questo è veramente grave. Che un ufficiale di polizia giudiziaria, per eccesso di zelo, si abbandoni a violenze sugli arrestati, nella speranza di poter strappare quel brandello di confessione che aiuti a far luce su di un grave delitto, che un commissario, un agente, un carabiniere, per quel tanto di vanità che è presente nelle azioni umane, rappresenti un'azione di servizio sotto una luce diversa da quella reale nella speranza di riscuotere il compiacimento del superiore e della stampa, sono cose comprensibili. Ma se un ufficiale di polizia giudiziaria non sa giustificare il modo con cui ha amministrato il denaro (il pubblico denaro, il nostro denaro) allora si tratta di colpa infamante e imperdonabile.
Per il vice questore Mangano si tratta appunto di questo: al processo di Oristano, per il conflitto alla stazione di Abbasanta, è risultato che i familiari dell'imputato Cristoforo Pira hanno ricevuto dal dottor Mangano solo un milione per la costituzione del loro congiunto; nei conti invece del vice questore Mangano i milioni versati risultano due. E l'altro milione? Dottor Mangano, dov'è finito l'altro milione?

La burocrazia statale ha un singolare culto per la “duplicità”. In ogni settore della pubblica amministrazione ci sono almeno due uffici che con veste diversa fanno la stessa cosa. Nelle intenzioni dei “sacerdoti” di questa macchina burocratica la “duplicità” dovrebbe essere garanzia di funzionalità - promuove la competitività e naturalmente il reciproco controllo. In effetti crea conflitti di competenza e scatena lotte a coltello tra i funzionari dei due organi “paralleli”. Ciò è riscontrabile particolarmente tra polizia e carabinieri - tra i quali, evidentemente, manca il conclamato spirito del “servire tacendo”.
In Sardegna, sulla pelle dei latitanti, si sono calati come avvoltoi i funzionari più ambiziosi scoprendo le loro meschine ambizioni. Il primo alto funzionario che arriva sul luogo dove è stato steso il pastore fuorilegge si fa fare la “foto ricordo” accanto al cadavere orrendamente martoriato, come i ricchi gentlemen d'altri tempi, con il piede sulle costole sforacchiate del leone.
A Nuoro - come è detto nel memoriale riportato - questurini e carabinieri filano d'accordo e si spartiscono gli onori della caccia e i relativi premi. Ma si tratta di “tregua d'armi”.
A Cagliari le cose vanno come devono andare. Nelle indagini per il sequestro dell'ingegner Enzo Boschetti, questura e carabinieri riescono fortunosamente a mettere le mani su due emissari dei rapitori. Si tratta di acchiapparli mentre intascano il denaro del riscatto.

Il dottor Midiri (capo della Criminalpol) prepara il piano. Li Donni (il questore) è d'accordo. Bucci (comandante del gruppo dei carabinieri) pure. Dunque il dottor Pazzi, assieme ad un ingegnere amico di Boschetti… s'incontra con i fuorilegge. Consegnano un acconto sul riscatto. Cinquecentomila lire. Concordano un secondo appuntamento. Altro versamento. Cinque milioni. Terzo abboccamento. Venti milioni. Ma la trappola è scattata… ci sono due elicotteri carichi di carabinieri che attendono di levarsi in volo. Il dottor Pazzi consegna i venti milioni ai fuorilegge. Sono in due. Prendono il malloppo e s'allontanano… Partono gli elicotteri. Nella campagna sono già in agguato cinque agenti della Criminalpol. La pattuglia avvista i due fuorilegge. Arriva contemporaneamente un elicottero con il colonnello Bucci. Ed anche, a terra, del tutto inattesa, una pattuglia della squadra antiabigeato della questura di Nuoro. I due fuorilegge, non ancora identificati, vengono fermati.
«Come vi chiamate?» chiede il colonnello Bucci.
«Antonio Doa».
«Paolo Stocchino».
«Sono loro» esclama Bucci rivolto ai suoi uomini.
Gli agenti della questura di Nuoro comprendono di aver tra le mani un grosso bottino. Agguantano i due. «Venite con noi a Nuoro» dicono. Bucci s'infuria. Caspita, ci mancherebbe altro che gli soffiassero proprio ora, sotto il naso, il due fuorilegge. «Loro vengono con me, non con voi!» Ma gli agenti non mollano la presa. Bucci è addirittura spintonato. Circolerà qualche ora più tardi, tra i giornalisti, la voce che abbia anche rimediato qualche calcio negli stinchi! Arriva intanto l'altro elicottero. Sbarca Li Donni. Assiste al match polizia-carabinieri. Interviene. Si fermano tutti. Abbraccia Bucci. «Colonnello, qua la mano! Le chiedo scusa. Mettiamoci una pietra sopra». Sempre qualche ora più tardi ci sarà un'altra versione. A chiedere l'abbraccio e le scuse per la baruffa sarebbe stato Bucci. Questore e colonnello dei carabinieri, comunque, dimenticano. Pensano agli onori della brillante operazione. Gli onori saranno altissimi e anche meritati… Doa e Stocchino hanno nelle bisacce i venti milioni… Li portano… uno in questura, uno al comando dei carabinieri. Tanto per spartirsi il bottino! (Da L'anonima sequestri di Mario Guerrini, Ed. Sardegna Nuova, 1969).

Altre volte lo spirito di “emulazione” dei due corpi dà luogo a episodi tragicomici, come in questo, riportato da Sassari Sera il 1° maggio del 1969:

E' un normale posto di blocco. E' notte inoltrata. La Polstrada intima l'alt. Dalla macchina si affaccia un signore. «Sono un tenente dei carabinieri». «Bene, signore, ci favorisca i documenti». L'uomo al volante, in compagnia di altri due passeggeri, estrae qualcosa dalla tasca. «Questa è la custodia del documento. Mi favorisca il documento. Se lei è un tenente dei carabinieri, prego, come si chiama? non dovrebbe trovare difficoltà. Noi siamo qui per fare il nostro dovere».
Tra il tenente Cassano della tenenza di Dolianova e il capo pattuglia nasce una fitta discussione. Il signor tenente sostiene che quello è territorio di sua competenza, pertanto la polizia ha sbagliato giurisdizione. Il capo pattuglia non può fare altro. «Bene, se non mi favorisce i documenti non passa».
La macchina è in attesa. Il tenente scende, si allontana e cerca un telefono. Il capo pattuglia è nervoso e vorrebbe metterla sul piano della comprensione. Passa forse mezz'ora. Arriva una camionetta. Il tenente Cassano si fa avanti. Dalla camionetta escono i carabinieri armati che circondano la pattuglia della Polstrada.
Un Casus belli? Fortunatamente no. La questione, gravissima, viene rinviata ad un colloquio tra il prefetto e il questore Li Donni. Forse il colloquio non è ancora avvenuto. Non sappiamo quali provvedimenti verranno adottati nei confronti di chi ha ecceduto. Noi rinunciamo al commento. I banditi alla macchia, i delinquenti abituali mandati al soggiorno obbligato, i denigratori delle polizie varie, almeno per questa volta, sono pregati di non sorridere.

Questo sito utilizza cookie per migliorare la tua esperienza e offrire servizi in linea con le tue preferenze. Chiudendo questo banner acconsenti all’uso dei cookie.