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CAPITOLO SECONDO

IS OMINIS DE MEXINA - I GUARITORI


RITI TERAPEUTICI

In tutti gli strati sociali sono diffusi, a diverso livello, antichissimi riti terapeutici, cui si innestano elementi formali della tradizione cattolica. In particolare tra i contadini sono numerosi guaritrici e guaritori, feminas e ominis de mexina, i quali officiano i loro riti liberatori apertamente e discorrono volentieri della loro arte. Sono però tutti estremamente gelosi delle formule rituali e dei brebus, parole magiche, sacre. Qualcuno si limita a dire di aver appreso l'arte da un genitore o da altri cui erano legati da vincoli di amicizia, in punto di morte. Il numero delle guaritrici è preponderante su quello dei guaritori - ciò farebbe supporre che in tempi antichi l'arte della medicina fosse esercitata dalle sole femmine.


SU CONTRAVELENU

Il contadino M. possiede alcuni ettari di terra da grano, cavallo e carretta. Abita una casupola di mattoni crudi in una stradetta buia e fangosa di periferia - appena prima di uno dei tanti letamai pubblici che circondano l'abitato di questo paese dell'Oristanese. L'uomo è piccolo mingherlino, con occhi grigi a spillo in un viso furbo. Siede davanti al camino acceso, in compagnia delle sue due figliole, approssimativamente sedici e vent'anni. E' vedovo da alcuni anni e, avendo due figlie femmine che badano alla casa e a lui nel lavoro, non si è risposato.
M. cura con su contravelenu, l'antidoto, le punture o i morsi di animali velenosi o ritenuti tali nella credenza popolare. Su contravelenu consiste in un sacchetto di pelle, simile a certi scapolari che contengono reliquie di santi o scritti magici di antico uso per preservare dai malanni e dalle palle dei carabinieri. Nel caso di su contravelenu, il sacchetto contiene resti di insetti e di rettili mummificati. Il guaritore lo tiene appeso al collo e non lo lascia mai: specialmente in campagna qualcuno può averne urgente bisogno.
Dice: "Io l'ho conosciuto da mio padre. Da quando lui è morto vengono da me a cercarlo. Chiunque può farlo e può usarlo, purché ne abbia sa voluntadi, la volontà. Si deve preparare in tempo di luna giusta, quando sta per finire. Si va in campagna e si cerca e si prende una testa di vipera, de rana pabeddosa, di rospo, una testa de pistilloni, di geco, e una pettapudiga, una blatta… unu de cussus zerpius nieddus chi tenint fragu malu, uno di quegli animaletti neri che hanno brutto odore. Poi si lasciano seccare queste teste con la lingua fuori e si chiudono nel sacchetto. Qualunque animale velenoso che faccia male ad anima bia (anima viva, nel linguaggio comune significa persona vivente e si contrappone ad anima morta, l'anima del defunto - per lo più dannato - che vaga sulla terra), questa viene guarita mediante su contravelenu. Si impone strofinandolo per tre volte in segno di croce, prima sulla terra e poi nella mano o nella faccia o in qualunque altra parte del corpo dove abbia morso l'animale velenoso. Se ci viene molta gente? Altro che, se ne vengono! Io non lo nego a nessuno…"


SU PINNADEDDU

N. un artigiano di Riola dichiara di essere un libero pensatore, uno che non va mai in chiesa.
Dice: "In Dio già ci credo. Ci credo, eccome! e anche nei Santi credo… ma se il parroco aspetta di vedermi in chiesa bisogna che la barba gli diventi bianca."
Egli ha la botteguccia al centro del paese e si fa aiutare da uno dei suoi figli, che seguirà la professione paterna. Quando egli deve accudire ai lavori di campagna, il figlio lo sostituisce del tutto nella bottega.
N. è un uomo emarginato. L'isolamento cui lo ha condannato la comunità lo ha reso scontroso e polemico.
Dice: "L'avrà sentito dire in giro che ho ucciso un uomo. Ma se un uomo le entrasse in casa di notte, lei cosa farebbe? Io non sapevo che intenzioni avesse, e ho sparato…"
E' stato in prigione per alcuni anni, convinto di avere subìto una ingiustizia. Ha il dente avvelenato con quelli del suo paese, che non gli hanno perdonato di avere ucciso un ladro. In effetti ha infranto la legge comunitaria, per la quale rubare può essere una necessità e un ladro può essere bastonato ma non ucciso.
Dice: "Io sono scettico su molte cose, però a s'oghiadura ci credo. E' un fluido che certi possiedono. Io possiedo molto fluido nelle mani e negli occhi. Molta gente l'ho guarita col solo tocco della mano. Da giovane leggevo molti libri, di quelli che parlano di spiritismo, e ho imparato molte cose, come si fanno le magie. So come si guarisce una persona che ha avuto s'oghiadura, il malocchio, come si prepara su pinnadeddu, l'amuletto che preserva dal malocchio."
Spiega: "Su pinnadeddu serve contro il malocchio. Per esempio, una mamma ha un bambino e teme per s'oghiadura, per il malocchio. Ce ne sono tanti che danno il malocchio. Allora questa mamma va da uno che lo sa guarire. Dice is brebus, parole segrete, e influenza un pezzo di corno di cervo. Questo pezzo di corno di cervo, come una rotellina, viene legata al collo del bambino, e il malocchio si scarica lì. Se però su pinnadeddu, l'amuleto, non è fatto nel giusto tempo di luna, quando sta calando, alla fine, perde tutta la sua forza."
Il figlio sui vent'anni, ascolta attentamente il discorso del padre. Una sola volta interviene per tradurre in italiano, ma viene vivacemente redarguito: "Zitto tu, voi giovani non sapete nulla e vi volete sempre mettere in mezzo. Tuo padre sa le cose che dice e in sa bia aundi seu passau deu, tui ddu depis ancora passai, e nella via dov'io sono già passato tu devi ancora passarci."
Su pinnadeddu è una efficace protezione nei confronti de s'oghiadori, dello jettatore, di colui che dà il malocchio?
Risponde: "Certamente. Oggi la gente lo usa di meno perché is oghiadoris, coloro che danno il malocchio, non sono più tanti come prima. Un tempo c'erano molte famiglie, famose e temute; e quando passava una di loro bisognava stare attenti ai bambini, alle ragazze, al bestiame e alle cose di valore. I più forti erano i P. gli M. e gli O. che si tramandavano il fluido di padre in figlio. Questo fluido negativo si dice umbra de caoru, ombra di serpente.
Interviene il figlio: "E' proprio vero. Quando ero bambino, nonna mi aveva messo su pinnadeddu al collo. Un giorno, mentre giocavo sull'uscio di casa era passata una donna di una di queste famiglie nominadas po oghiadura, di famosi datori di malocchio. Come è passata si è sentito un crac…
Mia nonna, che era vicina e aveva sentito il crac, era corsa subito a guardare il mio pinnadeddu. Si era spaccato in due pezzi: il fluido malefico si era scaricato lì e mi aveva salvato."


S'OGHIADORI

Sr. ha nomea di oghiadori, di jettatore. Cosa ne pensa delle qualità che il paese gli attribuisce? Come reagisce?
Dice: "Io…mi ci diverto. E che altro posso fare, se no? Certo che me ne capitano di belle, ogni santo giorno. E non soltanto con persone ignoranti. Come quella volta che R. il muratore insieme a suo cognato mi avevano chiamato d'urgenza perché avevano il bambino con la febbre alta, e pensavano che io gli avessi liau ogu, dato il malocchio. Io ci sono andato per accontentarli e sempre per accontentarli ho anche toccato un paio di volte il bambino. Neanche a farlo apposta, sarà stata una combinazione, subito dopo è sfebbrato. E la mamma del bambino ne ha sparso la voce… Altre volte me ne succedono con gente istruita. Ricordo un giorno che avevo un malato in casa. Vado dal dottor M., quello che chiamano Pillonedda di soprannome. Gli dico se per favore può venire subito. Lui stava salendo in macchina e dice: "Proprio adesso vieni? o non lo vedi che sto andando a Oristano con le figliole. Quando ritorno ci passo." Io me ne sono tornato a casa. Ed ecco, neanche cinque minuti dopo me lo vedo arrivare a piedi, nero come la pece. Senza neppure guardarmi in faccia, dice: "Questo a me, Sr., non me lo dovevi fare!" A queste parole io sono rimasto a bocca aperta. Dico: "E ita, su dottori? E che cosa, dottore?" E lui: "Già lo sai bene, lo sai: non avermi lasciato partire la macchina! Questo a me proprio non me lo dovevi fare!"


IL GUARITORE

Ziu Chiccheddu, detto s'omini santu, l'uomo santo, ha 73 anni, è analfabeta, sposato senza figli, celeberrimo e stimatissimo fattucchiere guaritore a livello di provincia.
Z., il fotografo del paese, deve recarsi da s'omini santu per consultarlo su una certa malattia di cui soffre un suo bambino. Ha fissato un appuntamento per il tardo pomeriggio.
Il vecchio guaritore attende sull'uscio di casa. Dice: "Buongiorno, entrate, entrate."
Nell'ingresso, di faccia al visitatore, appare un altarino sopra un tavolo ricoperto di pizzo, con una Madonna dentro una teca di vetro a portelli, con la coroncina a sette luci simboleggianti i sette dolori, e vasi a stelo lungo con garofani bianchi. I muri di lato sono tappezzati con immagini di Santi.
Ci fa entrare in un secondo locale, reso più angusto da una scala di cemento grezzo incastrata nella parete. Il vecchio si siede sopra un gradino della scala e a noi clienti riserva due vecchi scanni.
"Per chi è?" domanda.
"E' per un bambino di dodici anni", risponde Z.
"E che cosa patisce?" continua a informarsi il guaritore.
"Ha il mal di testa e debolezza, da qualche mese."
"A letto è?"
"No, a letto non è. Però forze non ne ha."
"E il dottore, fatto cosa gli ha?"
"Sì, il dottore lo ha visto e gli ha dato delle pastiglie."
"E profitto gli hanno fatto?"
"Niente, gli hanno fatto."
Ziu Chiccheddu, s'omini santu, non chiede altro. Ora, con la collaborazione della moglie - una vecchietta minuta che funge da sacrista - prepara gli oggetti e la materia per compiere il rito detto de s'aqua licornia, acqua taumaturgica; un rito che nella prima fase è diagnostico e dopo is brebus, le parole sacre, è terapeutico - risolutore di traumi psichici, malocchio e altri oscuri mali.
Si fa portare dalla moglie un panchetto e se lo mette davanti tra le gambe. Sopra il panchetto arriva un grosso bicchiere colmo d'acqua, quindi una ciottola con del grano. Il vecchio si concentra, immobile, a occhi chiusi, per qualche minuto. Il rito de s'aqua licornia ha inizio.
Il guaritore sceglie nove chicchi di grano ben secchi e maturi, del tipo che non galleggiano. Li sceglie con estrema attenzione, palpandoli lentamente uno a uno con i polpastrelli della mano destra e li depone ordinati su tre file sopra il panchetto. Ne risulta un quadrato con tre chicchi per lato e per diagonale. Quindi, ieratico e solenne, si fa il segno della croce e prende tra il pollice e l'indice il primo dei nove chicchi di grano, lo tiene sospeso a mezz' aria come fa il prete con l'ostia al momento dell'elevazione, bisbigliando incomprensibili brebus. Senza interrompere il concitato sommesso bisbiglio, traccia con le due dita che tengono il chicco dei veloci segni di croce sull'orlo del bicchiere. S'interrompe ora per portarsi alle labbra il seme che tiene ancora tra le dita: lo tiene così, immobile, a contatto delle labbra, per un poco; quindi riprende a bisbigliare is brebus e a tracciare sempre più rapidamente i segni di croce sull'orlo del bicchiere. Infine, immerge il chicco nell'acqua, ponendolo al centro della circonferenza. Il chicco va a posarsi lentamente sul fondo del bicchiere.
Per nove volte quanti sono i chicchi, ziu Chiccheddu, s'omini santu, ripete l'operazione.
E' giunto il momento diagnostico. Egli osserva scrupolosamente la posizione del grano sul fondo del bicchiere. Si nota che un seme ha una bollicina d'aria in punta che lo tiene ritto. Tutti gli altri sono adagiati in senso orizzontale. Dopo qualche minuto arriva il responso.
Il guaritore solleva lo sguardo e rivolto a Z. dice: "Sunt dus azzicchidus, sono due spaventi. Il primo è una fuga lunga, si vede bene, fatta per strada, a causa di persona o di animale. Il secondo è spavento preso in luogo chiuso, in cucina o nell'andito… può essere anche in campagna, ma sempre in luogo chiuso. Poi c'è s'ogu fissu, malocchio. Vede questo grano che sta sulla punta? Vuol dire che qualcuno che ha la forza, la capacità malefica, ha dato malocchio al bambino."
Z. ascolta il responso del guaritore con attenzione reverenziale, annuendo con la testa.
S'omini santu prescrive la cura: "Prenda quest'aqua licornia, terapeutica, e la metta in una bottiglia…"
Evidentemente il recipiente è a carico del paziente, perché vedo Z. estrarre una fiaschetta dalla tasca interna della giacca. La moglie del guaritore - che in tutto questo tempo se ne era rimasta in piedi a guardare - si affretta a fornire un imbuto.
"A questa acqua", spiega il vecchio, "ne può aggiungere altra, quanta ne occorre per tre giorni, ché non perde l'effetto. E' come l'acqua benedetta."
La vecchia travasa il contenuto del bicchiere nella fiaschetta.
"L'acqua la divide in due parti. Metà per i lavaggi, da fare sempre contropelo, sulle guancie fino alle tempie…" Così dicendo indica le parti che vanno frizionate. "Questo bisogna farlo una volta stasera, poi domani mattina e dopodomani di notte, per tre giorni a ore diverse. L'altra metà è da bere. Il bambino può berne quando ha sete. Ma non basta. Siccome oltre il malocchio il bambino ha preso azzicchidu, spavento, gli consiglio di farsi affumentai, suffumigare."
Z. domanda se per s'affumentu, il suffumigio terapeutico, può andare da zia Crabudda.
A quel nome s'omini santu scatta come morso dalla tarantola. "No!" esclama "Da zia Crabudda no! Non è capace, quella. Vada da zia Giuannica, che lo sa fare. Ci va anche mia moglie, quando ne ha bisogno."
Ci alziamo per andarcene. Z. chiede quanto deve dare per il disturbo. L'uomo santo dice che non fa nulla, che lascia sempre fare al buon cuore del cliente.
Il "buon cuore" di Z. sborsa trecento lire - circa un quinto di una visita medica in ambulatorio. La moglie del guaritore si affretta ad allungare la mano e a far sparire le tre monete nella tasca della gonna.
Mentre ci avviamo verso l'uscita, chiedo se ha appreso da molto tempo l'arte di preparare s'aqua licornia.
"Eh, sì," dice, "l'ho imparato da mio padre, quando ero giovane. Ci ho messo diciotto anni, per imparare. Non per le parole, che le ho imparate in pochi giorni, ma per l'altro…"
Non vuole spiegarmi in che cosa consista l'altro.
Nell'ingresso dove sta l'altarino, apre le due ante a vetri della teca e accende le luci. La Madonna di gesso vivacemente colorata, ornata di fiocchetti e ammennicoli per grazie ricevute, si illumina a giorno. Egli, con le mani giunte, in posa sacerdotale, si mette a un lato: desidera una foto ricordo, vista la macchina che ho a tracolla.
Sull'uscio trattiene ancora Z. per le ultime raccomandazioni: "Vada anche da un prete, è meglio, con il bambino, per fargli leggere is vangeus, i vangeli. Vada dal vice parroco, non cerchi altri."


ABUSIVI DEL MESE MARIANO

Ziu Chiccheddu s'omini santu ha fatto parlare di sé anche sulla stampa.

"Un vecchio analfabeta di Cabras, in provincia di Cagliari, noto come s'omini santu, ha officiato per lungo tempo le funzioni serali del mese mariano. Riscuoteva maggior credito del sacerdote ufficiale, e fu diffidato dal continuare a far funzioni in concorrenza con la chiesa cattolica. Trattandosi di un abusivo, dovette piegare il capo e accontentarsi di operare nella sfera dei riti terapeutici popolari. "
(Da Sassari Sera n.13 - 1/15 settembre 1968)

E' anche celebrato come uno dei protagonisti del tumulto popolare anticlericale di Cabras del 1944, cui si riferisce il racconto che segue.


IL TUMULTO

Alle dieci del mattino, la Confraternita dello Spirito Santo e il suonatore di piffero e tamburello attendevano da più di mezz'ora l'uscita del santo.
Antioco il maniscalco, che reggeva il Cristo nero con una bretella di cuoio, s'asciugò il sudore sulla manica della tonaca ornata di pizzo rosso.
"E cosa aspettano a tirarlo fuori? Aiutatemi a scaricarmi da questo Cristo!", disse rivolto ai compagni.
Due lo aiutarono a sfilare la pesante croce dalla guaina e insieme lo poggiarono al muro.
Anche i fedeli, in chiesa, attendevano l'uscita del santo, del parroco e del Comitato dalla sacrestia, per formare la processione.
Le donne si erano sedute sul pavimento, sgranando Gloria Patri per ingannare l'attesa.
Gli uomini, stanchi di guardare i soffitti e le volte decorati, s'erano messi a chiacchierare del più e del meno, della campagna, della troppa acqua piovuta, dei fitti, della moria del bestiame, e il loro brusio iniziale si andava facendo frastuono.
Soltanto i più vicini alla sacrestia tacevano, con le orecchie tese per afferrare qualche parola che spiegasse i motivi di tanto ritardo.
In sacrestia, don Gesuino, il parroco, e Nicodemo, il presidente del comitato di Sant'Antonio, si fronteggiavano, spalleggiati rispettivamente dalle Dame di carità e dai dieci membri del Comitato.
"Ho detto di no, e resta no!" sbraitava don Gesuino; e per dare più forza alle parole batté un pugno sul piano dell'armadio rovesciando un'ampolla e un ostensorio.
"Ma con il vecchio parroco era sempre andata così!" si lamentava Nicodemo. E aggiunse: "Così vuole la tradizione del paese ..."
"Va bene la tradizione", interloquì donna Mariangela, la presidentessa delle Dame, "ma in fondo ciò che don Gesuino vi chiede è giusto: due terzi alla chiesa e un terzo al santo."
"Il santo ha diritto alla metà e la metà ci teniamo. Ecco qui: sono ottantamila... e queste sono quarantamila. Prendere o lasciare! La tradizione va rispettata!" finì urlando Alceo, il vice presidente.
"La tradizione, vero? La prendete su questo tono, vero? E allora, sapete che vi dico? Fatevela voi, la processione! Ma senza di me e senza santo. Io da qui non mi muovo!"
Don Gesuino e Nicodemo si erano guardati fisso negli occhi in atto di sfida, poi si erano voltati repentinamente le spalle.
"Bisogna prendere una decisione..." intervenne uno del Comitato, "La gente è stanca di aspettare..."
"Che se ne torni a casa la gente!" borbottò stizzito il parroco. "La messa è finita!"
Qualcuno di fuori cominciò a bussare alla porta.
"Don Gesuino, glielo dico per il bene di tutti e per l'ultima volta: si vesta e ci lasci prendere il nostro santo... oppure..." disse Nicodemo a denti stretti.
"Oppure che cosa?" gli andò addosso il prete. "Si, certo, da voi, beduini eretici, ci si può aspettare di tutto... Avete perso la misura, avete! Ma, badate bene, io, sotto la tonaca, ci ho calzoni. Capito?"
"Ah, sì?" replicò Nicodemo, "gli eretici siamo noi, vero? Avete sentito? Siamo eretici, noi!... L'eretico è lei che non porta rispetto alle tradizioni e neppure a sant'Antonio... Ma stia attento! Sant'Antonio ne ha già messa a posto parecchia di gente con il collo rigido!"
"Andate, andate..." disse don Gesuino assumendo atteggiamento e tono da martire, con gli occhi rivolti al soffitto, "perdòno loro perché non sanno quello che fanno!"
"Don Gesuino, badi.."
"Andate, zoticoni, andate... Gente che porta in giro i santi per le strade come...!"
Alle parole blasfeme, quelli del Comitato si segnarono. "Costui è veramente un prete eretico." Pensarono tutti, e tutti insieme spalancarono le porte della sacrestia, infilandosi a furia di spallate nella folla.
Quando la gente vide il presidente del Comitato, seguito dai suoi, salire i gradini dell'altare maggiore, capì che succedeva qualcosa di molto grave e fece immediatamente silenzio.
Tutti gli sguardi si appuntarono sulla faccia pallida e irata di Nicodemo che aveva aperto le braccia in un largo gesto: "La festa non si fa più. Il comitato si scioglie." Annunciò.
Dopo il primo momento di silenzioso stupore, qualcuno dalle prime file domandò:
"E perché mai?"
"Che cosa è accaduto?"
"Il parroco si è sentito male?"
"Sant'Antonio non vuole uscire dalla nicchia?"
"C'è che il parroco non vuole rispettare la tradizione del paese. Perciò io e gli altri del Comitato ci ritiriamo." Fu la risposta.
Gli ultimi, che non avevano sentito, si informarono dai primi:
"Ma che diavolo mai sta succedendo, oggi?"
"Il prete non vuole che i cavalli seguano il santo!" si rispondeva.
"Ma che razza di prete ci ha mandato Monsignore, se non conosce le costumanze?"
"Dice che la Confraternita deve stare di dietro e non davanti!"
"Matto è? ma quando mai?!…"
I commenti si diffondevano e si moltiplicavano; col chiasso aumentava la confusione.
Ad un tratto si udì una voce forte sovrastare tutte le altre: "Cacciamolo via!"
In un baleno il grido riecheggiò da ogni parte: "Cacciamolo via!"
La marea umana ondeggiò indecisa, poi si scatenò contro la sacrestia.
Fra i primi c'erano Peppe e Anselmo che iniziarono a dare spallate contro la porta che il parroco aveva sprangato.
Quando la serratura cedette, si trovarono faccia a faccia con donna Mariangela e le altre Dame, che brandivano minacciose vecchi crocefissi e candelabri di alpacca. Qualcuna si era armata di lamette da barba, trovate chissà dove - come si capì dopo dagli abiti trinciati.
"Pazzi siete? Mai pace né in terra né in cielo avrete, se oserete mettere le mani sopra un ministro di Dio!"
"Levatevi di mezzo, bigotte!"
"Eretici! Ecco che cosa siete, eretici! Eretici e scostumati!" si difendevano le Dame.
"Eretico è lui, con il diavolo che ci ha in corpo!"
"Preti come quello vanno impiccati!" replicavano dalla chiesa. Ed uno, con malizioso riferimento a donna Mariangela, aggiunse: "E anche altro, vorrebbero…!"
La resistenza durò appena il tempo di scambiarsi tali improperi. Però, frantumato il baluardo opposto dalle Dame, la gente riversatasi in sacrestia si avvide che il parroco era sparito. Inutilmente lo cercarono dentro gli armadi e nei mucchi dei santi smessi. Don Gesuino, vista la mala parata, scavalcata la finestra, era corso a barricarsi in casa sua.
Al prete non ci pensarono più:
"Che vada in malora! La processione la faremo lo stesso…"
Ma gli anziani obiettarono:
"Una processione senza prete è come senza santo."
Allora una donna lanciò l'idea, così, senza parere:
"E perché non ci mettiamo Chiccheddu? Sa leggere il Vangelo e sa guarire spaventi e malocchio meglio di un prete."
L'idea venne raccolta, brevemente discussa e accettata.
Nicodemo mandò la nipotina scema a cercarlo: doveva essere lì attorno.
Trovatolo, lo trascinarono in sacrestia dove lo misero al corrente della questione, intanto gli mettevano addosso i paramenti sacri.
"Ma io… io non sono degno… ecco… " si schermiva Chiccheddu. "E la Giustizia, poi?… " borbottava preoccupato.
Non aveva resistito a lungo. Infine, convinto e compiaciuto, si era inginocchiato segnandosi con un ampio lento gesto, chinandosi fino a baciare le tavole del pavimento, come aveva visto fare ai preti sull'altare.
"Sia fatta la volontà di Dio!" mormorò.
"Ora devi prendere sant'Antonio dalla nicchia e devi metterlo sulla portantina… " gli suggerirono Nicodemo e gli altri del Comitato.
"So io quello che si deve fare!" rispose secco Chiccheddu e avanzò lento e ieratico fino alla nicchia, aprì con compunzione rituale la teca a vetri dopo essersi segnato tre volte, si inginocchiò a recitare tre Pater, tre Ave e tre Gloria prima di toccare sant'Antonio che dall'alto gli sorrideva con gli occhi azzurri e gesto benedicente.
La gente si accalcava attorno, muta e riverente, osservando in ogni particolare il compiersi del rito. E quando il santo, se pure con una certa fatica, fu incastrato nella sua sede sulla portantina, i clamori di gaudio furono immensi.
"Soltanto un prete o un'anima benedetta da Dio può toccare sant'Antonio senza cadere fulminato… " spiegava ai giovani un vecchio barbuto.
Le donne piangevano di commozione.
La processione si compose nel piazzale di chiesa secondo la tradizione: la Confraternita davanti con il Crocefisso nero; i cavalli bardati a festa e il santo portato a spalla da quelli del Comitato; Chiccheddu coi paramenti sacri sotto il baldacchino di seta gialla frangiato d'argento; infine tutto il popolo, prima gli uomini, a capo scoperto, dopo le donne e i bambini.
"Meglio di un prete è!" commentavano, ammirando Chiccheddu nell'incedere lento e solenne, nell'intonare le preghiere con voce profonda di basso.
E per dispetto, la processione passò due volte nella strada di don Gesuino, il quale spiava dietro la finestra del primo piano, rodendosi impotente dalla rabbia.


S'AFFUMENTU

Il caso vuole che invece di andare da zia Giuannica, la raccomandata del guaritore, finisca in casa di zia Maddalena - una delle tante che praticano la magia de s'affumentu, del suffumigio.
Arrivo in tempo per assistere a un suffumigio rituale che verrà operato su una bambina di una decina di anni. S'affummentu, il suffumigio terapeutico è diffusissimo per risolvere is azzicchidus, gli spaventi, ma viene usato anche contro il malocchio e le fatture.
Zia Maddalena, vecchia incartapecorita, è ancora sana e vispa. Le attribuiscono una ottantina d'anni. Mi riceve cordialmente, facendomi accomodare nello scanno migliore. La cucina è pulita; il tetto di canne è appena brunito dal fumo che sfugge al camino - dove ora brucia un mucchio di frasche.
S'affumentadora, la terapeuta suffumigatrice siede su uno scanno molto basso, e la bambina su uno più alto di fronte a lei. S'affumentu non può aver luogo - non avrebbe valore il farlo - se non in un locale con due porte. Ciò perché l'ammalato "non esca da dove è entrato", perché uscendo dalla stessa parte da cui è venuto si riprenderebbe il male che aveva.
La vecchia prepara il materiale occorrente: una comune tegola di terra cotta, un mucchietto di brace viva a portata di paletta nel camino, un involto contenente palma consacrata la Domenica delle Palme, incenso, pezzetti di cera e fiori presi dall'altare maggiore dopo una funzione religiosa che li abbia benedetti. Infine, una bottiglietta contenente acqua santa.
Dopo avere spruzzato un po' d'acqua santa sul viso della bambina, s'affumentadora raccoglie le braci e le mette sulla parte concava della tegola. Quindi prende un pizzico della mistura benedetta, tenendolo tra le dita sospeso sulle braci mentre recita sommessa is brebus, le parole rituali. Traccia quindi tre segni di croce sulle braci lasciandovi cadere alla fine la mistura che tiene fra le dita.
Un fumo denso aromatico si sprigiona dalla tegola, che la guaritrice solleva verso il viso della paziente; e questa, immobile e come affascinata, ne viene avvolta. Intanto s'affumentadora recita altri incomprensibili brebus; infine versa dalla bottiglietta acqua santa sulle braci, che si spengono fumigando. Il vapore viene ugualmente insufflato dalla vecchia sul viso della azzicada, della piccola che ha preso uno spavento.
Si rimettono nuove braci sulla tegola e si ripete la stessa operazione per tre volte.
A conclusione, zia Maddalena spruzza ancora acqua santa sul viso e sui capelli della piccola paziente, raccomandandole, mentre se ne va, di uscire dalla porticina che dà sul cortile - dato che è entrata dall'ingresso principale.
Per le sue prestazioni non chiede denaro. Accetta offerte in olio, grano, formaggio.
E' possibile conoscere is brebus rituali?
Il solo chiederli è una sconvenienza. Ma zia Maddalena è tollerante. Sorride - non si capisce bene se per compatimento o lusingata dalla altrui curiosità. Dice: "Lei è istruito e io sono una donna ignorante. Ma lei, anche se studia tutta la vita, queste parole non potrà leggerle in nessun libro."


S'AFFUMENTU
Variante

M.A. una giovane donna madre di tre marmocchi mi accompagna da zia Gina e da zia Efisia che officiano una s'affumentu e l'altra s'aqua abrebada, secondo il rituale maurreddinu, della regione iglesiente. La mia accompagnatrice ha il più piccolo con sintomi di unu azzicchidu, di uno spavento abbastanza gravi: febbre, eruzioni cutanee, specialmente in testa, e sonno agitato.
Entriamo in una casetta rifatta a nuovo, linda e ornata di fiori come è difficile trovarne in questa zona del Campidano di Arborea. Zia Gina - come zia Efisia - è di origine iglesiente, figlia di un vecchio contadino-minatore in pensione.
Zia Gina è vedova, sui cinquant'anni. E' molto aperta al dialogo, quasi espansiva. Racconta dei suoi nove figli, tutti laboriosi e onesti. Il primo - dice con orgoglio - ha cavallo e carretta.
Sa quale uso intendo fare di ciò che vedrò. Affinché possa seguire meglio i particolari della cerimonia mi fa sedere a qualche passo da lei. Praticherà s'affumentu sul marmocchio di tre anni azziccau, che ha preso spavento.
Secondo la guaritrice - che ha osservato attentamente il piccolo, rilevando is pibisias in conca, le pustoline in testa - si tratterebbe di umbra. Umbra, spiega, è uno spavento ricevuto dall'anima di un defunto, anima morta, ed è differente da s'azzicchidu, dallo spavento causato da persone o animali, animas bias, anime vive.
S'affumentu di zia Gina, dell'Iglesiente, è una variante più semplice di quello precedente eseguito da zia Maddalena. Il malato-azzicau viene seduto su una seggiola e ricoperto dalla testa con uno scialle nero. Ai piedi del piccolo, sul pavimento, viene posata la tegola con le braci. La donna officia il rito in piedi. Per tre volte si fa il segno della croce, quindi recita i seguenti brebus:
"Aundi ses ti biu - ovunque sei ti vedo
ca t'happu affumentau, - che ti ho esorcizzato,
non timas, fillu miu, - non temere figlio mio,
a timongia e a lau - con incenso e alloro
a timongia e a cera. - con incenso e cera.
Sa santa Gruxi vera - La santa Croce vera
sa vera santa Gruxi: - la vera santa Croce:
Deus ti dongad luxi - Dio ti doni luce
luxi ti dongad Deus, - luce ti doni Dio,
santu Giuanni, Luca e Matteu. - san Giovanni, Luca e Matteo."
Recita tre volte i versetti mentre lascia cadere sulle braci le erbe aromatiche benedette - quelle che vengono sparse lungo il percorso della processione del Corpus Domini - incenso e cera. Quindi impone le palme delle mani sul capo del piccolo malato, esercitando continue e forti pressioni. Si china allora fino a sfiorare il capo del bimbo con le sue labbra e sullo stesso capo traccia con le labbra tre segni di croce. A conclusione - liberatolo dallo scialle che lo ricopriva - la guaritrice sputa tre volte sui capelli del pupo.
Zia Gina è la prima, e l'ultima, delle tante guaritrici visitate che ha svelato alcuni dei brebus magici.
Quale è il significato, e il potere, di questi magici versetti?
Dice: "Queste sono le parole che Nostra Signora aveva pronunciato quando il Bambino Gesù era scappato per andare nel Tempio, e Lei si era spaventata."


S'AQUA LICORNIA
Variante

Zia Efisia prepara s'aqua abrebada. Così viene chiamata l'acqua resa taumaturgica dai brebus, parole magiche rituali. Equivale a s'aqua licornia del rituale oristanese e a s'aqua medalla del rituale guspinese. Per s'aqua abrebada si usano tre chicchi di grano, anziché nove come nella variante oristanese, e inoltre tre grani di sale.
"No, non si possono svelare is brebus. Li ho appresi con un fiume in mezzo, io da una parte e chi me li ha insegnati dall'altra. L'acqua si è portata via le parole nel mare e nessuno le può conoscere. Non voglio male né a lei né a me: molte disgrazie sono successe per una vana curiosità."
Zia Efisia officia in piedi, col portamento del sacerdote davanti all'altare. E' nubile, sulla quarantina, molto devota. Vive - come si dice - inter domu e cresia, tra casa e chiesa.
Con le mani giunte, le braccia tese, leva alto davanti a sé il bicchiere d'acqua. Il suo gesto è lento misurato. Il suo volto è intenso assorto ieratico.
Sceglie con cura i tre chicchi di grano e traccia con ciascuno rapidi segni di croce prima di immergerli nell'acqua del bicchiere. Singolarmente, prende e tiene i chicchi di grano tra il pollice e l'anulare. Recita is brebus sottovoce, e il suo bisbigliare è intenso - mentre i suoi occhi si socchiudono e tra le ciglia balugina il bianco, e il suo volto appare teso come dolorante… Come con i chicchi di grano, ripete con i grani di sale.
Alla fine del rito, riprende la sua normale sorridente espressione. Fa uno strano effetto la sua voce dopo tanto intenso bisbiglio di brebus, intervallato da lunghe profonde silenziose gestuazioni. L'acqua del bicchiere è ora abrebada, resa taumaturgica. Usata nei dovuti modi guarirà malocchi o spaventi, oghiaduras o azzicchidus, o anche effetti di fatture non molto forti.
Nel caso descritto, un ogu liau, malocchio, che ha colpito una graziosa fanciulla sui sedici anni - forse toccata dal fluido malefico di qualche vecchio caprone jettatore che le provoca continui mal di testa e svenimenti.
Zia Efisia immerge il pollice e l'anulare nell'acqua del bicchiere e tenendoli sempre uniti e bagnati traccia con queste dita il segno di croce sulla fronte, sulla mano destra e sul piede sinistro della fanciulla. Quindi pesca i tre grani di sale, non del tutto sciolti, e glieli pone sulle spalle.
Congedando la fanciulla, le consegna metà dell'acqua affinché la beva; la rimanente la versa nel fuoco del camino. Spiega: "Va messa in luogo dove mai nessuno possa posare i piedi, per evitare che qualcun altro possa raccogliere il danno."


IS BREBEIS OGHIADAS

I pastori risultano particolarmente vulnerabili alle oscure trame di fattucchieri e oghiadoris, iettatori, senza scrupoli.
Il Sinis, la vasta penisola cui fanno capo le economie di base di alcuni paesi dell'Oristanese, fino ai tempi recentissimi, (1950), era utilizzato comunitariamente dai contadini e dai pastori. I quali, secondo una millenaria consuetudine, vi alternavano la coltura di cereali con il maggese per il pascolo. La sola comunità di Cabras (dall'antico toponimo Masoni de cabras, Ovile di capre), negli anni precedenti la seconda carneficina mondiale, contava un patrimonio ovino di circa 35.000 capi, ridotti (al 1950) a 7.000 - senza contare bovini ed equini, del tutto scomparsi. Il depauperamento - che continua verso l'estinzione - del patrimonio zootecnico tradizionale (ovini) è specialmente dovuto al dissennato processo di dissodamento delle terre incolte a mezzo trattori e ruspe, che negli anni tra il 1948-50 si proponeva di favorire i braccianti senza terra, e che invece, qui, ha finito per favorire e impinguare i già ricchi proprietari terrieri, ricacciando i pastori e le loro greggi su sempre più limitate e sterili superfici pascolative. La penisola del Sinis, ormai spoglia a mare della sua naturale vegetazione, è ancora qua e là punteggiata di masonis - termine che può tradursi con gregge ma che ha, qui, il significato più usuale di ovile, in questa zona, estremamente rudimentale: baracca o tettoia di frasche che riparano malamente dalle intemperie pecore e pastori, entro recinti di sterpi spinosi.
Non si può rientrare in paese ogni volta che si ammala una pecora. Le morie sono frequenti: le greggi vivono alla stato brado, soggette a tutte le intemperie, senza controllo sanitario. "L'avessero almeno i cristiani!" - commenta qualcuno. Così il pastore, da sempre, ha dovuto imparare a curare da sé le pecore.
Alcuni malanni che colpiscono le bestie vengono spesso attribuiti ai fattucchieri e a is oghiadoris, agli iettatori. I pastori proteggono il loro bestiame con su pinnadeddu, l'amuleto contro il malocchio, inserito nella correggia del sonaglio o appeso intorno al collo con una fettuccia verde (anche questo colore ha di per sé poteri esorcizzanti). In particolare vengono così protetti i capi selezionati, che si presume siano quelli maggiormente presi di mira da gente invidiosa o comunque malefica.
Indipendentemente da tale precauzione, quando una o più bestie si ammalano si manda di corsa un pastorello in paese. Non dal veterinario, che vive in città e non è facilmente reperibile, e che anche a trovarlo e a convincerlo a venire costerebbe più di quanto non valga la bestia malata; si va dal fattucchiere, che faccia d'urgenza s'aqua licornia. Il fattucchiere ha pertanto il vantaggio sul veterinario di poter curare a distanza e di costare poco o nulla.
L. M. A., pastore quarantenne di Nurachi testimonia:
"Certamente c'è qualcuno che fa quelle cose (oghiaduras e fatturas)… Quest'anno (1960) ho avuto dieci pecore sgravate prima del tempo, una dietro l'altra nello spazio di pochi giorni, e cinque altre mi sono morte in una notte. Certo è ogu, malocchio o fattura. Quando succede noi andiamo da quelli che sanno fare s'aqua licornia, l'acqua taumaturgica, e la spruzziamo addosso alle bestie o la mettiamo nell'abbeveratoio, e quasi sempre ci siamo trovati bene. Agli agnelli specialmente usiamo mettere su pinnadeddu, un pezzo di corno, anche di montone. Con quella roba sono più salvi…"


SA SPIRIDADA

Is ispiridadas, le spiritate, le invasate da spiriti, costituivano una categoria influente, dato anche il loro numero limitato, nella medicina popolare. In questo campo avevano la funzione di svelare le cause di mali oscuri, per lo più causati da fatture, mali che i comuni guaritori non erano riusciti a risolvere.
Ma assai più spesso le consultazioni a is ispiridadas, che possiamo definire di tipo oracolare, avevano lo scopo di conoscere trame esistenziali segrete (amori corrisposti o meno; nascite da tempo attese; esito di viaggi; investimenti patrimoniali) nonché notizie su preziosi persi o rubati o su persone care scomparse e predizioni sul futuro.
La funzione di is ispiridadas in quest'ultimo ruolo ricorda quello di alcune famose sacerdotesse del dio Apollo, quali la Pizia a Delfi e la Sibilla a Cuma.
Pur senza eguagliare la fama degli oracoli greci e romani dell'antichità, operava in tempi moderni, in Sardegna, sa spiridada de Masuddas, divinatrice di Masullas. Ancora qualche decennio fa, i supplici con i loro cestini colmi di ogni ben di dio facevano la fila per sentire l'oracolo. Come è noto, nell'antichità, un sistema di consultazione oracolare era quello della incubazione, consistente nella pratica di stendersi a dormire e attendere la risposta del dio mediante il sogno. Sa spiridada de Masuddas usava rispondere ai postulanti mettendosi a letto a dormire, e nel sonno parlavano per sua bocca gli spiriti che aveva in corpo. Sempre in tempi recenti era nota una spiridada anche nella città di Oristano. A questa fa riferimento la testimonianza che segue.
O. P., contadino, di trentacinque anni:
"Un fatto che mi è accaduto mi ha messo sulla strada di crederci. Mia moglie era malata. Era incinta di quattro mesi. La visita un dottore e non la riconosce. Neanche la levatrice la riconosce. Una vicina di casa, Maria S., un giorno mi aveva detto: "Vai a Oristano dove c'è una donna grassa che ti può aiutare." Io ci sono andato. Ho trovato il posto e mi ha fatto entrare. "Levati il berretto e fatti il segno della croce!" mi ha detto. Io le ho dato la fotografia di mia moglie, senza dirle però che era mia moglie. Lei l'ha presa in mano e ha cominciato a soffiare con la bocca e col naso, con gli occhi chiusi come se le fosse preso un attacco di epilessia. Ci aveva le vene del collo grosse come il pugno, ci aveva… Io mi ero tutto spaventato. Dopo mi ha detto: "Questa donna è malata da molto tempo e sta spendendo un mucchio di soldi inutilmente coi dottori, e nessuno la sa guarire…" Aveva indovinato tutto, aveva. Poi ha detto ancora: "La donna è incinta e farà un parto bellissimo, senza nessun disturbo…e questa è tua moglie." Ho avuto paura sul serio, quando le ho detto di no, che non era mia moglie, perché lei ha gridato forte: "Perché mi dici bugia? questa è tua moglie!…" Questa donna non è ni bruscia ni coga, né fattucchiera né strega, ma una spiridada che fa ancora su spensoriu de sant'Antoni (forse il pendolo di sant'Antonio, cui si ricorre per ritrovare oggetti smarriti - n.d.A.). Non so come fa, esce fuori di conoscenza, tutta bagnata di sudore, soffiando dal naso, e non bisogna parlare, solo se interroga lei. Hat a portai tiaulus in corpus! Porterà diavoli in corpo!"
Oristano, 1961


TESTIMONIANZA I

E. M. laureata, di Oristano.
"Quando sento parlare di fattucchiere, di stregoni mi viene da sorridere. Molte persone si scandalizzano di essere chiamate con tali appellativi, anche se nella loro semplicità compiono azioni che solo fattucchierie si possono chiamare. E poi che male fanno? Suggestionano il malato e questi è convinto che quell'erba o quell'acqua gli hanno fatto del bene. Un mal di capo, una svogliatezza possono non essere un vero e proprio disturbo fisico. E allora? Non c'è forse della poesia in questa primitività?
Di solito sono i bambini che vengono guariti. E chi non ama i bambini e cerca per loro tutti i rimedi?
"Io sono cresciuta in mezzo a questi riti; eccome, ci credevo! Quando la sera, bambina, stanca di giocare rientravo in casa, accanto al caminetto affumicato, nella semioscurità distinguevo il volto triste di mia madre e posandole la testa sul grembo, desiderosa di essere considerata, le dicevo: "Mamma, mi fa male la testa, mi faccia l'acqua bella." Ed ella, senza accarezzarmi, mi rispondeva: "Lascia, figlia mia, domani viene zia Grazia e te la fa lei l'acqua bella e tu guarirai." E io sollevavo la testa ed ero già guarita. Ma non lo dicevo. E il giorno dopo, quando veniva zia Grazia mi lamentavo subito, prima che mia madre se ne dimenticasse.
"Quasi un quarto d'ora durava la preparazione de s'aqua patena, dell'acqua medaglia. Dopo, lei stessa me la metteva sulla fronte, immergendo nel bicchiere l'indice e il pollice, segnandomi con esse delle piccole croci, e poi sul mento, sulle orecchie, sul collo, sulle mani… e mai nessuna carezza mi era parsa più dolce.
"Anche mia madre sapeva fare s'aqua patena, ma non aveva una patena, medaglia, così bella e grande come quella di zia Grazia, e poi le sue dita erano ruvide e mi davano fastidio… ma quella vecchia! oh, come la ricordo…"

Nota. La testimonianza di E. M. è illuminante nella funzione che alcuni riti terapeutici popolari hanno nella risoluzione di traumi e frustrazioni psichici infantili. E' abbastanza chiaro che nella piccola E. M. si è prodotta una depressione psichica dovuta a carenza affettiva da parte della madre e che la stessa piccola ritrova un equilibrio operando il transfert nella vecchia guaritrice.
Che non vi fosse un rapporto affettivo soddisfacente con la madre si rileva chiaramente. Quando la piccola cerca un contatto appoggiando la testa sul grembo della madre, attirando la sua attenzione col pretesto del mal di testa, si sente rifiutata perché non le viene fatta l'acqua bella, né riceve una carezza.
Viene a mente lo psicologo Spitz, il quale, nei suoi studi sull'età evolutiva, sostiene che spesso, quando vi è un rapporto affettivo carente, il bambino attira le attenzioni della madre, provocando certi fenomeni che intuisce o sa che muovono immediatamente la sua preoccupazione - nel nostro caso il mal di testa.
La presenza della guaritrice zia Grazia è risolutrice di depressioni anaclitiche, che a lungo potrebbero sfociare in nevrosi gravi, che vengono evitate col transfert - le dita della madre erano "ruvide e mi davano fastidio" mentre quelle della zia Grazia erano "una carezza come mai nessuna mi era parsa più dolce".


TESTIMONIANZA II

P. D'A., laureato, di Oristano.
"Io ci rido su. Ma ci sono dei fatti che fanno dubitare. A mio suocero, un po' agricoltore e un po' pastore, è accaduto di recente un fatto singolare. Possiede un bel montone, di quelli selezionati. Un giorno, il servo pastore viene ad avvertirlo che il montone si è ammalato. Non si regge in piedi, sembra stia per tirare le cuoia. Non è roba da chiamare dottori - dice il servo - deve essere malocchio, così bello com'è; e bisogna fargli subito s'aqua licornia. A mio suocero piangeva il cuore, per il suo montone. Lui, come me, non ci crede; però ha voluto tentare, dando retta al servo pastore. Bene: ha fatto fare s'aqua licornia, l'hanno spruzzata addosso al montone, che lì per lì si è alzato, guarito, sano più di prima… Come si fa, davanti a fatti come questi, a non dubitare?"


TESTIMONIANZA III

R. S., studentessa, di Santa Giusta.
"Ero stata a trovare una puerpera che si era alzata da poco dal letto. Nell'entrare vidi che le porte e le finestre erano spalancate, e mi affrettai a chiuderle perché la madre e il piccino non prendessero un malanno. Ma una vecchia autoritaria, che trafficava nella stanza, me ne distolse, imponendomi di sedere e di tacere. Ero arrivata mentre si celebrava un rito solenne: su affumentu po sa partoxa, il suffumigio per la puerpera.
La madre, con la piccola creatura in braccio, era in mezzo alla stanza. Per terra vi era una tegola con delle braci vive, su cui bruciavano erbe aromatiche, timo, rosmarino, menta e palma consacrata, miste a sale che scoppiettava e a zucchero. Dal tutto si sprigionava un fumo denso e aromatico, e su questo, per tre volte, la madre fece passare tenendolo fra le braccia il bambino, descrivendo una croce. Poi, per altrettante volte, ella stessa passò scavalcando la tegola fumigante, descrivendo ancora delle croci. Infine, sedette in un angolo, mentre le braci, vivificate dalla corrente d'aria che passava attraverso la porta e le finestre aperte, finivano di consumare le erbe. Non è l'unica volta che ho assistito a questo rito."

Nota. Il rito di s'affumentu, come si è visto, non ha mai valore diagnostico come l'aqua licornia, o abrebada, o patena, ma soltanto terapeutico, risolutore di disturbi non gravi della sfera emotiva (spaventi) o provocati da malocchio o fatture semplici. In questa testimonianza lo ritroviamo in una variante riservata alle puerpere. La tradizione popolare vuole che anche Maria Vergine si sia fatta affumentai, suffumigare, prima di riapparire in pubblico dopo la nascita di Gesù.


TESTIMONIANZA IV

Per fattucchiere si dovrebbe intendere, a rigore di termine, colui che fa le fatture; e per guaritore, colui che disfa le fatture, che ne guarisce gli effetti. La gente usa il termine fattucchiere (cogu, brusciu e anche fattucchieri) tanto per chi fa, quanto per chi disfa le fatture.
In altre parole, nella credenza popolare, colui che possiede il potere di guarire possiede anche quello di ammalare. E' il concetto elementare e profondo del perenne dualismo che è nell'uomo, mai totalmente buono o totalmente cattivo.
La fattura provoca danni più gravi e complessi del malocchio. Il malocchio viene dato da alcuni individui, quasi sempre maschi di una certa età, detti oghiadoris, iettatori. Costoro possiederebbero umbra de coloru, fascino di serpente. La loro azione malefica può esplicarsi anche involontariamente, e di norma, toccando l'oggetto o la persona caduti involontariamente sotto il loro influsso, evitano i possibili danni di s'ogu liau, della iettatura.
La fattura invece è sempre volontaria, e presuppone conoscenza delle arti magiche - oltre, logicamente, il possesso della cosiddetta forza o fluido, come spiegano alcuni.
La fattura può colpire chiunque o qualunque cosa. Si ritiene che i rimedi siano rari; la disgrazia è data quasi come irreparabile. C'è una sola e unica via di salvezza: trovare la fattura e farla sciogliere dalla forza o fluido di un fattucchiere, che nelle arti magiche abbia più conoscenza di chi l'ha fatta.
La fattura si fa con un pupazzetto che rappresenta il soggetto da ammaliare, da colpire per ferire o per uccidere. Con il progresso, il pupazzo viene anche sostituito con una fotografia. Per tale ragione - credo - si è molto gelosi della propria immagine stampata.
Nel maggior numero dei casi sono le donne a essere oggetto di fattura. In primo piano le giovani da marito; vengono poi le vedove e le donne in menopausa. Infine i bambini, anch'essi in larga misura.
Come materia per costruire il pupazzo, si usa su carrucciu de figu morisca, la pala del ficodindia, ritagliata configurando una sagoma umana stilizzata. Oppure, lana o cotone o lino non filati. Il pupazzo che se ne ottiene si trafigge con spini, spilli o chiodi. Nel cuore per ammalare d'amore, nel capo per produrre nevralgie o far uscire di senno, nelle articolazioni per provocare artriti o paralisi, e così via.
Non è facile penetrare nel mondo della fattura. Se i fattucchieri-guaritori sono noti e facilmente avvicinabili, i fattucchieri-ammalatori è assai arduo conoscerli - pur non essendo di numero inferiore ai primi, anzi potrebbero logicamente individuarsi gli uni negli altri. Ciò è ovvio: colui che fa o fa fare la fattura per danneggiare un nemico o per sedurre una fanciulla riottosa o accalappiare una vedova danarosa e sospettosa, non ha nessun interesse a raccontarlo in pubblico. Chi subisce la fattura può avere dei dubbi, ma non saprà mai con certezza per mano di chi è rimasto affatturato.
Oristano, 1962


TESTIMONIANZA V

La signora T., quarantenne, di Riòla, sposata a un agiato commerciante, costretto dal suo lavoro ad assentarsi di frequente, è spesso malata. Ella è convinta che il suo male - che i medici non riescono né a diagnosticare né ad alleviare - sia dovuto a una fattura.
Di recente si è recata nel Nuorese, dove esercitano alcune famose spiridadas, invasate da spiriti, capaci di sciogliere i malefici, oltre che divinare il passato e il futuro. L'esito è stato negativo. Ultimamente ha conosciuto un fattucchiere di Oristano, sul quale la donna ha riposto le sue ultime speranze.
Qualche tempo dopo, la donna, non si sa fino a che punto casualmente, ha trovato nel proprio cortile, malamente ricoperta di terriccio, una fattura: una rozza bambola, con spilli e chiodi conficcati nel capo. Immediatamente, senza toccare la fattura, viene chiamato il fattucchiere oristanese. Costui raccoglie la fattura, la esamina attentamente e a lungo, e dichiara infine che è stata fatta da una forza molto grande, e che per scioglierla sono necessari molto tempo e molti soldi. Egli promette che tenterà con tutta la sua arte. Così, in breve tempo, egli ha ricevuto per prestazioni professionali, oltre trecentomila lire.
Riòla, 1963


S'AFFUMENTAU
IL SUFFUMICATO

In fondo alla cucina, nel tratto tra l'angolo e il focolare, deposto sulla stuoia di falasco, ricoperto di orbace bianconero, Roberto, dodici anni, rabbrividisce di febbre.
Tre giorni fa è venuto il medico. Otto chilometri con il calesse. Piccoletto rubizzo, barbetta, occhiali, borsa e odore di tintura di iodio. Un batter di nocche sulle costole scarne, un pigia pigia nelle viscere, una guardata in fondo alla bocca spalancata. Borbottii e scuoter di capo: probabile tifo. Succo d'arancia e di limone con zucchero e una pastiglia gialla ogni quattro ore.
Zia Elvira, quando le faccende di casa glielo consentono, siede sul pavimento, a lato della stuoia. "Figlio mio, tu stai bruciando!" dice accorata, e allunga una mano al panchetto, prende la tazza dell'acqua zuccherata, solleva il capo del fanciullo. "Bevi, figlio mio. Bevi che ti passa la febbre."
Maria, quindici anni, la più grande della nidiata, seduta vicino alla porta che dà nel cortile, rattoppa calzoni gonne maglie. Ha una pertica accanto, che impugna e agita ogni tanto verso l'uscio per tenere lontano galline e conigli. E ai bambini dice: "Andate via, andate fuori a giocare voi. Andate via, che Roberto ha la bua grande e si attacca anche a voi."
E i fratellini ignari a correre rumorosi in frotta nel cortile assolato, a punzecchiare con una canna il tacchino che gurguglia dispettoso gonfiando la pappagorgia, riaffacciandosi ogni minuto sull'uscio della cucina: "Mamma, ho fame, dammi pane."
"Credete che si trovi a ogni angolo di strada, il pane; benedetti ragazzi! stomaco senza fondo avete. Tieni una fetta, tieni anche tu… Meglio spendere in pane che in medicina… Bevi, Roberto. Come ti senti? Neanche la forza di parlare hai. Bevi, Roberto. Come sei caldo, figlio mio bello!"
All'imbrunire, ziu Efisi rientra dalla campagna con il giogo dei buoi. Depone in silenzio la bisaccia sopra il tavolo. "Ave Maria", saluta, e siede ai piedi di Roberto - senza neppure un sculacciata affettuosa alla turba dei bambini che frugano la bisaccia, per i cardi e le lumache.
"Ci mancava anche questa, Sant' Iddio, ci mancava! con il cielo senza una nuvola e il grano giallo, fiorito prima del tempo."
"Come Dio comanda", dice comare Assunta in visita di dovere, seduta di fronte a zia Elvira, con le mani sul grembo. "E sa mexina 'e s'ogu, fatta fare gliel'avete?"
Ci aveva pensato ieri, zia Elvira. "Malocchio gli hanno fatto, al fiore della mia casa! Gente invidiosa del mio bene, dev'essere stata." E aveva mandato Maria di corsa da zia Cabriolu, la vecchia che possiede medaglie miracolose e conosce is brebus.
Tre chicchi di grano e tre chicchi di sale si immergono nell'acqua limpida del bicchiere. Novantanove segni veloci di croce tracciati con la medaglia di ottone lucente. Infine, is brebus misteriosi compiono il prodigio. Miracolosa è l'acqua conservata nella fiaschetta che Maria stringe al petto sotto lo scialle. "Che il bambino ne beva tre sorsi oggi e tre domani e tre posdomani. Con la restante che gli si segnino la fronte, le labbra, il cuore, e poi la palma delle mani e la pianta dei piedi. Ciò che dovesse avanzare di quest'acqua abrebada la si versi sul fuoco."
Ogni notte, zia Elvira stende un'altra stuoia accanto alla stuoia di Roberto. "No, non ti lascio solo, cuore mio, a bruciare di febbre. Ti tengo la fronte con le mie mani, per farti passare il male. Che passi a te che sei piccolino e venga a me, che ho l'ossa dure io…"
"Nelle mani di Dio siamo. Lui ci ha fatto e noi dobbiamo abbassare la testa sotto il Piede suo," dice comare Giuseppina, anche lei in visita di cortesia, accoccolata curva sotto lo scialle nero. "E sa mexina 'e s'azzicchidu, fatto fare gliel'avete?"
"Eh, sì, qualche foruncolo in testa già ce l'ha. E anche nel collo ne ha. L'ho guardato bene in tutto il corpo. Sì, durante la notte lo vedo scuotersi d'improvviso, spalancare gli occhi e le braccia e anche gridare, lo sento… Qualche spavento grande deve aver preso, il garofano bianco del mio giardino. Dimmi, chi è stato a darti spavento, usignolo della mia primavera? Dimmi, che cosa è stato a darti spavento, vigna della mia tanca?"
Gliel'hanno fatto fare di pomeriggio, s'affumentu contra s'azzichidu.
Le donne hanno avvolto il fanciullo in una coperta e l'hanno seduto su uno scanno a lato del camino acceso, di faccia a zia Cabriolu accoccolata per terra. Ciondola prostrato, il capo di Roberto, e Maria amorevolmente lo sostiene.
"Non timas, fillu miu, / aundi ses ti biu / ca t'happu affumentau; / non timas, fillu miu, / a timongia e a lau, / a timongia e a cera. / Sa Santa Gruxi 'era, / sa vera Santa Gruxi: / Deus ti 'ongat luxi, / luxi ti 'ongat Deus, / santu Giuanni, Luca e Matteu".
Stanno in disparte i bambini, in silenzio, attenti al compiersi del rito, con la fetta del pane sbocconcellata dimenticata nella mano pendula.
Le erbe aromatiche bruciano fumigando sulle braci vive raccolte nella tegola: cera dell'altare maggiore, fiori della santa Patrona, incenso della sacra Arca e palma benedetta della Settimana Santa. Il fumo denso aromatico avvolge il viso lacrimoso di Roberto, si diffonde per tutta la cucina.
"Piangi, figlio mio, piangi. Piangi e tossisci. Che lo spavento grande ti esca dal cervello e dal cuore e se ne ritorni ai diavoli che lo hanno partorito! Piangi e tossisci forte, spiga dorata del mio campo! che lo spavento brutto ti esca dalle viscere e possa tu dormire senza incubi, germoglio della mia terra! Sputa lo spavento nero, che devi crescere e lavorare, figlio mio. Oh, che tu possa vedere mucchi di grano alti come montagne nelle aie d'agosto e greggi tante, spinte dai cani e dai bacoli, da meravigliare Orune!"
Ziu Efisi, ogni notte, cena accanto alla stuoia di Roberto, con la scodella delle fave lesse sulle ginocchia.
Non piove da mesi. Il cielo è sempre terso, di un azzurro sfocato all'orizzonte; le zolle si sono fatte grigie, dure come cenere impietrita.
"Lacrime non ce ne sono più, figlio mio: non ce ne sono per la tua febbre, non ce ne sono per l'arsura del tuo grano. La volontà di Dio sia fatta!"
Mogoro 1945

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