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Indice articoli

CAPITOLO UNDICESIMO

IS FAINAS DE IS FEMINAS
LE ATTIVITÀ DELLE DONNE

Presentazione

Is fainas de is feminas, le attività proprie delle donne, sono numerosissime e qui appresso se ne elencano soltanto alcune, quelle più comuni e più frequenti.
Per antica tradizione, i ruoli dell’uomo e della donna, anche nel settore del lavoro, sono rigidamente divisi. Se all’uomo, aiutato dai figli maschi che crescono, è affidato il lavoro produttivo, nell’agricoltura, nella pastorizia, nell’artigianato, in quei settori che vanno sotto il nome di terziario e nel pubblico impiego, alla donna è affidato il compito dell’allevamento della prole, il lavoro di manutenzione della casa, esclusa la muratura pesante ossia l’edificazione, ma spesso la vediamo fare il manovale a impastar calce e sabbia, la conservazione e il buon uso del corredo, biancheria, vestiario, suppellettili e quant’altro arreda la casa, mobili, sedie, stuoie, tappeti.
Pur chiusa nel suo piccolo mondo domestico, la donna dei nostri villaggi, ha una infinità di compiti quotidiani da svolgere. In questi, per la verità, coadiuvata dalle figlie, le quali man mano che crescono sostituiscono sempre più la loro madre, alleviandone almeno in parte il sacrificio. Sollievo che la donna-madre riceve per un tempo troppo breve, in quanto le figlie si sposano giovanissime e dovranno badare alla loro nuova famiglia, in una nuova casa.
Is fainas de sa meri de domu, meri e sclava in paris, i lavori della padrona di casa, padrona e schiava insieme, di “ordinaria e quotidiana routine” sono:

- La cura dei piccoli che bisogna lavare, vestire, nutrire e badare tutto il giorno che giochino in pace, non si facciano male, e non scappino per strada (almeno finché non hanno compiuto i sei anni, che coincide con l’età scolare).
- Pulizia e riordino quotidiano della casa, rifare i letti dopo aver fatto prendere aria a lenzuola e coperte, nonché alle camere; scopare e lavare i pavimenti, non sempre pianellati ma spesso ruvidi di cemento o di mattoni.
- Dar da mangiare e da bere e curare gli animali da cortile e i loro alloggi; ritirare le uova o assistere la chioccia nei periodi di covata e in specie quando nascono i pulcini, tenendoli separati e protetti e alimentandoli con granaglie sminuzzate, almeno per un primo periodo.
- Curare, zappare e innaffiare l’orticello di famiglia, di solito disposto dietro la casa di abitazione, da cui la famiglia ricava le verdure (insalate, indivia, ravanelli, cicoria, lattuga) e i condimenti per il mangiare (aglio, prezzemolo, cipolle in specie).
- Pulire e portare settimanalmente il grano alla macina, poi fai sa farra, burattare la farina, fai su pani, panificare, impastare e lavorare la pasta, lasciarla fermentare, appezzarla e cuocerla al forno.
- Preparare la lana, filare, tessere.
- Lavare stirare rammendare i panni in genere, la biancheria e il vestiario della famiglia.
- Lavorare a maglia, tagliare e cucire abitini per i bambini, spesso tagliare e cucire la biancheria del marito, mutande e camicie,


SA MAISTA DE PARTUS
LA LEVATRICE

«Nel mio paese, quando ero giovane, non tutte le future madri ricorrevano alla levatrice patentata, poiché bisognava pagarla regolarmente in denaro, ma si accontentavano dell’anziana vicina di casa nota per la sua bravura nell’assistere le partorienti. Questa donna, il cui mestiere era fondato sul proverbio: «Balit prus sa pratiga chi sa grammatica», «Val più la pratica della grammatica», per la comunità era una maista de partus, una ostetrica.
Nelle famiglie benestanti, e anche in quelle più modeste, per il primo figlio almeno, per paura di eventuali complicazioni, veniva chiamata la levatrice comunale. La futura madre si faceva visitare nell’ultimo periodo della gravidanza e la levatrice si segnava la data approssimativa della nascita.
Quando era il momento veniva chiamata. Controllava se tutto era regolare e faceva preparare il necessario: acqua calda, panni e vestiario. Se le doglie erano regolari e frequenti, mancava poco tempo e allora si tratteneva, altrimenti andava via e tornava dopo un paio d’ore. Poteva anche accadere che nel frattempo ricevesse un’altra chiamata e allora doveva correre dalla donna meno urgente a quella più prossima a partorire.
Quando il bambino stava per nascere, guidava la partoriente; una volta nato provvedeva veloce alla pulizia della donna e poi a quella del neonato. Tornava ogni mattina per fare il bagno al bambino e le pulizie alla puerpera, che di regola doveva stare a letto almeno tre giorni.
Quando la madre era già alzata, il compito de sa maista de partu, della levatrice, era finito e tornava solo il giorno del Battesimo, per accompagnare la madre po s’incresiu, per compiere il rito della purificazione».171


SA MAISTA DE TALLU
LA SARTA

«Nel mio paese, che si trova nella Marmilla, non molto distante da Sanluri, il mestiere de sa maista de tallu, della sarta, era distinto e anche abbastanza redditizio, seppure le donne già da piccole cercassero di imparare l’arte del cucito, almeno per le necessità loro e della famiglia, per risparmiare un po’ di soldi, che erano sempre pochi.
Sa maista de tallu aveva sempre molto lavoro e se un abito serviva per una data precisa bisognava prenotarsi in tempo utile.
Quando la cliente portava la stoffa, le faceva scegliere il modello che desiderava, dandole anche dei suggerimenti, poi le prendeva le misure (altezza - seno - vita - fianchi), annotandole sul suo quaderno, se era una nuova cliente. Con le misure, preparava il modello su carta e poi tagliava.
Se l’abito commissionato non era importante (da indossare per la festa del Patrono o per una cerimonia solenne), sa maista de tallu affidava l’incarico a sa prima scienti, all’apprendista più brava, spiegandole come dovesse cucire. Se invece era, per esempio, un abito da sposa, oltre naturalmente a tagliare, preparava lei stessa la prima imbastitura.
La cliente veniva per la prima misura. Se l’abito le andava giusto la cliente non doveva più tornare; ma se c’erano difetti, dovuti per lo più a imperfezioni fisiche, bisognava misurarlo anche due volte.
A questo punto sa maista de tallu, la sarta, poteva cucirlo a macchina e poi tutte le rifiniture venivano fatte, sempre sotto la sua sorveglianza, dalle apprendiste. Se era un tessuto delicato erano le più brave a doversene occupare».172


SA SCIENTI DE SA MAISTA DE TALLU
L’APPRENDISTA DELLA SARTA

Alcune maistas de tallu, sarte, note per la loro bravura nel confezionare abiti da sposa e da cerimonia chiedevano una ricompensa per assumere un’apprendista, che avrebbe imparato bene il mestiere, considerando la perdita di tempo per insegnarle le tecniche (non per niente le chiamavano “maestre”). Altre, invece, più alla mano, le assumevano gratis.
Mia madre, essendo povera (ma anche parsimoniosa!), mi accompagnò, finite le scuole elementari, dalla signora Anita, che non voleva ricompense, perché imparassi almeno a cucire le camicie per gli uomini di casa e le mie bluse; per le gonne provvedeva mia madre stessa.
Sa maista de tallu ci accolse con benevolenza mentre io, rossa come un peperone, mi sentivo osservata dalle altre apprendiste che ammiccavano tra loro con risatine soffocate, forse a causa del mio vestiario antiquato, per non dire malandato.
Imparai presto a capire soprattutto le regole della sartoria: l’ultima arrivata doveva lavorare sotto la guida della penultima, che a sua volta prendeva ordini dall’apprendista più anziana, alla quale sa maista de tallu spiegava il modo di cucire questo o quell’abito secondo il modello scelto dalla cliente.
La stanza adibita a sartoria aveva una finestra che dava sulla strada, e due erano i posti privilegiati e intoccabili: quelli vicini alla finestra da cui si vedeva e si sentiva ciò che accadeva fuori, per strada. Uno dei due posti, con una sedia un po’ alta, era riservato alla capo apprendista, l’altro apparteneva alla seconda in ordine di anzianità di lavoro; soltanto se una di queste due era assente, il posto poteva essere occupato da qualche altra. Ma avendo buone orecchie, dal resoconto delle privilegiate che stavano vicino alla finestra e potevano osservare e commentare, tutte potevano sapere chi stesse passando e come fosse vestita: nessuna si scampava la critica feroce!
Io imparai non solo a cucire, ma anche a vestirmi, sia pure modestamente, senza provocare l’ilarità delle colleghe. Imparai a scegliere il filo e i bottoni quando venivo mandata alla merceria e, qualche volta, potei osservare la cliente che misurava l’abito ed aiutare la sarta ad appuntare gli spilli.
Ma il privilegio più grande era quello di poter accompagnare la capo apprendista a consegnare l’abito finito alla cliente, anche perché ci scappavano is strinas, una piccola mancia.173


ANDAI A PORTAI AQUA
ANDARE AD ATTINGERE L’ACQUA

«Quand’ero bambina nessuno nel mio paese aveva l’acqua in casa, ma ognuno provvedeva attingendola dalla più vicina fontana pubblica. Il mio rione, composto da una trentina di famiglie, era privo di rete idrica. Una sola famiglia possedeva un pozzo, sa funtana, situato nel cortile anteriore. Era grande, tutto pavimentato con ciottoli della stessa misura. Quasi al centro, vi era il pozzo circolare, con il parapetto in granito, sormontato da un robusto semicerchio di ferro battuto, da cui pendeva la carrucola. Nella carrucola scorreva una fune bella robusta alla cui estremità era legato un secchio di ferro zincato, sa carcida, che portava agganciato col filo di ferro, al lato del manico, un grosso ferro di cavallo, di modo che il secchio non restasse a galla una volta toccata l’acqua, ma si rovesciasse lasciandola penetrare, riempendosi.
Tirato su il secchio, sa carcida, veniva vuotato nel recipiente, mariga o decalitru, brocca o decalitro, fino a riempirlo.
Andavamo ad attingere l’acqua seguendo un certo ordine, dando a tutti il tempo di fare la provvista quotidiana necessaria - e nessuno sprecava l’acqua: sarebbe stato oltretutto uno sgarbo alla cortese padrona del pozzo. L’ordine con cui ci si avvicendava era dato dalle abitudini proprie o di ciascuna famiglia. C’era zia Adele, molto mattiniera, che si recava al pozzo appena dopo l’alba. Zia Felicina, invece, molto religiosa, andava in chiesa di mattina presto a sentir messa e poi, assieme a Marietta, la domestica degli Scanu, attingeva l’acqua a mezza mattina. Zia Felicina, che aveva avuto modo di sentire il “gazzettino” di casa Scanu, poteva ragguagliare le portatrici d’acqua delle ultime notizie di cronaca paesana.
Noi ragazzine avevamo i turni più scomodi: riempivamo nei ritagli di tempo. Quando le donne si accorgevano che c’era qualcuna di noi, dovevano necessariamente interrompere le loro chiacchiere per non farci sentire e, allora, ci aiutavano a riempire il nostro recipiente, di solito un secchio o un decalitro, per farci sloggiare al più presto.
Quest’acqua di pozzo, pur essendo indispensabile, non andava bene per tutti gli usi. Era si potabile, ma non veniva usata né per bere né per cucinare. Ed essendo molto calcarea, non andava bene nemmeno per lavare i piatti o la biancheria, perché non scioglieva il sapone. Serviva principalmente per pulire i pavimenti, innaffiare i fiori e l’orticello di casa e per dissetare gli animali domestici, da cortile.
Per lavare i panni, invece, si andava ad attingere l’acqua a su grifoni, alla fontanella pubblica, situato grosso modo al centro di due o tre rioni. Quest’acqua la si usava anche per bere.
Andavamo anche noi ragazzine, però accompagnate da qualcuna più grande della nostra famiglia o del vicinato: primo perché ci si allontanava un bel po’ da casa; secondo perché non era raro che scoppiassero delle liti tra le portatrici d’acqua. Per quest’acqua si usavano quasi sempre i decalitri e le brocche.
La cosa più bella per noi piccole era l’andare a sa mizza, la sorgente, dove prendevamo la migliore acqua da bere. Solitamente, nel mio paese, vi si andava dopo cena, totus a una cambarada in combriccola, come quando si va a una festa, cantando e scherzando. Le grandi riuscivano a portare anche tre brocche d’acqua: una in testa, posata sopra su tedili, il cercine; una al fianco, tenuta dal braccio che passa intorno alla brocca infilandosi in un manico; e, la terza, appesa all’altra mano. La brocca sopra la testa restava in equilibrio e la bravura delle portatrici d’acqua stava nell’andatura, che era veloce e aggraziata, accompagnata da canti e scherzi e da un procace sommovimento delle anche. Come già mi pare di aver detto, erano soltanto le donne, grandi e piccole, e soltanto loro, che andavano ad attingere l’acqua. Raramente si vedeva qualche bambino, ma soltanto nelle famiglie dove non c’erano figlie femmine. Uomini mai. In caso di impedimento grave, come una malattia o un parto, ci pensavano le vicine, oppure s’accostanti, una sorta di domestica che veniva a casa a ore per aiutare a sbrigare il daffare.
La brocca è stata uno dei primi regali che ho ricevuto, piccola come me, che avevo si e no sei anni. E tutti gli anni facevo in tempo a romperne tre o quattro, un po’ per distrazione, un po’ per presunzione, cercando di imitare le donne grandi che portavano la brocca sulla testa con su tedili, il cercine, senza tenerla con le mani, camminando con fare spavaldo, ancheggiando. E non appena avevo la brocca nuova e tornavo ad attingere l’acqua, il mio pensiero, sempre lo stesso, diventava un sogno ad occhi aperti: “Ah, se fosse possibile, come sarebbe bello che le strade fossero soffici soffici, in modo che la brocca, cadendo a terra, non si rompesse”».174


SA SCIAQUADRIXI
LA LAVANDAIA

Sciaquadrixi, lavandaia, a rigore di termine è qualunque donna che lava i panni sporchi per sé, per la propria famiglia, ma più precisamente sa sciaquadrixi, la lavandaia, è colei che fa questo lavoro per conto terzi, a pagamento.
Una delle attività domestiche di maggior impegno, che la donna doveva periodicamente affrontare, era la pulizia della roba, in particolare della biancheria d’uso comune: camicie, mutande, sottovesti, gonne, lenzuola, federe, asciugamani, tovaglie e tovaglioli. Tale compito, su sciaquai sa roba, era riservato alle donne, in particolare alle giovani, trattandosi di lavoro pesante.
Se si considera che fino agli anni successivi alla seconda carneficina mondiale, nella maggior parte delle case, non esisteva l’acqua corrente, e che in molti paesi non c’era neppure l’acquedotto e si attingeva l’acqua dai pozzi, può comprendersi come la questione della lavatura dei panni fosse un grosso problema.
In paesi nelle cui campagne scorrevano fiumi o torrenti, almeno per le stagioni piovose il problema era risolto. Una o più volte alla settimana, in gruppo per farsi compagnia e aiutarsi vicendevolmente, is isciaquadrixis, le lavandaie, con bacinelle di ferro zincato sulla testa si recavano al fiume per lavare i panni sporchi. Al fiume si lavava su sassi larghi levigati, mentre chi aveva la fortuna di avere un pozzo o di poter trasportare l’acqua dalla fontanella pubblica con i decalitri, in cortile, possedeva una vasca di cemento, fornita di un piano ondulato, per insaponare e strigliare i panni più ruvidi. Per i capi più delicati si usava sovrapporvi una tavola di legno che, talvolta, veniva usata anche nei lavatoi pubblici, nelle cui vasche la base era in cemento. Superata la tradizionale liscivia, con la cenere setacciata e aromatizzata, subentra il sapone di Marsiglia, il detersivo maggiormente usato in quegli anni. Si trattava di un sapone a panetti, duro, sodico, perfettamente bianco, prodotto soltanto con olio d’oliva e con la soda caustica tra gli ingredienti di base.
Per ovviare questo stato di disagio, nei paesi dove già c’era l’acquedotto o stava per essere impiantato, negli anni dell’Era fascista, vennero costruiti dei lavatoi pubblici (is isciaquadroxus o, italianizzando, is lavatorius). Per lo più, la struttura interna, coperta, illuminata e areata, consisteva in una serie di vasche comunicanti, dove l’acqua scorreva continua dall’una all’altra. Questo servizio fu assai apprezzato dalle donne delle nostre comunità, poiché risparmiavano così tempo e fatica.
Di questi edifici pochissimi si sono salvati dalla mania distruttrice che ha pervaso l’Italia dopo la caduta del fascismo. Da segnalare a loro onore gli amministratori del comune di Riola, i quali hanno conservato il loro antico sciaquadroxu pubblico, adattandolo a biblioteca comunale.


SA LISSIERA
COLEI CHE FA IL BUCATO A PAGAMENTO

Sa lissiera, colei che faceva il bucato con la liscivia, era in pratica una lavandaia a pagamento che prestava la sua opera in casa altrui, specie di scapoli che non erano capaci di tenere pulita e in ordine la propria biancheria.
Già da tempi remoti, per pulire e disinfettare i panni o le stoviglie, si usava sa lissia, la liscivia o ranno. Per ottenerla si setacciava la brace del forno o del camino con su ciuliru de ferru, il crivello di ferro. La cenere ripulita dalle impurità veniva messa a bollire nell’acqua dentro un catino e successivamente versata sopra i panni appena lavati con il sapone. Per separare il liquido dalla cenere, sopra i panni veniva steso un sacco di juta, in modo tale da evitare che i panni stessi venissero macchiati dalla cenere. Il tutto veniva lasciato così per qualche tempo; quindi i panni venivano risciacquati con l’acqua corrente del ruscello e stesi. Risultato: panni bianchissimi e profumatissimi.
L’uso della lissia, liscivia, cade sempre più in disuso, non come crede taluno per la diffusione del sapone, di cui era invece complementare nella periodica lavatura e disinfezione della biancheria, ma per l’introduzione di detersivi chimici liquidi che hanno invaso il mercato inquinando tutto il mondo.
Il sapone di Marsiglia175 - famoso anche quello di Genova - ha origine alla fine del 1600 ed è un detersivo solido, prodotto con l’olio di oliva e con la soda caustica, che è uno tra gli ingredienti di base.
Vi sono donne che sostengono che sa lissia, la liscivia, fosse un ottimo shampoo e che, periodicamente, ci si lavava i capelli con l’acqua e la cenere, cui si aggiungevano, nella ebollizione, erbe aromatiche quali su spigu e is iscovas de Santa Maria, la lavanda e il timo. I capelli lavati con questa speciale lissia diventavano lucenti, vaporosi e docili al pettine.

Sempre in relazione a questa lissia, si cita la preparazione di un’acqua prodigiosa che le donne, giovani e meno giovani, usavano per ammorbidire la pelle del viso e abbellirlo. Tale “acqua di bellezza” veniva preparata la notte di San Giovanni: si versava dell’acqua di fonte in un lavamano e si aggiungevano petali di rosa e di altri fiori, foglie di menta e di limoncella e ramoscelli di essenze aromatiche; il tutto veniva lasciato in cortile a su serenu, all’addiaccio, e ci si lavava il viso la mattina seguente a chizzi, di buon’ora.

Vi sono poi sa lissia po s’axina de fai a pabassa, la liscivia per l’uva da fare passita, che si otteneva immergendo appunto il grappolo in una soluzione calda di acqua e cenere; e sa lissia buddendi po indurciri s’olia birdi, troppu marigosa, e la liscivia bollente dentro cui si immergono le olive verdi, amare, per addolcirle velocemente, prima di metterle in salamoia.


SA DIDA
LA BALIA, LA GOVERNANTE

Sa dida, la balia, era una presenza necessaria nel caso in cui la madre naturale del neonato non avesse latte o per qualunque motivo non potesse allattare. In altri casi, sa dida, presso rare famiglie di signori benestanti, sostituiva la madre naturale nell’allattamento del piccolo. In tutti i casi, sa dida, balia o nutrice, era considerata madre acquisita e di questa conservava alcuni privilegi, anche quando il suo “figlio di latte” era cresciuto ed era diventato adulto. Vi erano didas di umile estrazione sociale, che si onoravano e traevano vanto dall’essere state le nutrici di un uomo nobile e ricco - del quale ricevevano spesso benevolenze.
Annota il Porru, nel suo Dizionariu, con la solita diligenza: “Su maridu de sa dida, balio. Donai a dida unu pippiu, dare a balia un bambino. Paga chi si donat a sa dida, baliatico.”
Il baliatico, ossia il salario per le prestazioni della nutrice, è detto in lingua sarda su didaticu.


SA ZARACA
LA SERVA

Le ragazze che approdavano in città de is biddas, dai paesi, per fare le domestiche erano considerate privilegiate sotto il profilo economico e sociale. Il loro tenore di vita migliorava notevolmente: prelevate dal loro stato di miseria, portate nelle famiglie borghesi delle città, vestite con la roba smessa dei padroni e sfamate tre volte al giorno con pasti sostanziosi. Di denaro, sa zaraca, la domestica, ne vedeva ben poco: il salario mensile veniva conservato per i genitori della ragazza, i quali o venivano a ritirarlo loro stessi ogni mese, oppure lo ricevevano in paese quando la figlia andava a trovarli. Sa zaraca aveva diritto a trattenersi per sé soltanto is strinas, le mance, che poteva spendere a proprio piacimento.
L’andare a servire consentiva inoltre alle fanciulle di farsi il corredo non soltanto con i salari che ritirava la madre ma anche con i regali della padrona. E’ da notare che ancora a quei tempi, negli anni precedenti la seconda guerra mondiale, le fanciulle si sposavano molto presto, dai sedici ai vent’anni, con uomini talvolta molto più anziani che però avevano una casa di proprietà e il mestiere avviato. La padrona, a ogni cambio di stagione, con l’arrivo del freddo o del caldo, rinnovando il guardaroba, metteva da parte la biancheria, le scarpe e gli abiti smessi, che di solito venivano dati alle famiglie delle domestiche. Is zaracas, secondo l’uso di allora, venivano vestite dalla padrona, la quale, di solito, sostituiva il costume sardo (il cui uso era consentito soltanto la domenica e nei giorni di festa) con uno più semplice e più adatto alle attività domestiche, costituito di una sottoveste, una gonna e una blusa, più o meno pesanti a seconda della stagione. In casa, era anche d’uso indossare su tale vestito il grembiule bianco con pettina, bretelle, e crestina.


SA SERBIDORA
LA DOMESTICA

«Per la festa di Santa Maria, il 15 agosto, come si usava in paese, avevo preso l’accordo di andare a servire per tutto l’anno in casa di zia Peppanna.
Le amiche sincere mi avevano detto che mi aspettava un compito arduo; le meno sincere sghignazzavano, perché la precedente domestica era stata cacciata via perché era incinta. Zia Peppanna era vedova e aveva tre figli bagadius, scapoli, e in più due giorronaderis, giornalieri, che lavoravano in campagna, ma di notte dormivano in casa.
Parlando con la padrona, che mi mostrava tutte le difficoltà, assicurai che ce l’avrei fatta.
Mi mostrai da subito volenterosa e rispettosa con la padrona e con s’accostanti, la governante, che aveva più grinta e potere della stessa padrona nelle decisioni e nei programmi di lavoro, e così fui presa in simpatia.
Dall’alba al tramonto c’era da fare: scopare il cortile, dare da mangiare alle galline e al maiale, ritirare le stuoie dalla cucina dove dormivano i servitori, rifare i letti de is merixeddus, i padroncini, (finché erano scapoli, anche se quarantenni, venivano chiamati così), e poi aiutare s’accostanti che veniva quasi tutti i giorni a fai sa farra, a preparare la farina per fare il pane; dovevo farle trovare pronti i canestri e i setacci, e setacciare con lei, salvo interrompere se la padrona mi doveva mandare per le commissioni.
Quando, invece, c’era da fare il bucato, all’alba, dovevo accendere il fuoco sotto su craddaxu, il grande recipiente in rame, riempire le bacinelle enormi con l’acqua del pozzo e mettere a bagno la biancheria separata da sa roba de cabori, la roba colorata.
Eravamo fortunate ad avere il pozzo in casa, altrimenti saremmo dovute andare al fiume, come facevano la maggior parte delle altre.
Quando giungeva s’accostanti, la governante, dovevo lavare la roba insieme a lei, interrompendomi ogni tanto per attizzare il fuoco, preparare la cenere che andava colata e chiusa dentro un tovagliolo prima di immergerla e scioglierla in un craddaxu.
Messa la biancheria nella lisciva, s’accostanti andava via, e io dovevo sciacquare i capi colorati e stenderli, poi preparare l’acqua per la biancheria che doveva stare a mollo un paio d’ore. Nel frattempo aiutavo la padrona a cucinare e a riordinare.
Il giorno che si preparava il pane, fin dal pomeriggio, dovevo poni su frumentu, impastare il lievito con la farina, e preparare la pentola dell’acqua calda. Con s’accostanti lavoravo la pasta e, siccome pane ne serviva molto, questa era abbondante e occorreva tutta la notte po dda ciuergiri, per gramolarla, e po dda spongiai, per impastarla, lavorando in sa scivedda, nella conca. La mattina, mentre il pane lievitava, dovevo preparare le fascine di legna per il forno, allui su forru, accenderlo, e scaldarlo al punto giusto, sotto il controllo della padrona. Una volta cotto il pane occorreva tutta la serata per rimettere a posto i recipienti e ripulire su stanti de su forru, il locale del forno.
Ordinariamente la sera aiutavo la padrona a preparare la cena per quando tornavano gli uomini dalla campagna, poi riordinavo in modo che is giorronaderis, i braccianti, potessero stendere le stuoie in cucina per dormire, e finalmente potevo ritirarmi nella mia stanzetta, nel solaio, chiudendo bene la porta a chiave.
E così, da un giorno all’altro, passò l’anno senza che venissi molestata e rinnovai l’accordo per un altro anno ancora.
I padroncini e i domestici mi avevano appioppato il soprannome di murru mannu, musona, perché sembravo sempre immusonita, ma era questo un mio comportamento difensivo per tenere lontani i maschi di casa ed evitare certi guai».176


S’ACCOSTANTI
LA DONNA D’AIUTO

E’ intraducibile. Veniva chiamata così una donna, per lo più del vicinato, che si prestava ad aiutare una famiglia in caso di necessità, in cambio di denaro e più spesso di generi alimentari o di vestiario.
S’accostanti era di solito una vedova ancora giovane e valida, oppure una zitella, che si prestava a giornata, dando il suo contributo di lavoro presso una famiglia del vicinato, sia per la pulizia della casa o per sa lissia, il bucato pesante (lenzuola, tovaglie e biancheria in genere), o il periodico rifacimento dei materassi con la carminatura della lana o del crine della imbottitura e, infine, per fare il pane - caso abbastanza frequente.
S’accostanti era una donna di fiducia, grande lavoratrice, che in pratica dirigeva i lavori di casa, nel giorno in cui veniva chiamata a prestare la sua opera.


SA MATALAFERA
LA MATERASSAIA

«Matalafu è il materasso e matalafera è colei che fa i materassi nuovi o che rinnova i vecchi.
Nei paesi dell’interno i materassi nuovi venivano fabbricati in casa sotto la direzione de sa matalafera, della materassaia, così pure, periodicamente, i vecchi materassi venivano rinnovati.
Diversamente nella città, su matalaferi, il materassaio, era un artigiano che aveva una propria bottega in cui si fabbricavano i materassi, dove si portavano i materassi usati da rinnovare. Nella città, la bottega de su matalaferi era riconoscibile da alcuni segni distintivi appesi al riquadro della porta: un materassino in miniatura e più frequentemente una treccia di crine di palma.
Prima della rivoluzione industriale, che ha invaso il mercato di sottoprodotti del petrolio, i materassi che addolcivano le reti metalliche o le doghe dei nostri letti erano confezionati con prodotti naturali. Senza parlare dei sacconi riempiti di paglia o delle stojas de spadua, stuoie di falasco, diremo che i tipi di matalafu erano principalmente tre. Per dirla con il Porru: «Su matalafu plenu de crinu; su matalafu plenu de lana; su matalafu plenu de pinna», cioè materasso di crine, di lana, di piume. Quest’ultimo più che materasso poteva chiamarsi piumone o coltrice.
Ancora negli Anni ‘50 erano in uso i materassi di crine e di lana. Si usavano o gli uni o gli altri secondo la zona, nel senso di Campidani o Barbagie, e anche in base al ceto sociale ed economico. Fossero di crine o di lana, i materassi dovevano essere periodicamente vuotati e rinnovati sia per l’usura che per l’igiene.
La padrona di casa predisponeva il lavoro per tempo, in quanto l’operazione occupava alcuni giorni e impegnava diverse persone. Era un lavoro comunque riservato alle donne.
Se il materasso era riempito di lana, questa veniva tolta dalla fodera, lavata, fatta asciugare e carminata. Le parti di lana molto sporche o rovinate venivano eliminate e rimpiazzate con l’aggiunta di lana nuova, acquistata per tempo dai pastori o dai commercianti di quel prodotto. Dopo di che si riempiva nuovamente la fodera e si rimodellava il materasso.
Il crine che un tempo si utilizzava in grandi quantità come riempitivo dei materassi, si otteneva dalle fibre delle foglie della palma nana. Fino a tempi recenti era in funzione a Torre Grande di Oristano una fabbrica di crine, data la notevole presenza di palme nane lungo la vicina Penisola del Sinis. Il crine intrecciato in grandi matasse veniva venduto nelle drogherie o in altre apposite botteghe.
Il crine era certamente il riempitivo più fresco e igienicamente il più salubre, ma poiché soggetto a maggiore usura, necessitava di essere rinnovato spesso, se non altro perché si infeltriva e presto diventava duro, soprattutto se il letto, anziché la rete metallica, aveva le tavole.
La padrona di casa chiamava sa matalafera, la donna esperta in materassi, che si intendeva della quantità di crine da sostituire, della carminatura, della rimodellatura del materasso e, inoltre, possedeva is ainas, i ferri del mestiere: diversi aghi, differenti l’un l’altro a seconda del loro uso, per fare i cordoni laterali e per la cucitura degli stessi, per la trapuntatura del corpo del materasso, e così via.
Se la padrona di casa disponeva di un locale, tettoia o altro nel cortile, era preferibile fare il lavoro lì fuori, per evitare che la polvere e il pulviscolo del crine invadessero la casa d’abitazione, provocando irritazioni alle vie respiratorie. Altrimenti si faceva il lavoro in una camera che veniva vuotata per l’occorrenza.
Il materasso veniva messo sopra un tavolo, scucito e sventrato. Dopo di che si procedeva alla lavatura della fodera. Eventuali parti logore o bucate venivano rinforzate con delle toppe; oppure la fodera veniva sostituita interamente.
Il crine, eliminate le parti sporche o sbriciolate, veniva carminato. Le donne si coprivano con vestaglie che proteggevano completamente il loro corpo. In testa mettevano un fazzoletto per riparare i capelli e con le cocche coprivano anche la bocca e il naso per evitare di respirare il pulviscolo. Una buona parte del crine andava persa anche con la carminatura, perché si sbriciolava e veniva quindi sostituita con altro nuovo.
Finita l’operazione della carminatura, si procedeva al rifacimento del materasso. Era questo il momento più importante nel lavoro de sa matalafera. La sua bravura consisteva nella capacità di riempire questo grande sacco nella giusta quantità e in modo uniforme, dandogli la forma non del pallone ma del parallelepipedo, pur mantenendo il tutto soffice. Era compito suo riempire e compito delle altre donne porgerle il crine. Poi il materasso veniva chiuso, lasciando aperto solo un tratto in un lato piccolo.
Iniziava allora l’operazione per fare i corduli laterali lungo tutto il perimetro, uno per ognuna delle due facce, superiore e inferiore. Questo lavoro si faceva con l’ago uncinato per prendere assieme al tessuto una certa quantità di crine e con l’ago grosso, di media lunghezza, per cucire il cordulo.
Ultimata quest’altra fase, si procedeva a trapuntare il corpo centrale del materasso. Questo era necessario per formare un piano perfettamente orizzontale. Per fermare il punto si usavano dei rettangolini di robusto tessuto di cotone, e con un ago detto de matalafu, lungo circa 25 centimetri, si trapassava il sacco da parte a parte con uno spago che veniva teso e annodato nel rettangolino di stoffa, uno per parte. Di questi punti se ne mettevano almeno tre file per tutta la lunghezza del materasso, ottenendo così la trapunta».177


SA LUDAIA
COLEI CHE RIPARA INTONACHI E PAVIMENTI

Ludaia178 era colei che impastava una sorta di malta composta di argilla e paglia, e in taluni paesi anche sterco di bue, per intonacare i muri e fare i pavimenti. Con il tempo tutte le donne contadine apprendevano s’arti de sa ludaia, e se non diventavano abbastanza brave da lavorare in proprio accudivano almeno ad aiutare sa ludaia che prestava la sua opera.
Ogni anno, per Pasqua, durante la Settimana Santa, detta in sardo “sa cida de iscudi”, (lett. “la settimana dello scuotere”, cioè dello spolverare, del pulire) is ludaias restauravano muri e pavimenti interni della casa, in particolare della cucina. Tra queste donne ve ne erano di abilissime nell’attività di rinnovamento della casa.
Nel vicino loggiato, al coperto ma all’aria aperta, is ludaias preparavano l’impasto della malta necessaria alla loro opera. Cun sa terra angiana, con la terra argillosa, mischiata allo sterco del bue, in alcuni paesi o con la sola paglia in altri, provvedevano a rifare gli intonachi dei muri che durante l’anno, per l’usura o la cattiva manutenzione, si erano scrostati e talvolta perfino sbrecciati.
Una volta asciutti - si provvedeva in quel giorno a lasciare aperte porte e finestre in modo da “far corrente d’aria” - le stesse donne preparata la tinta nei secchi, davano il colore ai muri. Usavano per lo più il bianco che si otteneva con il latte di calce, e is terras per i colori: terra arrubia, terra groga, il rosso, il giallo, o diverse gradazioni di azuletu, di azzurrite, dal celestino chiaro all’indaco. Con sa terra arrubia, si ottenevano diverse gradazioni, dal rosa pallido al rosso mattone; con sa terra groga, i gialli dal limone all’ocra, dal tenue al forte. Dato il colore all’intonaco, facevano lo zoccolo, più scuro o contrastante, di solito alto circa un metro, staccato da un filetto ancora più scuro, marrone, blu o anche nero.
Nella Marmilla e nella Trexenta, come ho potuto osservare di persona, a Mogoro, a Lunamatrona e in tanti altri paesi, per ottenere la malta con cui intonacare i muri interni e i pavimenti delle case, si usava sterco bovino impastato con terra argillosa. Il lavoro di rifacimento degli intonachi interni e dei pavimenti in terra battuta si faceva tradizionalmente ogni anno, nei giorni che precedono la Pasqua di Resurrezione. Tale lavoro era esclusivo delle donne, a parte l’estrazione e il trasporto de sa terra angiana, dell’argilla, necessaria all’opera, che venivano fatti dagli uomini con i badili e con il carro.
Lo stesso impasto degli intonachi veniva usato poi per fare il pavimento, che, come quelli, si otteneva lisciato con la mano al posto della cazzuola e della spatola. Il pavimento di terra battuta, specie se nell’impasto si metteva lo sterco di bue, era ritenuto più caldo de su mattonau, del mattonato e ancor più de su regiolau, del pianellato.


SA ZIPULERA
COLEI CHE FA LE ZIPULAS

Tutte le massaie sarde, chi più e chi meno, sono zipuleras, conoscono s’arti de fai is zipulas, sanno fare questa frittura tipica della nostra Isola, probabilmente una variante della frittura araba, come sostengono studiosi della materia. Dal canto mio, ho rilevato una certa somiglianza, ma non nel gusto, tra is zipulas, la frittura di pasta dolce sarda, e la frittura di pasta dolce araba, come viene fatta dagli algerini e tunisini immigrati, a Parigi.
Gli ingredienti d’obbligo nella ricetta sarda de is zipulas sono: fior di farina (da alcune massaie indicata come “farina zero-zero”), rosso d’uovo, latte, buccia d’arancia grattugiata, essenza di fiori d’arancio, zucchero (poco, e meglio se spolverato sul fritto, dopo la cottura), il lievito, (qualcuna “moderna”, usa il bicarbonato), e acqua quanta ne occorre per impastare e lavorare l’impasto. Taluna usa aggiungere un bicchierino di fil’‘e ferru, acquavite, per aromatizzare la frittura.
Sa vera zipulera, sa zipulera a s’antiga, faiat is veras zipulas sardas sceti a imbudu, longas longas prus de unu metru… La vera zipolaia, la zipolaia all’antica, faceva le zipulas veraci soltanto con l’imbuto, lunghe oltre un metro… Quelle d’adesso, a forma di ciambella o di “fatto fritto”, sono zipulas modernas, zipulas moderne, chi no ‘ndi balint nudda, a mazza crua, che non dicono nulla, con la pasta cruda all’interno, fattas a posta a imbrolliu po pesai de prus, fatte apposta così affinché pesino di più, chi friint is zipuleras de is offellerias, che friggono le zipolaie delle pasticcerie


SA POSTERA
LA POSTINA

«C’era la guerra e tutti gli uomini abili al servizio militare erano stati richiamati e le donne dovevano supplirli in tutti i lavori. Nessuna si sarebbe mai sognata di andare a distribuire le lettere, e invece, per quella missione, fu dato l’incarico a Lisetta, la sorella del postino richiamato al fronte.
Per fortuna conosceva bene il paese, e se anche l’indirizzo non era esatto, trovava la persona giusta a cui dare la lettera. Eravamo in molte ad aspettare notizie: mamme, mogli e fidanzate degli uomini al fronte. Lisetta mi capiva e scuoteva il capo quando non aveva neppure una cartolina; invece mi chiamava a gran voce quando doveva darmi una lettera. L’avrei abbracciata, se non avesse avuto tanta fretta.
Usciva dall’ufficio postale col borsone carico sulle spalle e un’altra borsa in mano. D’inverno portava un ombrello enorme per salvare la posta dalla pioggia, e indossava un paio di scarponi ferrati di cui io avevo imparato a conoscere lo scalpiccio. D’estate si riparava dal sole con un ombrello più leggero.
Il paese era grande e ci impiegava quasi una giornata a percorrerlo tutto. Qualche volta, quando non avevo da fare, la accompagnavo, se doveva portare posta alle casette della periferia e anche all’oliveto di don Pepe, fuori paese, dove abitava la famiglia del vecchio guardiano.
Finita la guerra il mio fidanzato tornò; ci sposammo presto e invitai sa postera al mio matrimonio».179


SA COMMISSIONERA
LA PORTATRICE

«Con tale nome erano chiamate quelle donnette che, rimaste vedove ancora in giovane età e con teneri figlioli da allevare, trovavano in quell’occupazione dura e faticosa un ripiego per sopravvivere.
Si trattava di far la spola per un paio di giorni della settimana fra Morgongiori e i due capoluoghi di mandamento più vicini: Ales e Mogoro.
La loro prestazione era molto sentita da tutte le massaie del paese specie dalle più povere, quando si pensi che mezzo secolo fa non esistevano i mezzi di comunicazione rapidi di oggi e il paesello, tagliato fuori dal consorzio umano, privato di strade, di negozi, di farmacia, di medico, di levatrice, languiva nel più triste abbandono.
Quelle che più risentivano di tale isolamento erano le massaie le quali più che gli uomini vivevano a contatto con le pareti domestiche e con la famiglia; e della casa e della famiglia conoscevano tutte le necessità.
Per ovviare ai molteplici bisogni di essa era d’uopo ricorrere all’opera delle portatrici per rifornirsi dai paesi di fuori, specie da quelli più importanti e per il loro ruolo di mandamento più ricchi di negozi, di piccole industrie, di commerci e di uffici.
A Morgongiori allora mancava tutto, perfino il sapone. Si può anzi dire, senza tema di errore, che la mancanza di esso era quella maggiormente sentita dalle massaie. (In mancanza del sapone le massaie facevano allora il bucato con la cenere).
Le portatrici sopperivano a queste, come a tutte le altre necessità familiari, provvedendo regolarmente a tutte le richieste, e le richieste erano molte.
Le cose più impensate venivano ordinate a quelle povere donne che immancabilmente nei giorni stabiliti, con la loro corbula vuota facevano il giro delle famiglie clienti per raccogliere le ordinazioni.
Le portatrici erano parecchie e ognuna serviva un gruppo di famiglie. Una sola portatrice non sarebbe bastata a servire tutte le massaie del paese. Da ciò la necessità della clientela.
La fornitura del sapone costituiva per le portatrici una specie di piccolo commercio perché esse ottenevano dalle massaie in cambio del sapone un certo numero di uova che vendevano al negoziante fornitore ad un prezzo maggiorato, con un certo margine di guadagno.
Le uova costituivano la moneta corrente più a portata di mano per tutte le massaie perché nelle famiglie contadine la moneta sonante ha sempre scarseggiato.
Il pollaio, grande o piccolo che fosse, costituiva la zecca di tutte le famiglie contadine.
Con le uova pagavano oltre al sapone anche le altre ordinazioni e le ordinazioni, come ho già detto, erano infinite; qualche palmo di tela, qualche rocchetto di filo, una bustina di aghi, uno, due, tre pani di sapone, un quarto di petrolio, due steariche, un purgante per il bimbo ghiottone, la medicina per qualche malato grave, tre oncie di caffè, una mezza libbra di zucchero e perfino tres realis prezzìus.
Questa ordinazione, speciale per la forma e per la quantità della merce richiesta, era la più frequente da parte delle famiglie più povere, che erano numerosissime.
Si trattava dell’acquisto di una quantità di merce, zucchero e caffè, commisurata al valore di cinque centesimi tres realis diviso per metà.
Persino noi bambini che frequentavamo le scuole del paese volevamo che le mamme ordinassero a quelle donnette la cancelleria necessaria, specialmente i quaderni dalle robuste copertine a colori nelle quali si potevano ammirare i bersaglieri e le camicie rosse, i Cairoli, i Bandiera e gli episodi più salienti del nostro Risorgimento.
In altri quaderni facevano bella mostra di sé tutti gli animale dello zoo, con i quali facemmo le prime conoscenze.
Come facessero quelle povere donne analfabete a ricordare tutte le molteplici e svariate ordinazioni e come potessero render conto a ciascuna massaia del suo dare e del suo avere ogni ordinazione ricevuta, io non saprei.
Ma è proprio vero che il bisogno aguzza l’ingegno.
Quanti nomi di cose diverse si affollavano in quelle povere menti! Io penso che per tutti gli otto chilometri di strada per raggiungere l’uno o l’altro mandamento, esse non facessero altro che ripetere mentalmente quell’estenuante elenco di cose e di persone. Povere donnette! Io le chiamerei benefattrici della povera gente, custodi della salute altrui, e benemerite della pubblica istruzione! Tanto erano utili!».180


S’OAIA
LA COMMERCIANTE DI UOVA

«In altri tempi, ed ancora sino agli anni cinquanta, nei paesi esistevano delle donne (pure qualche uomo) che facevano commercio ambulante di uova e crusca (“ous e po’ddi”).
Queste donne, dette “oàias”, nell’ambiente contadino andavano di casa in casa per acquistare la merce direttamente dai produttori; si presentavano alle massaie e chiedevano: “ous tènidi gomai”, (ha delle uova da vendere comare?).
Sessant’anni fa il costo delle uova si aggirava sui 15 o 20 cent/mi l’uno (“noi’-arriabis - du soddus”). Durante gli anni trenta poi aumentavano a 25, 50 e 75 cent/mi (“Mesupezza - cincu soddus e setti soddus.”).
Quando le “oàias” completavano la partita che consisteva generalmente in un centinaio di uova e due starelli di crusca, si recavano ad Oristano per rivendere la merce a negozianti che ne facevano preventiva richiesta».181


SA MONGIA
LA SUORA

Mia madre riteneva che per una donna il fare la suora fosse una scelta contro natura, codarda e improduttiva - il rifiuto di far figli, la paura di assumersi responsabilità e una vita vissuta per nulla, senza soddisfazioni: soltanto una vita comoda e per dirla con una sua frase “una vida che procu a pei segau”, ossia la vita del beato porco. Da questo drastico giudizio morale si salvavano appena is mongias de is asilius, le suore degli asili nido, che badano ai figli delle altre, e almeno danno alle madri una mano nell’allevamento dei loro piccoli; e ancora is mongias de is ospedalis, le suore degli ospedali, che assistono i malati - ma per far ciò ci dovrebbero essere is infermeras, le infermiere
Mongia de crausura, è detta la suora di clausura. In alcuni monasteri vigeva - non so dire se anche al presente - la regola di mortificare la carne con l’uso del cilicio, una sorta di cintura ruvida, quando non fornita addirittura di aculei. Oltre all’uso più maschile, proprio dei santi monaci, dell’autoflagellazione - anche questo ai fini di mortificare la carne ed evitare quindi i peccati di lussuria.


SA INFERMERA
LA INFERMIERA

Sa infermera, in campidanese, e infirmera in Logudorese, è l’infermiera, colei che assiste i malati.


SA BAGASSA
LA PROSTITUTA

Gnazina sa bagassa abitava in una casa alla periferia del paese, nella parte che dava sugli orti. Non per emarginazione da parte della comunità, che anzi le riconosceva un importante ruolo sociale e morale, ma per discrezione, per il rispetto di una attività che deve svolgersi nella più rigorosa privatezza.
Gnazina provvedeva a garantire al paese uno stato di equilibrio affettivo e umorale in specie, salvaguardando spesso la verginità delle fanciulle perbene e sovrintendendo alla armonia familiare, appianando incomprensioni e ritrosie muliebri. Per questo, pur non essendo lodata e apprezzata pubblicamente, tutti in cuor loro le riconoscevano tali meriti e perlomeno la rispettavano. Tant’è che mai - parlo delle donne - mostravano in pubblico di disprezzarla o la evitavano nei casi, abbastanza frequenti, di incontri, come accadeva ogni domenica mattina in Chiesa per la santa Messa. Anzi, assai spesso, la donna che entrando nel tempio la precedeva le porgeva le dita stillanti l’acqua benedetta affinché bagnassero le dita di lei, di Ignazia sa bagassa. La quale, per altro, vestita modestamente ma non senza grazia e femminilità, non si distingueva per nulla da una onesta madre di famiglia o da una chiesastica zitella sui trentacinque anni.
Bisogna poi ammettere che santa Madre Chiesa con la figura della Maddalena di evangelica memoria, sa bagassa pentia, la meretrice pentita e perfino apprezzata dal Cristo Nostro Signore per avere ella tanto amato, peccando, non era molto severa con Ignazia. Il parroco, in occasione di qualcuna delle omelie, specie quelle sulla Settimana Santa, raccontava la storia della bellissima bagassa dai capelli lunghi biondi e dalle carni bianche morbide e sode la quale, con grande scandalo degli apostoli, servì lavò profumò con amore il corpo del Redentore, profetizzandone così la prossima morte sulla croce. Era una storia che piaceva molto ai paesani, non soltanto ai maschi, che si bevevano rapiti le parole del parroco. E la loro mente correva facilmente a Ignazia, che avendo capelli biondi lunghi e una carnagione di latte e per di più occhi celesti, si inorgogliva al pensiero che una sua antenata avesse avuto intimità con Gesù e che da Gesù fosse stata perdonata e apprezzata.
Ma le male lingue - quelle femminili - asserivano che tra i visitatori, meno male occasionali, della Ignazia-Maddalena ci fosse pure don Anselmo s’arretori, ovvero il parroco - forse - lo difendevano is santicas, le sue fedeli - per motivi religiosi, in veste di apostolo della redenzione.
La sua - di Ignazia - era una casetta da favola, piccola, sempre ordinata e pulitissima - compreso il letto matrimoniale dove esercitava la professione. Per i suoi visitatori non c’era pericolo di buscarsi malattie o parassiti, semmai era lei, Ignazia, a dover temere specie quando riceveva reduci dal servizio militare che andando con bagassas istrangias de Continenti, bagasce continentali, potevano essersi preso qualche malanno...
Riceveva le visite dei maschi dopo il tramonto, come voleva la tradizione. E dopo la mezzanotte, d’inverno, e massimo alle due di notte d'estate, porta chiusa per tutti.
Appunto per la tradizione, durante il giorno, alla luce del sole, pubblicamente, davanti agli occhi di tutti, si compiono o devono compiersi soltanto opere buone, oneste e meritorie e al contrario durante la notte, quando c’è buio e “quasi” non ci si vede l’uno con l’altro, o perlomeno non ci si riconosce, non si dovrebbero compiere ma si compiono “cose” (opere non le si può chiamare) cattive, disoneste e nefande. Tra queste cose, oltre naturalmente il rubare, c’è il fornicare.
Ignazia non faceva distinzioni, poveri o ricchi, di destra o di sinistra che fossero, si prodigava nello stesso modo con tutti e a ciascuno dava ciò che gli era necessario per sgravarsi dal desiderio della carne. Purché pagasse la tariffa, che era uguale per tutti. E che, di tanto in tanto, con l’aumentare del costo della vita, Ignazia giustamente ritoccava - giusta la legge del carovita allora in vigore.
Eppure ciascuno dei suoi serotini visitatori era convinto - e lei glielo lasciava credere - d’essere se non il favorito almeno fra i primi nella graduatoria nel cuore e nell’anima di lei. Ignazia sapeva che nel suo mestiere non ci si deve innamorare e neppure affezionare a qualcuno in particolare. Perciò si sforzava di accettarli e di usare lo stesso trattamento a tutti e fingeva, quando fingeva si capisce, di provare con ognuno di essi un grande piacere. E non mancava mai di complimentarsi con ciascuno delle “favolose” prestazioni da lui ricevute, senza ovviamente far paragoni, anche quando richiesti, con le prestazioni altrui. Eppure, bisogna dirlo, Gnazina ce l’aveva, un prediletto… Era Licu, un pastore giovane, bello e forte in tutti i sensi. Le faceva visita di lunedì, il giorno della settimana meno trafficato, e con lui si sentiva sciogliere quando l’amava, dopo averlo aiutato a togliersi gli indumenti, in piedi davanti al letto, dopo aver ammirato la sua bruna nudità eccitata, dopo averlo invitato con un gesto dolce della mano a giacersi su di lei.
I suoi visitatori, dal punto di vista umano, erano in fondo dei gran bambinoni bisognosi di tenerezza e di coccole. Questo Gnazina l’aveva capito ben presto, già agli inizi della sua arte, e maternamente burrosa e zuccherina come nessuna, ella dispensava ai suoi ospiti di ogni età quel tanto di affetto che madri e spose non avevano saputo dare a quei rudi e virili omaccioni - con teneri bacetti, paroline dolci, grattatine e giochini vari.


S’ATTITADORA
LA PREFICA

“Prefica. Donna che per mestiere esegue il piano rituale nelle cerimonie funebri. L’uso del lamento funebre compiuto da donne estranee alla cerchia familiare del defunto, corrente nell’antichità classica (Etruria, Grecia, Roma, Sardegna) si è mantenuto nel folclore di varie regioni europee: in particolare in Italia esso esiste ancora in Lucania, Calabria e Sardegna. Le prefiche possono essere in alcuni casi componenti del gruppo sociale del morto, ma esiste ancora la figura della prefica prezzolata, che ha a sua disposizione un repertorio di lamenti funebri in versi per le varie occasioni e tutta un’arte di esprimere il dolore in forme ritualizzate. Le prefiche prendono il nome di attitadoras in Sardegna, di reputatrici in Calabia, di voceratrici in Corsica”.182
Is attitus o attitidus indicano le lamentazioni funebri.
Così dunque la cultura ufficiale, che per voler generalizzare e sintetizzare, commette qualche grossolano errore: in Sardegna s’attitadora non è mai prezzolata, seppure certamente e generosamente compensata dal consenso, dalla considerazione e dal rispetto che la comunità le tributa. Ci sono mestieri e attività che non sono necessariamente legati al mercimonio, al denaro, che li renderebbe vili - al contrario di ciò che avviene nella “civiltà” di questo “illuminato inferno” dove non si fa nulla senza pretendere in cambio denaro.
Talvolta s’attitadora è la madre o la sorella del morto, o una parente - ma in ogni caso fa parte della stessa comunità ed è pertanto emotivamente coinvolta per la perdita di un suo membro, tanto più se la morte è ingiusta perché immatura o perché stroncata da una vendetta o peggio, al colmo della ingiustizia, dalla violenza armata dello Stato.
S’attitadora - quando non sia la madre, la sorella, l’amica o una parente del morto - è una donna che esercita un mestiere certamente nobile, anzi un’arte, proprio dell’artista al quale la gente riconosce un dono di natura, come su cantadori, il poeta cantore, che improvvisa i suoi versi davanti al folto pubblico di estimatori, che accorre per ascoltarlo e valutarlo, in occasione delle sagre paesane. Ed è a mio parere estremamente sconfortante (e umiliante per la cultura e le tradizioni del nostro popolo) che amministratori locali, e associazioni come le “Pro-loco”, per un malinteso concetto di modernismo invitino i soliti giovani e meno giovani presuntuosi, imitatori dei cantautori nazionali, che strillano, microfono in bocca a tutto volume, qualcuna di quelle sciocchezze di moda, che piacciono tanto ai ragazzini masticatori di ciulinga, gomma da masticare. Chiamassero a cantare almeno Fabrizio De Andrè! Che, non solo apprezza l’arte musicale della nostra terra, ma che ha voluto persino riprenderla e valorizzarla in alcuni dei suoi migliori brani degli Anni 80.
Is attitus, le improvvisate lamentazioni funebri delle attitadoras, costituiscono spesso vere e proprie opere d’arte. Da Grazia Deledda a Sebastiano Satta (che ne ha scritto una “piangendo” la morte della antica e nobile e fiera Sardegna) fino a Cherenti e a Cabiddu e a chi scrive, sono tanti gli studiosi, figli di questa Terra misconosciuta e maltrattata, che hanno raccolto attitus, lamentazioni funebri. Ne presenterò una raccolta in un capitolo del volume V di “SU TEMPUS CHI PASSAT” intitolato “Usanzias antigas”. Per il momento, nel poco spazio che ancora mi è consentito in questa pur vasta opera sui mestieri, inserisco qualche brano, che a me sembra esemplare, di attitus, di lamentazioni funebri.

Vecchie usanze di Gabriele Cherenti

“Fizu s’ultimu adiu! / Non t’happo pius biu / E invanu ognunu a tie giamma, / Ca fusti fizu ‘onu, / Custu est s’ultimu donu, / S’ultimu ‘asu chi a tie da(t) mamma. / Ahi, ‘asu de dolore! / Ahi, crudele morte! Ite terrore! / A su mancu, Segnore, / Happat custu favore: / Siat in logu ‘onu collocadu; / Totu su patimentu / L’happat como in cuntentu.”
(Figlio l’ultimo addio! / Non ti ho più vivo / E invano ognuno ti chiama / Che fosti figlio buono. / Questo è l’ultimo dono, / L’ultimo bacio ch ti dà mamma. / Ahi, bacio di dolore! / Ahi, crudele morte! Che terrore! / Almeno, Signore, / Abbia questo favore: / Sia in luogo buono ospitato; / Tutta la sofferenza / L’abbia adesso in gioia.)
Il canto lugubre cessa per poco. Fra le donne accovacciate nella penombra, s’alza la madre: “Fizu, finia l’hat sa penitenzia! “. (Figlio, finita l’hai la penitenza!)
Sta per incominciare s’attitidu, il pianto funebre della prèfica: s’attitadora.
Tutt’avvolta in un lungo mantello nero che ricopre il suo antico costume abbrunato, la donna s’avanza lenta, altèra, con ostentata indifferenza, sino al letto di morte. Ora si sofferma, leva in alto una mano, poi un grido disperato rompe l’incantesimo del momento. Col grido della prèfica, inizia il dramma .
 “Mancadu est su zigante, / su forte valenteri / de sa capitanìa. / Frade meu ! Frade meu !” (Mancato è il gigante, / il forte valente / della comunità. / Fratello mio! Fratello mio!)
Le gambe incrociate all’uso arabo, le donne siedono per terra e formano intorno al letto di morte un cerchio, detto s’inghìriu, il giro. Gli uomini sono di là, nella cucina fumosa in disparte.
La prèfica continua il suo lamento:
“Ite t’happo a donare / prima de t’avviare! / inue dana a tie reposu! / Ahi! frade meu istimadu!” (Che cosa ti donerò / prima di avviarti / dove ti daranno riposo! / Ahi! Fratello mio stimato!)
Un fazzoletto nero le cinge la testa e ricopre la fronte: il viso, sbiancato, è impietrito, l’occhio senza sguardo. Il suo lamento ha una cadenza ritmica che si uniforma con la battuta delle mani sulle ginocchia: le parole scorrono impetuose, con accenti aspri, talvolta macabri e persino ironici. Le immagini si rincorrono: immagini di avvenimenti che s’erano scoloriti nel lento scorrere della vita, ed ora, d’un colpo, tornano vive, lucide, a rievocare un passato che par così lontano: l’eco nostalgica rimbalza su di un presente dolorante sino allo spasimo.
Il tramonto scende sulla bara, scende sul ciglio di una sepoltura. L’ultimo grido della prèfica si perde fra il tremolio dei ceri. Ed il mesto corteo si compone, e s’avvìa.
Il suono lento della campana si annunziava, sino a non molti anni fa, conforme al grado sociale della famiglia in lutto. A. Mores, in Logudoro, il rintocco funebre per la morte di un ricco era detto imperale, per un povero su toccu; per un fanciullo: toccu de allegria.
A Sarùle, per la morte di un povero era d’uso il suono della campana di Santa Croce, con tre tocchi ben distinti; per la morte di un ricco l’annuncio era dato da tutte le campane del paese, a brevi intervalli, la morte di un bimbo era annunciata da sa boghe d’anghelu.
A Silanus, per la morte di un bimbo suona sa campana manna. A Irgoli, Orosei, Loculi e Onifai, il rintocco funebre è detto s’agonia; a Bolotana, sa regula.
Usanze e tradizioni resistono all’avanzata travolgente del progresso; intanto, però, s’attitadora, la prèfica, non accompagna più la salma nel calvario sino al camposanto, chiamando vendetta con urli disperati e imprecazioni gridate sin sull’orlo del sepolcro.
Già negli Statuti di Sassari, del 1294, si legge: “Ordiniamo che nessuna donna di Sassari, né fuori, alla Chiesa di Santa Maria de’ Frati Minori, dietro nessun morto, né dalla Chiesa al Cimitero, né dalla Chiesa dove verrà sotterrato il morto si debba radunare. E se qualcuno farà diversamente, pagherà al Comune soldi venti. Del quale bando, o multa, la metà sia del Comune e l’altra dell’accusatore, e sia mantenuto il segreto. E a ciascuno del consiglio sia creduto nel giuramento.”
La prèfica dell’anatema è scomparsa; la tradizione resiste per i sopravvissuti di un mondo sorpassato.
Ancora oggi in molti paesi dell’Isola il colore che indica il lutto è giallo. Nell’uso antico, dove vige su curruttu, al lutto segue il digiuno.
Nella Gallura e nel Nuorese le vedove tenevano la stessa camicia per tutto il tempo del lutto che in genere durava per tutto il resto dell’esistenza. Gli uomini lasciano, ancora, incolti la barba e i capelli.
Oggi, pur non dimesso il pesante orbace, si “rompe” il lutto e si torna alla terra senz’attendere che sia trascorso il tempo del ritiro prescritto. Anche le donne, il viso oscurato dalla funebre gonna rialzata sul capo, tornano al campo.
La prèfica dell’anatema è scomparsa ma la tradizione resiste. Il 2 novembre, forse più che altrove, in Sardegna si celebra il giorno dei morti. Nei paeselli dell’interno, appena lento incomincia il rintocco, ogni lavoro è sospeso, né si deve mondar la casa, o pettinarsi. Lampade a lume d’olio s’accendono nelle anguste dimore e adornano i sepolcri.183
A Sarule e Orotelli, al vespro dei morti, le famiglie in lutto vanno in Chiesa precedute di pochi passi da una bambina che porta dodici candele sistemate in un vassoio, nero alla base. La sera della vigilia i bambini, di casa in casa, chiedono su mortu mortu e ricevono in dono frutta secca e pabassinas. Ad Iglesias questa carità in nome dei defunti è detta “su beni po s ‘anima.”
La tradizione ha conservato anche l’usanza della cena dei morti, ancora diffusa in quasi tutta l’Isola. S’imbandisce la mensa con maccheroni, formaggio, pane e vino. Un posto a tavola resta vuoto, come nell’attesa di qualcuno che non può tardare.184
Vecchie usanze di Sardegna. Il progresso avanza, l’Isola procede sicura sulla via dell’ascesa, ma la tradizione resiste, nel ricordo dei padri».185


SA RICAMADORA
LA RICAMATRICE

Le ragazze dei nostri paese, fino a tempi recenti, occupavano il tempo libero dalle faccende domestiche dedicandosi al ricamo e al cucito.
Comunque, non era soltanto lo svolgimento di una attività necessaria nell’economia familiare, ma era anche un momento di incontro sociale, di riunione di gruppo e di comunicazione. Infatti, oggi in casa dell’una, domani in casa dell’altra, le giovani ogni sera si riunivano, preferibilmente nell’ingresso che nelle antiche abitazioni era assai ampio, facendo semicerchio davanti alla finestra o alla porta aperta sulla strada; cosìcché potessero vedere la gente che vi passava. Non di rado, il gruppo si sedeva nel cortile se non addirittura ai margini della strada sulla soglia dei portali d’ingresso.
E dunque, tra una gugliata e l’altra si tessevano e si ricamavano lini e merletti insieme agli avvenimenti della comunità.
Se in italiano esiste il modo di dire “cucire i panni addosso a qualcuno”, che in pratica significa spettegolare su qualcuno dandogli quel che si merita, se se lo merita, in lingua sarda si potrebbe usare il termine “tessere o ricamare sui fatti di qualcuno”. Per la verità bisogna dire (ma questa forse è soltanto una mia impressione) che i pettegolezzi nei crocchi di fanciulle non dovevano essere davvero cattivi o maligni, ma più che altro si riducevano a soddisfare naturali curiosità su questioni tabù quali quelle dei rapporti con l’altro sesso.
Si comprende così come l’argomento principale della conversazione delle giovani fosse imperniato su fatti riguardanti qualche uomo che era considerato un buon partito, o intrecci sentimentali o anche delusioni amorose di cui qualcuna fosse rimasta vittima.
All’interno del gruppo c’era sempre una donna anziana esperta nel cucito e nel ricamo. Anch’ella del vicinato, spesso parente di una delle giovani, aveva il compito di insegnare alle fanciulle poco esperte le tecniche più elementari di cucito e a quelle già avviate lavori più complessi. Non solo, ella vigilava sul buon comportamento delle ragazze, richiamandole a pensieri e linguaggio perbenisti e nel contempo le proteggeva da complimenti indiscreti di eventuali bellimbusti di passaggio in quella strada.


SA COSINGIANA
LA CUCITRICE

Sa cosingiana o cosingera è la cucitrice, colei che fa lavoro di cucito a pagamento, in particolare di rammendo. Quando si parla di lavoro di rammendo non è tanto il rammendare il buco di una calza, cosa che qualunque massaia sa fare, ma per esempio rammendare strappi ai pantaloni o a una giacca o rifarne parti consumate o rattoppare capi di vestiario che la povera gente non è in grado di ricomprarsi nuova. In tali casi appunto ci si rivolge alla cosingiana - bravissime le suore che facevano lezioni di rammendo alle fanciulle del paese - la quale si adopera con la sua esperienza di cucito a rammendare e a rattoppare.


SA FIBADORA O FIBONGIANA
LA FILATRICE

«Zia Grazia abitava in una casetta bassa ad un solo piano; sulla strada c’era un cancelletto di legno stinto e consumato dal tempo e dalle intemperie, spalancato su un cortile selciato di un paio di metri quadri, su cui davano tre gradini di granito che sembravano levigati tanto erano consumati; ai lati c’erano dei recipienti di coccio e di ferro smalto, pentole vecchie, fondi di brocche, conchette filate e sbrecciate dove crescevano rigogliose piantine de fabicas, di basilico, di menta e di Maria-Luisa, di cedrina, e gerani di ogni varietà.
Anche la porta della stanza d’ingresso era sempre spalancata: da una parte vi era il caminetto e dall’altra sa mesa manna, un grande tavolo che un tempo era stato usato per fare il pane: ora era coperto da su coberibancu, dal tappeto, un tempo a colori smaglianti, ma ora stinto e sfilacciato. Sul tavolo, un canestro, dove c’era la lana carminata, ricoperto da un panno bianco. Attorno alle pareti, allineati, c’erano is scannus, seggioline, di tutte le misure. Appeso alla parete su parastaggiu, lo scaffale, dove erano esposti piatti colorati di varia grandezza. D’angolo, incastrato nel muro, s’accajolu, l’armadietto all’altezza dello scaffale. Il pavimento era di mattoni rossi con molti buchi, consumati dal tempo.
Zia Grazia sedeva vicino al caminetto e sul gradino di esso teneva una brocchetta d’acqua che le portavano da sa mizza, dalla sorgente, perché doveva bere acqua buona per farsi in bocca la saliva speciale che le permetteva di filare. Tutto era ordinato e pulito, perché il filato doveva essere intaccabile dalle tarme.
Tutte dicevano che fibadora bella come zia Grazia non ce n’era altra, perché ci stava molto attenta. Era una vecchietta piccolina, tutta vestita di nero perché era vedova, solo le mani erano bianche e affusolate da fare invidia a una contessa; dopo averne insalivato la punta, muoveva con sveltezza le dita attorcigliando la lana e sollevava in alto la conocchia, quindi avvolgeva il filo al fuso e ricominciava. Una volta che il fuso era pieno lo appoggiava sul tavolo e ne prendeva un altro.
Abitava con lei anche la figlia Rosica, vedova anche lei, anche lei vestita di nero, sembravano sorelle! Rosica faceva tutti i lavori di casa ed aiutava la madre in ogni necessità perché non smettesse di filare: quando il fuso era pieno lo dipanava sull’arcolaio perché asciugasse; quando la conocchia era vuota la ripreparava avendo cura di mettere la lana in perfetto ordine, così come la doveva tenere ordinata e ben soffice nel canestro. Quando aveva finito queste incombenze, prendeva anche lei fuso e conocchia e filava: ma quello della madre, liscio, uniforme e sottile, serviva per l’ordito. Ed era questa la specialità di zia Grazia che spesso rinunciava a mangiare cose ben condite pur di avere la saliva pura e inodora».186


SA TESSIDORA
LA TESSITRICE

«Nei tempi passati al lavoro della tessitura si dedicavano da madre in figlia, tutte le donne del paese. Nelle famiglie abbienti, dove le faccende domestiche erano molteplici e la servitù numerosa, la domestica più anziana veniva adibita esclusivamente al lavoro della tessitura per tutti i dodici mesi dell’anno. La sua merce annuale era di dodici scudi oltre il vitto e l’alloggio e qualche capo di vestiario per “zrega”. Era una mercede molto ambita per quei tempi in cui il valore di acquisto della lira era altissimo.
La tessitrice era una donna speciale, idonea a trarre dall’opera del telaio ogni qualità di tessuto necessario per tutti gli usi familiari del tempo. Dall’orbace ruvido e pesante per “is saccus de coberri” per gli uomini di campagna a quello finissimo per l’abbigliamento femminile e maschile richiesto dal costume allora in voga. Dai tessuti finissimi di lino, “pannu de carri”, per la biancheria personale e da letto, a quelli più ruvidi e pesanti “pisantinu” per le braghe usate dagli uomini sotto il gonnellino di orbace nero, per tovagliato e saccheria. Ma le creazioni più belle erano i tappeti “coberibangus” di “aramu” e di “lauru” e le coperte da letto “cillonis” e “fanigas” di “briali” e “a pibionis”.
La perizia di quelle fate del telaio, allevate alla scuola della più spontanea tradizione arcaica, ha dato in tutti i tempi lustro e risonanza al piccolo centro montano di Morgongiori per la bellezza dei tappeti. Essi, veri capolavori d’arte, per la loro originalità, per sobrietà e tono di colori hanno sempre destato l’ammirazione di tutti e degli esperti in ispecie».187


SU TELARGIU
IL TELAIO.

Nella economia autarchica del contadino, su telargiu, il telaio, è un utensile di prima necessità. Con il telaio, le donne, fin dalla prima fanciullezza, provvedevano alla tessitura delle tele necessarie al corredo familiare. La lana delle pecore forniva la materia prima per la tessitura dell’orbace, un panno robusto con cui si confezionavano capi di abbigliamento e inoltre coperte, tappeti, arazzi, copri-tavolo e sacchi per i cereali. La campagna dava il lino, con cui si confezionavano i capi di abbigliamento intimo, lenzuola, asciugamani, e tovagliati, e inoltre sacchi e bisacce. Con l’uso misto della lana e del lino si ottenevano prodotti più resistenti e pregiati.
Venivano importati soltanto i filati di cotone - materia prima mancante nella economia dell’Isola, talvolta usato come ordito nella tessitura sia della lana che del lino.
Tutte le fasi della lavorazione della lana e del lino avveniva a livello familiare, ed era un compito riservato esclusivamente alle donne. La fase più delicata e più lunga era quella della filatura. Nella tessitura, la fase più delicata era quella della preparazione dell’ordito - non di rado, per tale operazione, si ricorreva a una esperta del vicinato.
Il declino del telaio inizia con l’impianto delle filande nel Continente e la conseguente invasione dei prodotti tessili di tipo industriale che raggiunsero anche i mercati dell’Isola. Tuttavia, nel mondo contadino, il telaio ha resistito fino agli Anni Cinquanta, con un incremento del suo uso durante la prima e la seconda guerra mondiale, per sopperire alle carenze del mercato. E’ rimasta, seppure su scala ridotta, la tessitura dei tappeti e degli arazzi.
Va detto che l’attuale “revival” del telaio - in particolare per la produzione di tappeti e arazzi sardi su scala industriale - è stato incentivato dal “Progetto Sardegna” dell’OECE/AEP e dall’I.S.O.L.A. (Istituto Sardo Organizzazione Lavoro Artigiano), ente vigilato dalla Regione. Per diffondere tale prodotto nei mercati del Continente, purtroppo ne è stato falsificato l’originario valore culturale e artistico - a parte l’introduzione di nuovi telai di tipo meccanico che, pur aumentando i profitti, modificano degradandola l’autenticità, la bellezza di un classico prodotto dell’arte popolare.
Il telaio veniva sempre, almeno nei paesi del Campidano oristanese, sistemato nella camera d’ingresso, sotto la finestra che dava sulla strada. In talune case più ricche vi era una apposita stanza riservata al telaio e al suo uso, stanza che aveva una finestra luminosa che dava sul cortile interno.

Nomenclatura essenziale del telaio

Su telargiu o trobaxu indica sia il telaio nel suo insieme, sia le due fiancate portanti verticali, fissate al pavimento o con obbilus, chiavarde, o con perdas, blocchi di pietra.
Is surbius, i subbi, sono i due bastoni cilindrici scanalati, incastrati in appositi fori nelle due fiancate: uno all’inizio per avvolgervi la tela già tessuta, l’altro alla fine per avvolgervi l’ordito da tessere.
Is pertias, le bacchette, grosse un dito, si inseriscono nella scanalatura dei surbius, subbi, e fermano, una il capo della tela già tessuta, l’altra il capo dell’ordito da tessere.
Is serradorius, i pioli, sono i due fermi dei surbius, subbi. Quello anteriore comanda l’avvolgimento della tela; quello posteriore consente lo svolgimento dell’ordito pur tenendolo teso.
Is pertieddas, le pertiche, più sottili delle pertias, bacchette, sono quattro: una serve a dividere e tenere distanziata la tela già tessuta e arrotolata al suo subbio dall’ultima parte che si sta ancora tessendo; la seconda serve a separare l’ordito arrotolato al suo subbio da quello che avanza man mano che si procede nella tessitura. Le altre due, dette pertieddas a gruxi, pertiche a croce, servono per l’intreccio delle trame.
Is cascias, o cascia, la cassa, è formata da due listelli, uno superiore e l’altro inferiore, scanalati, dove trova posto su pettini, il pettine. La cassa è appesa alla fiancata del telaio, poggiando sulla parte superiore delle stesse, dentellata, mediante due stecche di legno, e avanza, dente dopo dente, man mano che si procede nel lavoro.
Is puncionis, i punzoni, sono le due stecche di legno che sostengono la cassa appesa alle fiancate, e hanno anche la funzione di fermo con la dentellatura.
Su pettini, il pettine, lungo quanto l’ordito, è fatto con due bacchette di legno tra le quali sono incastrati i denti, fatti di listelli di canna, legati insieme ben stretti con filo di cotone robusto. Tra un dente e l’altro del pettine passa un filo dell’ordito.
Su lizzu, il liccio, è costituito da due canne lunghe quanto l’ordito, legate tra loro con filo di cotone, sovrapposte e distanziate, che formano una sorta di pettine, i cui denti sono ottenuti con le cordicelle dello stesso cotone. Il numero dei denti de su lizzu devono corrispondere a quelli de su pettini. Il numero di is lizzus, licci, varia a seconda del disegno che si vuole realizzare. Il più semplice ne richiede quattro. Anche su lizzu , come su pettini, è appeso alle fiancate.
Is calculas o pibias, le calcole, consistono in funicelle di giunco, tante quanti sono is lizzus e vengono governate con i piedi. Servono ad abbassare o sollevare is lizzus ai quali sono legate, per la realizzazione del disegno.
Sa spola, la spola, a forma di canoa, lunga circa venti centimetri, munita nel suo interno di un perno longitudinale detto su fustigu o sticcu, lo spoletto, intorno al quale ruota su canneddu, il cannello del ripieno. Con la spola si passa la trama tra i fili dell’ordito.
Su canneddu, il cannello del ripieno, è la canna che contiene avvolta una certa quantità di stame. Come detto si inserisce in su fustigu, all’interno della spola.
Su umpidoriu o faicanneddus, fuso di ferro che serve per avvolgere lo stame intorno a su canneddu, il cannello.
Su pindu, la penerata, è l’ultima parte dell’ordito che non è possibile tessere, e resta come frangia.
Su stamini, lo stame, è il filato di lana, lino o cotone, necessario alla tessitura.
Su ordiu o orriu, l’ordito: il complesso dei fili distesi in senso longitudinale sul telaio.
Sa trama, la trama: è il complesso di fili che si intrecciano all’ordito, in senso opposto.


SA LANA
LA LANA


Dalla tosatura alla filatura

«Un secolo fa la pastorizia era, dopo l’agricoltura, l’occupazione preferita dalla popolazione del paese. L’allevamento del bestiame costituiva una necessità anche per le famiglie contadine perché la loro economia trovava in essa complemento, sostegno e salvezza nelle annate fallimentari dell’agricoltura. Specialmente l’allevamento delle pecore era una necessità imperiosa per tutte, perché non c’era famiglia che non attingesse a prodotti della pastorizia per i molteplici bisogni materiali. Si pensi che il latte, il formaggio, la carne costituivano le basi dell’alimentazione; la lana e le pelli la materia prima indispensabile per la fattura degli indumenti maschili e femminili allora in uso.
Le pecore erano tenute con molta cura. Per quanto allo stato brado, ad esse erano riservati i migliori pascoli in su poberiu nell’inverno. Nei periodi più tempestosi della stagione invernale e durante le nevicate in specie, trovavano riparo nei ricoveri naturali della campagna e in tettoie di frasche, imbragus, costruiti presso gli ovili o venivano addirittura ricondotte in paese dove trovavano rifugio sotto i vasti loggiati, istalis, delle case contadine, per l’occasione adibiti a stalle. Ivi venivano nutrite con sostanziosi pasti di fave, ghiande e fieno.
D’estate trovavano abbondanti pascoli nelle stoppie, stuas, e ristoro dalla calura all’ombra di un albero frondoso o sotto una tettoia di frasche, meriagu, appositamente allestita. Nel mese di maggio, prima dell’inizio dei calori estivi, le pecore venivano alleggerite dal mantello con l’opera delle cesoie, ferrus de tundi.
La tosatura è un’operazione cui ancora oggi si dà grande rilievo, ma nell’antichità costituiva una delle più belle sagre pastorali, forse per l’importanza che le arcaiche popolazioni sarde davano alla produzione della lana che costituiva, come ho detto, la materia prima essenziale per i loro indumenti.
Molteplici erano le operazioni ch si susseguivano nella lavorazione della lana. In primo luogo, doveva essere fatta una rigorosa cernita di quella destinata alla tessitura, che doveva possedere necessariamente le migliori qualità di candore, morbidezza e lunghezza di pelo. Perciò veniva scelta quella di pecore adulte, mentre quella ricavata dalle agnelle serviva per l’imbottitura di materassi e guanciali.
La lana veniva accuratamente lavata con acqua tiepida e dopo essere stata lasciata asciugare, veniva pazientemente districata a mano, accramiada, poi carcata, ossia passata su due pettini di ferro, passada in pettinis, per separare il fior di lana dal cascame, cuapetti».188

La lavorazione della lana

«Subito dopo la tosatura delle pecore, che viene fatta nel mese di maggio, prima che inizi il grande caldo, la lana viene in parte venduta a is cavallantis e in parte utilizzata per il fabbisogno della famiglia; la lana nera essendo poca viene lasciata per la famiglia.
E’ necessario procedere al più presto alla sua lavorazione. E’ questo un compito riservato alle donne. Si preparano calderoni di lissia, lisciva, che consiste nel far bollire acqua non di pozzo con cinisu e laureu, cenere e alloro, per circa quindici minuti, dopo di che viene colata e lasciata raffreddare. A questo punto si può procedere alla lavatura della lana.
Ci si deve assicurare che la lisciva sia tiepida e la temperatura sia costante, in modo che la lana resti bianca e morbida. Si avrà cura di immergere e di smuovere con attenzione la lana dentro l’acqua perché i ciuffi non vadano scarmigliati.
La lana viene poi messa all’aria, mai al sole, e lasciata asciugare bene girandola diverse volte.
Successivamente viene pettinata e carminata per separare quella lunga e quella corta. La lana lunga verrà filata separatamente e darà luogo ad un filato più robusto e resistente utilizzato per l’ordito, su stamini, e la lana corta, dopo filata, verrà utilizzata come trama.
La lana nera viene lavata e lavorata separatamente da quella bianca. Se la quantità è sufficiente, su saccu nieddu, il sacco nero, si tesse direttamente con questa, altrimenti viene usata per la tessitura di altri manufatti quali is cillonis, coperte a scacchi bianchi e neri, is saccus pettiazzus, i sacchi a strisce bianche e nere usati per il trasporto del raccolto; in tempi non molto lontani si confezionavano anche indumenti personali come cappotti, giacche, corpetti e maglioni».189


SU LINU
IL LINO

Dalla semina alla filatura

«Nell’economia contadina aveva una notevole importanza anche la coltivazione del lino, necessaria per la confezione del corredo della sposa: tovagliato, lenzuola, tendaggi, sacchi per la raccolta del grano e talvolta anche per l’abbigliamento. Nell’uso familiare, il lino veniva integrato con il cotone, che veniva acquistato, dalla lana, fornita dalle pecore e lavorata in casa. (Si potrebbe aggiungere sa lanetta, la lana morbida “merinos” che si comprava nei negozi.)
Nel mese di novembre, si procede alla semina del lino. Il terreno, di solito piccoli appezzamenti, viene lavorato come qualsiasi altra semina: arato, fresato e poi sbriciolate le zolle e livellato con un rastrello. Il lino viene seminato fitto fitto, di modo che non cresca neanche un filo d’erba, e ricoperto con uno strato sottile di terra. A differenza del grano, dell’avena o delle leguminose, il lino non necessita di altro lavoro.
La pianta del lino è costituita da uno stelo alto da 70 centimetri a un metro, sulla cui cima sboccia una fioritura a mazzetto di colore celeste che porta a maturazione un frutto a forma di cece contenente sette-otto semi. Per inciso, va detto che la coltura del lino impoverisce parecchio il terreno.
Nel mese di maggio, lo stelo diventa dorato e il frutto è ormai maturo. Il lino si raccoglie poco prima del periodo delle fave.
La raccolta è una fase delicata, perché la pianta viene strappata a mano, conservando le radici e perciò stando molto attenti a non spezzare lo stelo. E’ un lavoro lento e faticoso, e spesso le donne portano con sé unu scannixeddu, una seggiolina, per stare sedute durante il lavoro di estirpazione. Si prendono e si sradicano a manigas, a mazzetti, di quattro o cinque steli per volta o, dove ciò non sia possibile, si estirpano anche uno a uno; quindi si formano dei mazzi grossi quanto le mani possono contenerne, mettendo gli steli tutti nello stesso senso, da una parte le radici e dall’altra il frutto.
Poi, i mazzi con le radici per terra vengono messi in piedi, a gruppi di tre, a forme di piramide, ad asciugare, per circa quindici giorni.
Portato in paese, si procede alla battitura o pestatura o potatura cun su mallu, con il manfano, per ricavarne i semi, che vengono conservati in marigheddas, brocchette di terracotta.
Successivamente, dopo Ferragosto, il lino ancora legato a mazzetti, viene portato al fiume, viene messo nell’acqua e lasciato lì a macerare, nelle anse dove il fondale è basso e l’acqua ristagna. Il lino viene ricoperto di fanghiglia e tenuto fermo con sassi, anche grossi, affinché il fiume non se lo porti via. Viene lasciato così per circa otto giorni.
Dopo la macerazione, il lino viene riportato in paese e messo ad asciugare. Quando è asciutto viene messo dentro il forno ancora caldo (per averci cotto il pane la mattina), po ddu arridai, per brustolirlo, dall’imbrunire fino alla mezzanotte o all’una. A questo punto il lino è pronto per la lavorazione. Ora bisogna separare la fibra dalla parte legnosa detta ossu. Questa operazione si chiama orgunai su linu, scotolare il lino, e si fa con un attrezzo detto s’orgunu.
S’orgunu è un attrezzo che solitamente viene costruito dal falegname, completamente in legno de ollastu, di olivastro, o de pira, di pero, ed è sostenuto da due cavalletti alti circa ottanta centimetri, uniti da un listello. Sui cavalletti sono fissate tre tavolette a coltello, fatte proprio come coltelli nel senso che verso l’alto le tavolette presentano una sorta di taglio, e sono equamente distanti. Tra l’una e l’altra, fissate al cavalletto, vanno a inserirsi altre due tavolette uguali alle precedenti, ma sistemate a specchio, nel senso che il taglio della lama è rivolto verso il basso. Dall’altra parte queste due tavolette hanno un’impugnatura.
Per la lavorazione del lino vengono sollevate con l’impugnatura le due lame, i mazzetti di lino vengono aperti e appoggiati sulle tavolette fisse e quindi battuti, cioè scotolati, abbassando ripetutamente le due tavolette mobili. Il fascio di lino viene spostato in continuazione in modo che tutte le parti siano così ben scotolate.
Questo lavoro si esegue stando in piedi e la massaia che testimonia ricorda: “Quando ero stanca, per riposarmi avvicinavo una sedia e piegando una gamba vi appoggiavo ora un ginocchio ora l’altro, perché qualche volta facevo questo lavoro tutto il giorno”.
Una volta ultimata tale operazione, ogni mazzetto di lino viene attorcigliato su se stesso, formando così una matassa a forma di treccia, detta malladroxa.
Is malladroxas vengono poi gramolate, cioè battute per ammorbidirle con su mallu de pistai linu, il manfano da lino. Dopo di che vengono riaperte e pettinate con su pettini de ferru, il pettine di ferro, che assomiglia più a una spazzola che a un pettine. Con la pettinatura abbiamo così la divisione tra le fibre che verranno usate nella filatura: una per la confezione de su stamini, dello stame o ordito, e l’altra fibra, scadente, sa stuppa, la stoppa, costituirà la trama nella stessa tessitura».190

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