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9. Come viene impiegata la polizia in Sardegna?

“…Centinaia di tutori dell'ordine schierati per la traduzione di Peppino Pes dal carcere di Oristano ad altra casa di pena. CINQUECENTO… si ha l'impressione che il gusto dello spettacolare abbia indotto i responsabili dell'ordine a eccedere.
Più contrariati ancora, si legge del battaglione mobile (300 circa) andato ad arrestare un gruppo di lavoratori cui si contestava un reato di dubbia dimostrazione: il furto di pesce nelle acque dello stagno (di Cabras)… Ora, mobilitare contro questi il battaglione mobile, non è iniziativa che suscita un sospetto di sproporzione allo scopo? Non è questo zelo contro pescatori laceri una prova del discutibile criterio con cui le forze di polizia vengono impiegate?
Al fondo di tutto, attentamente vagliate le cose, è la volontà delle classi dirigenti di strumentalizzare per propri fini, che non sempre coincidono con la tutela della sicurezza pubblica, i corpi di polizia. Si può anche polemizzare con questo o con quell'altro funzionario. Ma la radice di ogni squilibrio bisogna andarsela a cercare molto più in su. Lo sanno anche le pietre ormai, che nella molteplicità dei compiti di istituto delle forze di polizia hanno prevalenza quelli più tipicamente politici. Centinaia di funzionari, di sottufficiali, di agenti passano gran parte delle loro giornate a raccogliere discorsi che l'indomani potrebbero tranquillamente leggere sui giornali; e debbono metterli in rapporti dei quali si ignora l'utilità. I cittadini sono censiti in base all'opinione politica di ognuno, alle occupazioni, spesso anche alle amicizie. Il maresciallo dei carabinieri, il funzionario di questura sono costretti a stare appresso a cartelle personali, rispondere a richieste di informazioni, verbalizzare sedute di partito e d'organizzazioni sindacali, e, in questo mare di burocrazia, riuscire ad occuparsi d'altro diventa sempre più difficile…” (Sardegna Oggi dell'1 agosto 1964).

La rivista socialista tocca il tasto delle “schedature”, ma sottovaluta “l'efficienza” dell'apparato poliziesco quando pensa che i suoi funzionari, compresi nel lavoro burocratico, non trovino il tempo e i mezzi per dedicarsi anche alle operazioni repressive. Anche in grande stile, come l'esempio che segue.

“Il questore di Cagliari, dott. Guarino, non si capisce per quali drammatici motivi di emergenza, ha deciso il blocco dell'intera città: dalle ore 10,30 del 2 dicembre alle ore 4,45 del 3 dicembre scorsi, Cagliari si trovava come in stato d'assedio. Ben 200 tra agenti e carabinieri, 38 automezzi, 14 posti di blocco fissi e 4 mobili tenevano sotto controllo il centro, setacciavano angolo per angolo le strade periferiche, intimavano l'alt ai cittadini ignari che rientravano dal cinema dal bar o che si recano addirittura al lavoro. La grande spedizione punitiva si è concretizzata con la “identificazione” di duemila persone, il controllo di 800 automezzi, la traduzione in commissariato di alcune decine di cagliaritani sprovvisti di documenti. Non è mancata la scoperta (questa sì, molto grave) di due coltelli. Le armi bianche - è logico - sono state immediatamente sequestrate. Cosicché l'operazione contro la malavita poteva dirsi pienamente giustificata…” (Rinascita Sarda del 15 dicembre 1967).

Anche nei più quieti villaggi dell'interno, i brigadieri, esauriti i rapporti e le pratiche amministrative, trovano il tempo occorrente per perseguire gli eversori della legge.

“Un migliaio di persone, tra cui numerosi i giovani e le donne, chiedono con insistenza di parlare col sindaco… Si chiede che il brigadiere Giuseppe Goriani, il comandante della piccola stazione dei carabinieri di Ollolai, lasci il paese e venga trasferito altrove. Il sindaco telefona immediatamente alla caserma dal Municipio e riferisce al brigadiere la volontà della popolazione, che protesta contro il suo operato, e che la piazza è occupata dai dimostranti. Il brigadiere non si muove. E' la popolazione allora a muoversi verso la caserma, e tra i fischi, le urla e i suoni di pietre contro i barattoli, la circonda.
Il chiasso è indescrivibile. Finalmente si apre un finestra: il brigadiere in persona si affaccia. Ha tra le mani un mitra. Spara: tre raffiche in aria, incontrollate. Un proiettile colpisce una casa all'altezza di una finestra (il proprietario esporrà una denuncia). Gli animi si scaldano maggiormente, il tumulto aumenta. Sono passate alcune ore dall'inizio della manifestazione, arrivano i rinforzi che erano stati chiesti per telefono. Al passaggio dei carabinieri, le grida contro il brigadiere si fanno più forti, ma ancora per poco. Lentamente la folla come si era composta si scioglie… Nel paese scende il silenzio.
Il brigadiere ha dell'isola una concezione di terra di colonia, in cui ogni pastore è un bandito… A Ollolai non succedeva niente: mai atti di delinquenza, né furti di bestiame. Evidentemente il brigadiere Goriani si annoiava… da qualche mese è iniziata “l'operazione multe” e sono iniziate le perquisizione nelle case private.
Il modo di ispezionare gli ovili era veramente singolare. Si piazzava in una strada di paese, e di lì - secondo lui - dirigeva le “operazioni antiabigeato”. Passavano i pastori per portare le capre al pascolo e chiedeva il bollettino del bestiame. Nessun pastore lo porta appresso: ogni capo di bestiame ha il suo bollettino, e per un gregge significa portare addosso 100 o 150 fogli, a seconda della grandezza del gregge. Un controllo di questo genere si fa in casa o nell'ovile o se si vuole anche in due tempi, contando i capi e confrontando poi con i bollettini…
E' chiaro che si trattava di una iniziativa contraria ad ogni logica. Le multe fioccavano, e spesso salate, per la povera gente di Ollolai… E' arrivato al punto di multare uno che aveva l'asino legato davanti alla porta, e non aveva il bollettino in tasca. Inutile dirgli che lo aveva in casa, a due passi. Trecento contravvenzioni in un mese. I superiori potevano ben dire che il brigadiere Goriani faceva il suo dovere. Ma la gente la pensa diversamente…” (Da Rinascita Sarda del 15 novembre 1965).

Leggi speciali di Polizia, autoritarismo che sconfina nell'arbìtro, fiscalismo che taglieggia la povera gente, sfruttamento e disoccupazione, arresti, violenze e morte: sono il pane quotidiano che il potere dello Stato riserva ai sardi. Nel novembre 1966 l'on. Ignazio Pirastu presenta al ministro dell'Interno una interrogazione. Egli chiede di sapere

“…se non ritenga necessario accertare quali provvedimenti siano stati adottati dal gruppo dei carabinieri di Nuoro per far cessare le violenze che ormai metodicamente vengono esercitate dai carabinieri di Orune nei confronti di inermi e pacifici cittadini…
Solo nelle ultime settimane sono stati bastonati, nella caserma di Orune o nelle strade, Salvatore Bidoni, Pietro Tola, Salvatore Manca, Benito Musiu, Pietro Moreddu, Raimondo Pala, Michele Chessa. Quest'ultimo di 68 anni! Alcuni cittadini che hanno subito maltrattamenti e violenze hanno sporto denuncia all'autorità giudiziaria, altri vi hanno rinunciato per timore di più gravi rappresaglie.
Lo stesso interrogante ha avuto modo di constatare le conseguenze del più recente caso di violenza: il viso del giovane Pasquale Barrecca - fermato e bastonato da un'intera pattuglia di carabinieri il 14 novembre alle ore 22 - recava gravi escoriazioni, contusioni ed ecchimosi dalla fronte al mento!”

Si va creando un clima di vera e propria guerriglia - manca soltanto l'elemento politico che coaguli e indirizzi l'esasperazione popolare e le rivolte individuali. Si comincia a parlare di “separatismo” e di “rivolta contro la colonizzazione”.
I “baschi blu” accentuano la violenza repressiva sulle popolazioni barbaricine. Cadono le prime vittime. Siamo nell'autunno del 1968. Alcuni parlamentari comunisti, in una interrogazione urgente, chiedono - con una straordinaria ingenuità - di sapere dal ministro dell'interno se

“…un così tragico bilancio di omicidi compiuti dalle forze dell'ordine in breve tempo non può spiegarsi se non con direttive precise che orientano le forze di polizia in Sardegna a comportarsi come truppe di occupazione coloniale e a ritenersi autorizzate, se non incoraggiate, a dar luogo impunemente a esecuzioni sommarie e a sparare contro i cittadini, anche nei casi in cui non vi sia alcuna adeguata ragione.”

«I PASTORI FANNO DA TIRO A SEGNO AI NERVOSI BASCHI BLU» è il titolo con cui Sassari Sera documenta i recenti eccidi (15 ottobre 1968):

“Giovanni Maria Coronas noto come Mario, anni 22, pastore di Siniscola. Camminava ai bordi della strada dopo le 19 del 9 ottobre. Accanto a lui un servo pastore. Ad un tratto una pattuglia che intima l'alt, una raffica che lo coglie ad un fianco, un grande bruciore e a terra. Giovanni Maria Coronas viene colpito da una pallottola al fianco sinistro, la pallottola dopo aver forato l'emi-torace esce dalla spalla destra, al di sopra della scapola. Pochi minuti di agonia trascinandosi per quasi cinquanta metri, poi la morte… Chi ha sparato è un giovane sottufficiale della polizia stradale di Orosei; credeva che tra le mani del Coronas brillasse un'arma ed ha fatto fuoco. E se a luccicare fosse stato un portachiavi, un accendisigari od una moneta? Probabilmente il sottufficiale avrebbe sparato lo stesso…
A mezzanotte, dopo alcune ore di battute, verrà rinvenuta, alla presenza del sostituto procuratore della repubblica Falcone, una pistola. E' stata trovata lungo i 50 metri che il Coronas ha superato ferito - dicono gli inquirenti: è l'arma che il sottufficiale ha notato brillare poco pirma di sparare una raffica in aria… Ma resta il dubbio: se Giovanni Maria Coronas non ha sparato, se aveva soltanto una pistola che non esplose un colpo, perché il sottufficiale della pattuglia del distaccamento di Orosei ha aperto il fuoco uccidendo il giovane?…”

Altri cittadini “giustiziati” dalle forze dell'ordine nell'autunno 1968:
- Antonio Casula, latitante, taglia 10 milioni, fulminato alla periferia di Paulilatino;
- Antonio Cocilio e Giovanni Atzei, minorenni, incensurati, caduti sotto il piombo mentre tentavano una estorsione - secondo la polizia - «per conto terzi, non identificati»;
- Vittorio Giua, pastore di 23 anni, incensurato, ucciso mentre partecipava ad una manifestazione popolare per i pascoli del comune di Lodè;
- Pasquale Pao, il latitante “buono” stroncato da alcune raffiche di mitra mentre accudiva al bestiame, in compagnia del fratello.

“REQUIEM PER UN BANDITO (volantino anarchico ciclostilato, 1968).

Pasquale Pau è morto. Ora custodisce pingue gregge nei verdi pascoli della prateria celeste che il dio dei pastori riserva ai buoni… Così canta la nenia delle prefiche attorno al suo letto funebre.
Pasquale Pau, il latitante, è morto. Accudiva al pasto dei maiali, nel campicello preso in affitto di recente. Una morte straordinaria, per un bandito. Non la morte violenta dell'assassino che sfida la legge dell'umana fratellanza, ma la morte assurda, senza un perché.
E' vero: molti sono i banditi in questa terra senza pace e senza giustizia. Anche Pasquale Pau era un bandito. Un bandito senza mitra, senza sequestri, senza taglia. Un bandito-uomo-pastore. E non è morto da bandito. E' morto da uomo. Accudiva al suo gregge, si abbeverava all'unica fonte di vita che esile sgorga da questa terra avara.
Pasquale Pau è morto. A quarantasette anni sognava ancora il sogno dei giovani. Un sogno assurdo, sulle pietre di questa isola: avere una donna e figli, gregge e pascolo, un tetto e un giaciglio. E' caduto con il suo sogno assurdo - né, forse, sulla terra che avida ha bevuto il suo sangue, altro potrà germogliare che spini velenosi.
«Mio figlio dovrà sapere il nome di chi gli ha ucciso il padre!» ha gridato l'ira della sua donna. Le donne gravide, in questa terra, ingoiano una scheggia di granito, per dare al nascituro un cuore che regga il dramma della vita. Angela Marras, la compagna di Pasquale Pau, ha ingoiato tutto il piombo della sua morte, per dare un cuore all'orfano che dovrà nascere…
E' vero: ci sono molti banditi in Sardegna. La nostra è una società piena di banditi. Anzi, è una società di banditi. Banditi malvagi e sanguinari, banditi onesti e pacifici. Banditi che derubano miliardi e banditi che hanno in tasca duemila lire. Pasquale Pau era un bandito con duemila lire in tasca.
Chi lo ha ucciso non potrà che avere l'esile conforto di avere ubbidito. Il dovere disumano di chi esegue la sentenza di condanna a morte di un innocente - il cui sangue ricade su tutti i “grandi” della terra.
Pasquale Pau è morto. Di lui nessuno, a voce alta, potrà mai dire altro che parole buone. Sentiva i piccoli grandi problemi della sua gente, la disperazione del povero che ha smarrito un agnello. Conosceva dentro di sé la sua gente e i drammi antichi della sua gente, s'era fatto generoso dispensatore di minuta giustizia. Rendeva il mal tolto, riparava il torto, pacificava gli animi - che il dramma delle pietre sterili e deserte e della solitudine rende aspri e taglienti come schegge di selce. Meritava il canto di un poeta, Pasquale Pau, il bandito d'onore. Non può averlo, un poeta che canti la sua vita e pianga la sua morte, in una società che altro non sa esprimere se non l'offerta dell'imbonitore nel mercato.
Pasquale Pau è morto. Lavorando, amando, sperando. L'uomo che è nato sulle pietre, nudo e solo, non può credere nella giustizia venuta da un mondo verde di pascoli. Eppure egli ha voluto credere in quella giustizia: credeva che un giorno lo avrebbe dichiarato “uomo senza colpa”. Pensava al suo vicino processo d'appello, quando è caduto - intanto espiava la “colpa” d'essere nato pastore…
La nenia delle prefiche canta attorno al suo letto funebre: «Ora custodisce pingue gregge nei verdi pascoli della prateria celeste, che il dio dei pastori riserva ai buoni».”

I comunisti si appellano alla legalità democratica. Rinascita Sarda del 1° novembre 1968 scrive:

 “A nessuno, neanche agli uomini della legge, se sono uomini di legge, è permesso giustiziare senza processo. In Italia la pena di morte è stata abolita, e la Sardegna è l'Italia, non una colonia: perciò le esecuzioni sommarie non devono avvenire, in nessun caso…
Le gravissime violazioni della libertà e della incolumità della popolazione devono cessare immediatamente. Altrimenti un pericolosissimo costume potrebbe cominciare a diffondersi: la licenza di uccidere. Se possono uccidere le forze dell'ordine, che dovrebbero costituire un modello di comportamento, cosa potrebbero sentirsi autorizzati a fare tutti gli altri?”

Qualche mese dopo, nelle campagne tra Bolotana e Ollorai, il 9 gennaio 1969, una pattuglia di carabinieri intravvede in un canalone un “tipo sospetto”, armato. Alla vista delle divise lo sconosciuto fugge. I carabinieri lo inseguono investendolo con una gragnuola di pallottole di mitra e lo stendono: gravemente ferito.
Le forze dell'ordine comunicano che durante un'azione di perlustrazione sono entrati in conflitto a fuoco con un malvivente armato di moschetto mod. 91, che nello scontro il malvivente ha avuto la peggio, è stato ferito e tratto in arresto.
I fatti risultano presto poco convincenti. Il “malvivente” risulta essere un ragazzo di 17 anni, da Illorai, certo Matteo Fois, un minorato, mutolo. L'arma del “conflitto” risulta essere un ferrovecchio che difficilmente potrebbe sparare un colpo senza esplodere nelle mani di chi lo usi. Un lettore de La Nuova Sardegna, in una lettera al direttore del giornale, chiede «chi abbia gettato il moschetto fra le mani del ragazzo».
Sparare ad un pastore - in un clima terroristico artificiosamente creato - passa per un atto legittimo mediante gli alibi dell'atteggiamento sospetto, dell'oggetto che luccica e può essere un'arma, della fuga all'intimazione dell'alt, della paura di un agguato. Ma stavolta il caso ha giocato uno spiacevole tiro alle forze dell'ordine, che si ritrovano tra le mani un povero diavolo di ragazzino, innocuo, minorato, senza neppure l'uso della parola, che - dicono le testimonianze - è un selvatico che fugge terrorizzato davanti a persone che non conosce. Il tribunale dei minorenni - logicamente - lo proscioglie dagli addebiti che i carabinieri mantengono per salvare la faccia: tentato omicidio, detenzione di arma da guerra, resistenza…

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